Repubblica 4.7.13
Oggi Letta dal Papa in visita privata
Francesco riceve oggi alle 11 il presidente del consiglio Enrico Letta in visita privata in Vaticano. L’incontro si tiene nella Biblioteca del Palazzo Apostolico. Dopo Letta il Papa riceve il nuovo sindaco di Roma Ignazio Marino
il Fatto 4.7.13
Vince Landini. Fiat, schiaffo dalla Consulta
Corte costituzionale: “La Fiat viola i diritti Fiom nelle fabbriche”
La Corte impone la rappresentanza Fiom nelle fabbriche e dà torto a Marchionne
di Salvatore Cannavò
Poteva bastare il buon senso a convincere la Fiat che un sindacato come la Fiom deve poter godere dei diritti sindacali nelle sue fabbriche. Di fronte al-l’ostinazione di Sergio Marchionne, che ha cercato di estromettere l’organizzazione di Maurizio Landini dai suoi stabilimenti, c’è voluta la Corte costituzionale per ribadire il concetto. E il messaggio stavolta è uno schiaffo così sonoro da far dire al segretario Fiom che “la Costituzione ritorna in fabbrica”. Con un comunicato stampa forma non rituale. La Corte ha infatti reso nota la “incostituzionalità dell’articolo 19 lettera b dello Statuto dei lavoratori”. Tale articolo era stato riformato in seguito a un referendum del 1995 che rendendolo monco di una parte aveva stabilito il principio che la rappresentanza sindacale in un’azienda – cioè il fatto di poter svolgere la normale attività sindacale – è possibile solo alle organizzazioni firmatarie dei contratti. Nella Fiat del dopo-Pomigliano, quindi, solo a Fim, Uilm, Fismic e Ugl. Fuori Fiom e tutti gli altri come i Cobas.
LA CORTE, invece, ieri ha fatto sapere – la sentenza sarà resa nota più in là – che l’articolo 19 è incostituzionale “nella parte in cui non prevede che la rappresentanza sindacale aziendale” sia estendibile anche a quelle organizzazioni che “pur non firmatarie di contratti collettivi (…) abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti”. Non serve firmare per essere riconosciuti ma la volontà di rappresentare i propri iscritti. Quindi, la Fiom, che ha dimostrato la volontà di negoziare, ha assolto alla propria funzione. E pertanto va riconosciuta. Sul piano concreto significa che potrà nominare le rappresentanze sindacali aziendali (Rsa) – la Fiat, uscendo da Confindustria, ha disdetto gli accordi interconfederali e quindi non si avvale delle Rsu che, a differenza delle prime, sono elettive – chiedere assemblee, dotarsi di una bacheca aziendale, avere una saletta apposita.
LA SENTENZA è il frutto di un ricorso alla Corte da parte del giudice di Modena che a sua volta si era pronunciato su un ricorso Fiom relativo alle aziende Ferrari, Maserati e New Hollande in cui si era manifestata l'attività antisindacale della Fiat. Alberto Piccinnini, uno dei membri del collegio di difesa che assiste la Fiom, si dice “molto soddisfatto” della sentenza perché “costituisce un passo avanti” nella giurisprudenza “dando valore all'attività di un sindacato che non firma a tutti i costi”. La Corte, fa notare Piccinnini, avrebbe potuto emettere una sentenza di rigetto mentre ha scelto “la sentenza additiva” che quindi integra la legislazione vigente. Qui, però, c'è il punto politico. Come rilevano lo stesso Landini, e la Cgil, serve una legge sulla rappresentanza che eviti i vari arbitri. La decisione di ieri, infatti, rinvia a un vuoto legislativo reso evidente dall' incostituzionalità dell'unica legge che regola la rappresentanza. Non a caso la Fim-Cisl parla di sentenza “contraddittoria” che rischia di alimentare la confusione. Come punto di riferimento al momento c'è solo l’accordo del 31 maggio tra Cgil, Cisl, Uil e Confindustria ma Fiat è fuori da quest’ultima. Solo una legge, quindi, potrebbe sbrogliare la matassa e dare un punto di stabilità agli stessi giudici chiamati a pronunciarsi sulle varie cause. “Anche se dopo questa decisione – precisa Piccinnini – è difficile che un giudice possa darci torto”. Per certo versi la legge serve anche alla Fiat che, pure, nel dibattimento davanti alla Corte, ha difeso la superiorità dell'attuale sistema perché “premia” il sindacato che collabora, e quindi firma. L’unico problema è che una simile legge dovrebbe approvarla l'attuale Parlamento.
l’Unità 4.7.13
Maurizio Landini
«Non ci sono più alibi: il governo convochi un tavolo sul futuro industriale. La Fiat volti pagina, pronto a incontrare Marchionne anche subito»
«La Costituzione rientra in fabbrica ora il governo convochi le parti»
di Massimo Franchi
«La Costituzione rientra in fabbrica». Maurizio Landini ha saputo della sentenza della Corte Costituzionale appena rientrato in sede dopo il tavolo Indesit e ha poi brindato con gli avvocati della consulta giuridica Fiom.
Landini, lunedì era molto teso durante la discussione davanti all’Alta Corte. Vi giocavate tanto. E avete vinto. Il primo pensiero dopo il verdetto per chi è stato? «Ero ottimista ma anche consapevole che si avessimo perso ci avrebbero massacrato. Quando ho saputo del verdetto ho subito pensato al sacrificio dei nostri iscritti, dei delegati nelle fabbriche del gruppo Fiat che sono stati espulsi e hanno perso qualunque diritto sindacale. Ho pensato che era una bella giornata perché il loro sacrificio, la loro battaglia di dignità erano state ripagati. È una notizia importante anche perché dopo questa pronuncia si ristabilisce un rapporto di fiducia nelle istituzioni da parte di queste persone».
Ora cosa cambia?
«La Costituzione rientra dai cancelli di tutte le fabbriche del gruppo. È una vittoria di tutti i lavoratori perché con la nostra azione abbiamo difeso i diritti di tutti i lavoratori di potersi scegliere un sindacato liberamente. Non ci sono più alibi: il governo convochi immediatamente un tavolo con la Fiat e tutte le organizzazioni sindacali per garantire l’occupazione e un futuro industriale. È ora che il Parlamento approvi una legge sulla rappresentanza. È stata neutralizzata la strategia della Fiat che aveva disconosciuto tutti gli accordi collettivi, compreso quello che istituiva le Rsu, contando in una interpretazione dell’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori che le consentisse di tenere la Fiom fuori dalle proprie aziende, unicamente perché il testo della norma prevedeva il requisito dell’essere firmatari della contrattazione collettiva applicata in azienda».
Veramente la Fiat sostiene che «la Corte Costituzionale ha collegato il diritto a nominare le Rsa alla partecipazione alla negoziazione dei contratti collettivi» ed è «la Fiom che, a priori, ha sempre rifiutato qualsiasi trattativa sui contenuti del contratto»...
«Parliamo di cose serie. Mi pare evidente che siamo di fronte ad un pronunciamento di valore generale, non ad una sentenza qualunque. Tutte le persone di buon senso devono farci i conti. E che porti la Fiat a voltare pagina e a ritornare a normali relazioni sindacali».
Se Marchionne la chiamasse adesso, lei sarebbe disposto ad incontrarlo?
«Noi siamo sempre stati disponibili. È lui che si è sottratto al confronto. Con lui non c’è mai stata una trattativa reale. La Fiom è il sindacato che ha sottoscritto più contratti, arrivando a compromessi con tutte le grandi aziende, da Finmeccanica a Volkswagen, da Fincantieri alle grandi multinazionali estere.
Solo in Fiat abbiamo avuto questi problemi. E quindi chiediamo solamente di poter affrontare assieme alla Fiat e a Fim e Uil i problemi il gruppo ha in Italia con tutti gli stabilimenti in cassa integrazione, di discutere le scelte manageriali».
La sentenza ha premiato la «via giudiziaria» della Fiom. Vi hanno sempre accusato di fare sindacato nelle aule di tribunale. Ora che avete vinto vuole togliersi qualche sassolino dalla scarpa?
«Ho fatto questa scelta perché ho sempre pensato che un sindacato deve avere in testa il rispetto della Costituzione. I nostri ricorsi sono sempre stati complementari alla lotta sindacale. In tanti ci hanno criticato ma io ero tranquillo perché sapevo di aver fatto una scelta coerente con la Carta. Non ho alcun sassolino da togliermi. Sono contento e sono sempre stato in pace con la mia coscienza. Ora spero che altri ci seguano e riconoscano l’importanza della nostra battaglia che è stata fatta per la libertà sindacale e il rispetto dei diritti dei lavoratori».
Ha sentito qualche esponente del governo? Finora non è arrivato alcun commento.
«No, non ho sentito nessuno. Il ministro Zanonato si era già impegnato, nonostante le difficoltà, a convocare un tavolo con l’azienda e tutti i sindacati. Ora credo che questa convocazione debba arrivare in tempi brevi, non ci sono più alibi. In più penso che la sentenza renda ancora più necessaria una legge sulla rappresentanza che garantisca la libertà sindacale e norme certe per la rappresentanza. L’accordo interconfederale è importante perché prevede il voto dei lavoratori sui contratti. Ma non basta. In Parlamento ci sono varie proposte di legge presentate da vari gruppi. In più noi da tempo chiediamo l’abrogazione dell’articolo 8 imposto dal governo Berlusconi che permette di derogare ai contratti nazionali in azienda. Ecco, spero che la sentenza porti finalmente ad un atto del governo su questo punto».
il Fatto 4.7.13
F-35, Napolitano espropria il Parlamento
Il Consiglio superiore di difesa contro la mozione
“Nessun diritto di veto sugli aerei”
M5S, Sel e pezzi di Pd in rivolta
di Daniele Martini
La maggioranza ha appena votato una mozione che proibisce al governo nuovi acquisti di caccia senza l’ok delle Camere. Ma il Colle riunisce il Consiglio di Difesa e intima al potere legislativo: “Nessun diritto di veto”
Sugli F-35 decide il governo. Cioè, detto in soldoni, i 90 cacciabombardieri devono essere comprati. E le prerogative del Parlamento? E la legge di riforma della Difesa varata alla fine del 2012 che sull'acquisto dei sistemi d'arma attribuisce a deputati e senatori non un semplice parere consultivo, come in passato, ma un voto vincolante? E la mozione votata da Pd e Pdl appena una settimana fa che, richiamandosi proprio a quella legge, istituiva una commissione parlamentare che in sei mesi avrebbe dovuto valutare i pro e i contro dell'acquisto? Tutte procedure inutili e chiacchiere, a giudizio del Consiglio supremo di Difesa, l'organismo guidato dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.
IERI IL CONSIGLIO si è riunito e ha emesso un comunicato per dire, appunto, che le decisioni sull'ammodernamento delle Forze armate spettano all'esecutivo perché gliele attribuisce la Costituzione. Era presente mezzo governo: il presidente del Consiglio, Enrico Letta, il vice Angelino Alfano, il ministro della Difesa, Mario Mauro, degli Esteri, Emma Bonino, Economia, Fabrizio Saccomanni, Sviluppo economico, Flavio Zanonato. Più il capo di Stato maggiore della Difesa, l'ammiraglio Luigi Binelli Mantelli. Protesta con forza l'opposizione, in particolare il Movimento 5 Stelle. Il deputato Riccardo Fraccaro, per esempio, ricorda che “sugli F-35 il Parlamento è sovrano e fino a prova contraria siamo in una Repubblica parlamentare e non in una Repubblica presidenziale di fatto”. La senatrice Sel, Loredana De Petris, sostiene che è “sconcertante che il Consiglio di Difesa voglia ridurre il Parlamento a ratificatore delle decisioni del governo”. Francesco Vignarca, coordinatore della Rete Disarmo, l'organizzazione che si batte contro l'acquisto degli F-35 si domanda perché il Parlamento possa decidere praticamente su ogni aspetto della vita pubblica e “non possa dire niente di definitivo sull'acquisto di armi”.
La presa di posizione del Consiglio di Difesa apre una serie di gravi conflitti istituzionali. Il primo e più clamoroso riguarda il presidente della Repubblica. Alla fine dell'anno passato Napolitano promulgò la legge di riforma della Difesa che all'articolo 4 sposta i poteri per l'acquisto di armi dal governo al Parlamento. Ora da presidente del Consiglio di Difesa sostiene una linea completamente diversa. In pratica è come se entrasse in conflitto con se stesso perché o sbaglia oggi come capo del Consiglio di Difesa a richiamare la Costituzione per ribadire che l'acquisto delle armi spetta al governo. O ha sbagliato sette mesi fa a mettere la sua firma sotto una legge che dice esattamente il contrario, perché avrebbe dovuto non firmarla, considerandola non in sintonia con la Costituzione. Il comunicato del Consiglio di Difesa apre inoltre un conflitto tra potere esecutivo del governo e legislativo del Parlamento. Per di più su una materia come l'acquisto dei cacciabombardieri che divide lo stesso governo e all'interno di esso in particolare il Partito Democratico.
PRESSATI da Sel, M5S e da una ventina di deputati dello stesso Pd che avevano presentato una mozione contraria all'acquisto dei cacciabombardieri, i capi del gruppone democratico avevano pensato di sfuggire a una decisione definitiva che li avrebbe fatti entrare in collisione o con Sel e 5 Stelle o con l'alleato Pdl favorevole all'acquisto, rinviando ogni decisione. Insieme Pd e Pdl avevano votato una mozione alternativa che rifacendosi alla legge di riforma della Difesa, attribuiva ad una commissione parlamentare il compito di valutare l'opportunità dell'acquisto. La presa di posizione del Consiglio di Difesa scompagina però questa tattica dilatoria e mette in difficoltà soprattutto il Pd. Il capogruppo in commissione Difesa, Gian Piero Scanu, è come si sentisse spiazzato e tradito da Napolitano e reagisce con durezza: “La legge di riforma dello strumento militare controfirmata dal presidente Napolitano attribuisce al Parlamento la competenza primaria in materia di acquisizione e riordino dei sistemi d'arma, mentre la mozione recentemente approvata dalla Camera ribadisce la titolarità del Parlamento e il Parlamento va avanti. Il governo non deve comprare nemmeno un bullone degli F-35”. Il ministro Mauro minimizza: "Non abbiamo criticato il Parlamento". È il Pdl, alla fine, a uscire politicamente vincente da tutta la faccenda perché la presa di posizione del Consiglio di Difesa equivale a una sostanziale conferma dell'acquisto degli F-35.
l’Unità 4.7.13
Gian Paolo Scanu
Il capogruppo Pd in commissione Difesa: «La mozione è chiara, è uno stop all’acquisto dei caccia. Il Parlamento ha l’ultima parola»
«L’esecutivo dovrà attenersi a quanto deciso in Aula»
di Simone Collini
«La sovranità del Parlamento non può essere derubricata come mero esercizio di veto», dice Gian Paolo Scanu ricordando tra l’altro che è in vigore una legge dello Stato che attribuisce alle Camere la «competenza primaria in materia di acquisizione e riordino dei sistemi d’arma». Per il capogruppo del Pd in commissione Difesa di Montecitorio, quindi, la nota del Consiglio supremo di difesa «nulla cambia» sulla vicenda dell’acquisto dei caccia F35: «Semplicemente perché nulla può cambiare. Il governo si dovrà scrupolosamente attenere a quanto decide il Parlamento. E a quanto ha già deciso il Parlamento».
Lei come si spiega l’uscita dell’organismo presieduto dal Presidente della Repubblica?
«Sinceramente, mi sto ancora chiedendo quale possa essere la ragione di quel comunicato».
Nel senso?
«Nel senso che con tutto il rispetto per questo organo, che svolge un ruolo di equilibrio e di garanzia secondo i principi costituzionali, sono le Camere a decidere in materia di armamenti. Lo prevede la legge di riforma dello strumento militare approvata nel dicembre 2012 e controfirmata dal Capo dello Stato».
E il Consiglio supremo di difesa?
«Non ha alcun tipo di competenza in questo campo».
Il Parlamento dovrà tener comunque conto di quanto sostenuto, rispetto alla vicenda degli F35, o no?
«Ne potrà tener conto come di un contributo importante al dibattito in corso, ma nulla cambia rispetto a prima che ci fosse questa nota».
Potrebbe spiegare perché?
«La legge 244 approvata nel dicembre scorso, con il contributo fondamentale del Pd, ha interrotto un sistema inaudito. Quello cioè previsto dalla legge Giacchè, che attribuiva al governo la titolarità di decidere in materia di armamenti. Secondo quel sistema il Parlamento poteva esprimere soltanto un parere consultivo, che però poteva essere disatteso. Ecco, oggi non è più così. Il potere esecutivo non può essere sovraordinato rispetto al potere legislativo. Il Parlamento ha l’ultima parola su qualità e quantità degli armamenti. Il governo può fare proposte, ma non può andare oltre».
Se però il Consiglio supremo di difesa ora fa quest’uscita, la mozione di maggioranza sugli F35 approvata la scorsa settimana presenta delle ambiguità, non crede?
«No, quella mozione è chiara. Impegna il governo a non acquistare alcun F35 fino a quando eventualmente non verrà ritenuto opportuno dal Parlamento. È uno stop all’acquisto dei caccia fondato sulla base della potestà in questa materia conferita alle Camere dalla riforma dello strumento militare. Che, ripeto, è stata controfirmata dal Capo dello Stato. Da questo non si torna indietro». C’è il rischio di uno scontro istituzionale? «Questo è un momento in cui non si sente bisogno non dico di scontri ma nemmeno di leggere frizioni a livello istituzionale. Il Parlamento andrà avanti doverosamente esercitando la propria sovranità».
Rimane quella parola: veto.
«Il Parlamento svolge il ruolo che gli è proprio, non fa uso di veti».
Non teme però che il governo possa utilizzare il pronunciamento del Consiglio supremo di difesa per superare la mozione sugli F35 approvata la scorsa settimana?
«No perché il governo aveva dato parere favorevole rispetto a quella mozione, perché il Parlamento è sovrano e perché il governo si dovrà scrupolosamente attenere a quanto hanno già deciso e decideranno le Camere».
La Lega chiede al governo di riferire, lo farà anche il Pd?
«E perché? Il Consiglio superiore della difesa non ha competenza in questa materia e non ha titolo per interferire né in quanto stabilito per legge né in quanto deciso dal Parlamento. Ribadisco, nulla cambia. Quindi non ravviso l’utilità di un chiarimento da fornire da parte del governo».
Dice che tutti la pensano come lei nel Pd?
«Abbiamo votato in modo compatto la mozione di maggioranza sugli F35. Anche chi aveva firmato quella di Sel si è espresso poi a favore. Non vedo motivi di divisione adesso».
La Stampa 4.7.13
L’acquisto dei caccia ha portato allo scoperto le divisioni nel Pd
di Marcello Sorgi
La polemica sull’acquisto dei caccia bombardieri F35, chiusa provvisoriamente con una mozione della maggioranza, approvata dalla Camera, che di fatto rinviava ogni decisione in merito, s’è riaperta ieri e ha lambito il Quirinale. Le opposizioni di Movimento 5 stelle e Sel, ma anche una consistente minoranza del Pd, non hanno gradito l’iniziativa del Capo dello Stato di convocare il Consiglio supremo di difesa, da lui presieduto, per ribadire l’impegno italiano dell’ammodernamento del proprio sistema di difesa, in linea con gli impegni e le alleanze internazionali a cui il Paese fa riferimento.
Il comunicato uscito dal Colle infatti precisava, com’è ovvio - o almeno come dovrebbe essere - che il Parlamento, nel pronunciarsi su materie così delicate, deve tener presente il contesto in cui certe decisioni sono state prese e il ruolo del governo che se ne è fatto garante. Ma M5s e Sel, affiancati da molte voci che si alzavano dal Pd (Ginefra, Pollastrini ed altri), hanno preso quest’affermazione come una lesione dei poteri del Parlamento ed hanno chiesto a Napolitano e alla presidente della Camera Boldrini di intervenire per un chiarimento.
Mirata contro le maggiori cariche istituzionali, la polemica ha preso una piega spiacevole, a cui inutilmente altri esponenti del Pd (tra cui il presidente della commissione Difesa del Senato Latorre) hanno cercato di rimediare. Il Pdl è stato a guardare, sottolineando la situazione imbarazzante in cui si trovava il partito del presidente del consiglio. Per il Movimento 5 stelle, che da giorni attacca duramente il Quirinale, si trattava di un’occasione per agganciare alla sua campagna anche altri pezzi dell’opposizione, com’è avvenuto, e per portare allo scoperto le difficoltà interne dei Democrat, già emerse, del resto, al momento di votare la mozione sugli F35.
Ieri intanto dal Colle è arrivata un’apertura all’incontro di Grillo con il Capo dello Stato. In un primo tempo la reazione alle polemiche del leader di M5s era stata formale (”non è pervenuta alcuna richiesta di incontro”), ma di fronte alle insistenze grilline è stata fatta una precisazione. Non si tratterà di una sorta di visita privata, ma di un faccia a faccia politico che potrà essere allargato anche ad altri esponenti del movimento. Se dunque sarà una delegazione a salire al Colle (l’unico precedente erano state le consultazioni per il governo, in cui Grillo era accompagnato dai due capigruppo), stavolta potrebbe farne parte anche il “guru” Gianroberto Casaleggio.
il Fatto 4.7.13
Pd-Pdl, la legge “libera tutti” per l’inciucio a prova d’arresto
Costa-Ferranti: domiciliari con pena fino a 6 anni
di Beatrice Borromeo
Salva tutti e voluta da (quasi) tutti: la legge-delega firmata da Donatella Ferranti (Pd) ed Enrico Costa (Pdl) in discussione alla Camera riesce nell’arduo compito di distribuire regali molto apprezzati (a mafiosi, truffatori, colletti bianchi e ancora una volta a Berlusconi) e contemporaneamente di mettere i giudici in una condizione di potenziale pericolo. Saranno loro, infatti, a decidere discrezionalmente se mandare in carcere o ai domiciliari una lunga serie di criminali. Perché questo stabilisce la Ferranti-Costa: ai reati puniti con pena fino a 6 anni si potrà applicare la detenzione domiciliare, che da misura alternativa al carcere diventa pena principale. E chi beneficerà della novità? Per citare un paio di categorie, il condannato per atto di terrorismo con ordigni micidiali o esplosivi e l’occultatore di cadaveri. NIENTE CARCERE Corruzione in atti d’ufficio, minaccia e violenza privata, alterazione d’armi: sono casi di scuola. Reati-spia che spesso sono collegati all’associazione mafiosa, ma che – quando mancano le prove del delitto più grave – vengono gestiti come reati comuni. E saranno i giudici a decidere se i condannati per queste fattispecie di reato potranno beneficiare o meno dei domiciliari. “Si dà ai giudici un onere molto grande dice il deputato M5S Vittorio Ferraresi perché le situazioni ambientali spesso condizionano le scelte”. La paura di molti magistrati è che si possano verificare ritorsioni nei confronti di quei giudici che optino per il carcere, dato che la loro non sarà più una scelta obbligatoria per legge, ma discrezionale. Tra i reati che si potranno scontare a casa c’è anche la procurata inosservanza di pena, che viene imputata a chi aiuta i latitanti (il pastore che offrì rifugio nella sua masseria a Ber-nardo Provenzano, è stato condannato proprio per questo). DONNE MAZZIATE Poi c’è una “buona” notizia per il gentil sesso: appena ratificata la convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne, Ferranti e Costa propongono di tenere fuori dalle prigioni pure gli stalker. Proprio loro che, dagli arresti domiciliari, potranno continuare indisturbati a perseguitare le loro vittime. “É incredibile che proprio in questo periodo in cui si chiede il reato di femminicidio, si consenta allo stalker non solo di scontare la condanna a comodamente a casa sua, ma pure di beneficiare della messa alla prova ai lavori di pubblica utilità. Servirebbe un po’ di coerenza”, dice Nicola Molteni, capogruppo leghista in commissione Giustizia (solo Lega, Fratelli d’Italia e 5 Stelle stanno facendo opposizione alla legge-delega). In più, aggiunge Molteni, “non è l’unico reato contro le donne che avrà accesso ai domiciliari: la legge include anche i condannati per prostituzione minorile”. Proprio il reato per cui è stato condannato Berlusconi. Se al Cavaliere venissero confermate in Cassazione tutte le condanne provvisorie accumulate finora (12 anni in totale), le sconterebbe così: un anno in carcere (proprio quello per prostituzione minorile, che finora, essendo un reato sessuale, non prevede misure alternative nemmeno per gli ultrasettantenni beneficiati dall’ex Cirielli) ; 8 anni ai domiciliari; e i restanti 3, come prevede la legge penitenziaria, ai servizi sociali, cioè in libertà. Grazie alla Ferranti-Costa, sparirebbe anche l’unico anno di carcere, che verrebbe scontato anch’esso nella villa di Arcore: proprio dove B. era utilizzatore finale dei bunga bunga.
E I SOLDI?
Ferranti e Costa aggiungono i 5Stelle “hanno anche dimenticato di spiegare dove prenderanno i soldi: sia la messa alla prova sia i domiciliari, siccome bisognerà intensificare i controlli e le forze dell’ordine sono già sotto organico, costeranno un bel po’”. I deputati M5S segnalano anche un altro problema: se la nuova norma non sarà retroattiva, chi oggi è in cella per un reato punito fino a 6 anni vedrà i nuovi condannati per reati analoghi accomodarsi a casa propria: “Il che potrebbe aprire la strada a un ulteriore innalzamento delle misure alternative al carcere. Quanti altri regali vogliamo fare ai criminali? ” .
il Fatto 4.7.13
Le notizie del giorno sono sempre le stesse
risponde Furio Colombo
CARO FURIO COLOMBO, non ha notato una straordinaria somiglianza fra le notizie di ieri e quelle di oggi? Che cosa sta succedendo?
Nino
LA DOMANDA è solo apparentemente paradossale. C'è in effetti l'impressione di uno stop di veri eventi, mentre quelli già accaduti si ripetono all'infinito, almeno in Italia. È innegabile per esempio che ogni giorno troviamo, in vari montaggi, questi pacchetti di notizie: 1) Senza Imu e senza Iva mancano i soldi, e li stiamo cercando (seguono variazioni sui modi di cercare i soldi e a carico di chi); 2) Le cose vanno meglio e vanno peggio: dichiarazioni incompatibili di ministri; 3) Turbolenza e tensione dentro il Pdl: non vogliono la Santanchè: 4) Turbolenza e tensione dentro il Pd: Renzi resta a Firenze, Renzi arriva a Roma; 5) Europa. Lo stesso giorno, le stesse persone, hanno “promosso” l'Italia. E ammonito l'Italia sui rischi che corre. 6) Il Pdl ha detto una cosa imperdonabile sul Pd. Il Pd è sotto accusa per l'attacco al Pdl. Letta e Al-fano partono, tornano, parlano, mangiano e salgono al Quirinale insieme. 7) Bufera nella Lega. Bossi dice che Maroni non dura (ma non si capisce bene). Maroni finge di non offendersi ma espelle Bossi, poi lo abbraccia. Nel ripetersi dello stesso evento diminuiscono gli abbracci e aumentano le espulsioni, ma non accade niente e i discorsi leghisti non si capiscono anche se i leghisti in birreria applaudono. 8) Grillo espelle, perdona, dimentica, condanna, è flessibile, inflessibile, parte per l'Australia. Annuncia il disastro. Il presidente della Repubblica ammonisce. Montate questi eventi e avrete il Tg di domani, più uno o due eventi internazionali (32 secondi), la cronaca nera e gli eventi della natura. La Procura dovrebbe aprire un fascicolo.
il Fatto 4.7.13
Province immortali, la Consulta cancella Monti
I giudici: “Non si possono eliminare per decreto”
Per farlo bisogna modificare la Costituzione
di Eduardo Di Blasi
Salva Italia? Tiè. La Corte costituzionale, con una sentenza che lascia pochi margini ai dubbi, boccia senza appello il taglio delle Province deciso per decreto legge e confermato dal voto del Parlamento all’epoca del governo dei tecnici guidato da Mario Monti. Lo strumento del decreto legge non può essere adoperato per organizzare una materia costituzionale come quella dell’esistenza in vita delle Province (espressamente indicata in Costituzione al Titolo V) o della loro razionalizzazione.
L’epitaffio della nota dei giudici costituzionali è senza scampo per chi aveva pensato di poter cancellare le Province con il sistema spiccio della decretazione d’urgenza: “Il decreto legge, atto destinato a fronteggiare casi straordinari di necessità e urgenza, è strumento normativo non utilizzabile per realizzare una riforma organica e di sistema, quale quella prevista dalle norme censurate nel presente giudizio”.
L’ENNESIMA FRITTATA istituzionale è servita. Attraverso il Salva Italia definito giusto ieri “incostituzionale”, infatti, nel 2012 non sono andate al voto le province di Ancona, Belluno, Cagliari, Caltanissetta, Como, Genova, La Spezia, Ragusa, Vicenza e Ancona, e nel 2013, ancora, quelle di Roma, Agrigento, Asti, Benevento, Catania, Catanzaro, Enna, Foggia, Massa-Carrara, Messina, Palermo, Trapani, Varese e Vibo Valentia. Per loro, adesso, si apre il limbo di commissariamenti senza prospettive, in attesa del giudizio che daranno la commissione per le Riforme costituzionali e il governo in un percorso che se va come deve andare potrà durare almeno un paio d’anni.
E allora che si fa? Adesso il governo, per bocca del ministro delle Riforme Gaetano Quagliariello, afferma di avere fretta: “L’odierna sentenza della Corte Costituzionale sulle Province afferma il ministro rende ancora più importante intervenire attraverso le riforme costituzionali sull’intero Titolo V, in particolare per semplificare e razionalizzare l’assetto degli enti territoriali. È il tempo di rendersi conto che mancate riforme e scorciatoie hanno un costo anche economico che in un momento di così grave crisi il Paese non può più sopportare”.
È una frase che suona disperata, mentre i rappresentanti delle Province festeggiano la vittoria. Il presidente dell’Unione delle Province italiane (Upi) Antonio Saitta centra un punto: “Nessuna motivazione economica era giustificata e quindi la decretazione d’urgenza non poteva essere la strada legittima”. Constata Saitta: “Per riformare il Paese si deve agire con il pieno concerto di tutte le istituzioni, rispettando il dettato costituzionale. Non si possono sospendere elezioni democratiche di organi costituzionali con decreto legge. Non si può pensare di utilizzare motivazioni economiche, del tutto inconsistenti, per mettere mani su pezzi del sistema istituzionale del Paese”.
È UN TEMA CHE nella contesa giuridica è stato fatto proprio anche da tre dei “saggi” che siedono nella commissione per le Riforme costituzionali istituita dal governo su inpulso del Quirinale: Beniamino Caravita di Toritto che era difensore di Lombardia e Campania, Giandomenico Falcon (difensore del Friuli Venezia Giulia) e Massimo Luciani (che ha patrocinato la Sardegna). La loro idea di riforma, anche in seno all’assemblea delle riforme, è più conservatrice. Le Province resistono. Il taglio da “2 miliardi di euro”, previsto da anni con la loro soppressione, si allontana.
il Fatto 4.7.13
Gianni De Gennaro
L’uomo dei servizi per i segreti Finmeccanica
di Giorgio Meletti
Questa mattina l’assemblea degli azionisti della Fin-meccanica, controllata dal ministero dell’Economia, nominerà Gianni De Gennaro alla presidenza. L’ex capo della Polizia, è stato negli ultimi anni capo del Dis, coordinamento dei servizi segreti, e poi nel governo Monti sottosegretario alla Presidenza del consiglio con delega ai servizi. Era a capo della Polizia durante i fatti del G8 di Genova, nel 2001. Accusato di istigazione alla falsa testimonianza nell’ambito dei processi che sono seguiti all’assalto notturno alla scuola Diaz e alle violenze nella caserma di Bolzaneto, è stato assolto dalla Cassazione nel novembre del 2011.
LA DELICATEZZA politica della nomina si riverbera sul tono di alcuni commenti di ieri. Beppe Grillo: “De Gennaro, dalla Diaz a Finmeccanica con furore”. Nichi Vendola via Twitter: “Governo Letta si fermi: nomina De Gennaro a Finmeccanica è sbagliata e inadatta. È un’offesa nei confronti del buonsenso”. Paolo Ferrero (Rifondazione comunista): “Evidentemente in Italia massacrare di botte chi manifesta fa bene alla carriera”. Manuela Palermi (Pdci): “Nomina sbagliata e inaccettabile”. Erme-te Realacci (Pd): “Faccio francamente fatica a capire il senso della nomina di De Gennaro“ ai vertici di Finmeccanica”. Massimo Artini (M5S): “Basta con gli uomini buoni per tutte le stagioni. Invece governi di centrodestra, governi tecnici e governi di larghe intese continuano a proporre questo personaggio a ruoli di primissimo piano”.
FINMECCANICA ha decine di migliaia di dipendenti e una grave crisi industriale legata alle inchieste per fatti di corruzione in corso da tre anni e culminate nel febbraio scorso con l’arresto dell’amministratore delegato Giuseppe Orsi. Lorenzo Basso del Pd ricorda al governo l’impegno di imprimere una svolta sulle nomine, con procedure trasperenti e confronto sui curriculum delle diverse candidature pervenute: “Vorremmo conoscere i dettagli dell’istruttoria, le candidature esaminate e soprattutto i criteri utilizzati”, afferma Basso.
A favorire De Gennaro c’è anche un’interpretazione generosa della legge Frattini sul conflitto d’interessi, che vieta per un anno ai membri uscenti del governo incarichi in società “che operino prevalentemente in settori connessi con la carica ricoperta”. Evidentemente per il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni, al quale spetta formalmente la nomina che ha definito ieri “una buona cosa”, la prevalente attività di Finmeccanica, cioè vendita di armi e tecnologie strategiche a Paesi stranieri, non è connessa con l’attività dei servizi. I quali evidentemente quando Finmeccanica va a vendere elicotteri da guerra non se ne occupano.
De Gennaro ha fatto per quarant’anni il funzionario statale e non si è mai occupato di un’azienda, né grande né piccola. Ma, accreditato da sempre di un rapporto di ferro con la Fbi americana, è considerato l’uomo giusto per aggiustare i rapporti tra Finmeccanica e il governo di Washington. Il gruppo italiano ha acquistato negli Stati Uniti la Drs, azienda delle tecnologie militari, un pessimo affare sia perché pagata troppo sia perchè dopo l’acquisto si sono ridotte le commesse americane. Il risveglio dal sogno della svolta alla realtà del continuismo, è una secca sconfitta per il Pd, e per l’uomo delle nomine nel governo, il viceministro Stefano Fassina. Mentre il Pdl, soprattutto con Gianni Letta, si è speso con successo per dare l’ennesima poltrona all’intoccabile De Gennaro, il Pd non è riuscito ad affiancare all’amministratore delegato Alessandro Pansa il capo della controllata Ansaldo Energia, Giuseppe Zampini. Il manager genovese ha pagato la gaffe del segretario Pd Guglielmo Epifani, sorpreso con un biglietto con il nome di Zampini dopo un colloquio con il predecessore Pier Luigi Bersani.
L’ESCLUSIONE di Zampini, con la conferma dei pieni poteri a Pansa, ha anche un significato industriale: Ansaldo Energia, insieme ad Ansaldo-Breda (treni e autobus), è una delle attività civili che Finmeccanica ha messo in vendita per concentrarsi sul settore militare e su quello aeronautico. Una scelta che Zampini (spalleggiato dal Pd) cerca da tempo di contrastare, senza apprezzabili risultati. E ieri anche Matteo Colaninno, responsabile economico Pd, ha espresso “preoccupazione”, pur “nel pieno rispetto”.
La Stampa 4.7.13
Si avvicina il congresso Pd
Epifani: “Primarie per la segreteria a inizio dicembre”
di Carlo Bertini
«A inizio dicembre faremo le primarie per il segretario», confida ai suoi interlocutori Epifani, intenzionato a convocare a fine luglio la Direzione Pd per mettere ai voti la sua road map: congressi nei circoli da ottobre e gazebo per votare il leader aperti il primo o l’otto dicembre. Una road map che soddisfa i renziani, meno quegli ex Ds ed ex Ppi che certo non spingono perché il percorso si concluda entro l’anno.
E che la paura di una marcia trionfale di Renzi stimoli la fantasia, lo si vede nei dettagli: pure se le primarie saranno aperte a tutti - ci si potrà iscrivere all’albo degli elettori Pd la domenica stessa pagando un obolo - c’è chi sta pensando di far lievitare l’obolo dai 2 euro della volta scorsa ai 15 richiesti a chi si iscrive al partito: un altra bella trovata per ridurre al massimo la partecipazione.
Dunque con la sua intemerata contro il «tiro al piccione», Renzi avrebbe ottenuto almeno un impegno di Epifani a non rinviare sine die il congresso. Ma il nodo è anche un altro. «Chi decide se si fa una coalizione? Il segretario del partito innanzitutto. E chi può dare garanzie a Matteo che quando si andrà a votare si faranno le primarie di coalizione per la premiership? ». Ecco in questa domanda, che pone un renziano di ferro, sta racchiuso non solo uno dei motivi che spinge il rottamatore a diventare segretario, ma anche il perché lui insista col difendere il principio che il leader Pd sia poi il candidato premier. Il rovescio della medaglia infatti è che se Renzi si caricherà la croce della segreteria, è lecito pensare che cerchi di tutelarsi per non avere rivali sul suo cammino verso Palazzo Chigi; e men che meno quello che tra un anno o due magari potrebbe rivelarsi più insidioso, Enrico Letta. Il quale, anche se un sondaggio del Tg3 lo dà dieci punti sotto al 46%, stando ad altre rilevazioni riservate è già un punto sopra Renzi nell’indice di popolarità: quindi non sorprende che quando si chiede se la fusione segretario-candidato premier possa essere una clausola di salvaguardia da Letta, i renziani del cerchio stretto alzino gli occhi al cielo: «Una volta vinte le primarie per la segreteria del Pd con 4 milioni di voti, dove sta scritto che si debbano rifare? Per andare poi alle urne alleati con chi? Non scordate mai che quello di Matteo è un modello di Pd a vocazione maggioritaria... ». Tradotto, vincendo il congresso Renzi avrebbe la strada spianata, potendo decidere in prima persona come vedersela, quando sarà il momento, con il premier uscente del Pd, il quale - è l’auspicio - magari potrebbe pure appoggiarlo nella battaglia congressuale.
Tutto ciò ha forte attinenza con le pastoie regolamentari che agitano in queste ore il Pd e dunque la separazione segretario premier che chiedono i «non renziani» sarà oggetto di scontro. Ma che sia nato «un correntone anti-Renzi» come denuncia Angelo Rughetti riferendosi al conclave di oggi dei bersaniani con i big, D’Alema e Bersani in testa, vuole smentirlo Franceschini, «nessuna alleanza contro Matteo che è la principale risorsa che il Pd ha a disposizione».
Corriere 4.7.13
Pd, tensione sulle accuse di Renzi. Ora Epifani guarda all’autunno
Il segretario: manovra e sentenza su Berlusconi «passaggi chiave» per l’esecutivo
di Tommaso Labate
ROMA — Ieri l’altro è stato il giorno dell’amarezza, l’ora della tentazione «mai così forte» di «non candidarmi». Ieri, invece, Matteo Renzi s’è goduto in silenzio il sondaggio del Tg3 che lo dà sempre in cima all’indice di gradimento dei politici e ha scatenato i suoi. «D’Alema, Bersani, Letta e Franceschini. Il Pd s’è ricompattato in un correntone unico contro Renzi», ha messo a verbale il deputato Angelo Rughetti. Una lista alla quale il suo collega Davide Faraone ha aggiunto il nome di Fabrizio Barca.
Ma non sono solo i renziani. Anche Goffredo Bettini, eminenza grigia del primo Pd veltroniano, s’è schierato col sindaco di Firenze. «Di tutto abbiamo bisogno tranne che di una santa alleanza contro di lui». Perché Renzi, aggiunge, «è la nostra unica risorsa per dare un governo democratico all’Italia e sconfiggere Berlusconi».
Bettini è pronto a presentare un documento in cui metterà in fila tutti questi pensieri. E in cui darà forma anche alla convinzione che Renzi non debba insistere «nel chiedere la coincidenza obbligatoria tra la figura del segretario e quella del candidato premier» .
Il clima da guerra fredda che si respira all’interno del Pd ha già prodotto il posizionamento sulla scacchiera di tutti i big. Dario Franceschini, per esempio, ha scritto una nota per negare l’esistenza «di un correntone o di una santa alleanza contro Renzi». Tra l’altro, «Matteo è la nostra principale risorsa e con lui bisogna discutere le regole e il percorso congressuale».
Il riferimento principale di tutti, dei renziani che attaccano e di Franceschini che difende, è alla riunione dell’area bersaniana «Fare il Pd» in programma oggi. La stessa in cui Stefano Fassina potrebbe mostrare le prime carte congressuali, tra l’altro di fronte a una sfilata di pezzi da novanta. Da D’Alema a Bersani, da Franceschini a Fioroni. I bersaniani negano che si tratti di una riunione di corrente. E infatti due dei fedelissimi dell’ex leader — Alfredo D’Attorre e Davide Zoggia — hanno tentato di convincere la giovane renziana Maria Elena Boschi a partecipare. Invano, pare.
Certo, le regole e i tempi del congresso. Eppure, dentro il Pd, c’è chi s’affatica per trovare un filo conduttore. «Sta succedendo qualcosa di strano. Non penso che il nemico di Renzi sia il Pd», sussurra il franceschiniano Antonello Giacomelli. «Pure lo scontro con Betori... Queste sono cose che lasceranno un segno», è l’osservazione di Beppe Fioroni. Anche tra i sostenitori del sindaco di Firenze c’è chi compulsa con sempre maggiore attenzione il fuoco di fila contro il «rottamatore» che arriva dal Pdl. Un coro a cui s’è aggiunta anche l’ironia di Pier Silvio Berlusconi: «Renzi lo farei entrare a Mediaset come conduttore. Ma la domanda è con o senza giubbotto di pelle? ». Ironia che per il deputato Michele Anzaldi è l’ennesima prova «degli attacchi del Pdl contro Renzi».
La sensazione generale è che tutta la corsa che riguarda il futuro del Pd potrebbe cambiare all’improvviso. Anche perché se il sindaco di Firenze decidesse di rinunciare alla candidatura, è la scommessa di tanti, in campo tornerebbe l’unico papabile che finora s’è chiamato fuori. E cioè Guglielmo Epifani. Che adesso è il più solido alleato di Enrico Letta e che ieri, non a caso, ha stemperato le tensioni attuali spostando l’asticella in autunno: «Per il governo ci saranno due passaggi decisivi: la manovra di bilancio e la sentenza definitiva per Berlusconi». Il fatto che il segretario, tra i problemi di Palazzo Chigi, non citi le beghe di casa Pd («Congresso nel 2013, segretario non candidato premier»), ha molto a che vedere col messaggio in codice che D’Alema ha mandato giorni fa al sindaco di Firenze. Messaggio affidato al renziano Nardella: «Qua stiamo cercando un segretario. Ma non permetteremo a nessuno di mettere a rischio il governo. A nessuno... »
Repubblica 4.7.13
Il Pd si spacca e salta la tregua Renzi pronto a sfidare il correntone
Franceschini: “Non deve nascere un’alleanza contro Matteo”
di Goffredo De Marchis
ROMA — Non bisogna dare l’idea che il governo e quindi Enrico Letta si schieri apertamente contro Renzi. Perciò Dario Franceschini, ministro dei Rapporti con il Parlamento, mette le mani avanti: «Non deve nascere un’alleanza contro il sindaco di Firenze. Matteo è la grande risorsa del Pd, non possiamo fare regole contro di lui e contro nessun altro. Dobbiamo discuterne assieme». Però Franceschini sarà presente alla riunione dei big che si vedono oggi a Roma. Ci saranno anche Bersani, D’Alema, Fioroni. E il segretario Guglielmo Epifani, che molti vorrebbero confermato nel suo incarico anche dopo il congresso. Una soluzione di tregua. Ma non solo la tregua non c’è. La riunione organizzata dai bersaniani D’Attorre, Fassina e Martina potrebbe invece segnare la netta spaccatura del Pd: da una parte i dirigenti di peso (soprattutto di matrice diessina), dall’altra Renzi e i renziani. Con tutta la componente che viene dalla Margherita in subbuglio.
Insomma, oggi dovrebbero diventare più chiari gli schieramenti in campo. D’Attorre ha invitato tutte le anime democratiche al convegno. Ieri ha insistito fino all’ultimo per reclutare almeno un renziano e dare un messaggio di apertura. Niente da fare. A questo punto diventa anche interesse della corrente di Renzi marcare i confini e alzare il muro. Il sindaco non è solo. Sente innanzitutto di avere dalla sua parte gli amministratori locali. Sono pronti a mobilitarsi in tanti nel caso di un sì alla candidatura per la segreteria. E WalterVeltroni ha scelto la stessa strada di Renzi: non partecipare all’appuntamento di oggi. Il suo antico collaboratore Goffredo Bettini conferma la distanza abissale da quello che già alcuni chiamano “correntone” dei big: «Di tutto abbiamo bisogno tranne che di una “santa alleanza” contro Renzi. È la nostra vera e unica risorsa per dare un governo democratico all’Italia». In questo caso il termine “risorsa” viene usato con convinzione e con una buona dose di speranza. Parole che vengono accolte con favore dai renziani. Anche se Bettini, che martedì presenterà un suo documento congressuale e da tempo medita su una candidatura diretta, chiede al sindaco di non insistere sulla coincidenzatra segretario e candidato premier. «Il primo dovrà rivoltare come un calzino il Partito democratico. Sono due ruoli diversi».
È l’inizio di un conflitto senza esclusione di colpi? I renziani denunciano una manovra per fermare il loro leader. Manovra suicida se è vero, come sottolinea il sondaggio rilanciato dal Tg3, che Renzi risulta il leader con il più alto indice di popolarità. «Renzi è in crescita e abbondantemente in testa. Questa è la migliore risposta agli attacchi che gli vengono rivolti», dice il deputato Michele Anzaldi. «Il 57 per cento degli italiani ha fiducia in lui. Si tratta di un gradimento che cresce e rimane sopra al 50 per cento oramai da mesi. Di fronte a dati del genere, coloro che ogni giorno rivolgono attacchi a Renzi, in particolare dal Pd, farebbero bene a riflettere».
Tocca a Epifani mediare in questa fase ed evitare lo scontro finale. Tanto più se dovesse diventare l’unica carta da giocare per non arrivare alla catastrofe democratica, forse attraverso la conferma alla segreteria. Naturalmente l’ex numero uno della Cgil potrebbe avere un senso solo con un accordo tra tutte le componenti del Pd, renziani compresi s’intende. Anche oggi al convegno di “Fare il Pd” il suo compito sarà quello del mediatore, di chi deve scongiurare la frattura definitiva del partito, già provato dall’esito elettorale e dalle larghe intese. E conferma: «Il congresso si terrà entro l’anno, ma non si possono cambiare le regole ogni anno. Il nuovo segretario non sarà automaticamente anche il candidato premier».
Corriere 4.7.13
Una squadra e 40 mila euro Barca, tour da outsider per puntare alla segreteria
Un documento rivela il piano dell’ex ministro
di Maria Teresa Meli
ROMA — Mentre nel Pd va in scena il tormentone «Renzi si, Renzi no», Fabrizio Barca continua il suo giro per l’Italia, battendo a tappeto circoli e federazioni del Partito democratico. L’ex ministro si ostina a dire che non è in lizza per la segreteria: «Vuole sapere perché lo faccio, lo spiego con un’espressione femminile “perché mi piace”. Voi donne potete dirlo, ebbene lo diciamo anche noi uomini. Del resto, il Pd è l’unico partito rimasto in circolazione e io spero che il mio contributo serva a una seria discussione congressuale: proprio con questa impostazione ho spinto Renzi ad andare sui contenuti».
Così Barca. Ma un documento trovato dal sito «The Front page» sembrerebbe dimostrare che l’ex ministro ha un obiettivo più ambizioso. Si tratta di una sorta di «contratto» sottoscritto con la sezione del Pd di via Giubbonari, quella che ha dato la tessera a Barca, una sezione storica del fu Pci. È un testo che, trattando anche il delicato tema dei finanziamenti alle iniziative dell’ex ministro, per trasparenza, è stato messo sul sito di Barca. Ecco il passaggio chiave: «Sotto il profilo organizzativo, la realizzazione del progetto (di Barca, ndr) richiede la costituzione di un team di risorse umane adeguate allo scopo. In relazione alle attività che dovranno essere svolte, il gruppo di lavoro sarà formato da quattro persone. Per ciò che attiene alle risorse economiche che dovranno essere attivate, per quanto riguarda i profili logistici non si renderà necessario acquisire finanziamenti essendo i costi relativi, limitati alle più sobrie esigenze di viaggio, a carico dei soggetti che promuovono la discussione ed effettuano gli inviti. Sarà invece necessario disporre di risorse per finanziare il team di lavoro nonché per il sito. Si è valutato che per tali esigenze le risorse necessarie ammontano a circa euro 40.000. Per la copertura di tali fabbisogni finanziari, si è manifestata la disponibilità dello stesso Fabrizio Barca e di altri soggetti privati».
E ancora. «Il Circolo Pd Centro storico di Roma, avendo ravvisato l’utilità del Progetto per il dibattito sui temi del governo e del Partito ha deliberato, nella misura in cui ciò non interferisca con le ordinarie attività del Circolo, di mettere a disposizione gli spazi presso la sede del Circolo per lo svolgimento di periodiche riunioni di coordinamento. Fabrizio Barca, come è appena il caso di segnalare, apporterà il suo contributo al Progetto senza remunerazione alcuna, si avvarrà dei servizi messi a disposizione dal Circolo e da lui coordinati e insieme al Circolo predisporrà, a fine luglio e inizio novembre, una breve Relazione sullo stato di attuazione del progetto. Un importo pari al 2% della donazione complessiva sarà devoluto al Circolo stesso a copertura delle spese generali sostenute in relazione alla messa a disposizione dei propri spazi per lo svolgimento di periodici incontri e riunioni di coordinamento del gruppo di lavoro coinvolto nella realizzazione del progetto».
Tutto ciò solo per «contribuire al dibattito nel Pd? ». Guardando il sito di Barca i dubbi aumentano: l’ex ministro dà conto dei suoi spostamenti (luglio è un mese pieno di iniziative dal Piemonte alla Toscana, passando per il Veneto e l’Emilia) e fornisce un resoconto dei suoi incontri, in cui viene riportato il numero dei partecipanti. Barca continua a dire che il suo obiettivo non è la segreteria, ma nel Pd qualcuno crede che possa esse lui il vero outsider in questa partita congressuale…
«I senatori Pd risponderanno col segno asinino d’assenso (la testa su e giù)? Sì, stando al pronostico: era eleggibile; il motivo profondo è che non sia fair play disfarsi dell’avversario con argomenti legali. Hanno anime nobili i trasmutanti»
Repubblica 4.7.13
Le anime nobili dei trasmutanti
di Franco Cordero
L’anno 2013 porta novità imprevedibili, come se un Joker vi sfogasse fantasie maligne: prima o poi saremmo usciti dalla depressione, imputabile al lungo baccanale berlusconiano, ed era pensabile che l’Italia malata aprisse gli occhi, avendo capito chi sia l’Olonese; gli ottimisti lo vedevano out, a beneficio d’una destra pulita, la cui nascita finalmente avveri i presupposti della dialettica bipolare. Le sonde danno primo con largo margine un euforico Pd, spinto dalle primarie. Due mesi liquidano l’illusione. La mummia è un rettile squamoso ancora vivo e ritrova i fedeli. Il concorrente da destra, Mario Monti, volava sulle ali d’un carisma effimero: non era agonista idoneo; e dilapidato il capitale, resta in ginocchio. L’organicamente equivoco Pd scontava vecchie colpe. L’esito è stallo: il redivivo rimonta, sfiorando l’exploit; i voti negati allo pseudo-vincitore ingrossano le Cinque Stelle, movimento d’una protesta politicamente selvatica, la cui carica creativa forse assumerà forme utili configurandosi sul campo, nella prassi parlamentare; e una massiccia astensione misura i disgusti elettorali.
La classe politica non aveva mai raccolto tanta antipatia. Nelle sette settimane seguenti persiste l’equilibrio vizioso: il mancato vincitore chiede i voti dei pentasiderei, il cui no era ovvio (non vogliono essere gli ascari d’un partito che trescava con l’affarista quasi padrone d’Italia); e non è nemmeno sostenuto dal Quirinale, compromesso nel disegno delle “larghe intese” (governo Pd-Pdl). Ipotesi ormai assurda, se il voto conta qualcosa nell’alchimia governativa: due elettori su tre la rifiutavano, ostili al pirata da vent’anni incombente; il punto era chiaro. L’uomo del Colle ha compiuto i sette anni d’ufficio e declina l’offerta d’un secondo oneroso incarico. La formulavano gli pseudoequidistanti, manovrieri Pd e Re Lanterna (abbastanza furbo da capire quale rendita sia un condominio governativo, sicché finge moderatismo): sono troppi 88 anni, risponde; non è immaginabile passarne altri sette lassù. Al buio lavorano oligarchi macchinisti. Nel corridoio spetta a B la scelta tra i nomi proposti dall’ormai consunto leader Pd, e indica un poco visibile ex democristiano, impiombato dal primo voto. Misteriosamente nella notte da venerdì a sabato 20 aprile gli elettori Pd, unanimi e plaudenti, designano Romano Prodi (aborritodal pirata), e i voti esistono sulla carta, ma nell’urna ne mancano 101. Qui la commedia italiana prende un passo indiavolato: il riluttante guardava; vengono a supplicarlo; s’arrende; rieletto sul tamburo, scadrà nel 95° anno ( cronologia biblica), né ventila un discessus anticipato. E cosa fa?: conferisce l’incarico al vicesegretario Pd, nipote del ciambellano,plenipotenziario, onnipresente consigliere segreto Pdl (gentiluomo del papa nonché futuro senatore a vita, dicono gl’informati: figura d’ancien régime; gli mancano solo parrucca, cipria, occhialetto); lo junior non vedeva niente d’eccepibile in una piccola legge che salvasse l’allora premier dalle rogne giudiziarie qualificandolo immune; e nell’ultima campagna elettorale augurava che gli elettori alieni dal Pd votassero Berlusco resurgens anziché Cinque Stelle. Nasce così un governo bicolore, dove planano quattro colombe berlusconiane, trasmutanti in falchi appena lui fischi (l’odg nomina i due guerrieri Cl, Mario Mauro e Maurizio Lupi).
Quale primo atto del nuovo ciclonon poteva mancare un déjà vu: quaranta bicameristi rifonderanno strutture dello Stato; l’unico a sentirne il bisogno era Berlusco Magnus, al quale non bastano mai i poteri, e il disegno va in tal senso. Circolano fantasie d’un presidente autocrate; sotto banco l’ingordo tenta d’includere nella delega una cosiddetta “riforma della giustizia”, ossia pubblico ministero agli ordini dell’esecutivo, procedura dai mille cavilli comodi nel gioco ostruzionistico, responsabilità diretta dei giudici, esposti a cause intimidatorie. Assediata dai turchi, Bisanzio disputava sulla Trinità. I tibero- bizantini dissertano d’una futile ingegneria costituzionale (micidiale in mano al pirata), mentre il debito pubblico cresce, con gl’indici della miseria, e nessuno vede i barlumi d’una ripresa. Veniamo ai fatti. L’Italia soffre d’un morbo letale, CFMP ( corruzione, frode, mafia, parassiti smo): la dissanguano i 60 o più miliardi annui che un fisco nero succhia alle casse pubbliche: li calcola la Corte dei conti; diagnosi sicura, né esistono dubbi sulla terapia. Nessuno vi mettemano perché qualcuno non vuole, irremovibile patrono del malaffare in colletto bianco (radice cospicua del suo appeal elettorale). Nel lessico d’Esopo o Fedro, B. al governo è una volpe custode del pollaio (vedi processo Mediaset). Da notare poi l’effetto metamorfico: varie persone operano pro divo Berluscone sotto insegna Pd; vale anche qui l’identità degl’indiscernibili (Leibniz); perché chiamare A e B con nomi diversi quando niente li distingue? Presto ci sarà un test, appena il Senato deliberi sul punto se B., padrone Mediaset, fosse eleggibile. Secondo l’articolo 10 (c. 1, d. P. R. 30 marzo 1957 n. 361, Testo unico delle norme elettorali), non lo è chi, “in proprio” o rappresentando soggetti diversi, eserciti concessioni amministrative economicamente rilevanti. Dio sa se lo fosse quella che l’ha arricchito ma, omertosamente concorde l’antenato Pd, la Camera chiudeva gli occhi, intendendo la norma nel senso (comicofraudolento) che valga solo rispetto al titolare della concessione (ossia Fedele Confalonieri). Niente da obiettare al dominus. Lettura farsesca, smentita dalla l. 6 agosto 1990 n. 223 (disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato, legge Mammì, illo tempore comprata da B.): esiste un registro nazionale delle imprese radiotelevisive (articolo 12); e quando i concessionari siano persone giuridiche, l’incapacità colpisce chi dispone del capitale ivi investito (articolo 17, c. 2). I senatori Pd risponderanno col segno asinino d’assenso (la testa su e giù)? Sì, stando al pronostico: era eleggibile; il motivo profondo è che non sia fair play disfarsi dell’avversario con argomenti legali. Hanno anime nobili i trasmutanti.
Repubblica 4.7.13
Le riforme e il denaro
Un intreccio secolare nella storia del papato
di Agostino Paravicini Bagliani
Le cronache di questi giorni ci parlano di un nuovo scandalo che coinvolge l’Istituto per le opere di religione (Ior), sulla cui esistenza papa Francesco espresse pubblicamente dubbi, affermando: «Lo Ior è necessario fino a un certo punto»; e «San Pietro non aveva un conto in banca». Sono affermazioni che nascono da una profonda riflessione sul rapporto tra Chiesa e denaro e preannunciano una radicale riforma della Curia.
Anche nel corso della lunga storia del papato, le riforme della Curia (peraltro frequenti) sono state sovente motivate da problemi di natura finanziaria. E in momenti particolarmente importanti non mancarono decisioni radicali. Nel pieno della cosiddetta Riforma gregoriana, un papa francese, Urbano II (1088-1099), già monaco di Cluny, decise persino di affidare l’intera amministrazione papale.
Lo fece perché Cluny era allora forse l’istituzione europea più efficiente in termini di amministrazione finanziaria. Ma Urbano II voleva anche proseguire nel programma della Riforma, e rendere il papato sempre più autonomo dall’aristocrazia romana. Questo legame tra Cluny e il papato introdusse a Roma due termini — quello di Camera e di Camerlengo — che sono ancor oggi in uso. Il cardinale Camerlengo è responsabile dell’amministrazione papale durante la Vacanza della Sede apostolica.
Quando Benedetto Caetani fu eletto papa Bonifacio VIII (1294), la Curia non era in buone condizioni. La debolezza, in termini ammini-strativi, del pontificato di Celestino V, il papa del “gran rifiuto”, aveva provocato gravi disfunzioni, permettendo persino a prelati di curia di disporre di bolle papali in bianco… Che cosa fece Bonifacio VIII? Congedò — lo dice un cronista inglese bene informato — tutti «i banchieri della Camera apostolica, conservando ai propri servizi solo tre società, quelle dei Mori, degli Spini e dei Chiarenti». A questi banchieri “esterni” alla Curia, assegnò l’intera amministrazione papale, sottoponendoli ad uno stretto controllo. Tutti i venerdì dovevano far verificare i loro registri dal Camerlengo.
Bonifacio VIII fu uno dei primi papi ad essere stato eletto da cardinali “chiusi in conclave”. Ora, anche il conclave fu introdotto (nel 1274 da Gregorio X) per risolvere problemi di natura finanziaria. I cardinali avevano infatti preso l’abitudine di prolungare le Vacanze della Sede apostolica perché così potevano fruire dei proventi della Camera apostolica. Proprio Gregorio X era stato eletto al termine di una Vacanza durata quasi tre anni… Innumerevoli parodie e testi satirici di quei secoli mettono in evidenza l’avidità della Curia. Per i Carmina Burana, «Roma è la capitale del mondo ma non conserva nulla di pulito». Il poema si serviva del gioco di parole tra
mundi(del mondo) e mundum (pulito). Non si trattava di retorica. Il 16 giugno 1281, il vescovo di Hereford Tommaso di Cantilupo sapeva che «gli affari in curia non possono progredire se non si organizzano “visite” generali e individuali», ossia offrendo doni. Anche in natura. Il maestro generale dei Serviti (un ordine mendicante) regalò sovente libbre di zafferano, di un altissimo valore economico, a diversi cardinali, tra i quali il futuro Bonifacio VIII. Il giorno dell’elezione di questo papa, il procuratore della città di Bruges gli fece pervenire tessuti del valore di 220 fiorini per «ringraziarlo dei servizi resi alla sua città quando era avvocato di curia». A questo generale “sistema didoni”—certo non circoscritto allora alla sola curia romana — alcuni papi cercarono di porre rimedio. Per tagliare alla radice “ogni occasione di cupidità”, Innocenzo IV (1243-1254) decretò che coloro che avrebbero offerto ad un curiale una somma superiore a 20 soldi (una cifra relativamente alta) dovevano farsi rilasciare una quietanza, il che significa che tale dono non era di per sé illecito.
Non mancarono nemmeno tentativi per imporre più austerità in termini di vita di corte. Soltanto due settimane dopo la sua elezione, il terzo papa avignonese, Giovanni XXII (1314), decretò che i cardinali avrebbero dovuto accontentarsi di due sole portate, o di solo pesce o di pesce e carne. La selvaggina (caprioli, cervi, pavoni, fagiani, cigni) poteva essere aggiunta alle due portate di base, ad esclusione di lepri, conigli, pernici (molto abbondanti in Provenza). Malgrado queste restrizioni, la mensa dei cardinali continuò però ad essere eccezionalmente ricca e varia. Ed anche la circolazione di doni in Curia continuò a imperversare ben al di là del Medioevo, diventando persino una delle principali polemiche, nei primi decenni del Cinquecento, da parte dei protagonisti della Riforma protestante.
Insomma, il legame tra riforma della Curia e denaro attraversa i secoli. Tentativi di riforma, anche radicali, non mancarono, né nel Medioevo né in epoca moderna, ma il loro successo fu relativo. La riforma medievale più duratura fu l’introduzione del conclave, che riuscì ad eliminare le lunghe Sedi vacanti, togliendo ai cardinali la possibilità di interessanti proventi.
il Fatto 4.7.13
Femminicidio in Italia: dati Oms
Ogni due giorni uccisa una donna
In Italia ogni due giorni e mezzo viene uccisa una donna. Dall’inizio del 2013 al 30 giugno si contano 65 femminicidi. A illustrare la difficile situazione che si trovano a vivere le donne nel nostro Paese e a cercare soluzioni per arginare il fenomeno, gli esperti riuniti oggi a Roma all’incontro organizzato dall’Osservatorio nazionale sulla salute della donna (Onda). Nel corso dell’incontro, sono stati ricordati i dati del rapporto mondiale dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) sulla violenza femminile. In Italia si stima che 6.743.000 donne, tra i 16 e i 70 anni, siano vittime di abusi fisici o sessuali e circa un milione abbia subito stupri o tentati stupri. Secondo l’Oms, inoltre, il 33,9% delle donne che ha subito violenza per mano del proprio compagno e il 24% di quelle che l’hanno subita da un conoscente o da un estraneo non ne parla. Il 14.3% delle donne è stata vittima di atti di violenza da parte del partner, ma solo il 7% lo ha denunciato.
l’Unità 4.7.13
Non esistono bimbi di serie B
Ogni bambino deve essere curato Anche se è figlio di «irregolari»
di Umberto Ambrosoli
Coordinatore Patto Civico e Pd Regione Lombardia
Caro direttore, voglio sottoporre alla sua attenzione e a quella dei lettori de l’Unità l’istruttivo caso di una Lombardia «eccellente» in tante cose, ma non nella tutela dei fanciulli: qualora siano bambini, figli di stranieri senza permesso di soggiorno, essi infatti non hanno alcun diritto alla assistenza pediatrica.
E proprio nella Lombardia, patria di tante battaglie per i diritti dei cittadini, la maggioranza Leghista-Pdl disposta a litigare e a dividersi quando si tratta di nomine, si ricompatta per un pregiudizio ideologico e mostra la più sprezzante chiusura invece di aprirsi ad una scelta di civiltà. La mozione che abbiamo presentato in Consiglio regionale sulla parità di trattamento pediatrico tra bambini italiani e bambini figli di immigrati irregolari, ha una storia molto lunga e deve suonare come l’ennesimo, se non definitivo, campanello d’allarme rispetto a un tema che a molti cittadini lombardi e alla coalizione di centrosinistra sta molto a cuore, ma che trova invece la totale indifferenza della attuale maggioranza di potere.
Un testo similare a questo era stato già presentato dal Partito democratico nella scorsa legislatura. Siamo tornati senza indugi sul tema non solo per una sensibilità che ci accomuna a tanti cittadini, ma anche per permettere alla nostra Regione di superare questa vera e propria arretratezza. Infatti lasciare senza assistenza pediatrica un bambino in ragione del suo status di figlio di persona non in regola con il permesso di soggiorno, è di per sé una barbarie. Lo dicono i medici, lo dicono le associazioni a tutela degli immigrati, ma lo dice soprattutto la nostra coscienza: un bambino non può vedersi negato un diritto fondamentale garantito in ogni società civile, a partire dalla Convenzione sui diritti del fanciullo, meglio nota come Convenzione New York del 1989. Convenzione che ci ricorda come quello della tutela dei fanciulli sia autentico termometro per svelare il grado di verità di chi dice di volere delle politiche che abbiano al centro la persona.
Ma cosa è intervenuto di nuovo? Perché abbiamo riproposto questa mozione? Non è stata una mozione «ideologica», come qualcuno della maggioranza ha affermato nel dibattito. C’è infatti una precisa disposizione governativa che nel frattempo è intervenuta. L’accordo fra il governo centrale e le Regioni del 20 dicembre 2012 sottolinea a proposito che: 1) sul territorio nazionale è stata riscontrata una difformità di risposta in tema di accesso alle cure da parte della popolazione immigrata; 2) che è necessario individuare, nei confronti di tale categoria di popolazione, le iniziative più efficaci da realizzare per garantire una maggiore uniformità, nelle Regioni e nelle Province autonome, dei percorsi di accesso e di erogazione delle prestazioni sanitarie, di cui al decreto del presidente del Consiglio dei ministri sui livelli essenziali di assistenza; 3) che è infine opportuno raccogliere in un unico strumento operativo le disposizioni normative nazionali e regionali relative all’assistenza sanitaria agli immigrati, anche al fine di semplificare la corretta circolazione delle informazioni tra gli operatori sanitari.
Ma, soprattutto ed esplicitamente, l’allegato normativo, corposo e ricco di indicazioni, invita all’«iscrizione obbligatoria al Sistema Sanitario Regionale dei minori stranieri presenti sul territorio a prescindere dal possesso del permesso di soggiorno». A oggi per completezza di informazione questo «accordo Stato-Regioni» è stato recepito con atto formale da Lazio, Puglia, Liguria, Campania, Calabria e dalla Provincia Autonoma di Trento. Altre enti regionali ci risulta si stiano adeguando. Questo accordo tra Stato e Regioni è pensato proprio per uniformare le prassi concrete dei diversi territori e per garantire a tutti uno standard minimo di servizi e diritti. Quindi a Trento come in Puglia, uno straniero senza documenti può avere il medico di famiglia e il pediatra di libera scelta; egli come un qualsiasi cittadino italiano vede riconosciuto il suo diritto alla salute; in Lombardia no. Ora, molte associazioni o anche singoli medici ci informano che, nonostante un iniziale barlume di speranza fra gli operatori, queste indicazioni in Lombardia sono rimaste lettera morta. Non solo perché manca chiaramente un atto normativo di recepimento, ma anche perché le indicazioni ai presìdi territoriali non sono arrivate in maniera univoca e chiara. Ci troviamo quindi di fronte ad Aziende Sanitarie o addirittura a singoli ospedali che si comportano in modo difforme.
Da qui la nostra mozione che invitava tutto intero il Consiglio regionale a procedere senza indugi nel dare attuazione a queste novità e a dimostrare che la Lombardia, in tema di tutela del diritto alla salute, coltiva davvero l’eccellenza; quell’eccellenza di cui si continua a farsene vanto solo e unicamente quando fa comodo ai suoi governanti.
Saniamo questo ritardo che di eccellente non ha niente tra Regione Lombardia e altre regioni italiane e diamo a tutti i bambini, senza distinzioni di colore, religione, razza o status giuridico un accesso diretto alla salute, bene primario di ogni paese evoluto. Accettiamo e vinciamo la sfida per una politica che, attraverso la tutela dei bambini, abbia davvero al centro la persona.
È una battaglia di civiltà. E continueremo, anche insieme ai consiglieri del Pd, a portarla avanti in ogni istanza possibile.
l’Unità 4.7.13
La lezione di Stamina
Quando il metodo scientifico diventa un optional
La comunità internazionale bolla come inefficace e insicuro il metodo Vannoni, ma le reazioni di Stamina parlano di «attacchi politici»
di Pietro Greco
«Non è neppure sbagliata», diceva icastico il fisico Pauli di un’idea che non riteneva degna di considerazione. Non è neppure sbagliata, sostiene la rivista Nature della richiesta di copertura della proprietà intellettuale del metodo Stamina.
Avanzata nel 2010 da Davide Vannoni all’Ufficio brevetti degli Stati Uniti la richiesta non è stata accolta: è plagiata. O, almeno, due delle fotografie con cui lo psicologo cerca di dimostrare che le cellule staminali dette mesenchimali estratte dal midollo osseo si sono trasformate in magnifici neuroni (le cellule del cervello) sono state prese tal quale da due lavori di alcuni ricercatori ucraini pubblicati nel 2003 su una rivista russa, il Journal of Development Biology, e nel 2006 su una rivista ucraina, l’Ukranian Neurosurgical Journal.
Davide Vannoni ha reagito con un argomento che ha fatto scuola in Italia, ma che è sconosciuto all’estero: si tratta di un attacco politico. Probabilmente si riferisce al fatto che l’articolo di Nature la più diffusa rivista scientifica al mondo e tra quelle con il maggiore «impact factor», ovvero tra quelle più accreditate dalla comunità scientifica planetaria si basa sulle valutazioni critiche di tre scienziati italiani esperti di cellule staminali: Paolo Bianco dell’Università La Sapienza di Roma; Luca Pani, direttore generale dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) ed Elena Cattaneo, Direttore del Centro di Ricerca sulle Cellule Staminali dell’Università Statale di Milano (Unistem).
L’accusa di plagio non è esattamente politica. E rende la vicenda ancora più controversa. Una vicenda che è stata fortemente criticata non solo da Nature, ma dalla gran parte della comunità scientifica internazionale per vie di alcune anomalie strutturali. Che proviamo a elencare.
Un signore, Davide Vannoni, senza alcuna esperienza scientifica validata nel campo delle cellule staminali sostiene di aver messo a punto una cura di alcune malattie degenerative del sistema neurologico mediante il trapianto di cellule staminali estratte dal midollo osseo e opportunamente trattate, con acido retinoico diluito in etanolo. Le cellule trapiantate nel sistema nervoso del paziente da cui sono state estratte si trasformano, sostiene Vannoni, in cellule neuronali (neuroni) e consentono di contrastare il decorso di alcune malattie neurodegenerative: è il «metodo Stamina».
Vannoni sostiene di non poter rivelare i dettagli del metodo, che tuttavia viene applicato come cura compassionevole non si comprende bene autorizzato da chi e perché presso un ospedale a Brescia. Ora il guaio è, come sostiene Elena Cattaneo, che nessuno al mondo ha dimostrato che le cellule staminali tratte dal midollo osseo possono trasformarsi in cellule del sistema nervoso centrale (sempre i neuroni). E nessuno ha dimostrato che trattamenti su questa base apportino benefici ad ammalati. Inoltre Luca
Pani ha dimostrato che nella pratica terapeutica applicata presso l’ospedale di Brescia ci sono gravi lacune, persino di tipo igienico.
Si tratta di una pratica medica non convenzionale. La cui validità scientifica non è dimostrata. Tuttavia i genitori di una bambina sottoposta alla cura sostengono che sembra funzionare e chiedono che essa possa continuare anche dopo l’inchiesta dei Nas e dell’Aifa che ha portato al blocco della terapia.
La richiesta fa breccia nei media. E l’opinione pubblica preme perché la cura possa essere somministrata a pazienti che, in ogni caso, non hanno speranza. Sulla vicenda interviene infine il Parlamento, che il 23 maggio ratifica all’unanimità un decreto legge del ministro della Sanità e così decide di sottoporre a sperimentazione scientifica il «metodo Stamina» sotto il controllo di un’apposita commissione presieduta dal genetista Bruno Dallapiccola. Il Parlamento decide di finanziare con 3 milioni di euro il test. Che dovrebbe partire in autunno se, entro il prossimo 8 luglio, Vannoni fornirà i dettagli del suo metodo.
Tutti si augurano che la ricerca abbia buon esito e che venga provata l’efficacia della terapia. Tuttavia bisogna dire che è molto, molto difficile che la sperimentazione dimostri una qualche efficacia. Perché, per dirla con Wolfgang Pauli, nel metodo e nel merito l’ipotesi di Vannoni non è neppure sbagliata.
Ma ci sono due aspetti, più generali, che vanno discussi. Uno riguarda il rapporto tra scienza e politica. Può, in un Paese avanzato, essere un ministro o anche un Parlamento a decidere, contro il parere della comunità scientifica internazionale, quali sono le ipotesi da sottoporre a indagine scientifica e il metodo da seguire? Possono i media ingaggiare una guerra aperta contro la scienza e il suo modo di procedere? Davvero la vicenda Di Bella non ci ha insegnato nulla? Perché questa coazione a ripetere? C’è un nesso tra questa mancanza diffusa di cultura scientifica e il declino economico e non solo economico del Paese?
La seconda questione riguarda il mito del genio isolato che sfida e vince il moloch dei poteri forti: le multinazionali e la «scienza ufficiale». Un mito che ritorna. Persino nel Paese di Ilaria Capua, la ricercatrice italiana che nel 2006 ha sfidato e ha vinto abitudini consolidate o, se volete, grandi interessi nell’ambito della ricerca medica e ha reso pubblico con tempestività e totale trasparenza tutto quello che sapeva sul virus dell’influenza aviaria. Nel nome del bene comune dell’umanità. Ma, lei sì, con scienza solida alle spalle. Perché in Italia i veri eroi non vengono quasi mai riconosciuti?
Corriere 4.7.13
Moro, il giallo sul ritrovamento del corpo
La procura apre una nuova inchiesta
qui
Corriere 4.7.13
Psicologi contro la crisi Quota 100 mila nel 2016
Utili alla sanità, non ci sono soldi per pagarli
di Dario Di Vico
La Grande Crisi ha rimesso la psicologia al centro dell'attenzione pubblica. E nella recente campagna elettorale per il Campidoglio il candidato (vincente) Ignazio Marino ha proposto di far diventare gli studi del medico di base dei veri e propri centri di salute territoriale con la presenza dello psicologo, almeno una volta a settimana. Qualche mese prima aveva destato interesse l'iniziativa di associazioni di base del Varesotto e di alcune Camere di commercio del Veneto che avevano stipulato convenzioni con psicologi per assistere gli imprenditori depressi a causa della recessione e dell'inevitabilità di licenziare i propri collaboratori. Nei giorni scorsi, poi, è uscito un libro ("Il tempo senza lavoro", edizioni Feltrinelli) in cui lo psicologo e giornalista Massimo Cirri raccoglie i racconti dei lavoratori dell'Agile ex Eutelia che messi fuori dall'azienda cominciano a star male e si vedono «senza prospettive più in là del divano di casa». All'interesse esterno corrisponde un fascino ancora irresistibile di questa professione.
Nel 2016 gli psicologi arriveranno a quota 100 mila e già oggi in Italia c'è all'incirca uno psicologo ogni 740 abitanti, essendo ora 90mila. Anche le facoltà universitarie conservano lo stesso appeal con 50 mila studenti iscritti. Le donne sono in stragrande maggioranza: 8 psicologi su 10.
Ma tanto interesse e un appeal intatto riusciranno a passare attraverso la cruna dell'ago rappresentata dalle politiche di contenimento della spesa pubblica? Il paradosso sta tutto qui: degli psicologi c'è più bisogno di ieri ma ci sono molti meno soldi per pagarli. Così la professione sta andando verso una sorta di privatizzazione che premia gli psicoterapeuti affermati però obbliga al semi-volontariato i giovani. Domanda: ci sono altre strade da battere, magari quella proposta dal neo-sindaco di Roma? Secondo Claudio Brosio, preside di psicologia alla Cattolica di Milano e coordinatore di un'indagine sulla professione, «possiamo riconvertirci, persino diventare più liquidi ma dobbiamo chiederci cosa vogliamo fare della salute pubblica».
E comunque non è detto che più psicologi voglia dire più spesa pubblica. Se il medico di base fosse affiancato da uno psicologo, argomenta Brosio, la spesa sanitaria diminuirebbe perché si darebbe risposta alla domanda di salute non solo prescrivendo pillole e Tac. Anche Giuliano Castigliego, che cura insieme ad altri professionisti il blog dell'associazione Uma.na. mente, sostiene l'idea di affiancare il medico di base. Ricorda come esista già una proposta di legge in materia del febbraio 2010 per la prevenzione «della depressione, dello stress e di altre moderne patologie che portano tra l'altro ai divorzi/omicidi, alla devianza giovanile». Più in generale Castigliego parla di formulare l'idea di consulenza psicologica e magari incentivare la stipula di assicurazioni private supplementari per le cure. «Non si tratta - argomenta - di sancire nessuna rivincita della psicologia sulla medicina o altro. Non è una partita di calcio, ma una collaborazione tra saperi e scienze diverse e complementari, il tutto nell'interesse del paziente». Se queste paiono delle buone idee l'inerzia degli eventi sta però portando in direzione opposta. Secondo un'ampia indagine che l'Ordine degli psicologi ha effettuato nei mesi scorsi su 1.500 casi di professionisti di tutte le età e spalmati sul territorio nazionale, per un giovane psicologo passano in media due anni e mezzo tra la laurea e l'ingresso nel mercato del lavoro con la qualifica che gli viene dal titolo universitario. Il tempo di lavoro medio di un professionista è sceso di 5 ore la settimana, anche la retribuzione generale che si situa attorno ai 1.300 euro mensili risulta in calo rispetto a qualche anno fa (2008). Un fenomeno analogo è segnalato per i giovani psicologi rispetto ai coetanei di altre professioni, c'è un divario di introiti valutabile in 400 euro. Secondo Tiziana Metitieri, neuropsicologa all'ospedale Meyer di Firenze, quasi la metà degli iscritti all'Ordine non svolge di fatto la professione di psicologo e comunque quelli che lavorano negli ospedali o servizi territoriali hanno contratti a tempo come assegni di ricerca, borse di studio, partita Iva. «E mentre la formazione accademica è eccellente quella post-laurea privata è incontrollata. Ci sono tante scuole private che ad alti costi non garantiscono un'altrettanta alta formazione ma continuano ad avere iscritti. Questo è grave perché senza una formazione qualificata e continua non si hanno percorsi di diagnosi e cura metodologicamente fondati».
Come si può quadrare allora il cerchio tra una società che ha bisogno di ascolto e un mercato incapace di accogliere quest'esigenza? Per Massimo Cirri si devono sperimentare formule nuove. I gruppi di auto-aiuto, ad esempio, che partiti dal modello degli alcolisti sono diventati nell'esperienza del Trentino Alto Adige «una formidabile macchina sociale» che crea condivisione, scambio di informazioni ed evita le risposte esclusivamente farmacologiche. «La psicologia interviene per evitare che alla sofferenza si aggiunga la solitudine». Da qui la tendenza di molti giovani professionisti ad aprire studi in forma di cooperativa e a stipulare convenzioni con gli enti locali a prezzi calmierati, come è in cantiere a Milano. Ma non c'è il rischio che per le nuove leve della professione la figura dello psicologo finisca per assomigliare troppo a quella del volontario? «Onestamente il pericolo c'è», ammette Cirri.
Corriere 4.7.13
Roma appieda gli assessori: stop alle «auto blu»
Marino su Facebook: «È solo il primo passo»
Il sindaco: «Le auto di servizio potranno essere utilizzate solo per incontri istituzionali»
qui
il Fatto 4.7.13
“Il presidente è scaduto”, Golpe dei generali d’Egitto
Tank nelle strade del Cairo. Morsi agli arresti. Costituzione sospesa
Intesa tra militari e opposizioni per nuove elezioni
di Francesca Cicardi
Il Cairo L’era Morsi si chiude nel caos, un anno dopo esser iniziata con il voto democratico. Dopo ore di tensione e di voci non confermate al Cairo, secondo le quali il presidente sarebbe stato arrestato dalle guardie presidenziali. Questo è ciò che ha chiesto ieri il movimento “Tamarrud” (ribellione) che, dopo aver promosso le grandi proteste del 30 di giungo contro il presidente islamista, ha aspettato che fosse l’Esercito a cacciarlo dal palazzo. Inoltre, Morsi e altri leader dei Fratelli Musulmani, tra cui anche la guida spirituale Mohamed Badie e il tycoon Khairat el Shater, sarebbero già sulla lista nera dell’aeroporto del Cairo.
CENTINAIA DI MIGLIAIA di persone festeggiavano ieri sera alle porte del palazzo presidenziale e del quartier generale della guardia repubblicana, e a piazza Tahrir un colpo di stato annunciato e praticamente consumato, e la folla scoppiava in un boato di allegria dopo l’annuncio dei generali che hanno finalmente “espulso” Morsi dal gioco. Nelle strade e dalle case del Cairo si udivano ululati di celebrazione delle donne e grida di “dio è grande” per festeggiare la fine del drammatico anno di Morsi al potere.
Alle 5 del pomeriggio in Egitto è scaduto l’ultimatum imposto dell’Esercito 48 ore prima, ma fino alle 9 di sera il ministro della Difesa Abdel Fatah al Sisi non è apparso alla televisione di Stato circondata ore prima dai carri armati, così come molti punti nevralgici dela megalopoli sul Nilo dalla quale si dettano le rivoluzioni in Egitto: nel febbraio del 2011, dalla torre della televisione è stata annunciata la rinuncia del presidente Hosni Mubarak, sacrificato dai generali per i propri interessi e la stabilità del paese. Questa volta il colpo di stato e avvenuto alla luce del giorno e non dietro le quinte.
I generali hanno presentato la “road map” annunciata dall’inizio dell’ultimatum al presidente dato 48 ore fa e accordata con le forze politiche e religiose, tra cui il leader dell’opposizione e premio Nobel della Pace Mohamed el Baradei, così come il papa copto, Tauadrus II, e il grande imam di Al Azhar, massima autorità religiosa dell’Islam.
I militari hanno sospeso la Costituzione oggetto di tante polemiche, che era stata scritta dagli islamisti senza il consenso delle forze laiche e liberali, hanno annunciato un governo di soli tecnici e hanno assicurato che convocheranno elezioni presidenziali anticipate, così come chiedeva l’opposizione e la piazza. Sembra che in questo caso i generali si siano alleati con le forze liberali del paese, dopo averlo fatto con gli islamisti, per salvaguardare i propri interessi un anno fa.
Le dichiarazioni del presidente Mohamed Morsi, in un discorso in televisione martedì notte, che disse di essere pronto a difendere la propria legittimità democratica “anche con il sangue” aveva allarmato i generali, che erano già in stato di allerta da quando il presidente aveva partecipato a una conferenza allo stadio del Cairo, accompagnato da clerici islamisti radicali. Infatti, i militari avevano avvertito durante la notte di martedì, subito dopo il discorso di Morsi, che non avrebbero permesso a “terroristi” ed “estremisti” di mettere in pericolo la stabilità e l’unità della patria. Ieri sera Morsi ha replicato con un tweet chiedendo “di opporsi al golpe”, ma “pacificamente”.
il Fatto 4.7.13
I faraoni in armi e la primavera sfiorita
di Stefano Citati
Il presidente è agli arresti, viva i generali? Mohammed Morsi perde la legittimità del potere presidenziale per decreto militare, nel-l’anniversario della sua elezione democratica. Il leader dei Fratelli musulmani si trovava ieri sera sotto custodia della Guardia repubblicana, mentre sotto il palazzo presidenziale sfilavano i carri armati. Un leader eletto, ma con la proibizione di espatriare, mentre una moltitudine festante inneggiava alle Forze armate che hanno ristabilito il diritto del popolo. E una minoranza nutrita e bellicosa – i seguaci del movimento islamico moderato – promettevano il martirio contro il golpe dei generali, che hanno vinto il braccio di ferro con il presidente in nome della piazza.
La democrazia non finisce con il voto, ma certo è una dura legge imposta con la minaccia non troppo velata del fucile, quella che fa decadere Morsi da faraone del nuovo Egitto nato dalla primavera araba inscenata per mesi in piazza Tahrir. Con il sapiente uso degli umori delle piazze – dove intanto i blindati si posizionano, pronti a reprimere le violenze delle due fazioni – gli uomini in divisa inscenano uno show mediatico e una prova di forza.
Il Paese è allo stremo, economicamente e socialmente, spaccato e scontento di una rivolta appassita nella durezza della vita quotidiana. I generali dimostrano di tenerlo in pugno e di usare il malcontento popolare come scudo per le scelte di potere che hanno permesso loro di riciclarsi da apparato di sostegno al raìs Mubarak (che conta ancora seguaci tra le gerarchie militari) a guardiani della rivoluzione popolare. Metà delle ricchezze dell’Egitto sono più o meno direttamente sotto il controllo degli ufficiali che, dopo aver “provato” il burocrate musulmano, sono pronti a sostituirlo con le figure carismatiche dell’opposizione: il Nobel per la Pace el Baradei, l’imam del Cairo e il papa copto.
I faraoni in armi egiziani si sono mostrati al contempo paladini della volontà laica popolare e conservatori del potere economico, più e meglio di come sono stati in grado di fare i commilitoni turchi. A meno che il vociare minaccioso delle milizie dei Fratelli musulmani non si trasformi in aperta belligeranza, precipitando il gigante mediorientale in un conflitto sociale che potrebbe portare le Forze armate a non ritirare i carri armati dalle strade per molte settimane.
il Fatto 4.7.13
“La libertà vale più della vita”: in piazza gioia e guerra santa
Dopo la tensione in attesa dell’annuncio Tahrir esplode tra canti e fuochi artificiali
di Marco Alloni
Il Cairo Se non fosse per la vocazione al martirio degli islamisti potremmo dire che l’era dei Fratelli musulmani è finita. Ma l’incognita è nelle parole dello stesso Essam El-Arian, uno dei leader della confraternita: “La libertà vale più della vita”.
Di fronte alla moschea Rabaa Al-Adawya, la sinistra conferma di tale atteggiamento vendicativo era palese fin dall’altroieri: una legione di seguaci del presidente armati di caschi, spranghe e giubbotti antiproiettile si preparava alla battaglia reggendo la cosiddetta kafan (il panno tradizionale per avvolgere le salme) con la scritta inequivocabile “La morte sul cammino di Allah è la più desiderabile”.
Guerra civile, dunque. Guerra santa. Jihad. Il discorso alla nazione di Mohammad Morsi non lasciava margini all’ambiguità. Ribadendo l’inconciliabilità fra il suo diritto a terminare il proprio mandato e le proteste di piazza, sottolineando come queste ultime rispondessero alla volontà eversiva dei residuati del vecchio regime e qualificando come “antidemocratiche” le proteste di 20 milioni di egiziani legittimava di fatto l’uso della forza e una risposta violenta alla sollevazione. Alludeva al diritto delle fazioni islamiste a immolarsi sul sabilillah: la via di Dio.
PER QUESTO ieri pomeriggio a piazza Tahrir anche l’ultima opzione di negoziato con il raìs è stata definitivamente respinta. Se una transizione democratica avrebbe potuto garantire alla Fratellanza qualche margine di sopravvivenza all’interno dei futuri assetti politici, la dichiarazione di Morsi ha fatto saltare ogni argine: ora il popolo di Tahrir non solo ne chiede la deposizione ma la condanna in tribunale.
Le voci e gli slogan si susseguivano sulla piazza sempre più incandescenti. “Irhal”, vattene, ma anche, come al tempo della deposizione di Mubarak, “Batil, batil”, illegittimo, illegittimo. E poi “El shab iurid iskat el nitham”, il popolo vuole la caduta del regime. Gli stessi slogan, lo stesso popolo, le stesse rivendicazioni. Ma soprattutto la stessa speranza che aveva accompagnato il crollo del vecchio regime e risuonava ieri sulla piazza al grido di: “Al shaab wal gheish id wahda”, il popolo e l’esercito una mano sola.
Già, l’esercito. Il sociologo Tawfiq Aklimandos non ha dubbi: “Non ci sarà un colpo di Stato. L’esercito cercherà in tutti i modi di deporre Morsi ma solo per istituire un consiglio presidenziale e favorire elezioni anticipate”.
E tuttavia, su piazza Tahrir, la preoccupazione e il dubbio serpeggiavano un po’ ovunque. Ieri sera un fitto rincorrersi di ipotesi accompagnava l’attesa del comunicato dei militari. “L’esercito ha capito, non ci tradirà”, mi diceva Karim, uno studente di inegneria “L’Egitto non vuole né la Fratellanza né il regime militare. La giunta arginerà la vendetta degli islamisti e preserverà il paese dalla guerra civile”.
POI, FINALMENTE, in tarda serata, ecco il caschetto nero di El-Sisi affacciarsi dagli schermi delle televisioni. Il comunicato è preciso, inequivocabile, rassicurante. Nel bar dove mi ritiro a scrivere esplodono gli applausi. Le parole sospirate sono finalmente pronunciate: fine della presidenza Morsi, annullamento della Costituzione formulata dal raìs nel 2013, designazione del capo della Corte Costituzionale alla guida del paese fino alle prossime presidenziali, conferimento alla Corte Costituzionale dei poteri per definire la legge da applicare per lo svolgimento delle prossime elezioni parlamentari, creazione di un comitato per la formulazione della nuova Costituzione, di un comitato per favorire la pacificazione del paese e di uno per garantire la partecipazione dei giovani all’agone politico, esplicito richiamo a tutti gli egiziani ad abbandonare la violenza e chiara denuncia dell’ultimo discorso di Morsi come pregiudizievole per ogni possibile riconciliazione nazionale.
Ma soprattutto la promessa che l’esercito non intende entrare né mai entrerà nel gioco politico. L’Egitto esulta, con un’esplosione incontenibile di gioia, in un ripudio di fuochi d’artificio.
il Fatto 4.7.13
Il blogger Wael Abbas: “Opposizione manipolata”
di Roberta Zunini
“Il golpe era inevitabile”. La voce di Wael Abbas ha un tono più deluso che arrabbiato. “Sono stato incazzato fino all'inizio delle manifestazioni indette da Tamarod, ora sono triste. Alla fine i suoi leader si sono fatti manipolare dall'esercito e adesso siamo tornati al punto di partenza, pre rivoluzione, quando l'esercito e l'entourage di Mubarak tenevano in pugno il paese, spartendosi la torta degli aiuti internazionali attraverso mazzette e terrore”. Abbas è un intellettuale laico, laureato in scienze politiche e letteratura inglese. Nato 39 anni fa al Cairo, attraverso il suo blog ha guidato con Wael Ghonim di Google la rivoluzione di due anni fa contro Mubarak. Nel 2008, prima della rivoluzione tunisina che diede il via alla “primavera araba”, Wael Abbas rifiutò un invito da parte di George W. Bush, interessato a conoscere le analisi di uno degli attivisti e giornalisti più indipendenti del Medio Oriente: nel 2007 aveva vinto il premio dell'International Center per i giornalisti. Nel 2006 la Bbc lo aveva incluso nella lista delle persone più importanti del Medio Oriente. Dal 2005 è perseguitato dai regimi – Mubarak e quindi Morsi – per la sua costante denuncia della malversazione dilagante che gli valse il premio del comitato egiziano contro la corruzione. Il suo blog è stato chiuso più volte e lui ha subito vari processi per diffamazione ed eversione. “Tamarod non avrebbe dovuto chiedere il supporto dell'esercito che è sempre stato complice del regime di Mubarak, anzi, più che complice era la stessa cosa. I generali però sono stati ancora più scaltri di Mubarak e non appena avevano capito che i rivoluzionari di piazza Tahrir sarebbero andati fino in fondo, si sono messi dalla nostra parte. Ma nessuno glielo aveva chiesto. Ora invece Tamarod ha richiesto esplicitamente l’intervento dell’esercito che non vedeva l’ora di riprendersi il potere”.
Abbas non giudica il comportamento del popolo, impaurito e ulteriormente depauperato dall'incapacità gestionale e dall'avidità di potere della fratellanza musulmana di cui il presidente Morsi è il front man ma si scaglia contro l’opposizione riunita sotto l'ombrello del fronte di salvezza nazionale guidato da Mohammed El Baradei. “Quest'uomo non è mai stato un attivista, ha scelto di andarsene dall'Egitto per decenni allo scopo di far carriera”. Secondo il blogger l'esercito prenderà il potere per tenerselo perché nessuno sarà in grado di contrastarlo: “L’opposizione è debole, la fratellanza musulmana altrettanto. Anche se i suoi sostenitori sono pronti a ingaggiare una battaglia fino alla morte, sono destinati a perdere perché non hanno dalla loro parte gli altri partiti islamici, soprattutto i salafiti, visto che Morsi li ha esclusi dalla spartizione dopo le elezioni. Il loro obiettivo è vedere Morsi spodestato per tornare al più presto alle elezioni e aumentare il loro bacino di voti approfittando dello smacco subito dal presidente”.
La Stampa 4.7.13
Fra baionette e Corano l’arcipelago Egitto si ridisegna a Tahrir
Islamisti sgonfiati, laici incompiuti, guerrieri enigmatici
Chi sono e come sono cambiate le forze in campo
di Claudio Gallo
I Fratelli musulmani Al potere con Mohammed Morsi dopo 40 anni di opposizione a Sadat e Mubarak. In 12 mesi i consensi sono scesi dal 60 al 15%
Al Sissi e i militari Abdel Fattah al Sissi, capo delle Forze armate, è il nuovo uomo forte dell’Egitto. Ha saputo conquistare il consenso popolare non reprimendo le proteste e ha la fiducia degli Stati Uniti
El Baradei e i laici Grandi sconfitti alle elezioni del 2012 si sono compattati dietro all’ex candidato alle presidenziali
I Tamarod I «Guerrieri» nascono tre mesi fa Raggruppano i giovani e catalizzano a sorpresa tutta l’opposizione laica
I salafiti Il partito Al Nour di Younes Makhioun, a destra dei Fratelli musulmani, è rimasto spiazzato
Piazza Tahrir è un enorme polmone: si gonfia di folla nella prima rivolta, nella restaurazione militar-islamica si sgonfia, si espande all’inverosimile nella seconda ondata di proteste, adesso, contro Morsi: un respiro, due anni. Intorno a questa arena che tutti ormai riconosciamo a colpo d’occhio, dove i gladiatori della democrazia e della sharia si sono affrontati nell’ultima illusoria battaglia per il potere decisa da un giocatore fuori campo, si stende l’enorme metropoli di quasi 15 milioni di abitanti, in molti suoi recessi sideralmente ignara.
L’amletico generale Di tutti i protagonisti, il più amletico, il più tragico è il capo dell’esercito Abdel Fattah al Sissi, osannato dal 94 per cento degli egiziani, secondo l’agenzia americana Zogby. Di lui si può dire con Corto Maltese nella «Ballata del mare salato»: «uno il potere ce l’ha finché non è costretto ad esercitarlo», oppure, con Robert Springborg, studioso americano dell’esercito egiziano: «Il generale è ben in sella, ma non sa dove andare». Già, perché Al Sissi, volto giovane mascella volitiva, ha preso il posto dell’impresentabile generale Tantawi che guidò i militari (Il famoso Scaf, consiglio supremo delle forze armate) durante la transizione da Mubarak a Morsi, perché piaceva ai Fratelli Musulmani. Il giovane capo di stato maggiore non ha mai nascosto il suo retroterra islamico: il vecchio modello dei generali turchi custodi della laicità dopo un secolo si è dissolto in tutto il Medio Oriente. Il suo background era già evidente negli scritti e nelle dichiarazioni ai tempi della scuola di guerra dell’Us Army. Da quando comanda infatti, è praticamente caduto il bando agli islamisti nell’esercito.
Opzioni scadute Ha sfogliato la margherita golpe non golpe e alla fine ha ceduto alla tradizione della divisa, abbandonando i suoi sponsor barbuti. Ora ha un sacco di guai e dovrà cercare un compromesso. Perché l’esercito non può apertamente andare contro la (discussa) costituzione senza tagliare il ramo su cui sta seduto. La cosa farà infuriare gli americani che restano i principali alleati del paese, con quasi un miliardo e mezzo di aiuti militari ed economici l’anno. Inoltre, dopo l’esercito, i Fratelli Musulmani sono l’unica forza organizzata di un certo rilievo, e mandarli via dal potere a calci nel sedere potrebbe non essere una passeggiata, come quella di Nasser, quando nel 1954 li mise fuori legge.
Al Sisi non si fa neppure illusioni sull’appoggio, oggi trionfale, della piazza più o meno democratica. Ricorda come al secondo turno delle presidenziali i democratici votarono Morsi pur di non fare vincere il candidato dei militari Ahmed Shafiq. La piazza che applaude il golpe contro il presidente è pronta alla prima occasione a rivoltarsi contro il nuovo potere.
Consensi al 20 per cento I Fratelli musulmani, dopo l’incredibile congiuntura che li ha portati al potere, sono costretti fare i conti con la loro reale consistenza, prima della caduta di Mubarak intorno al 20 per cento (con un 10 per cento circa in aggiunta per gli ultrà salafiti). Poco amati, guardati con sospetto per alcuni accordi sottobanco con il potere, gli islamisti hanno capitalizzato la loro macchina organizzativa, oliata abbondantemente dai dollari del Golfo. All’indomani dell’assalto al loro quartier generale alcuni attivisti, che hanno fotografato gli archivi, giuravano sulle prove di ingenti finanziamenti dal Qatar: vedremo se i documenti usciranno sul web oppure se è l’ennesima voce infondata.
Paradossi democratici Un sondaggio di Zogby, per il periodo da aprile a maggio, mostra come la popolarità di Morsi sia scesa dal 57 al 28 per cento. Non bisogna pensare che gli egiziani si ammazzino in piazza Tahrir solo in nome di astrusi contenziosi tra la teologia sunnita e quella dei diritti umani: lo stato agonizzante dell’economia ha bruciato in fretta le aspettative sollevate dal nuovo capo dello stato che da salvatore si è trasformato in fretta in un vecchio islamista maneggione e inetto. In un’era in cui le decisioni popolari non contano più nulla, la democrazia ha preso rifugio nel momento simbolico delle urne: il paradosso egiziano è che oggi siano proprio i democratici ad applaudire i generali, dimenticando che Morsi è stato regolarmente eletto.
I guerrieri ballano sul filo I gruppi ribelli che stanno facendo surf sulle teste infinite di piazza Tahrir, sono un arcipelago diseguale e rissoso pronto alla rivoluzione del secolo oppure, più probabilmente, a sgonfiarsi come nel 2011. Due anni fa c’era Wael Ghonin, il Google-attivista, Lenin addomesticato delle cyber-rivolte, finito nella lista di «Time» delle 100 persone più influenti in occidente, secondo arabo più influente per Arabian Business. Dissoltosi nel nulla Ghonin, oggi c’è l’associazione Tamarod (Ribelle), nata da una costola della vecchia eterogenea coalizione anti-Mubarak Kefaya. Ha raccolto in breve tempo 22 milioni di firme contro Morsi. Tamarod non è dunque una novità assoluta, ma un grande contenitore dell’insoddisfazione di chi aveva creduto due anni fa in un Egitto più giusto e moderno. Il suo spontaneismo generoso che piace tanto se visto con gli occhi della Rete, rischia di essere, al di là delle adunate oceaniche, politicamente poco incisivo, come già il movimento del 2011. Una bella speranza fragile.
Nostalgici in agguato Non aiuta più di tanto la presenza nelle file della protesta di una figura apprezzata internazionalmente come l’ex capo dell’ente atomico Mohammad el Baradei che non è mai riuscito a conquistare il cuore della masse. Inutile poi negare che dentro il magma del movimento si nasconde un cuore nero: i fedelissimi di Mubarak non sono affatto scomparsi e non vedono l’ora di menare le mani.
Un generale golpista di malavoglia, un movimento islamico aggrappato al potere, una piazza senza guida, pericolosi nostalgici: girano i dadi in piazza Tahrir.
La Stampa 4.7.13
Le primavere fra ideali e povertà
di Maurizio Molinari
Il rovesciamento del presidente egiziano Mohammed Morsi da parte di generali e opposizione lascia intendere che il vento della Primavera araba sta cambiando direzione. Fino ad ora a prevalere, nelle urne e nelle piazze, erano stati i partiti islamici capaci di esprimere la volontà della maggioranza delle popolazioni in rivolta contro despoti ed autocrati ma al Cairo a fallire è proprio questo modello: il patto fra i Fratelli Musulmani, vincitori delle elezioni politiche, e l’esercito, custode dell’identità nazionale, non ha funzionato. Nel 2011 furono l’Emiro del Qatar, Sheikh Hamad bin Khalifa Al Thani, e il presidente turco Recep Tayyp Erdogan, a spingere l’America di Barack Obama a condividere la previsione che sarebbero stati i «partiti islamici moderati» a prevalere nelle Primavere arabe.
È un approccio che ha spinto a guardare con occhio diverso, e maggiore attenzione, a partiti e fazioni fondamentaliste solo in ragione delle loro vittorie nelle urne. Ma la previsione di Al Thani ed Erdogan non si è avverata al Cairo. E questo è avvenuto non per un rifiuto ideologico dell’Islam né perché i Fratelli Musulmani hanno tentato di imporre a ritmi accelerati su una società in gran parte liberale e laica modelli culturali fondamentalisti. Il fallimento di Mohammed Morsi ha origine altrove: nell’incapacità del suo governo di dare risposte, veloci ed efficaci, alla crisi economica che sta devastando la più popolosa, antica e orgogliosa nazione del mondo arabo. Ironia della sorte vuole che un partito islamico come i Fratelli Musulmani, con la stessa vocazione per il sostegno alle fasce più povere della popolazione che accomuna Hamas a Gaza e gli Hezbollah in Libano, una volta arrivato a governare l’Egitto non sia riuscito ad evitare un aumento della povertà rispetto agli ultimi anni dell’autocrazia di Hosni Mubarak. Le esitazioni sulla trattativa con il Fondo monetario internazionale per la concessione dei prestiti, l’incapacità di evitare la fuga degli investimenti stranieri da una gestione instabile del governo, il crollo inarrestabile delle riserve valutarie, la carenza di protezione nelle strade testimoniata dalle frequenti aggressioni contro le donne e l’incapacità di impedire alle tribù beduine di spadroneggiare nel Sinai hanno trasformato i 29 mesi passati dalla caduta di Mubarak in un vortice di povertà e insicurezze che ha allontanato i turisti stranieri, polverizzato le risorse nazionali e accresciuto gli stenti di una nazione abituata a guidare il mondo arabo. E’ la desolazione delle piramidi egizie la cartina tornasole del peggioramento della crisi egiziana che ha messo in luce i gravi limiti dell’azione dei governi dei Fratelli Musulmani.
Generata in Tunisia nel gennaio 2011 da proteste alimentari, continuata contro Mubarak e Gheddafi nella richiesta di migliori condizioni di vita, esplosa in Siria in opposizione allo strapotere economico della famiglia degli Assad, la Primavera araba continua a nutrirsi della necessità di milioni di famiglie arabe di emanciparsi dalla povertà e dal sottosviluppo come dell’aspirazione ad una vita migliore da parte delle nuove generazioni. L’interrogativo che resta senza risposta riguarda quali saranno i leader e le forze, politiche o religiose, arabe e musulmane, capaci di rispondere a tali istanze facendo prevalere la necessità concreta di premiare i bisogni delle famiglie sulle opposte ideologie che continuano a combattersi da Tangeri a Hormuz.
Corriere 4.7.13
il Golpe popolare
di Antonio Ferrari
Nel nostro immaginario, il termine «golpe» ha un significato sinistro. Racconta di un atto decisamente ostile alla libertà, alla democrazia, alla volontà del popolo. In Egitto, in queste ore drammatiche, è in pieno svolgimento un golpe: dolce, grigio, ma pur sempre golpe, con il presidente agli arresti domiciliari, con i carri armati per le strade, e con i soldati che circondano i centri nevralgici del Paese, per proteggerli dal rischio di una guerra civile.
Solo che questo non è un golpe tradizionale, non è un golpe contro il popolo. Potrà sembrare un ossimoro, ma quello che stiamo seguendo è un golpe popolare, auspicato dalla maggioranza del più grande Paese arabo, che sperava con la «primavera delle piramidi» di aver ritrovato la strada della libertà.
Nessuno può dire ora, qui, subito, che cosa vedremo alla fine di quest'incubo preannunciato da troppi segnali, molti dei quali assolutamente inascoltati. In realtà, nulla è casuale in questo luglio egiziano di ribellione e di follia, preparato però con lo scrupolo dell'appuntamento che non si può perdere: la decisione, macerata nel profondo ed espressa con la potenza di un boato, di mandare a casa un anno dopo l'uomo che, per palese inadeguatezza, è stato l'immagine di un totale fallimento: il presidente Mohammed Morsi. Il problema è che Morsi era stato scelto non per le sue qualità, ma per i difetti, e soprattutto per il suo tentennante atteggiamento. Capace insomma di obbedire agli ordini dei suoi sostenitori, la Fratellanza musulmana, di promettere al mondo fede assoluta nel pragmatismo, e in conclusione di diventare un ibrido, un Carneade inaffidabile.
La primavera egiziana era nata dal desiderio di pensionare il regime nazional-militare che da decenni governava l'Egitto, da Nasser a Mubarak. Un regime che aveva offerto stabilità in cambio della rottamazione dei diritti umani. Ma i giovani di piazza Tahrir, senza bandiere e con la sola energia del cuore, avevano ingenuamente sperato di cambiare tutto, e forse di dare l'assalto al cielo. La confusione, le divisioni, il desiderio di non sottoporsi ad una guida unificante, li hanno traditi. Alla fine sono andati all'incasso quelli che dalla rivolta popolare erano rimasti ai margini: gli avidi Fratelli musulmani. Pronti ad approfittarne, ma senza avere né la preparazione, né gli strumenti, per gestire una sfida titanica. Hanno inneggiato alla democrazia, coniugandola però con il ripristino di imposizioni religiose; hanno vellicato l'estremismo dei gruppi oltranzisti senza rinnegare l'amicizia con gli Stati Uniti, che aiutano l'Egitto con oltre un miliardo e mezzo di dollari all'anno soltanto per le spese militari; non hanno frenato l'antisemitismo, accettando però di confermare e difendere il trattato di pace con Israele; ma soprattutto non hanno garantito il necessario ad un popolo che non dispone delle risorse minime per sopravvivere dignitosamente.
Un grande leader politico avrebbe potuto inventarsi qualcosa, sbaragliando il fronte avversario con qualche scelta coraggiosa. Nulla. Morsi, presuntuosamente, ha pensato soltanto a sopravvivere, affidandosi ad un pigro provincialismo. Senza comprendere di essere al timone del primo Paese arabo, che è proprietario dei diritti su quel cordone ombelicale che collega due mondi — il canale di Suez —, che confina con Israele, che è la patria di una cultura millenaria a cui tutti noi dobbiamo qualcosa.
Gli Stati Uniti hanno seguito la crisi con la serenità di chi era informato e forse ha condiviso il passo che si stava compiendo. L’Unione Europea e in particolare l’Italia, che ha l’Egitto come dirimpettaio, seguono con apprensione quella scelta che probabilmente molti faticano a comprendere; l’affidarsi all’unica istituzione che il popolo egiziano percepisce come unita e credibile: le Forze armate.
Repubblica 4.7.13
Il guanto di ferro
di Bernardo Valli
I GENERALI hanno messo in riga la rissosa società politica egiziana. Un golpe? Ci assomiglia. Ma un golpe bianco perché se è stata impiegata la forza militare, l’obiettivo non sembra la presa del potere. Ritenendosi i depositari della sicurezza nazionale, i generali hanno promosso un’operazione che ha come fine di mettere attorno a un tavolo tutti i litigiosi avversari che paralizzano il paese con le loro dispute e la loro incapacità, e di costringerli a raggiungere un compromesso. Il generale Abdel Fattah el-Sissi, capo del Consiglio supremo delle Forze armate, si proporrebbe di ripristinare il processo democratico minato dall’inettitudine del presidente islamista, Mohammed Morsi, e dalle imponenti manifestazioni dell’opposizione che ne chiedevano le dimissioni.
Di fronte al paese paralizzato, in preda a una crisi economica devastante, e alla minaccia di una guerra civile, il generale Sissi ha usato la maniera forte. Ha adottato uno stile da caserma. Non previsto dalla Costituzione ma iscritto nella tradizione egiziana dal 1952, da quando i colonnelli cacciarono re Faruk e proclamarono la repubblica. Da allora la società militare usufruisce di diritti particolari. Non sempre nel quadro della legge. In questo caso con la giustificazione di uno stato d’emergenza nazionale.
Il generale Sissi ha circondato il palazzo presidenziale con i carri armati e ha imposto in pratica a Morsi gli arresti domiciliari. Più tardi gli hanno comunicato che non era più il presidente dell’Egitto. Al capo dello Stato eletto un anno fa a suffragio universale diretto e, stando ai risultati e alle accuse dell’opposizione, rivelatosi incapace di governare, è stato impedito di fuggire, vale a dire di sottrarsi ai negoziati con gli avversari. I militari hanno bloccato nei loro domicili anche la guida suprema della confraternita dei Fratelli musulmani, Mohammed Badie, e il suo vice Khairat el-Shater, e li avrebbero poi costretti a partecipare a una riunione con i membri dell’opposizione, in particolare con Mohammed el-Baradei, premio Nobel ed ex funzionario delle Nazioni Unite, e i rappresentanti delle comunità musulmane cristiane. Di fatto, dopo avere lanciato un ultimatum, i generali hanno preso per il colletto i rappresentanti politici, li hanno fatti sedere attorno a un tavolo e adesso li costringono a trattare e a trovare un compromesso.
Nell’attesa che questa brusca procedura dia dei risultati, i militari progettano di creare un governo provvisorio, formato da giudici della Corte costituzionale, e guidato da un generale. L’uomo del momento è il generale Abdel Fattah el-Sissi. Ha cinquantotto anni e ha fatto tutta la sua carriera nella gerarchia militare dominata da Hosni Mubarak, il rais destituito dopo la rivolta partita da piazza Tahrir nel 2011. I suoi superiori diretti erano gli anziani generali via via sostituiti alla testa delle Forze armate. Sissi è stato designato capo del Consiglio supremo quando è stato messo a riposo il generale Tatawi, legato al vecchio regime e riluttante a riconoscere i poteri presidenziali di Morsi, non solo un islamista ma anche un civile. Abdel Fattah el-Sissi ha invece accettato il nuovo potere dei Fratelli musulmani, ed è stato nominato ministro della Difesa. Di fatto era l’esponente delle Forze armate nel nuovo potere, a fianco del primo capo dello stato non in uniforme nella storia della Repubblica egiziana.
Il generale Sissi viene descritto come un ufficiale rigoroso, profondamente legato alla società militare egiziana e alle sue regole. È anche noto per la religiosità. Si è creduto a lungo che la rigida osservanza delle pratiche religiose fosse un segno della sua appartenenza alla confraternita dei Fratelli musulmani. Ma il sospetto non era fondato. Un’affiliazione del genere non era ammessa a un alto ufficiale. Il generale Sissi è considerato uno tra gli alti ufficiali più legati agli americani. Quando l’ex capo del Pentagono Leon Panetta visitò le forze armate egiziane lo indicò come un generale in cui gli Stati Uniti riponevano tutta la loro fiducia. Sissi è anche un fine diplomatico. Dopo i carri armati, dicono coloro che lo conoscono, userà i guanti e sfodererà sorrisi.
Repubblica 4.7.13
La rivoluzione senza lieto fine
di John LLoyd
IL CAIRO MARTEDÌ sera e ieri in Egitto sono state assassinate 23 persone, e si parla di almeno 100 aggressioni a donne. Omicidi e aggressioni hanno in comune una cosa: si sono verificati in una città dalla quale le forze di polizia si sono in buona parte ritirate.
Domenica, primo giorno di dimostrazioni, il Cairo era rimasto relativamente tranquillo. Aggirandomi in città avevo percepito quasi un’atmosfera di festa, talvolta collerica, ma più spesso allegra. Gli episodi di violenza erano stati relativamente contenuti. Ma le cose non potevano durare così. L’odio e la diffidenza che i sostenitori dei Fratelli musulmani provano per l’opposizione, la sensazione di ogni parte di essere stata tradita dall’altra, si sono intensificati, e nella calura dei giorni e delle notti del Cairo tutto ciò è sfociato in aperta violenza.
Non ci sarà un lieto fine per la “seconda rivoluzione egiziana”, come l’opposizione vorrebbe che la si chiamasse. L’esercito assumerà il controllo e potrebbe tenerlo finché non sarà redatta una Costituzione provvisoria e non saranno indette nuove elezioni. I Fratelli musulmani potrebbero acconsentire e controllare la violenza dei loro sostenitori. Le forze dell’opposizione potrebbero fare altrettanto. Tutti questi condizionali, nel momento in cui scrivo, sono inverosimili se messi su uno stesso piano con gli scontri. Sono tuttavia possibili. Eppure, anche se questi “potrebbero” si verificassero, anche se accadesse il meglio che può accadere, anche se la violenza venisse arginata, l’Egitto è destinato a precipitare in una spirale verso il basso.
Sul versante dei Fratelli musulmani c’è la convinzione che l’opposizione voglia esautorarli della legittima vittoria elettorale di un anno fa. La Fratellanza, con la sua Costituzione, ha cercato di applicare la Sharia. Con decenni di semiclandestinità alle spalle, la Fratellanza non è incline al compromesso democratico.
L’esercito, il cui potere fa affidamento anche sul controllo di circa un quarto dell’economia, ha sempre insistito per avere autonomia dal governo e dal ramo giudiziario. I generali sono troppo sicuri del loro potere per fare qualcosa di più che gesti populisti nei confronti delle forze politiche, inclusa l’opposizione che al momento vorrebbe vederli come salvatori.
Sul versante dell’opposizione, c’è il convincimento, altrettanto adamantino, che i Fratelli musulmani intendessero a tal punto cambiare lo Stato e la società che le varie ragioni che essi rappresentano — l’Islam moderato, il liberalismo, il socialismo, il nazionalismo laico — non riuscirebbero più ad avere l’occasione di governare. Considera l’esperienza dell’anno appena trascorso una giustificazione assoluta per spazzare via dal potere i Fratelli musulmani, anche se resterebbero loro tre anni di mandato elettorale.
Perciò, l’accordo che si raggiungerà o meno nei prossimi giorni sarà compromesso dalla mancanza di consapevolezza che tutti devono trovare il modo di convivere. Una vera civiltà non può essere campata per aria, né la si trova scendendo in strada, ma è il frutto di una società determinata a vivere in pace e di forze capaci di elevarsi al di sopra di interessi individuali. L’Egitto al momento non dispone di questo. La sua unica speranza è quella di maturare tutto ciò, e di farlo rapidamente.
(Traduzione di Anna Bissanti)
La Stampa 4.7.13
Egitto. Il dramma degli stupri
In piazza cordone umano per difendere le donne
Uno scudo di centinaia di uomini protegge le donne egiziane in piazza Tahrir dai possibili tentativi di violenza
La reazione dopo la denuncia di molte organizzazioni
di Francesca Paci
91 casi di violenza. Dal 28 giugno scorso Human Right Watch ha calcolato una crescita esponenziale degli abusi nei confronti delle donne"
23 in un solo giorno. Il giorno peggiore è stato il 2 luglio, in cui si è registrato un numero impressionante di stupri
Nei giorni che hanno preceduto e seguito l’oceanica manifestazione di domenica in Egitto, i ragazzi del movimento Tamarod hanno continuamente sottolineato la partecipazione di mogli, figlie e sorelle, per prendere le distanze dalle aggressioni sessuali che nei due anni successivi alla rivoluzione del 2011 hanno regalato al Cairo l’infame primato di capitale araba delle molestie sessuali, dove la metà delle interpellate dichiara di subirne quotidianamente.
Il cordone di protezione intorno alle manifestanti nella nuovamente «liberata» Tahrir racconta il retroscena di una protesta piena di ombre nonostante i riflettori internazionali. Secondo le organizzazioni a tutela delle donne infatti, mentre la piazza simbolo della rivoluzione lanciava l’estrema sfida a Morsi, nei vicoli circostanti ci sarebbero stati oltre cento casi di violenze a partire da quello ai danni della reporter olandese tornata a casa sotto shock sabato notte. Tanto che lunedì, lanciando l’ultimatum al presidente, gli attivisti di Tamarod avevano illuminato con lampade d’emergenza la via Mohammed Mahmoud, quella famosa per i graffiti contro il regime ma anche, tristemente, per il ripetersi di aggressioni sessuali.
Human Rights Watch parla di almeno 91 casi di aggressione dal 28 giugno, alcuni dei quali finiti in stupro, sulla base di informazioni raccolte dalle associazioni locali. Cinque aggressioni si sono verificate il 28 Giugno, ben 46 domenica 30 giugno, giorno di massicce manifestazioni, ancora 17 il 1 luglio e 23 il 2 luglio.
«Il cordone è un’iniziativa giusta di cui voglio ringraziare gli uomini e i ragazzi che si curano, se non dell’emancipazione, quantomeno del benessere della donna» commenta la giornalista Hania Moheeb che ha subito a sua volta violenza il 25 gennaio scorso, secondo anniversario della rivoluzione contro Mubarak, ma anche giorno nero per l’altra metà del cielo, con almeno venti casi di gravi molestie sessuali. Hania, diversamente da molte connazionali, ha potuto contare sul sostegno del marito Sharif che si è presentato accanto a lei in tv per puntare l’indice contro gli aggressori anziché, come costume locale, contro le vittime.
«Dobbiamo ancora battere la mentalità terribile di uomini cresciuti con la convinzione di poter trattare la donna come un oggetto e non come essere umano» chiosa Hania. Cambiare le leggi non è sufficiente, i cambiamenti culturali sono lenti e tortuosi.
Corriere 4.7.13
Uguaglianza tra uomini e donne, le astuzie della via francese
di Stefano Montefiori
Certo la parità tra uomo e donna non si può imporre dall'alto, un decreto non riuscirà a ottenere la fine delle ingiustizie... Però aiuta. Ieri Najat Vallaud-Belkacem, portavoce del governo francese e ministro per i Diritti delle donne, ha presentato il suo piano di lotta contro le diseguaglianze. Partendo, intanto, dalla fotografia della società francese.
In media ogni donna dedica 4 ore e 1 minuto al giorno — l'uomo 2 ore e 13 minuti — ai lavori domestici. Tra questi aspirapolvere, cucina, stirare e spesa: 3h01 per le donne, 1h17 per gli uomini. Le donne guadagnano il 27 per cento in meno, sono poco rappresentate in politica (27 deputate, 14 sindache, 22 senatrici su 100) e nelle aziende: solo il 12 per cento dei capi sono donne. Le ragazze rappresentano il 70 per cento degli studenti in scienze umane e meno del 30 per cento di quelli in materie scientifiche: non certo perché le ragazze siano più portate per la letteratura, come per il lavoro a maglia, il pianoforte o i centrini di pizzo; anzi, di solito al liceo le femmine sono studentesse migliori dei maschi anche in matematica, solo che tradizioni secolari e magari qualche pressione famigliare le spingono poi verso facoltà meno impegnative (in Francia la distinzione è piuttosto netta) e meno promettenti.
Sotto l'impulso di Najat Vallaud-Belkacem il governo francese ha deciso di non abbandonarsi alla fatalità: accanto a misure più controverse, come l'avvio di asili sperimentali dove spariranno le distinzioni di genere (niente giochi da bambina o da bambino, bambole e macchinine per tutti), il nuovo piano per la parità prevede il raddoppio del congedo parentale, ma solo se sarà il padre a prendere gli ulteriori sei mesi (oggi solo 3 padri su 100 usano questo istituto); poi una garanzia dello Stato sugli alimenti negati dopo il divorzio, estensione delle quote rosa nelle aziende e nei partiti politici.
«È il momento di una terza tappa nei diritti delle donne», dice «NVB»: dopo il voto alla Liberazione e le conquiste sociali e economiche degli anni Settanta, l'obiettivo oggi è l'uguaglianza reale.
Repubblica 4.7.13
Sei mesi di aspettativa per i padri: è la riforma presentata dalla ministra trentacinquenne Vallaud-Belkacem Il pacchetto prevede inoltre incentivi per le imprese. Ma l’assegno mensile resta basso: meno di 600 euro
Congedo anche per i papà ecco la parità alla francese
di Anais Ginori
PARIGI Il cambio culturale ci sarà davvero quando, durante un colloquio di lavoro, un candidato si sentirà chiedere: «E lei pensa di avere figli?». L’imbarazzante domanda viene posta di solito alle donne perché, si sa, sono soprattutto loro ad assentarsi per la nascita di un bambino. La Francia del baby-boom non fa eccezione: le donne rappresentano il 96% delle domande di congedo parentale. Solo il 4% delle richieste riguardano i padri. «È questo squilibrio che crea poi, a cascata, le diseguaglianze nel mondo del lavoro e nella divisione dei compiti domestici» spiega la ministra delle Opportunità Najat Vallaud-Belkacem, beniamina del governo, ha appena 35 anni, e promotrice di una riforma destinata a trasformare, forse, la società francese.
Ieri il governo ha infatti approvato un pacchetto di misure che comprende una rivoluzione del congedo parentale. Agli uomini spetteranno per legge 6 mesi di paternità (oggi solo uno), sui tre anni autorizzati per ogni coppia, con assegno garantito dallo Stato. Contrariamente al passato, il periodo che spetta all’uomo non potrà essere scambiato con l’altro genitore. E per quelle famiglie che si adegueranno alla riforma è prevista una corsia preferenziale nell’accesso agli asili nido. D’altra parte, l’esecutivo vuole spingere le aziende a favorire la paternità. Molti dipendenti vorrebbero assentarsi per accudire i propri figli ma sentono ancora uno “stigma” nell’ambiente di lavoro rispetto alle donne. Il governo ha studiato una serie di incentivi per le imprese, tra cui un trattamento privilegiato nell’assegnazione degli appalti pubblici. Insomma, più che un invito sembra un ultimatum. Papà, state a casa. «Non c’è più tempo da perdere, dobbiamo imprimere una svolta» dice Vallaud-Belkacem che infatti ha inserito la nuova legge sul congedo parentale dentro a un pacchetto più ampio dedicato alla parità “donna-uomo” (e non il contrario). Sulla carta, sono tutte buone intenzioni: dalla prevenzione della violenza domestica fino al pagamento degli alimenti per le madri separate, dalla lotta agli stereotipi fino allo spazio concesso alle gare di squadre femminili. Certo, la giornata scelta per l’annuncio non è stata delle migliori. Proprio in queste ore François Hollande è accusato di sessismo. Il Presidente ha cacciato senza tanti convenevoli l’incauta ministra dell’Ambiente, Delphine Batho, colpevole di aver criticato l’austerity. Alcuni commentatori hanno sottolineato come Hollande fosse stato più clemente con altri ministri, altrettanto insolenti. Inoltre, l’uscita di Batho, sostituitada Philippe Martin, ha rotto la tanto sbandierata parità nell’esecutivo tra donne e uomini.
Ma al di là delle polemiche politiche, contano i fatti. E le misure approvate ieri potranno cambiare in meglio la vita di molte francesi. «Le diseguaglianze sono ovunque» sostiene la ministra delle Pari Opportunità. E aggiunge: «Il testo non riguarda solo il mio ministero ma coinvolge anche quello della Giustizia, dell’Interno, della Salute. Contiene campi inediti, finora inesplorati dal legislatore». Certo, non mancano le critiche. L’assegno versato per la paternità non è stato aumentato: è di soli 572 euro al mese. Molte associazioni denunciano la mancanza di coraggio nell’imporre le quote rosa al 50% nei consigli di amministrazione, oppure misure più drastiche per combattere la differenza salariale tra uomini e donne (ferma al 27%). Ma tutti riconoscono importanti passi avanti. Lo Stato si farà per esempio carico degli alimenti non pagati dagli ex mariti: un fenomeno in crescita con la crisi e che impoverisce le madri sole con figli. Saranno velocizzate le procedure per la denuncia di violenze domestiche e le vittime potranno chiedere in casa un allarme collegato con una centrale di polizia. Il governo ha raddoppiato la multa per i partiti che non rispettano la parità nelle liste elettorali, mentre saranno aumentati i programmi nelle scuole per lottare contro gli ste-reotipi di genere. Un’altra proposta contenuta nella riforma sta già facendo discutere. L’esecutivo ha chiesto alle televisioni di programmare in modo equilibrato le gare sportive disputate da squadre femminili. Non importa che le donne vincano o perdano: anche loro hanno diritto a un momento di gloria.
Repubblica 4.7.13
L’intervista
“Un’esperienza straordinaria ma il reddito è una barriera”
Sergio Cofferati rinunciò a ricandidarsi a sindaco per stare col figlio
di Paolo G. Brera
Sergio Cofferati, europarlamentare e storico leader della Cgil, lasciò tutti di stucco rinunciando a ricandidarsi a sindaco di Bologna per restare accanto a suo figlio.
Lo rifarebbe?
«Certo. È un’esperienza straordinaria, importante per il bimbo ma ancor più per il padre: è un percorso formativo reciproco, non dovremmo mai rinunciare. Non sono stato vicino al mio primo figlio, Simone, e sono contento di averlo fatto, almeno in parte, con Edoardo: mi sono reso conto di cosa ho perso allora».
Non tutti possono permetterselo: il 30% di stipendio e solo i primi sei mesi...
«È chiaro che il vero incentivo è il reddito, le condizioni materiali delle famiglie incoraggiano una scelta piuttosto che un’altra. In un’economia familiare in cui lo stipendio del marito è più alto di quello della moglie, l’esercizio paritario del diritto è difficile. I diritti sono fondamentali, ma bisogna creare le condizioni perché siano davvero di tutti».
Lei usò la legge sul congedo?
«No. Quando è nato Edoardo, Raffaella era a Genova e io ero sindaco di Bologna. Abbiamo vissuto insieme a Bologna per il primo anno del bimbo, poi ho rinunciato alla candidatura per il secondo mandato: era finito il periodo di congedo per Raffaella e il pendolarismo era complicato, il sindaco nel fine settimana ha più impegni che in settimana. Il lavoro da parlamentare Ue mi consente di stare molto più vicino al bambino: si lavora dal lunedì al giovedì».
La legge italiana è fatta bene?
«Siamo tra i Paesi che hanno la normativa migliore, e abbiamo aiutato molto la scrittura della direttiva Ue».
La Stampa 4.7.13
“Gramsci, una scatola di attrezzi utili per chi vive nel Bronx”
L’artista Thomas Hirschhorn in un angolo degradato di New York ha realizzato il suo monumento al politico italiano. Ecco perché
di Francesco Bonami
«Fare arte politicamente significa essere un guerriero ma significa anche lavorare per gli altri»
«Voglio realizzare una nuova idea di monumento, qualcosa che provochi incontri, che crei eventi»
«Il mio motto come artista è “Energia: Si! Qualità : No!”. L’Energia è qualcosa che posso condividere»
Una parte del monumento ad Antonio Gramsci che Thomas Hirschhorn ha realizzato a New York con la collaborazione degli abitanti del Bronx Chi è Thomas Hirschhorn (foto sopra) è uno dei maggiori artisti svizzeri contemporanei. Ha 56 anni, ha partecipato a Documenta nel 2002, alla Biennale di Venezia 2011 In Italia ha realizzato varie installazioni per la Galleria Artiaco di Napoli
In un mondo dell’arte dominato dalle aste e dalle mega gallerie, con opere di ex graffitari defunti come Jean Michel Basquiat che vengono vendute per decine di milioni di dollari, con una Biennale di Venezia che fa l’occhiolino agli artisti «outsider», quelli tipo Antonio Ligabue per intendersi, mescolandoli con gli «insider», tipo Richard Serra diciamo, ecco che lo svizzero con il nome da battaglia di Thomas Hirschhorn autore d’installazioni, spazi, luoghi di aggregazione simili a baracche da bidonville o favelas brasiliane, appare come il vero outsider, ultimo superstite di un arte sociale che ha come obbiettivo quello di cambiare non tanto la storia dell’arte ma l’arte della storia e quella della vita. Invitato dal coraggioso e visionario direttore della DIA Foundation di New York, il francese Philippe Vergne, è andato in giro a visitare 46 delle 334 case popolari della città alla ricerca del luogo ideale dove costruire il Monumento a Gramsci.
Alla fine ha scelto Forest Houses un complesso urbano nel South Bronx che fino a qualche hanno fa aveva un tasso di criminalità altissimo, oggi è un po’ meglio. Così trovato il luogo Hirschhorn si è trasferito lì con moglie e bambino iniziando a lavorare con la gente del quartiere alla costruzione della sua idea di monumento. «Un monumento precario, un monumento a tempo determinato» ci racconta scamiciato e dinoccolato con occhiali che lo fanno sembra un fumetto degli Anni 60. Di monumenti ne aveva già costruiti altri tre. Uno ad Amsterdam nel 1999 dedicato a Spinoza. Uno nel 2000 ad Avignone in onore di Gilles Deleuze. Uno a Kassel nel 2002 per celebrare Georges Battaille. «Ho dedicato monumenti a questi filosofi perché sono dei pensatori che danno confidenza alla nostra capacità di riflessione, danno forza al nostro pensiero, ci stimolano ad essere attivi. Mi piace l’idea del pensiero a tempo pieno, mi piace la filosofia».
Quello a Gramsci sarà l’ultimo. Chi si aspetta il monumento classico, la scultura di Gramsci con un libro in mano seduto magari su uno sgabello rimarrà sorpreso. I monumenti di Hirschhorn non celebrano la memoria, il passato o la morte ma la vita. Sono una specie di Pop up store, luoghi che appaiono per qualche mese e poi scompaiono, consegnando la propria storia ai racconti orali, alle esperienze, agli aneddoti, alle delusioni magari di chi il monumento non lo ha solo ammirato ma lo ha anche vissuto, come ha fatto e continuerà a fare la gente del quartiere che Gramsci non lo avevano probabilmente mai sentito nominare.
Ma perché un monumento a Gramsci nel Bronx e non a Torino o in Sardegna ?
«Io no scelgo mai un contesto che ha qualcosa a che fare con il filosofo in questione. Cerco luoghi che in qualche possano essere “universali”. Forest Houses è per me un posto universale nel senso che contiene la realtà, la bellezza, la complessità, il caos e le contraddizioni dei nostri giorni»
Perché proprio Gramsci e cosa significa per la gente del Bronx ?
«Perché i suoi testi sono una scatola di attrezzi che ancora oggi tutti possono usare per confrontarsi con la realtà. Perché ha scritto che l’Arte è interessante di per sé e che soddisfa una delle tante necessità della vita. Perché ha scritto che l’unico entusiamo giustificabile è quello che accompagna le attività e le iniziative intelligenti e concrete che possono cambiare la realtà dove viviamo. Perché leggendo i suoi scritti è estremamente incoraggiante. Un incoraggiamento che può essere condiviso da tutti nel mondo e quindi anche qui a Forest House».
A lei interessa più il concetto di «energia» che quello di «qualità» come mai?
«Il mio motto come artista è “Energia: Si! Qualità: No! ”. L’Energia è qualcosa che posso condividere ed è qualcosa di universale. È quello che serve per tutte le nostre attività, per il nostro pensiero. Il termine energia è un termine positivo perché include gli altri, va aldilà di buono e cattivo, aldilà della cultura, della politica e delle nostre abitudini estetiche. Sono contro l’idea di Qualità dovunque compreso nell’arte naturalmente. La Qualità è il riflesso incondizionato del lusso che ti tiene a distanza da tutto ciò che non è di qualità. L’idea di qualità è un tentativo di stabilire sempre una scala di valori fra ciò che è di alta qualità e ciò che è di bassa qualità. La qualità esclude sempre qualcuno o qualcosa, l’energia no».
Lei citando il regista Godard ha detto di non fare arte politica ma di produrre arte politicamente. Che cosa significa ?
«Certo ma mi ci vorrà un po’ (quello che segue è un estratto della risposta che per motivi di spazio non abbiamo potuto usare nda). Fare arte politicamente significa prendere un rischio, avere piacere nel lavorare, essere positivi che vuol dire anche saper affrontare il lato negativo delle cose e della realtà. Significa anche prendere una decisione, rischiare un affermazione, prendere una posizione che va aldilà della semplice critica. Significa anche lavorare per gli altri. Fare arte politicamente non significa stare con o contro il mercato ma significa capire che il mercato fa parte della realtà dell’artista nella quale deve lavorare. Fare arte politicamente significa essere un guerriero».
Come vede il suo lavoro in un mondo dell’arte che sembra essere cosi diverso dal suo mondo?
«Io vivo nel mondo, nel nostro unico mondo quello che io chiamo “One World”»
A quali artisti si sente vicino oggi ?
«A Christoph Marthaler » (regista teatrale svizzero nda) Quando il suo monumento sarà smantellato cosa spera che rimarrà a tutta questa gente che lei ha coinvolto con tanta intensità «Spero che sarà stato capace di creare una memoria. La mia missione è stata quella di creare una nuova idea di monumento, qualcosa che provochi incontri, che crei eventi e che ci faccia pensare a Gramsci oggi» Crede che sia possibile essere ancora rivoluzionari attraverso l’arte ?
Quanto un visitatore deve essere preparato per capire il suo lavoro ?
«Nessuno visitatore ha bisogno di una preparazione per fare l’esperienza del mio lavoro, ma in generale di ogni opera d’arte. L’arte può, proprio perché è arte, aprire un dialogo e un confronto diretto con chiunque, direttamente».
A Torino Gramsci fu molto coinvolto nel lavoro di educazione ed emancipazione dei lavoratori. Lei sente di avere nel mondo dell’arte un ruolo simile, coinvolgendo in modo cosi diretto la gente mentre costruisce le sue opere?
«Mi piace molto lavorare sul campo insieme ad altre persone. Ma alla fine mi sento sempre lo stesso Thomas Hirshhorn in quello che lei definisce “mondo dell’arte” come nel mondo “esterno”».
I progetti della Dia Art Foundation JeanPhilippe Vergne
La Dia Art Foundation è stata fondata nel 1974 da Philippa de Menil e Heiner Friedrich è ha come missione quella di sostenere e mantenere progetti permanenti o difficilmente realizzabile di artisti internazionali. Fra i progetti più famosi il Lighting Field di Walter De Maria nel deserto del New Mexico o sempre di De Maria il broken kilometer in uno spazio di West Broadway. Ha una sede a Beacon sull’Hudson River dove ruota la propria collezione e nei prossimi anni costruirà una nuova sede a Chelsea a Manhattan.È diretta attualmente dal curatore francese Jean-Philippe Vergne
Corriere 4.7.13
Un male necessario chiamato vittoria
«Può far cessare una minaccia, difendere la libertà, ma non dare la felicità»
di Claudio Magris
Si racconta che Wellington, percorrendo la sera a cavallo il campo di Waterloo cosparso di cadaveri, dicesse che «dopo una battaglia perduta, la cosa più orribile è una battaglia vinta». Questa frase del vincitore di Napoleone ci fa sentire con forza come, in tanti o forse nella maggior parte dei casi, la vittoria può e deve essere sperata, perseguita e ove possibile ottenuta, ma non può essere mai amata. La vittoria, più che un bene, appare come un male necessario, come un male minore rispetto a mali più grandi che deriverebbero dalla sconfitta.
Una vittoria, in certi casi, può far cessare una minaccia di distruzione, porre fine a una barbarie, difendere la libertà, ma non può mai dare la felicità. Quando la Seconda guerra mondiale si conclude, grazie a Dio, con la disfatta del Terzo Reich, è ovvio il senso di liberazione, di festa che prova l'umanità. Ma, proprio in quel momento, Elias Canetti — che non solo in quanto ebreo ma in quanto uomo appassionato difensore di ogni palpito di vita umana ha tutte le ragioni per salutare con la più grande partecipazione quella liberazione — sottolinea l'esigenza di «entwerten den Sieg», di svalutare la vittoria; di non farne un idolo, di non inebriarsene, perché nell'ebbrezza di vittoria, non a caso così coltivata e messa in scena da tutti i regimi totalitari, egli vede la seduzione e la tentazione di ciò che per lui è il Male per eccellenza, il Potere, l'istinto di dominare gli altri, piegarli, umiliarli e distruggerli; la perversa strategia di sopravvivere agli altri.
La Vittoria sembra spesso accompagnata da un'aura di malinconia; nel carro di trionfo che porta il vincitore tra le ali festanti del popolo c'è sempre un presagio di caducità, di gloria mista al dolore e non solo per la vista dei prigionieri vinti in catene che, come nei trionfi celebrati nell'antichità, seguono il carro vittorioso. Naturalmente non soltanto le pacchiane dittature e le società totalitarie e belliciste hanno celebrato con enfasi la vittoria, spesso promettendola vanamente come una preda a portata di mano e conducendo in tal modo i loro popoli alla sconfitta, come quando Mussolini esaltava gli otto milioni di baionette. Anche grandi civiltà hanno celebrato la vittoria: le odi di Pindaro per i vincitori dei giochi olimpici dell'antica Grecia creano, con la loro potenza poetica, un'aura autenticamente divina intorno agli atleti che conseguono l'alloro. Ma la civiltà greca non è solo Pindaro; è anche Aristofane, che su quei celesti allori olimpici getta l'ombra — più che l'ombra, una feroce dissacrazione, uno smascheramento — di imbrogli e pastette, di giochi truccati, non troppo dissimili dalla corruzione odierna trionfante nello sport e non solo nello sport. Il dio che guida come auriga il cocchio dell'eroe può essere spesso il dio danaro.
Del resto, per quel che riguarda il rapporto tra la vittoria e la guerra, il più grande libro che sia mai stato scritto — e che probabilmente continuerà a esserlo sempre — sulla guerra, l'Iliade, racconta una guerra vittoriosa per i greci, popolo cui appartiene l'autore (o l'autrice, o gli autori) di quel capolavoro. Nell'Iliade la guerra e la vittoria stessa sono certo una celebrazione del valore, ma sono pure un grande lutto, una manifestazione di morte più che di vita e questo vale per tutti, per i vincitori come per i vinti. Non solo chi racconta la guerra e la vittoria, ma spesso anche chi la fa e la produce rivela questa simbiosi di valore, necessità e volontà di vincere e malinconia di vincere. Non a caso tanta letteratura vicina alla vita militare rivela questo senso di profonda malinconia che nasce proprio dalla vita militare — ossia dalla preparazione alla guerra e alla vittoria, almeno perseguita. Guerra e vittoria si accompagnano a un sentimento malinconico della vita. Pochi hanno fatto sentire la dignità, la grandezza e l'oscurità della vita militare come Alfred de Vigny, che non vuole certo demistificare l'esercito, ma che — proprio vivendo a fondo la triste necessità della sua disciplina, del suo sacrificio, del destino egualmente terribile di uccidere e morire — è uno dei più forti scrittori che evochino la guerra e anche la vittoria con un alone di grande tristezza. (...)
Forse l'unico modo di essere vincitori è saper accettare la propria sconfitta, le proprie sconfitte, pur continuando a combatterle senza compiacersi di esse. Non c'è nulla di più pericoloso che ritenersi vincitori. Manes Sperber, uno scrittore austriaco che proveniva dall'ebraismo galiziano, che fu da giovane rivoluzionario comunista e poi uno dei primi implacabili accusatori degli orrori staliniani, diceva che chi si ritiene vincitore, chi ritiene di essere in una stabile e sicura relazione con la vittoria, diviene facilmente un «cocu de la victoire», un cornuto della vittoria stessa.
«Le Conversazioni» con Adam Johnson ed Elizabeth Strout
Anticipiamo qui a lato i contenuti dell'intervento che Claudio Magris leggerà dopodomani, alle ore 19, a Capri, nell'ambito della rassegna «Le Conversazioni».
«Vincitori e vinti» è il tema di questa ottava edizione de «Le Conversazioni», incontri ideati da Antonio Monda e Davide Azzolini, con i protagonisti della letteratura internazionale. Gli incontri si svolgono a Capri nello spazio antistante l'hotel Punta Tragara. «Le Conversazioni» di quest'anno sono state inaugurate il 28 giugno da Michael Chabon.
«Per chi ha una concezione immanente dell'esistenza la vittoria e la sconfitta tendono ad assumere un valore assoluto — così spiega il tema Antonio Monda —. Mentre per chi ha una concezione trascendente il valore diviene relativo, e nei casi di persone dalla fede profonda, può diventare perfino irrilevante».
I prossimi appuntamenti de «Le Conversazioni» sono domani, alle 19, con Adam Johnson, vincitore del Premio Pulitzer 2013 per la narrativa con il romanzo «Il signore degli orfani» (Marsilio) e Elizabeth Strout, premio Pulitzer nel 2009 e finalista nel 2000 all'Orange Prize. Dopodomani, sabato, sarà la volta di Claudio Magris, mentre domenica l'appuntamento conclusivo sarà affidato a Michael Ondaatje, poeta e scrittore nato nello Sri Lanka già vincitore del Booker Prize.
l’Unità 4.7.13
Ma quale utopia!
Torna in libreria «Noi» fantascienza dall’Urss
Il romanzo scritto nel 1920 Evgenij Zamjatin è stato ritradotto da Voland: una critica dei totalitarismi e del pensiero unico, prima del Grande Fratello
di Jolanda Bufalini
QUANDO SONO INIZIATI I CLICK PER LE ESPULSIONI ON LINE DEI DISSIDENTI M5S, sono andata a prendere, da uno scaffale alto della libreria, il vecchio grosso volume pubblicato negli Anni Ottanta dagli Editori Riuniti, Noi della Galassia, che raccoglie romanzi e racconti di fantascienza sovietici, il primo è My, («Noi»), di Evgenij Zamjatin, romanzo precursore della letteratura anti-utopica, strumento affilato della critica dei totalitarismi nati dalla lodevole intenzione di offrire alla comunità umana una formula di felicità. È stato, quindi, con piacere che abbiamo scoperto che la casa editrice Voland, seguendo lo stesso filo di pensiero, ha scelto di concludere proprio con una nuova traduzione di Noi, la serie di «Sirin classica», di cui il capolavoro di Zamjatin è il numero 10 (pagine 282, euro 10,00).
È vero che nell’epoca del pensiero unico (di pensieri unici non comunicanti fra loro) l’incubo di Zamjatin potrebbe attagliarsi ad altri ambiti e non solo allo streaming grillesco.
Scrive nella postfazione il traduttore Alessandro Niero: «In tempi di internet l’invasività dei mezzi di controllo preconizzata dallo scrittore nel 1919-1920 rimane o torna prepotentemente attuale, specie se si coniuga con la lobotomia non dirò televisiva ma più genericamente da schermo a cui tutti, chi più chi meno, siamo sottoposti»... «Noi conserva intatto il suo fascino di ritratto “futuribile” anche qualora lo si svincoli dal contesto che gli era più prossimo della neonata società comunista e lo si riallacci a istanze fantascientifiche, a noi relativamente vicine».
Al traduttore è toccata una fatica improba perché la lingua di Zamjatin, tutta dentro la tempesta sperimentale degli Anni Venti, è aguzza e sincopata e lui «più propenso alla sottrazione che all’aggiunta, all’implicito più che all’esplicito, in ciò aiutato dal russo che consente di recuperare in sinteticità e addensamento ciò che l'italiano tende a distendere e dispiegare».
Noi è un romanzo visivo più che di parola, la musica essendo uno zumzum meccanico, un ticchettio di orologi, un rombare di aeromobili, è un claustrofobico sogno di trasparenze, poiché la casa di vetro, la vita organizzata, l’amore codificato e sottomesso al benessere generale sono i principi su cui poggia l’idea della società felice finalmente liberata dalla libertà.
La precoce critica (il Grande Fratello orwelliano è del 1924, quando già i totalitarismi del Novecento avevano avuto modo di dispiegarsi) di ciò che si andava costruendo nella società post rivoluzionaria, si accompagna con la diffidenza verso le potenzialità della scienza e della possente rivoluzione tecnologica, sicché il lettore precipita, leggendo dentro un quadro di Leger, dentro un futurismo algido e azzurro di cieli senza una nuvola. E il primo segno dell'irruzione dell’irrazionale, della v-1, si manifesta come la penombra delle palpebre-tende di I-330, la fascinosa e sfuggente corruttrice che penetra come un veleno nel convinto costruttore dello Stato Unico, dell’Integrale che conquisterà l’universo.
La costruzione del mondo parallelo di Zamjatin è quasi perfetta, nel senso che nel racconto del mondo nuovo, felice perché privo ormai da secoli della libertà, che ha interiorizzato il limite come condizione fondamentale per estromettere il caos selvaggio della natura, il linguaggio non fa ricorso al noto per inventare ambienti, luoghi, percorsi, archeologia, insieme alle caratteristiche fisiche dei protagonisti, il poeta con la nuca a cassetta, la spia, il custode, con il corpo S e il passo ciabattante.
Solo di rado, come un sassolino per Pollicino, fanno capolino le idee dell’autore, come nella meditazione dell’appunto 11: «Gli antichi sapevano che lassù dimorava il loro scettico più grande, annoiato: Dio. Noi sappiamo che lassù dimora il nulla azzurro cristallino, nudo, indecente. Adesso io non so cosa ci sia lassù: ho appreso troppe cose. La conoscenza assolutamente persuasa della propria infallibilità è una fede»
Repubblica 4.7.13
Verità nascoste
Todorov: “Se il capolavoro nasce in un clima di terrore”
Da Bulgakov a Pasternak, a Vasilij Grossman i grandi romanzi sovietici scritti in segreto
di Tzvetan Todorov
I regimi totalitari che hanno proliferato in Europa nel corso del XX secolo hanno impedito ai loro popoli di cercare da soli la verità: quella relativa alla società in cui vivevano, quella nascosta nell’intimo di ognuno o anche quella riguardante il mondo fisico circostante. Al posto della libera e autonoma ricerca della verità, vigeva la docile sottomissione ai diktat del Partito al potere.
Vittime di un tale sistema coercitivo, gli artisti e gli scrittori sudditi degli Stati totalitari sono stati costretti a scegliere tra linee di condotta diverse. Alcuni hanno sposato il dogma ufficiale, come se esso corrispondesse alle loro più profonde convinzioni in materia di verità e di giustizia. Altri hanno optato per il silenzio, ossia hanno rinunciato a qualunque tipo di libera espressione, vale a dire alla loro vocazione primaria. Altri ancora hanno scelto l’esilio (...). In ultimo, un gruppo relativamente poco numeroso di scrittori e di artisti si è adoperato a percorrere una strada diversa, quella che consiste nel vivere una doppia vita: un’esistenza pubblica conforme agli obblighi ufficiali, e un’altra del tutto privata, interiore, nascosta, votata alla produzione di un’opera libera da ogni condizionamento esterno. È un tipo di sdoppiamento che si è verificato perlopiù in Unione Sovietica. Ci sono tre famosi romanzi sovietici che sono stati scritti in queste condizioni: Il Maestro e Margheritadi Michail Bulgakov, Il Dottor Zivagodi Boris Pasternak, Vita e destino di Vasilij Grossman. Tutti e tre gli scrittori nominati ammettono la possibilità che della loro opera venga vietata la pubblicazione, o quella di essere puniti per l’audacia dimostrata nel dedicarvi la propria vita; eppure tutti e tre procedono instancabilmente nella sua stesura. Bulgakov concepisce l’idea del proprio romanzo intorno al 1928, scrive una prima versione frammentaria e ne dà subito lettura a un gruppo di amici — tra i quali, secondo una legge statistica dell’Urss, è presente almeno un delatore. E infatti nello stesso 1928 un rapporto dettagliato sulle reazioni degli ascoltatori alla lettura di Bulgakov approda negli uffici della polizia politica: i presenti si sono resi conto all’istante che il libro è impubblicabile in quella forma, e che gli attacchi contro la società contemporanea in esso contenuti sono troppo brutali.
Dopo aver terminato una prima versione, Bulgakov la fa avere alla moglie con la seguente annotazione:«Mettila nel comò, dove già riposano in pace le mie commedie assassinate ». Tuttavia non manca di aggiungere: «In ogni caso non conosciamo il futuro che ci aspetta». E continua a correggere il romanzo fino alla morte, avvenuta nel 1940. Ventisei anni dopo, nel 1966-1967, le sue speranze si realizzano. La vedova — la quale avrebbe dichiarato: «Pur di far pubblicare i libri di Misha mi sarei concessa a chiunque» — riesce a vincere le resistenze e a far uscireIl Maestro e Margherita, sia pure con qualche taglio, nella stessa Unione Sovietica. Il libro è talmente in contrasto con tutte le pubblicazioni ufficiali che l’effetto è esplosivo: scrivendo in segreto, senza mirare alla pubblicazione immediata, lo scrittore ha prodotto un’opera più vera di tutte quelle dei colleghi.
Pasternak sogna di scrivere un’opera in prosa dedicata alla storia della sua generazione, quella degli anni precedenti la Seconda guerra mondiale, ma solo all’indomani della vittoria sul nazismo e della presa di coscienza che tale trionfo non sta arrecando alcun miglioramento alle condizioni di vita della popolazione sovietica, s’impegna nella realizzazione del progetto che gli sta a cuore. Ancor più di Bulgakov, sul cui destino non ha mancato di riflettere, è consapevole di dover scegliere tra due obiettivi: cercare la verità in piena solitudine o proporsi di raggiungere il pubblico del suo tempo. «Devo rinunciare a una parte della mia identità, se intendo realizzare qualcosa di autentico», scrive alla ex moglie, facendole capire che, se vuole sentirsi libero, il prezzo da pagare è quello. E aggiunge: «Per la prima volta in vita mia ho voglia di scrivere qualcosa divero» — il che equivale a tenerlo nascosto. È una decisione che procura a Pasternak uno stato di beatitudine della durata di dieci anni, dal 1945 al 1955, in pratica il decennio della stesura del romanzo.
Dopo aver rinunciato alla propria personalità pubblica, Pasternak ha la sensazione di coincidere pienamente con se stesso, sa dove si trova la verità e quale ruolo gli sta riservando il destino. La morte di Stalin, nel 1953, il timido processo di destalinizzazione inaugurato da Kruscev scuotono un poco la sua decisione, ma non al punto da farlo desistere dall’impresa. «Il mio romanzo non può essere accettato per come è ora», scrive a un amico, e aggiunge: «Eppure deve essere stampato così com’è: inaccettabile». Sappiamo com’è andata: il clima di “disgelo” gli fa ritenere che la pubblicazione sia diventata in qualche modo possibile e manda il manoscritto a una rivista, mentre il corrispondente italiano dell’Unità a Mosca, Sergio d’Angelo, lo convince a prestargliene una copia. La rivista sovietica rifiuta di pubblicarlo e Pasternak deve arrendersi all’evidenza: criticare il dogma ufficiale è inaccettabile e il divieto durerà finché durerà la dittatura del proletariato imposta dal comunismo. Nel frattempo d’Angelo ha spedito il manoscritto a Feltrinelli, che lo pubblica in italiano nel 1957. E l’anno successivo l’autore riceve il premio Nobel per la Letteratura. (...) Grossman ha deciso di raccontare l’epopea di Stalingrado e della guerra condotta dai sovietici contro l’esercito tedesco nel momento stesso in cui hanno luogo le battaglie, che segue da vicino in qualità di corrispondente militare. Si mette al lavoro fin dal 1945, ma deve ben presto prendere atto che le autorità intendono scomporre in due il suo progetto. Un primo volume, intitolatoPer una giusta causa, è portato a termine nel 1949 e viene proposto al direttore di un rivista. Dopo molti tira e molla sarà pubblicato nel 1952, e immediatamente attaccato dalla stampa ufficiale. Nel frattempo Grossman ha iniziato la stesura del secondo volume dell’opera, quello che si chiamerà Vita e destino.
Ne ha rivelato l’esistenza e il contenuto solo a pochi amici intimi. Conclude il romanzo nel 1960 e, come Pasternak, s’illude che l’antistalinismo di Kruscev possa renderne possibile la pubblicazione. Il redattore capo della rivista alla quale spedisce il ma-noscritto si spaventa a tal punto per quello che sta leggendo da avere l’impressione di esserne contaminato; per evitarlo lo mette subito nelle mani della polizia politica. La quale, poco dopo, fa irruzione in casa dello scrittore, confisca tutte le copie del manoscritto di cui dispone e non risparmia neppure la macchina per scrivere (...).
Grossman non viene destinato al gulag, come sarebbe accaduto sotto la dittatura di Stalin. Un amico intimo dichiara: «Si tratta dell’arresto dell’anima senza il corpo — ma che cos’è mai un corpo senz’anima?» Le autorità si accontentano di convocarlo e di annunciargli che un’eventuale pubblicazione del suo libro sarebbe più nociva al regime di una bomba atomica (il più grosso complimento mai rivolto a un libro); potrà essere pubblicato, ma non prima di 250 anni! Perprudenza, Grossman ha nascosto altre due copie del libro in casa di amici fidati. Dopo la sua morte (nel 1964), uno di loro decide di spedire il manoscritto all’estero, impresa che, in assenza di strumenti elettronici — e anche di fotocopiatrici — presuppone l’attivazione di una vera e propria rete di solidarietà. Il romanzo esce in Occidente nel 1980, in Urss nel 1988, ventotto anni dopo il suo compimento.
Tutti e tre i romanzi nominati, ognuno dei quali ha qualità e difetti di differente natura, sono stati scritti in piena libertà di coscienza, con la speranza pur fuggevole di una loro pubblicazione, ma anche con la ferma decisione dei loro autori di non scendere a patti, in caso di rifiuto. (...) Nel mondo della creazione artistica l’illusione della libertà atrofizza la ricerca personale; e le catene visibili diventano, per i più audaci, uno stimolo a impegnarsi nella ricerca della verità. Sta a noi trovare un mezzo meno doloroso di quello sperimentato dagli artisti del passato, per scuotere quell’illusione.
(Traduzione di Sergio Arecco)
Repubblica 4.7.13
Non è la guerra che fa la storia
Il saggio di Anna Bravo: l’analisi degli sforzi compiuti per evitare i conflitti
di Guido Crainz
«Il sangue risparmiato fa storia come il sangue versato»: nell’introduzione de La conta dei salvati (Laterza, pagg. 246, euro 16) Anna Bravo dichiara bene la ragion d’essere del libro, una ricognizione non delle guerre ma degli sforzi compiuti per evitarle o per contenerne gli effetti devastanti (“Dalla Grande guerra al Tibet, storie di sangue risparmiato”, per citare il sottotitolo). Un rovesciamento dichiarato, in altri termini, di quella «mutilazione della storia» che fa delle guerre «qualcosa di simile ai buchi neri del cosmo che attirano, assorbono, inghiottono tutto quel che gli sta intorno»: fanno scomparire, ad esempio, l’intenso lavorio volto a evitarle o a ritardarle. In questo modo, osserva la Bravo, la gerarchia dei temi di ricerca viene quasi a fornire una veste parascientifica alla visione del mondo che fa della guerra la dimensione normaledella storia.
È un viaggio affascinante e non privo di rischi, quello della Bravo, e si muove fra questioni differenti ed eterogenee. Non manca naturalmente l’esperienza di Gandhi («il padre del sangue risparmiato, indiano e britannico »), con la lettura della non violenza come approdo. E altre pagine sono dedicate all’azione delle diplomazie internazionali nei decenni che precedono la prima guerra mondiale, con il progressivo perdere d’efficacia delle strategie di dissuasione e contenimento. Vanno poi letti insieme, pur nella loro grande diversità, i due capitoli che riguardano differenti forme dell’agire «senz’armi controHitler» nella seconda guerra mondiale. In riferimento all’Italia sono ripresi temi che la Bravo stessa ha contribuito ad imporre, in polemica con il privilegiamento quasi esclusivo della Resistenza armata. In realtà proprio le molteplici forme di «resistenza civile» fanno comprendere una più ampia coralità dell’opposizione al fascismo e al nazismo: dalla protezione agli sbandati dell’8 settembre («il popolo italiano difendeva il suo esercito, visto che si era dimenticato di difendersi da sé», per dirla con Luigi Meneghello) sino all’aiuto, denso di rischi, a migliaia di ex prigionieri alleati o agli ebrei.
L’analisi si estende poi alle forme di resistenza non armata in Europa, sulla scia di un pionieristico lavoro di diversi anni fa di Jacques Sémelin. E si misura in modo diretto con l’esperienza della Danimarca: analizza cioè i modi con cui vengono utilizzati gli spazi che il nazismo lascia nominalmente alle istituzioni danesi fino al ‘43, dopo un’invasione che la Danimarca ha subito senza combattere. Viene analizzata dunque un’opposizione non militare che ha differenti forme e culmina con il salvataggio di massa degli ebrei: quasi una anticipazione di quel che oggi chiamiamo «interposizione non violenta » contro i massacri di civili, osserva la Bravo. Impossibile anch’essa, naturalmente, se la guerra contro il nazismo non fosse stata dichiarata e combattuta dagli Alleati, ma non per questo meno degna di riflessione e studio.
I nodi sottesi a queste pagine ritornano poi nell’analisi della resistenza non violenta nel Kossovo degli anni novanta. Al centro vi è qui la figura di Ibrahim Rugova, con la ricerca di una via che escludesse l’uso delle armi e vedesse all’opera anche uno Stato parallelo: sino al momento in cui, stritolata dagli eventi, essa apparve quasi subalterna a Milosevic, di fatto una rinuncia all’autodifesa. Gli stessi nodi ritornano infine quando lo sguardo si sposta al Tibet del Dalai Lama: realtà remota e anomala, certo, ma capace di riproporre in altre forme gli stessi «chiaroscuri della storia ». Le stesse, intricate e talora irrisolte questioni su cui il libro propone riflessioni non scontate.
IL SAGGIO La conta dei salvati di Anna Bravo Laterza pagg. 246 euro 16