mercoledì 23 agosto 2017

La Stampa 23.8.17
La polvere di Amatrice che torna
di Mattia Feltri


Le mani dei vigili del fuoco sanguinano. Sanguinavano anche 364 giorni fa ad Amatrice. Sanguinavano nel 2012 in Emilia e nel 1997 ad Assisi. Un anno fa un’intera famiglia era morta sotto il crollo del campanile di Accumuli. Lunedì sera una donna è morta colpita dalle macerie di Santa Maria del Suffragio di Casamicciola. «Esprimiamo vicinanza alle popolazioni», dicono dai palazzi romani e da quelli di Napoli. «Esprimiamo vicinanza alle popolazioni», dicevano la mattina del 24 agosto del 2016, mentre la polvere ancora si depositava sui morti e sui vivi, e da sotto i calcinacci si sentivano le sveglie suonare all’ora prestabilita.
Le voci potremmo sovrapporle, quelle dei sindaci, delle telefonate di disperazione, dei pompieri esausti, dell’orgoglio e del cordoglio. Sono ventuno milioni gli italiani che vivono in aree a rischio sismico, «è l’allarme lanciato da Gilberto Pambianchi, presidente dei geomorfologi italiani», dicono oggi le cronache. «Il quaranta per cento degli italiani vive in zone a rischio sismico», aveva detto il sottosegretario Silvia Barbieri nel ’97 dopo il terremoto dell’Umbria. «Lancia l’allarme», diceva l’Ansa. «Sono ventuno milioni e mezzo gli italiani che vivono in zone a rischio sismico», spiegava l’agosto scorso il Consiglio nazionale degli ingegneri.
Lanciava l’allarme. Ieri il presidente nazionale dei geologi, Francesco Peduto, ha fatto il punto: «Ora sarebbe facile parlare dei ritardi della ricostruzione in Italia centrale, della necessità di accelerare interventi e azioni, ma quello che lascia più interdetti è la mancanza di atti concreti per la prevenzione. Siamo andati in Parlamento, abbiamo parlato di tutto, dal fascicolo del fabbricato al rifinanziamento della carta geologica, ma in un anno non si è fatto niente, assolutamente niente».
Una differenza c’è: tre bambini di Ischia si sono salvati in modi definiti miracolosi e commoventi. Di Amatrice si ricordano due bambini, di nove e sette anni, tirati fuori morti e la mamma ferita non voleva partire senza di loro, glieli misero a fianco e quando l’ambulanza arrivò in ospedale era morta anche lei. E poi c’è l’abusivismo. Più della metà delle case della Campania sono abusive. Ci sono sempre piccoli e medi leader del Pd, del Pdl, dei cinque stelle, di formazioni tattiche e occasionali, che vanno lì e dicono «no alle ruspe». Lo chiamano abusivismo di necessità. Nel 2012, per difendere le loro case abusive, gli abitanti di Ischia tirarono bombe carta sui poliziotti e ne ferirono undici. Ad Amatrice, calcola Legambiente, è ancora da raccogliere il 91 per cento delle macerie. Non si tirano su le case che si devono tirare su, non si tirano giù le case che si devono tirare giù. L’ex presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ieri ha detto che «dobbiamo correre di più su Casa Italia». È il progetto di messa in sicurezza delle abitazioni dei ventuno milioni di italiani residenti in zone sismiche, almeno dodici milioni di case vecchie o abusive o mal costruite. Costo, da 40 ai 90 miliardi di euro. Per ora sono partiti cantieri per 25 milioni, il prezzo di un buon centrocampista.

il manifesto 23.8.17
Vigili del Fuoco. La Fp Cgil denuncia: vigili del fuoco in emergenza continua, dal governo solo propaganda
«Per noi è stato un anno devastante. Dal sisma di Amatrice a quello Norcia, passando per Rigopiano fino alla vera emergenza nazionale degli incendi. Guadagniamo 1.350 euro al mese. Siamo 28.500 e dovremmo essere 40mila. Il governo annuncia 400 assunzioni ma dovevano essere 569 ed entreranno in servizio a giugno 2018»
di Massimo Franchi


«Per noi è stato un anno devastante». C’è fatica anche nelle parole. Dal 24 agosto il corpo dei vigili del fuoco ha lavorato in pratica senza sosta, spostandosi da un’emergenza all’altra. «Quando sai che il tuo lavoro è salvare persone nella solita corsa contro il tempo, lo fai a testa bassa senza pensare ai problemi che vivi quotidianamente».
La parola «eroi», spesso abusata quando si salvano bambini come ieri a Ischia, fa il paio con «il dimenticatoio in cui rientriamo quando le luci delle televisioni si spengono e torniamo ad avere a che fare con carenze di organico e mezzi».
Parlano così i 100 vigili Usar («Urban search and rescue») specializzati nella localizzazione delle persone arrivati già martedì notte a Ischia dalla Toscana e dal Lazio. Alcuni erano ad Amatrice e nel centro Italia a settembre e ottobre, rimanendo a scavare tra le macerie per settimane. Qualcuno lo abbiamo ritrovato quest’inverno a scavare nella neve che aveva sommerso l’hotel Rigopiano. I numeri forniti dalla stessa amministrazione parlano chiaro: nel 2016 gli interventi sono stati 45mila contro i 24mila dell’anno precedente, praticamente raddoppiati. Ma il 2017 rischia di essere dello stesso tenore. «Abbiamo dovuto affrontare l’emergenza più grande: quella estiva degli incendi che colpisce regioni intere». E qui il raffronto con il 2016 propone quasi il triplo di interventi: circa 21mila, sempre nel periodo giugno-luglio, rispetto ai 7.300 registrati nello stesso periodo del 2016.
In quei giorni la parola riposo è abolita. «Ma la differenza la fanno sempre le scelte politiche», spiega Mauro Giulianella, responsabile nazionale della Fp Cgil.
Ieri ad esempio il governo ha sorpreso tutti dichiarando immediatamente lo stato di emergenza. «E ha fatto bene nonostante il territorio colpito sia limitato ad un quartiere di una piccola isola», commenta Giulianella, «anche se avrebbe dovuto farlo a maggior ragione per gli incendi». La decisione per i Vigili del fuoco «fa tutta la differenza del mondo». «Con lo Stato di emergenza noi possiamo richiamare più uomini, possiamo alternarci e riposarci, ci viene riconosciuto lo straordinario contrattuale», spiega Giulianella, «mentre senza lo stato di emergenza siamo chiamati ai doppi turni senza riposo perché non possiamo richiamare altri uomini». A rimetterci dunque sono stati soprattutto i boschi colpiti dai piromani. «Lunghe settimane in cui ogni regione ha dovuto arrangiarsi come poteva: la Basilicata ad esempio non aveva abbastanza organico e non ha potuto chiedere uomini in più perché tutte le altre regioni limitrofe avevano lo stesso problema. E il tutto senza il lavoro di prevenzione della Forestale assorbita ora dai Carabinieri», denuncia Giulianella.
Proprio ad inizio agosto è arrivato però l’annuncio della ministra Marianna Madia: 2.739 assunzioni straordinarie di cui 400 nei vigili del fuoco.
La versione della Fp Cgil e degli altri sindacati è un po’ diversa. Il corpo dei vigili del Fuoco conta ora 28.500 unità. «Ne servirebbero circa 40mila per poter lavorare correttamente, ma rimaniano alla stima di 3.500 unità sotto organico. Ebbene, all’inizio dell’anno ci erano stati promessi 23 milioni di fondi per 569 assunzioni, poi calati a 11,6 milioni che dopo le nostre proteste con Minniti sono saliti a 16 milioni», denuncia Giulianella, «ora però le assunzioni sono 400 e non tengono conto dei 331 che andranno semplicemente a sostituire chi va in pensione, col cosiddetto turn over. In più le assunzioni sono annunciate ora ma il personale entrerà in servizio solo a giugno prossimo perché il corso da sei mesi obbligatorio per formare il personale partirà solo a dicembre».
Il tutto per uno stipendio base di 1.350 euro con il contratto bloccato dal 2009. E il sentirsi chiamati «eroi» qualche giorno l’anno non può bastare.

Corriere 23.8.17
La potenza degli abusi
di Gian Antonio Stella


«Sulla scheda elettorale scrivi: “voto abusivo!”» Era davvero osceno lo slogan d’un manifesto affisso sui muri di Ischia per le Regionali del 2010. A quegli scriteriati autori, che il terremoto del 1883 fosse stato così catastrofico da spingere decenni dopo il grande Eduardo a inserire in «Natale a casa Cupiello» la famosa battuta «Ccà mme pare Casamicciola!» non importava tanto. E nella scia di Totò e della sua stralunata adunanza («Abusivi di tutto il mondo unitevi! Ci vogliono abolire! È un abuso! Abusivi: diciamo no all’abuso!») il Comitato per il diritto alla casa di Ischia e Procida, con sede appunto a Casamicciola, stampò quell’appello le cui parole, rilette oggi, gelano il sangue: «La politica dominante è morta! Dopo sessant’anni di coma vegetativo, ne danno il triste annuncio i cittadini “abusivi” tutti. Le esequie si terranno in forma privata presso i seggi elettorali…» Una protesta alla quale sarebbe seguito, per anni e anni, un tormentone di invocazioni e minacce, minacce e invocazioni perché fossero concesse nuove sanatorie, nuove deroghe, nuove interpretazioni di vecchi condoni.
Con una parte del peggior ceto politico napoletano e campano pronto a presentare nuovi progetti di legge per mettere una toppa ad abusi compiuti non solo a dispetto delle regole legislative ma del buon senso.
Il terremoto del 28 luglio 1883, come spiegano Emanuela Guidoboni e Gianluca Valensise nel volume «Il peso economico e sociale dei disastri sismici...», fu infatti un ammonimento impossibile da dimenticare: «Colpì con effetti distruttivi un’area molto limitata, corrispondente alla parte nord-occidentale dell’isola di Ischia, causando però un numero elevatissimo di vittime: complessivamente 2.333 persone. Di queste 625 erano turisti che al momento del terremoto (era la fine di luglio, in piena stagione estiva) si trovavano ospiti degli alberghi e delle ville nei centri più colpiti. (...) Casamicciola fu il centro più colpito: all’epoca aveva circa 4.300 abitanti ed era un rinomato centro balneare e termale. Il terremoto distrusse completamente la parte alta del paese e causò danni ingenti e crolli anche sul litorale. Dei 672 fabbricati esistenti, 537 crollarono e i restanti risultarono tutti inagibili». Il 79,9 per cento del patrimonio edilizio.
Colpa della natura? Solo in parte. Lo aveva già spiegato oltre un secolo prima Jean-Jacques Rousseau scrivendo del terremoto di Lisbona del 1755: «Dopotutto non è la natura che ha ammucchiato là ventimila case...». E prima ancora, nel ’500, Francesco Guicciardini: «Sono adunque gli errori di chi governa quasi sempre causa delle ruine della città; e se una città si governassi sempre bene, sarìa possibile che la fussi perpetua, o almeno avrebbe vita più lunga...».
Ha spiegato il vulcanologo Giuseppe Luongo, autore del libro «Ischia: storia di un’isola vulcanica» (1987), che la durissima lezione inferta a Casamicciola fu rimossa piuttosto in fretta: «Tutti i rioni baraccati si sono via via trasformati in quartieri in muratura. Senza alcun criterio». Reazioni della magistratura: inchieste a raffica. Reazioni della politica locale: insofferenza. Se non addirittura complicità. Due dati: alla vigilia del condono del 2003 il numero delle demolizioni eseguite sull’isola a partire dal 1988 risultavano essere 22. Ventidue! Su 2.922 ordinate dal giudice con sentenza esecutiva. Lo 0,75%. Tra mille lagne di troppi sindaci, assessori, galli e galletti della politica locale: «Si tratta di abusi di necessità!».
Sempre in quegli anni, gli ambientalisti denunciavano 26.000 abusi su 62.000 abitanti. Uno per famiglia. Certo, non parliamo di case illecite dalle fondamenta (quando ci sono) al tetto. Gli abusi sono spesso definiti «minori». Fatto sta che, dice nel 2017 l’ultimo rapporto di Legambiente, i cantieri fuorilegge hanno continuato a lavorare, lavorare, lavorare. Al punto che le richieste di condono sono salite a 27.000.
«Hanno costruito in prossimità di scarpate, di zone sismiche, di zone franose», si è sfogato per anni il giudice Aldo De Chiara, tenace nemico dell’abusivismo sull’isola. Eppure «c’è una coalizione di destra e sinistra contro le demolizioni. Io, magistrato indipendente, devo chiedere al sindaco di accendere un mutuo alla Cassa depositi e prestiti. Non so se è chiaro: devo passare attraverso il sindaco che magari ha fatto la campagna elettorale promettendo di non abbattere». Consapevolezza del pericolo: zero. «Evidentemente sperano nel buon Dio...». O nel cornetto di corallo portafortuna che il sindaco Luigi de Magistris vuole erigere grande e maestoso a testimoniare dell’approccio napoletano nei confronti dei rischi.
E guai a parlarne. Lo ricorda amaro un vulcanologo («niente nomi su questo punto, per favore») che pochi anni fa tentò di parlare della fragilità sismica e idrogeologica dell’isola proprio lì, a Ischia. Fu costretto ad abbandonare: «Hiiiii! Vogliamo portare jella?». Amarezze che capitano spesso, a chi cerca di spiegare le cose «prima». Finché arriva il momento in cui gli ignari vengono percossi dalla domanda che il geologo Annibale Mottana pose tempo fa all’Accademia dei Lincei, alla presenza del Presidente Giorgio Napolitano: «E voi, dove eravate?».

La Stampa 23.8.17
Case sommerse, ville salvate
Il doppio volto di Casamicciola che lotta per non cadere più
Dalla marina alla collina, due paesi diversi Abitazioni sicure per chi può, fatiscenti per gli altri
di Francesco Grignetti


In alto, le rovine, i morti e i feriti, le distruzioni. In basso tutto nella norma, con i turisti tranquilli, e le case senza un graffio. Casamicciola è divisa in due. E la faglia che li divide è innanzitutto quella di chi la casa se l’è fatta senza badare a spese e chi invece, perché soldi non ne ha, o perchè manca di consapevolezza, abitava in case fatiscenti che sono venute giù sotto una scossa oggettivamente non così grave. Due isole che convivono, come convivono le due Italie. Quella dei sommersi e quella dei salvati. Quella dei poveri e quella dei ricchi.
Partendo dalla marina, dove ci sono i bar di lusso, e i negozi belli, fiore all’occhiello di un turismo danaroso, apparentemente tutto è a posto. «Sa’ - si sfoga sulla porta del suo negozio di ferramenta il signor Michele Pisani - là in alto c’è la casa dove abita mia sorella, che costruì mio padre trent’anni fa. Tutto in regola, anzi di più. Quando il Genio civile gli disse che doveva fare le fondamenta di 80 centimetri, lui volle farle di 1 metro perché non voleva rischiare. È tutta in cemento armato, con i ferri ben incatenati. E ha retto a perfezione. Mia sorella ieri notte aveva paura, ma poi alla fine ha visto che la casa non aveva una crepa. Accanto ci sono quelle che sono crollate. E la colpa è di chi ha fatto costruire in fretta e male. Gli dicevano: voi fate, basta che edificate in tre giorni, poi metteremo le carte a posto. Il risultato è che le carte non sono andate affatto a posto e quelle case sono fatte malissimo».
Risalendo per la collina, su via Principessa Margherita, una reliquia del tempo che fu, visto che ricorda l’epoca in cui Margherita di Savoia non era ancora regina, s’incontrano villette ottocentesche. E su questa via l’energia sismica si è scatenata più che altrove. La anziana signora Rosa, con il pudore dei suoi ottant’anni, siede composta sulla strada. «Aspetto i vigili del fuoco che mi dicano qualcosa». E intanto osserva una casa che è palesemente lesionata in maniera irrimediabile. Accanto c’è il villino Iaccarino, dove ci sono delle suore che tengono un asilo infantile. Lesionato drammaticamente anche quello. Le monache aspettano anche loro il sopralluogo. «Almeno per prendere qualche vestito».
Ma pochi metri ancora, e tra tante case con crolli più o meno evidenti, si erge perfetto un villino a due piani. L’intonaco bianchissimo tradisce lavori recenti. Il proprietario, il signor Michele Caserta, «geometra, prego», si gode il viavai dal terrazzino con aria intimamente soddisfatta. «I lavori di ristrutturazione li ho fatti come si deve: rinforzo dei pilastri e dei solai, intonaco nuovo con rete plastificata, io per la mia casa non volevo certo rischiare». Eppure un’altra casa del geometra Caserta, anzi di sua moglie, è venuta giù di botto ed è un miracolo che non ci siano rimasti i figli e il nipotino. «Noi i lavori li volevamo fare pure lì. Ma il proprietario dell’appartamento al primo piano si è sempre opposto. E guarda che guaio. Siccome non si è fatto male nessuno, oggi siamo contenti così». E non la pensa in questo modo solo lui. Francesco Conte, falegname, un figlio con laurea in architettura, sono 8 anni che ha una casa in sospeso: «Noi il progetto del Genio civile per ristrutturare l’abbiamo presentato ed è approvato. Tutto antisismico con il cemento armato al punto giusto. Il guaio è la Soprintendenza che non dà il permesso e vorrebbe che costruissimo con le pietre come si faceva nell’Ottocento. Ma non siamo matti; meglio stare fermi».
Le due città si specchiano una nell’altra e sembrano parlare due lingue diverse. In mezzo c’è un sindaco, Giovan Battista Castagna, eletto con una lista civica, che s’infurentisce al primo accenno di polemica sulle case abusive. «Qui l’abusivismo non c’entra niente. Siete dei criminali voi giornalisti a scriverlo. Offendete il popolo di Casamicciola», esordisce. Rabbioso. Ma poi spiega: «Sono venute giù le case più antiche, quelle vetuste, costruite dopo il terremoto del 1883. Vai a sapere secondo quali norme. È venuta giù anche la chiesa che era stata ricostruita in quel posto. Il problema è tutto lì». Sì, ma non negherà che quella è zona super-sismica e tanti sono gli abusi edilizi. «E che c’entra? Anche a New York, se uno vuole aprire una finestra in casa sua, o mettere un balcone, lo può fare, basta che segua le norme tecniche». Esatto, proprio come a New York.

Repubblica 23.8.17
“Siete voi il partito delle sanatorie” Scontro grillini-Pd
Anzaldi a Di Maio: volevi il condono I cinquestelle: mai nei nostri piani
di Tommaso Ciriaco


ROMA. Adesso che la terra trema e le case crollano, l’abusivismo «di necessità» diventa una bandiera da nascondere, sperando che nessuno se ne accorga. Ci fosse un grillino che rivendichi questo slogan ad effetto, forgiato durante settimane di campagna elettorale siciliana e difeso pubblicamente da Luigi Di Maio. Un approccio non troppo distante da quel progetto dei cinquestelle di Ischia che nel 2013 — denuncia il renziano Michele Anzaldi — immaginarono un “ravvedimento operoso” per chi proprio sull’Isola aveva costruito fuori dalle regole.
Sia chiaro, neanche ventiquattr’ore e il nuovo sisma è già al centro di una battaglia tutta politica tra Pd e Movimento. «Sciacallo!», l’accusa, «no, sciacallo tu!». Un braccio di ferro tutto mediatico che chiama in causa anche il peso massimo dem Vincenzo De Luca. Dai Verdi ai cinquestelle, se la prendono tutti con il recente regolamento edilizio voluto dal governatore campano. «Un mega condono», si sgolano i pentastellati. «Ritira questa legge — si arrabbia l’ambientalista Angelo Bonelli — perché ferma le demolizioni anche nelle aree vincolate, bocciata dal governo grazie ai nostri ricorsi».
De Luca adesso promette demolizioni di massa e nega qualsiasi collegamento tra il suo regolamento e i crolli. E i cinquestelle? Se tre indizi fanno una prova, allora hanno un problema. Colpa di una campagna on the road che ha spinto il candidato governatore in Sicilia, Giancarlo Cancelleri, a smarrirsi nei distinguo. C’è un abusivismo «non tollerabile» e uno «di necessità», ripete, uno che «insiste in zone di inedificabilità assoluta» e uno frutto del fatto che «l’Iacp non ha dato l’abitazione a chi ne aveva bisogno ». E Di Maio? Il delfino si è lanciato a capofitto in difesa del suo uomo: «Polemiche incomprensibili — ha scandito a
Repubblica — Ciò che la magistratura dice di abbattere, si butta giù. Ma Giancarlo ha anche detto che non puoi voltare le spalle a quei cittadini che oggi si ritrovano con una casa abusiva a causa di una politica che per anni non ha fatto il suo dovere, cioè piano casa e piani di zona». Ma non basta, perché i dem rinfacciano anche il “caso Bagheria”, dove sempre Cancelleri aveva rivendicato: «Il nostro sindaco non sta buttando giù le case della povera gente», a meno che «non insistono nei 150 metri o nelle zone di inedificabilità assoluta».
C’è abusivismo e abusivismo, insomma. Che è poi un ragionamento scivoloso quasi quanto l’idea dei grillini di Ischia, datata 2013. Prevedeva, elenca Anzaldi, «una sanatoria delle tante case abusive costruite sull’Isola». Adesso il Movimento fa sapere di non aver «mai preso in considerazione» una proposta del genere, perché «determinati principi sono inviolabili». E in effetti nessuna iniziativa legislativa è stata avanzata. Resta quel video del TgR regionale, che i motori di ricerca non cancellano. «È la prima volta che un forum di cittadini elabora una proposta di legge e la consegna ai parlamentari che la presenteranno — promise Di Maio — nella commissione competente».

Repubblica 23.8.17
Raffaele La Capria
“Siamo predestinati nella nostra coscienza c’è il terrore della terra”
di Antonello Guerrera


LA CAPRIA, ricorda queste parole? «Ma come fu bello arrivarci la prima volta col vaporetto! Come fu bello l’approdo in quel porticciolo perfettamente circolare, che sembra disegnato da un naif, così ridente e accogliente, come appunto dev’essere l’approdo di una terra promessa. Questa isola campagnola galleggiante nelle limpide acque tirreniche, col monte Epomeo che si erge possente al centro a ricordare l’irrequieto gigante Tifeo della leggenda, coi bianchi paesini stesi lungo le rive, ho sempre sentito che faceva parte della mia memoria immaginativa. E ogni volta che vi sono ritornato, nonostante le trasformazioni che il turismo, le automobili e tutto il resto vi hanno portato, sempre ho sentito la dolcezza del suo richiamo, l’amoroso invito delle sue rive».
Certo che le ricorda, Raffaele La Capria, 94 anni possenti, tra i massimi scrittori italiani e napoletani. Le conosce bene queste parole su Ischia perché le ha scritte in Ultimi viaggi nell’Italia perduta (Bompiani), dove ricorda la grazia colta e bohémien dell’isola dove Wystan Hugh Auden passò anni lunghi e taciturni, dove Truman Capote ruppe l’orologio appena arrivato scendendo dal vaporetto e dove, lui, La Capria, navigava con Francesco Rosi. Ma ora restano solo i sillogismi dell’amarezza, direbbe Emil Cioran. Dopo il terremoto di lunedì sera che ha martoriato uno dei suoi rifugi giovanili, l’intellettuale napoletano si sente
Ferito a morte, come il suo celebre romanzo premio Strega. La Capria non sta bene, ma risponde al telefono. «Sono molto addolorato », confessa l’autore di
False Partenze, «non posso non pensare a quei luoghi, all’ira di Dio che si è abbattuta su di loro».
Un pezzo di lei è rimasto lì, sotto quelle macerie, vero La Capria?
«Sì, anche se è un po’ che non vado. L’ultima volta sarà stato anni fa. Ischia la conosco abbastanza, è molto diversa dalla Capri che frequentavo di più e dove ho ambientato più libri. Ha una vita molto più... normale ».
In che senso?
«È un’isola più agreste, semplice rispetto alla sofisticata Capri. Capri appartiene al versante “omerico” del Golfo, Ischia è più “virgiliana”, più dolce».
E adesso, dopo il terremoto?
«Purtroppo, per quanto ci riguarda, non è un’eccezione. È qualcosa di ancestrale per chi conosce quelle zone, che vive da sempre nel fondo della nostra coscienza. Poi ogni tanto riemerge, quando capitano simili disastri. A Ischia tutti preservano nella memoria il catastrofico terremoto di Casamicciola di tanti decenni fa, c’è una paura verso la terra che trema che a Capri e Positano non esiste. A Ischia, invece, il terremoto e la catastrofe sono scritti nel destino dell’isola. Quando ho visto le immagini del sisma, ho ripensato a questa funesta predestinazione, da sempre annidata in quei luoghi e nella coscienza dei suoi abitanti».
Però, al di là del fato, anche stavolta pare decisivo il fattore umano. E le costruzioni abusive.
«Può essere, ma ogni volta che accade qualcosa del genere si scopre sempre questo lato oscuro dell’Italia, dei suoi comportamenti...».
Ma la faccenda pare molto seria, alla base dei crolli ci sarebbe l’utilizzo di materiali scadenti.
«Non lo nego. Ma oramai io percepisco tutto questo come un’etichetta, una cosa che tirano fuori tanto per sfruttare una nomea. Anche perché poi, nel frattempo, non si fa niente per evitarlo...».
Ha seguito la drammatica vicenda dei tre bambini, per fortuna finita bene?
«Simili accadimenti seppelliscono anche la memoria e i nostri sentimenti, soffocati d’angoscia insopportabile. Ma ogni tanto i miracoli esistono, come si dice a Napoli».
Che ne sarà adesso di Ischia? Diventerà “terra desolata” come lo sono, al momento, parte dell’Umbria e delle Marche?
«Luoghi come Ischia mi hanno spesso straniato, a volte mi sono spesso sentito un sopravvissuto alla loro catastrofe innata. Ma non succederà. Non moriranno mai, nonostante le loro disavventure».

Repubblica 23.8.17
Vitalizi in trappola al Senato il no di Sposetti fa proseliti
Contrari Mdp, FI e Ala. Pd: non insabbieremo, ma testo da cambiare
di Giovanna Casadio


ROMA. L’armata del compagno Ugo Sposetti è eterogenea ma consistente. Contro i tagli alle pensioni dei parlamentari si muove un vasto fronte che l’ex tesoriere dei Ds, lunga militanza comunista, istinto a fare il bastian contrario, avversario degli anti-casta, è sicuro di riuscire a organizzare. «I tagli alle pensioni dei parlamentari li affosso al primo voto»: ripete ancora ieri, giudicando «un pateracchio » la legge che porta la firma del collega dem Matteo Richetti, che impone il ricalcolo contributivo per le pensioni dei parlamentari, con effetto retroattivo. Di fatto un bel taglio del 40%. Già passata alla Camera con 348 sì, da settembre al Senato si annunciano sabbie mobili.
Soprattutto ci sono le perplessità del Pd, partito dello stesso Sposetti, stretto tra la competition con i 5Stelle che la vogliono subito così o anche più restrittiva, e diverse considerazioni di opportunità. Sulla battaglia anti-casta ad esempio, non ci stanno i compagni di Mdp: 16 senatori che non la voteranno, forse astenendosi come già alla Camera solo che a Palazzo Madama astenersi equivale a voto contrario. Felice Casson, magistrato, senatore passato dal Pd ai demoprogressisti, spiega: «Gli aspetti incostituzionali sono tali che il primo che fa ricorso lo vince. Sulla retroattività si introduce un vulnus generale che varrebbe poi per i lavoratori tutti. Suggerisco di non prendere le cose alla leggera. Si rischia di buttare via ogni sforzo e di peggiorare la situazione creando uno stallo per chissà quanto tempo».
Nessun partito politico in questa pre-campagna elettorale è disposto a dire che i privilegi dei politici non vanno toccati. Però i tagli alle pensioni non sono digeribili per Forza Italia. Lucio Malan, senatore forzista, ritiene che la strada sarà a Palazzo Madama quella già percorsa a Montecitorio: Fi non partecipa al voto. Perché? «È una proposta di facciata, scritta male, usata solo come annuncio pre-elettorale per lucrare un po’ di consenso, appoggiata anche dalla Lega il cui leader Salvini, eurodeputato, ha un regime assai più privilegiato del nostro. Se passasse così com’è questa legge metteremmo a rischio tutte le pensioni italiane. Non si può introdurre i principio del ricalcolo retroattivo». Questioni giuridiche. Ma ce ne sono anche legate alle convenienze personali, perché chi ha alle spalle più legislature ne viene personalmente penalizzato.
Lucio Barani, capogruppo dei verdiniani, l’uomo dal garofano rosso così soprannominato (porta sempre all’occhiello un garofano in nome della fede craxiana) conteggia: «Penso che noi 14 senatori di Ala non la voteremo compattamente, almeno nel testo attuale. Faccio l’esempio di una personalità recentemente scomparsa e di cui faremo la commemorazione: con quale faccia avremmo tagliato la pensione a Guido Rossi insigne giurista?».
Farà la differenza la rotta impressa dal Pd. Francesco Russo, segretario d’aula dei Dem, abituato quindi a tenere unito il gruppo dei senatori, è sicuro che «la legge non sarà insabbiata, al netto delle posizioni provocatorie di Sposetti». Tuttavia «la faremo ma la miglioreremo, vanno dissipati i dubbi rispetto ai problemi di costituzionalità ». E poi c’è una questione politica, lasciapassare per la prossima legislatura: «No ai privilegi, senza se e senza ma. Però la politica è servizio, è una cosa degna e non c’è da fare la rincorsa ai grillini, che peraltro non paga elettoralmente». «La legge è da fare - ragiona Linda Lanzillotta, che di legislature ne ha tre - bisogna eliminare le distorsioni rimaste in piedi, ma bisogna essere consapevoli del rischio che ci sia un vulnus nella retroattività per gli stessi lavoratori ordinari. Ai parlamentari dovrebbe essere dato in fatto di pensioni il regime dei lavoratori autonomi ».

Repubblica 23.7.17
Miguel Gotor (Art.1-Mdp). Senatore
“Opacità inammissibili prova verità al Copasir”


«L’Italia non può tollerare opacità in questo passaggio», afferma Miguel Gotor, senatore di Mdp. «Abbiamo fiducia in Paolo Gentiloni ma è opportuno che chiarisca questo passaggio al Copasir e in Aula. Mdp, per altro, sulla morte di Giulio Regeni ha chiesto una commissione di inchiesta».
Spataro parla di una catena di passaggi tra intelligence, governo e procura: qualcosa potrebbe non aver funzionato nel caso Regeni?
«Non ho elementi per giudicare. Però ho esperienza sui dossier relativi agli anni ‘70. Nei miei studi ho notato che quando i nostri servizi incrociano la loro azione con quelli stranieri c’è un obbligo maggiore alla prudenza».
Dettato da cosa?
«È una questione di correttezza tra Stati e di fiducia tra servizi “amici”, come ad esempio quello inglese. Vale sulle procedure di desecretazione: quando implicano la pubblicità di attività di Servizi stranieri esiste un comprensibile vincolo di cautela».
È questo il caso?
«Potrebbe essere. Ammettiamo che, come dice il New York Times, esista un dossier sul caso Regeni che i Servizi Usa passarono agli italiani. Spataro solleva la questione di una mancata trasmissione di questo dossier alla polizia giudiziaria giustificata solo se il premier ne avesse autorizzato il ritardo. Questo eventuale ritardo dovrà essere chiarito da Gentiloni al Copasir».
La verità sulla morte del nostro ricercatore è ancora lontana.
«Ho fiducia nelle parole che Gentiloni, da ministro degli Esteri, pronunciò in Aula: “La dignità dell’Italia non verrà calpestata per ragioni di Stato”, frase molto impegnativa».
Il rientro al Cairo del nostro ambasciatore può servire o disinnesca l’unica “arma” dell’Italia?
«È una speranza ma nutro perplessità. Spero che questa decisione sia stata concordata con quella parte del governo egiziano che vuole la verità».
Dall’eventuale commissione d’inchiesta cosa potrebbe emergere?
«Il cadavere di Regeni è stato gettato in mezzo ai rapporti tra Italia e Egitto per renderli impossibili. Sono rimasto sorpreso dalla freddezza della sua professoressa di Cambridge e dal comportamento del governo inglese. Ci sono 5 miliardi di scambi commerciali tra i due Paesi, gli investimenti dell’Eni. Il drammatico deterioramento di questi rapporti avvantaggia i nostri concorrenti stranieri. Anche per questo la verità sulla fine di Giulio riguarda la nostra dignità nazionale».
( m. fv.)

il manifesto 23.8.17
Sicilia, per le regionali il modello Palermo non regge
Elezioni. Sinistra italiana si sfila dal ’campo largo’ del centrosinistra. Mdp prende tempo. Il Pd a un passo dall’intesa con Alfano. Civati: «Sono molto lieto della scelta di Si»
Il sindaco di Palermo Leoluca Orlando sul palco in piazza Santi Apostoli a Roma alla manifestazione di «Insieme»
di Alfredo Marsala


Addio “Modello Palermo”. Sinistra italiana si defila dalla partita, mollando Leoluca Orlando e aspettandosi che faccia la stessa cosa Mdp, che però prende tempo. Con questa mossa Si si avvicina a Prc e Possibile che hanno messo in campo come candidato l’editore Ottavio Navarra, ex parlamentare Pci. Il “campo largo” del centrosinistra perde un pezzo e rimane appeso a un filo sottile che rischia di spezzarsi da un momento all’altro per i malumori che imperversano anche dentro a Mdp dove i più radicali sono insofferenti nei confronti del Pd, al quale contestano di non voler prendere le distanze dal governatore Rosario Crocetta, che rimane in corsa per il suo secondo mandato in attesa che si chiarisca un quadro di alleanze che è ancora fosco.
PD E AP INVECE SONO VICINISSIMI all’intesa che riguarda il voto in Sicilia ma pure le politiche. Per cercare di tenere anche Leoluca Orlando con la sua lista dei territori e Mdp, il Nazareno sta trattando sul nome di Fabrizio Micari, rettore a Palermo, come candidato alla Regione, idea proposta dal sindaco di Palermo e sostenuta da Sicilia futura dell’ex ministro Totò Cardinale, oltre che dai socialisti di Carlo Vizzini; i dem però non intendono sciogliere il nodo sul candidato se prima non viene definita la coalizione, che nei piani del Pd deve contenere Ap. Posizione che trova resistenze dentro Mdp che ieri ha riunito a Enna il coordinamento regionale e ha deciso di non rompere. Pur esprimendo «preoccupazione per i ritardi con cui si procede nella ufficializzazione della proposta politica programmatica da avanzare ai siciliani», il movimento di Bersani conferma «la posizione espressa nella riunione con Orlando e Si» fatta nei giorni scorsi. E ribadisce «il proprio interesse per la eventuale candidatura civica discussa con Orlando (quella di Micari) purché sia espressione di un progetto politico programmatico coerente con l’esigenza di discontinuità e di cambiamento che i siciliani richiedono, evitando» – e qui è l’unico affondo di Mdp – «di piegare la Sicilia e le sue emergenze a scambi politici tra il Pd di Renzi e Ap di Alfano».
SI SFILA INVECE SINISTRA italiana. «Non ci sono le condizioni politiche per un accordo col Pd in Sicilia», attacca Ersamo Palazzotto. «Avevamo confidato in Orlando per tentare di replicare il modello Palermo alla Regione chiedendo discontinuità col governo Crocetta, dopo due mesi e ci ritroviamo a discutere del candidato senza che il Pd abbia fatto un’analisi politica, anzi ha rivendicato i risultati di Crocetta», osserva Palazzotto. «A questo punto lavoriamo con tutti i soggetti della sinistra per un’alternativa, che non è un piano B – dice il parlamentare – La sinistra politica e quella civica ha tante risorse da spendere. A Leoluca Orlando chiediamo se è disponibile a proseguire con noi il lavoro cominciato a Palermo».
E sempre da Sinistra italiana Paolo Cento si scaglia contro Renzi e il Pd che «stanno usando le regionali per riproporre vecchi schemi di centrosinistra addirittura con un ruolo centrale di Alfano in vista anche delle prossime elezioni politiche». «Questo tentativo di Renzi – sostiene – va fermato ed è del tutto evidente che la sinistra siciliana dovrà nelle prossime ore valutare la necessita di una proposta autonoma e alternativa per la regione».
PRONTO AD ACCOGLIERE SI è Pippo Civati, leader di Possibile: «Sono molto lieto della scelta di Sinistra Italiana che non considera più praticabile un’alleanza col Pd. In Sicilia come a livello nazionale, c’è bisogno di una forte discontinuità dalle politiche portate avanti in questi anni, e ciò è possibile solo mettendo in campo un progetto di governo ambizioso e sostenuto unitariamente da tutte le forze di sinistra». E tende la mano a Bersani: «Confido che presto anche Mdp si unirà a questo percorso: non possiamo perdere altro tempo in uno sterile dibattito solo sui nomi, siano essi di tutto rispetto come quello di Orlando o di Micari, o altri più indigesti come quello di Alfano».
Che l’accordo tra il Pd e Alfano sia a un passo lo fa intendere Giuseppe Castiglione, coordinatore regionale di Ap: «I colloqui continuano, ma allo stato l’accordo non è chiuso. Noi abbiamo proposto tre nomi ma non abbiamo preclusioni su un’eventuale candidatura ’civica’ e stiamo lavorando al programma che è la base per chiudere l’intesa in Sicilia».

Repubblica 23.8.17
Profughi, Portofino come Capalbio Il sindaco: non abbiamo case libere
Scontro sull’arrivo dei richiedenti asilo. Ma la Prefettura scavalca il Comune e si rivolge ai privati
di Erica Manna


GENOVA. I migranti a Portofino. Il sindaco della cittadina con uno dei porticcioli più famosi del mondo non ne vuole nemmeno sentir parlare: ma la Prefettura di Genova cerca posti anche lì, nella perla del Tigullio, per accogliere i richiedenti asilo. L’obiettivo, infatti, è collocare 700 migranti in tempi brevi in tutta la Liguria, e il capoluogo è già saturo, con oltre 2.500 presenze: ben al di sopra di quante gli spetterebbero stando alla quota assegnata dal Viminale, di 1.216. Così la Prefettura genovese ha deciso di pubblicare un bando rivolto espressamente ai Comuni ribelli: sono ventiquattro e si concentrano soprattutto sulla riviera, le amministrazioni che avevano opposto il loro rifiuto ad aderire allo Sprar, il sistema di protezione per richiedenti asilo, l’accoglienza di secondo livello gestita direttamente e volontariamente dai Comuni. Tra loro, anche Portofino. Un no che ricorda il caso Capalbio.
Una mossa, quella della Prefettura, che di fatto scavalca le amministrazioni contrarie all’accoglienza, facendo appello ai privati perché mettano a disposizione strutture che le cooperative possano gestire. I Comuni, infatti, hanno ben pochi strumenti per poter bloccare i Cas, i centri di accoglienza straordinaria disposti dalle prefetture, anche se qualche esempio di resistenza non manca. È il caso del sindaco di Pontinvrea, il leghista Matteo Camiciottoli, che ha emanato un decreto studiato apposta per tenere alla larga le cooperative: catalogando le strutture dedicate all’accoglienza dei richiedenti asilo come ricettive, e imponendo loro l’Imu al pari di un albergo. Il no del sindaco di Portofino, il forzista Matteo Viacava, è motivato — giura — da una questione di spazi: esigui: «Il nostro è un centro turistico importantissimo — sottolinea il primo cittadino — e alloggi liberi non ne abbiamo: la graduatoria di residenti che aspettano l’assegnazione della casa popolare è infinita». Allo Sprar, Viacava ci aveva anche pensato: «Stavamo studiando una collaborazione nel distretto sociosanitario che comprende Santa Margherita, Rapallo e Zoagli — spiega — noi avremmo dato la disponibilità di far lavorare i migranti come volontari nel Parco di Portofino. Ma ci siamo resi conto che non avremmo avuto la possibilità di seguirli. E poi, il territorio non è indicato: c’è un’unica strada, difficoltà di accesso: l’accoglienza non sarebbe funzionale proprio dal punto di vista logistico». Il bando scade tra pochi giorni, il 28 agosto, e non è detto che la Prefettura riesca a collocare i migranti anche nella cittadina del Tigullio, anche se, di solito, prima di aprire una gara svolge una ricognizione preventiva sul territorio per testarne la fattibilità. Eventuali alloggi, dunque, alla fine potrebbero saltare fuori, magari in aree collinari più isolate. Remota, invece, l’ipotesi di utilizzare gli spazi del Portofino Kulm, per decenni uno degli hotel più prestigiosi della regione, chiuso e abbandonato da quattro anni: la proprietà dovrebbe prima negoziare con un’eventuale cooperativa interessata, e il canone d’affitto risulterebbe insostenibile. «I privati sono liberi di fare come credono», conclude il sindaco Viacava. E se i migranti, alla fine, dovessero davvero arrivare? Il sindaco si stringe nelle spalle: «Controlleremo che siano trattati bene».

La Stampa 23.8.17
Più vecchi malati meno posti letto: i figli s’indebitano per l’assistenza
L’Italia invecchia e crescono gli anziani non autosufficienti bisognosi di assistenza. Per farlo 561 mila famiglie si indebitano. Inoltre, sono sempre meno i posti nelle strutture private e il sistema ormai è a rischio collasso.
di Lidia Catalano e Davide Lessi


Il paradosso è servito. Il Paese più vecchio d’Europa rischia di dimenticarsi dei propri anziani. In Italia il 21,4 per cento della popolazione ha più di 65 anni. La media europea è del 18,5. L’invecchiamento, del resto, non si ferma: nel 2050, secondo le stime Istat, gli over 65enni arriveranno a quasi 22 milioni, praticamente una persona ogni tre. Eppure, denuncia l’ultimo rapporto dell’Irccs Inrca (l’Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico per anziani), tra i grandi Paesi europei il nostro è l’unico a non aver riorganizzato in maniera organica il suo sistema di continuità assistenziale. Con il risultato che il «peso» delle cure ricade in gran parte sulle famiglie.
Oggi in Italia sono almeno un milione le persone che dedicano parte dei loro giorni (e, spesso, ore di notti insonni) ad assistere parenti non più autosufficienti. Circa 561 mila famiglie, registra il Censis, hanno dovuto erodere i propri risparmi, vendere l’abitazione di proprietà o contrarre debiti per farlo. Dietro percentuali e statistiche, ci sono nomi e cognomi: storie di rassegnazione, amarezza e profonda solitudine. Un centinaio ne sono arrivate a La Stampa da tutta Italia grazie a «L’occhio dei lettori».
Le due strade
Senza scomodare la Costituzione, una legge per il diritto alla salute c’è già. È la numero 833 del 1978. «Dovrebbe garantire le cure, qualsiasi sia la malattia e senza limiti di durata. Il problema è che spesso, specie quando si parla di anziani, non è così», spiega Maria Grazia Breda, presidente della Fondazione promozione sociale, nata nel 2003 per tutelare i diritti delle persone non autosufficienti.
Nel «modello» italiano ci sono due strade: la prima, più battuta, è la «domiciliarità» che secondo le stime dell’Auser, (l’Associazione per invecchiamento attivo) riguarda 2,5 milioni di anziani. La seconda è quella della «residenzialità», l’insieme di strutture (pubbliche o private) in cui, secondo gli ultimi dati del 2013, sono ospitati 278 mila anziani autosufficienti e non.
Tra debiti e rassegnazione
In entrambi i casi, chiunque si trovi nella condizione di assistere un anziano non autosufficiente, sperimenta sulla propria pelle la carenza cronica di risorse pubbliche. Nel 2017 il Fondo per le politiche sociali ha perso 211 sui 311,58 milioni stanziati nell’ottobre 2016; quello per le non autosufficienze è stato ridimensionato a 450 milioni (contro i 500 previsti). Fondi che ora il Governo ha annunciato di voler ripristinare con gli introiti della “Web tax”. Inoltre, la fotografia scattata sulle dichiarazioni dei redditi 2016 evidenzia che oltre il 70% degli anziani ha un reddito complessivo inferiore a 14.600 euro netti. Una badante in regola costa mediamente circa 15 mila euro l’anno. Per molti, è un lusso.
Le lista d’attesa infinite
La situazione è ancora più grigia per chi sceglie la residenzialità. Le strutture private chiedono circa 3-4000 euro al mese. E per quelle pubbliche (in cui la quota a carico dell’assistito è di circa la metà) prima ancora del pagamento delle retta il problema è l’accesso alla prestazione. I posti letto disponibili in 5 anni hanno subito una sforbiciata del 23,6%. E le liste d’attesa si ingrossano. «I tempi per accedere a una struttura - spiega ancora Maria Grazia Breda - spesso si protraggono per anni e chi è dentro rischia di restarci poco. Il quadro è desolante. Ogni giorno siamo sommersi dalle telefonate di persone che chiedono aiuto per opporsi alle dimissioni forzate dei propri cari».

La Stampa 23.8.17
La ministra dell’Istruzione
“A scuola fino a 18 anni”
di Franco Giubilei


Per il momento è un pour parler d’agosto, ma quando a prospettare l’innalzamento dell’obbligo scolastico alla maggiore età è la ministra dell’Istruzione, anche le dichiarazioni d’intenti assumono valore: «Io sarei per portare l’obbligo scolastico a 18 anni perché un’economia come la nostra, che vuole davvero puntare su crescita e benessere, deve puntare sull’economia e sulla società della conoscenza, così come peraltro ci viene dall’ultima Agenda Onu 2030 sottoscritta anche dall’Italia», ha detto Valeria Fedeli al Meeting di Cl di Rimini. E ancora: «Se si punta su questo si deve sapere che il percorso educativo e formativo, che non smette mai nel corso della vita, ha comunque bisogno di avere una più larga partecipazione possibile, almeno fino a 18 anni, poi per percorsi anche diversificati del liceo e degli istituti tecnici professionali. Il sapere e le nuove competenze sono elemento fondamentale. So che questo non si realizza in due giorni, ma la visione e l’attuazione è importante».
Fedeli è anche entrata nel merito del Piano nazionale di sperimentazione in 100 classi che coinvolgerà licei e istituti tecnici: «Se quella sperimentazione funzionerà, e tutti i decisori politici saranno d’accordo, a quel punto si dovrebbe fare una rivisitazione complessiva dei cicli scolastici da punto di vista della qualità dei percorsi didattici interni. So che ha suscitato polemiche, ma io penso che sia molto più trasparente e serio mettere dei paletti, istituendo una governance trasparente, con tutti i soggetti, anche quelli che hanno perplessità e che vorrei coinvolgere nel seguire questa sperimentazione. Se alla fine del percorso vediamo che è discriminante anziché inclusiva, non la faremo». A far discutere di più, naturalmente, è l’idea che i ragazzi, in un futuro non si sa quanto distante, siano tenuti ad andare a scuola fino alla maggiore età. Le reazioni del sindacato, altro soggetto sensibile a qualsiasi mutamento possa interessare il pianeta scuola, hanno fatto emergere più differenze che sintonia fra una sigla confederale e l’altra.
La più critica è la Cisl, con la segretaria generale per la scuola, Lena Gissi: «L’innalzamento dell’obbligo scolastico non è la priorità, sono più importanti i contenuti. Spero non ci sia la volontà di rimettere in gioco la scuola solo sotto un profilo di facciata: se dobbiamo guardare a riforme strutturali della scuola dobbiamo iniziare a parlare di programmi e cambiare non solo l’obbligatorietà ma anche i contenuti, avviando anche una strategia di formazione per il personale». Gissi spera «che non ci sia la volontà di rimettere in gioco la scuola solo da un punto di vista di facciata».
Freddina anche la Cgil, per cui innalzare l’obbligo «sarebbe una scelta importante e giusta, ma crediamo che il ministro, per essere coerente, avrebbe dovuto avviare una riflessione sui cicli scolastici e sui bisogni reali della scuola rispetto agli obiettivi, cioè inclusione e superamento delle disuguaglianze», dice Francesco Sinopoli. Iniziativa promossa dalla Uil: «Ogni elemento che alzi l’obbligo scolastico è positivo, anche se oggi assistiamo a troppe contraddizioni del sistema».

Corriere 23.8.17
Scuola, la proposta di Fedeli «Eleviamo l’obbligo a 18 anni»
Il ministro: ai docenti gli stipendi più bassi del settore pubblico, è inaccettabile
di Elisabetta Soglio


RIMINI Senza giri di parole: «Io sarei per portare l’obbligo scolastico a 18 anni, perché un’economia come la nostra, che ha come obiettivi crescita e benessere, deve puntare sulla formazione e sulla società della conoscenza». La ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli ha strappato applausi ieri al Meeting di Rimini, intervenendo al dibattito che ha preso spunto dalla mostra «Nuove generazioni. I volti giovani dell’Italia multietnica» coordinata dal giornalista Giorgio Paolucci. Applausi soprattutto quando ha denunciato: «È inaccettabile che la retribuzione dei docenti sia la più bassa di tutta la Pubblica amministrazione».
Pronta a fare una battaglia sull’aumento degli stipendi? «Assolutamente sì. Se si ritiene importante, quale in effetti è, il ruolo dei docenti e dell’insegnamento si deve loro un riconoscimento culturale e sociale che deve tradursi in un riconoscimento anche dal punto di vista retributivo». La discussione vira sulla necessità di un’integrazione dei ragazzi di origine straniera e il ministro parte dai dati acquisiti: «Intanto nella scuola italiana si inseriscono i ragazzi diversamente abili, mentre in altri Paesi esistono ancora le classi differenziate».
Ma sul tema dello ius soli, anche all’indomani del monito di Papa Francesco sull’urgenza di riconoscere la nazionalità al momento della nascita, la politica è ancora divisa: «Spero — si augura la ministra — che riusciremo a varare la legge. Abbiamo 820 mila ragazzi che sono già nel nostro percorso scolastico, studiano la nostra lingua, tifano le nostre squadre, giocano e costruiscono relazioni con i nostri figli e nipoti. Se non garantiremo loro i diritti di nascita diventerà più difficile parlare di integrazione nelle classi». Infine una critica ai toni che talora assume il confronto politico: «Quando si parla della loro cittadinanza c’è una cesura. La società italiana è molto più avanti della rappresentazione della bassa qualità del dibattito che abbiamo avuto su questo tema. Un conto è discutere e anche, legittimamente, avere opinioni diverse: un altro scendere a livello dell’insulto e della provocazione».
Accanto a lei lo scrittore Eraldo Affinati, fondatore con la moglie Anna Luce Lenzi della scuola di italiano per immigrati Penny Wirton, ricorda l’insegnamento di don Milani: «La scuola deve puntare sulla qualità della relazione umana. Noi lo sperimentiamo ogni giorno: se si segue questa impostazione che non esclude e giudica i ragazzi ma li incoraggia e premia potremmo diventare laboratorio antropologico della nuova Europa. Esiste però uno scollamento tra scuola e famiglia: gli insegnanti oggi sono spesso più soli che ai tempi di don Milani».

Corriere 23.8.17
«Fino a 18 anni è giusto, ma a fare cosa?»
Il dibattito sulle competenze «Il vincolo in sé non serve Bisogna cambiare la didattica»
Il sì della Cgil. Presidi possibilisti. I dubbi di esperti e Pd
di Gianna Fregonara


Dopo aver annunciato la sperimentazione in cento classi del liceo in quattro anni, decisione che ha creato un vespaio agostano, le nuove dichiarazioni della ministra Fedeli stemperano il clima con i sindacati — peraltro alla vigilia dell’inizio delle lezioni e del rinnovo del contratto degli insegnanti — ma lasciano sorpresi sia gli esperti, sia i colleghi di partito. Non che il tema sia nuovo, perché l’idea di tenere sui banchi i ragazzi fino alla maggiore età è stata già oggetto di dibattito da decenni. Si è arrivati per successivi innalzamenti dell’obbligo ai 16 anni nel 2003, prevedendo anche un generico diritto alla formazione per tutti fino ai 18 anni. Una riforma rimasta monca perché alla fine dell’obbligo, chi lascia non ha una qualifica o un diploma — al contrario della maggior parte dei Paesi europei, dove chi non vuol proseguire termina con un esame a 15/16 anni — e perché i controlli e casomai le sanzioni (esigue) in caso di abbandono si applicano solo ai genitori dei bambini delle elementari.
Le voci a favore dell’innalzamento a 18 anni sono tante. «Scelta importante e giusta», dice Francesco Sinopoli della Cgil. «Parliamo anche dei contenuti», la incalza Lena Gissi della Cisl. Dicono di sì anche i presidi: «Purché — spiega Giorgio Rembado, presidente dell’Anp — non sia come una volta l’obbligo di leva».
Quanto è probabile che le parole della ministra abbiano un seguito immediato? Non molte a sentire la senatrice pd Francesca Puglisi, che si è occupata a Palazzo Madama della riforma detta della Buona Scuola: «Siamo alla vigilia della campagna elettorale, non credo che ci sia il tempo per provvedimenti complessi, dovendo ancora entrare in vigore alcune disposizioni della riforma che abbiamo approvato un anno e mezzo fa». E per la prossima legislatura? La priorità è correggere alcuni limiti del sistema: «Dovremmo dare un diploma o una qualifica ai ragazzi che smettono a 16 anni, non lasciarli così senza che possano concludere il percorso scolastico anche se hanno frequentato un istituto professionale. Nel programma elettorale dell’anno prossimo ci sarà la riforma dei cicli, magari spostando l’esame di terza media dopo il biennio». Un’idea ambiziosa, magari con il rinvio al triennio delle materie di indirizzo, come aveva proposto tra l’altro Luigi Berlinguer negli Anni Novanta e che si era arenata.
«In linea di principio Fedeli ha ragione, in un mondo dove il lavoro è sempre più complesso e ha bisogno di competenze. Ma penserei prima a far funzionare la riforma della Buona Scuola — spiega Andrea Gavosto, che guida la Fondazione Agnelli —. Il problema non è solo la durata degli studi: vanno modificati il curriculum e anche la didattica, altrimenti non è pensabile risolvere il problema della dispersione o riuscire a tenere i ragazzi sui banchi».
«Fino a 18 anni è giusto, ma a fare cosa? — si chiede Raffaele Mantegazza, professore di Pedagogia a Milano Bicocca — Non lavoriamo solo sul dovere, ma sul piacere di andare a scuola, sulla motivazione: chi è appassionato può accettare sacrifici per raggiungere una meta, l’obbligo in sé non servirebbe».

Il Fatto 23.8.17
Prima la strage poi il gran ballo delle ipocrisie
Se si conservasse un po’ di sincerità o di senso del pudore dovremmo solo dire: sono felice di averla scampata bella
di Massimo Fini


Gli attentati dei jihadisti sono una cosa atroce. Ma più atroce, se possibile, è quello che viene dopo. Si sono viste persone che, passato il pericolo, invece di aiu- tare i feriti filmavano la scena con i loro smartphone e coppie che si facevano dei selfie avendo cura che, alle loro spalle, fosse ben visibile il macello,selfie che poi fanno circolare orgogliosamente su Facebook. Poi inizia il gran ballo funebre delle ipocrisie, delle cerimonie, delle manifestazioni, delle gare a dimostrarsi i più coinvolti, i più emotivamente colpiti, i più buoni. Una porzione del marciapiede su cui è avvenuta la strage è stata sostituita da una lavagna su cui la “gente comune” scrive le solite banalità e falsità, più o meno le stesse degli uomini politici: “Siamo tutti catalani”, “il terrorismo non ci piegherà”, “non abbiamo paura”. Se conservassero un po’ di sincerità o di senso del pudore, direbbero: sono felice di averla scampata bella. Ci sono poi i reportage dalle cittadine o dai quartieri dove vivevano le vittime. Tutti si premurano di affermare che erano tutte delle brave persone, gli uomini dei mariti esemplari e le donne delle spose fedeli. Il che sarà anche vero. Ma è totalmente privo di senso. Non è che queste stragi sarebbero meno gravi se gli uomini fossero dei fedifraghi e le donne adultere. C’è quindi l’inevitabile retorica sui bambini. E certamente in queste “stragi degli innocenti” i bambini sono i più innocenti di tutti. Ma lo sono anche quelli degli altri, che non sono meno bambini dei nostri bambini. Nella prima guerra del Golfo (1990) gli americani per non affrontare fin da subito l’imbelle esercito iracheno (battuto persino dai curdi: in soccorso di Saddam dovette intervenire la Turchia) bombardarono per tre mesi Baghdad e Bassora uccidendo 158 mila civili fra cui 32.195 bambini. Una volta lo dissi a Zapping, allora condotto da Aldo Forbice. Mi aspettavo grida di orrore o che mi dessero del bugiardo mascalzone. Invece né l’una cosa né l’altra (del bugiardo non potevano darmi: i dati provenivano dal Pentagono, sfuggiti di mano perché una coraggiosa funzionaria, Beth Osborne Daponte, poi licenziata in tronco, li aveva rivelati): la notizia scivolò subito via parlando di Rutelli e altre nullità dell’epoca.
Nelle stragi jihadiste sguazzano poi le tv, i talk, i social media che, come ha notato su questo giornale il generale Mini, amplificando a dismisura questi episodi fanno solo il gioco del jihad aumentando la potenza del terrore, quello reale e, soprattutto, quello psicologico. Che a onta di tutti gli atteggiamenti pettoruti e muscolari dei leader e di chi scrive sulle lavagnette è enorme. Emblematico è l’indecoroso spettacolo visto in piazza San Carlo a Torino dove per un solo rumore sospetto una folla priva di ogni freno inibitorio e perduta ogni dignità si urtava, sgomitava, calpestava provocando 1.500 feriti, alcuni gravi, e un morto (ci fu qualcuno che, vedendo un bambino a terra che stava per essere calpestato dagli indemoniati, un uomo alto e robusto che, gridando: “C’è un bambino a terra!”, allargando le braccia riuscì a stoppare i codardi, ma non era un italiano, era un nero, un disprezzatissimo migrante africano).
Qualche lettore penserà forse che io tifo per il jihad. Per la verità sono stato il primo, e l’unico, prima ancora che l’Isis si chiamasse Isis e il Califfato non esisteva ancora ma si definiva ‘Stato Islamico dell’Iraq e del Levante’ a scrivere che era “il più grave pericolo per l’Occidente dopo la Seconda guerra mondiale” (presentazione del mio libro Il vizio oscuro dell’Occidente del 2012). Ciò che mi aveva insospettito era proprio quell’aggiunta “e del Levante”. Voleva dire che aveva ambizioni che andavano molto al di là dell’Iraq. Nessuno mi dette credito. È il mio eterno ed esasperante destino di Cassandra. E ora l’Isis ce lo troviamo davanti. E che si siano rase al suolo le sue roccaforti in Iraq, Mosul e Raqqa (facendo alcune decine di migliaia di morti fra i civili sunniti e inventandosi la favoletta che costoro erano costretti a rimanere in quelle città dall’Isis, come se poche migliaia di guerriglieri, che oltretutto avevano altro da fare, potessero controllare un milione di persone) conta fino a un certo punto. Perché l’Isis è un’epidemia che sfrutta l’elemento religioso, ma le cui radici più profonde sono sociali. Ed era prevedibile che sconfitto da forze enormemente superiori, sia in senso numerico che tecnologico, in Medio Oriente avrebbe intensificato i suoi attacchi in Europa con il mezzo che in una ‘guerra asimmetrica’ è inevitabile: il terrorismo.
In ogni caso, la nascita di un fenomeno come quello dell’Isis dovevamo aspettarcelo dopo la filiera di guerre contro i Paesi musulmani inanellata nell’ultimo decennio. 2001: aggressione all’Afghanistan. Le vittime civili non sono calcolabili perché non sono mai state calcolate. Gli afghani infatti hanno il grave torto di non essere né arabi, né cristiani, né ebrei e di loro si può fare carne di porco. Stime a braccio danno le vittime civili in 16 anni di guerra fra le 200 e le 300 mila. 2003: Iraq. Le vittime civili causate, direttamente o indirettamente, dall’intervento americano sono 650 mila. Il calcolo è stato
fatto molto semplicemente da una rivista medica inglese che ha confrontato il numero dei morti, nello stesso periodo di tempo, durante il regime di Saddam e gli anni della guerra americana. 2011: Libia. Anche qui il numero dei morti civili non è stato calcolato con esattezza. Ma le tragiche conseguenze dell’eliminazione del dittatore libico sono oggi sotto gli occhi di tutti. E non è stato solo un “errore”, ma una serie di orrori di cui siamo responsabili. A questo discorso si lega in qualche modo la vicenda di Giulio Regeni tornata all’onor del mondo dopo che il governo italiano ha deciso di rinviare il nostro ambasciatore al Cairo. Si lega almeno dal lato dell’informazione. Le responsabilità dell’Università di Cambridge e soprattutto della tutor di Regeni, Maha Abdelrahaman, nell’aver inviato quel ragazzo al Cairo per una ricerca sui “sindacati indipendenti” senza metterlo in guardia sui rischi che correva sono fuori discussione. E Il Fatto sta insistendo molto su questo aspetto. La tutor, egiziana, che è stata docente di Sociologia all’Università del Cairo, non poteva non sapere quale era la reale situazione in Egitto. Ma il giovane Regeni è stato tratto anche in inganno dalla completa disinformatia che i giornali occidentali hanno steso sul generale tagliagole e golpista Abd al-Fattah al-Sisi occultando la sua sanguinaria repressione di ogni tipo di dissenso. Anche da questo punto di vista, noi abbiamo la coscienza pulita.
Sul colpo di Stato di Al-Sisi e sulle sue conseguenze abbiamo scritto una serie di articoli: Egitto, l’assurdo processo a Morsi (il Fatto, 9.11.2013); I casi di Egitto e Ucraina la democrazia funziona solo quando ci fa comodo (il Fatto, 31.1.2014), Al-Sisi, il criminale che piace all’Occidente (il Fatto, 31.1.2015); Se l’Occidente democratico sta con i tagliagole d’Egitto, allora io sono antidemocratico (il Fatto, 29.6.2015); Doveva morire Giulio perché l’Italia scoprisse il mostro Al-Sisi? (il Fatto, 11.2.2016); Ops, ci siamo sbagliati: i Fratelli Musulmani erano meglio di Al-Sisi (il Fatto, 15.4.2016); Altro che pace: il Papa non stringa mani insanguinate (il Fatto, 18.4.2017); C’è dittatore e dittatore: Maduro è brutto, Al-Sisi è bello (il Fatto, 15.8.2017).
Il jihad fa orrore. Ma la “cultura superiore”, nuovo modo di declinare il razzismo poiché quello classico, dopo Hitler, è impraticabile, fa schifo. E non è detto che i due fenomeni non siano complementari.

Corriere 23.8.17
Great Wall, la voglia matta di Jeep Usa E il proprietario si fa già chiamare Jack
Il segmento dei Suv è il più redditizio a Pechino. Wei ha cambiato il cognome in Wey
di Guido Santevecchi


«Il movimento è la forza di un’azienda; se non ti muovi sei destinato a scomparire, proprio come Nokia dopo l’arrivo di Apple nel campo dei telefonini». Così la pensa (intervista alla Bloomberg in aprile) Wei Jianjun, presidente di Great Wall, il costruttore cinese che ha scosso il mercato automobilistico dichiarando un interesse per la Jeep. Ieri il titolo Great Wall Motor Co. è stato sospeso in Borsa a Hong Kong e Shanghai in attesa di comunicazioni dal gruppo, che sono arrivate in serata: «Stiamo ancora valutando una possibile offerta per l’intera Fiat Chrysler o sue parti... c’è una grande attenzione ma ancora nessun contatto formale».
Ma chi è Great Wall e quanto è seria la sua ambizione di prendere il volante della Jeep, icona americana e simbolo della sua potenza militare e industriale?
La casa, fondata nel 1984, è basata a Baoding, 150 chilometri a Sud di Pechino, città da 11 milioni di abitanti nota per avere il cielo più inquinato della Cina. Great Wall però vanta dei record positivi: è uno dei pochi costruttori privati di auto cinesi ad aver avuto successo ed essersi affacciato sul mercato internazionale. E soprattutto ha letto nelle aspirazioni dei clienti cinesi in anticipo quando si è impegnato con i suv. Nel 2002 il maggiore azionista Wei decise di lanciare Haval, un nuovo marchio di Great Wall solo per i suv, che sono diventati il segmento di mercato più redditizio in Cina (37% del totale dei veicoli venduti l’anno scorso nel Paese). Sfruttando la partenza anticipata nel campo degli sport utility vehicles, Great Wall è cresciuta bene e nel 2016 ha venduto 1,07 milioni di veicoli, un balzo del 26% sul 2015 e primato consolidato tra i costruttori di suv nella Repubblica popolare. È sbarcata anche in Europa, facendo base in Bulgaria, e l’anno scorso è riuscita a piazzare 16 mila unità. Gli analisti di Automotive Foresight spiegano ora che Wei sognava già nel 2013 di far diventare Haval una nuova Jeep: la mossa per acquisire il marchio storico di Fca segue quindi una logica industriale.
A 53 anni e 5,3 miliardi di dollari di patrimonio personale, Wei Jianjun teorizza che chi si ferma è perduto e si comporta di conseguenza. Si è appena dato un nome americano, Jack Wey, per rendersi più familiare a un pubblico (anche politico) che presto potrebbe giudicare le sue manovre industriali. E ha costituito un nuovo brand, Wey, per competere nel segmento premium dei suv. Basterebbero questi giochi d’immagine a far superare al signor Wei alias Wey le prevedibili obiezioni di Washington di fronte alla prospettiva che la Jeep, simbolo di libertà e spirito d’avventura americani, diventasse cinese? Oltre ai dubbi politici ci sono quelli finanziari: Great Wall vale 16 miliardi di dollari, il solo marchio Jeep se scorporato arriverebbe a 23 miliardi di euro secondo le stime.

La Stampa 23.8.17
India, la vittoria delle donne
Fuori legge il divorzio istantaneo
La Corte Suprema dichiara incostituzionale la pratica diffusa tra i musulmani Gli uomini non potranno lasciare la moglie pronunciando tre volte una parola
di Carlo Pizzati


È una vittoria per tutte le donne indiane, ma in realtà per tutta l’India, e non solo per le mogli musulmane che hanno accolto ieri con grida di festa la decisione della Corte Suprema di rendere incostituzionale la pratica del «triplo talaq», il divorzio islamico istantaneo.
Al marito bastava pronunciare tre volte la parola «talaq» ovvero «ti divorzio» perché questo avesse valore legale e immediato. E in molti dei casi denunciati negli ultimi anni, i divorziandi non si prendevano nemmeno la briga di dirlo faccia a faccia, ma mandavano una mail, lasciavano una lettera sul tavolo con queste semplici tre parole, o spedivano un messaggio su WhatsApp.
Ciò che è sorprendente è che il voto dei giudici sia stato di 3 contro 2. Le donne ce l’hanno fatta, ma per un soffio. Ora il diritto di divorziare da ubriachi, fuori di sé, o per un capriccio è sospeso. E i giudici hanno dato 6 mesi al Parlamento per trasformare la loro decisione in legge.
Bisogna chiarire che si tratta di un genere di triplo talaq, quello istantaneo, o «talaq-e-bidat» che nella maggioranza dei Paesi islamici è già fuorilegge, ma che in India resisteva fino a ieri. Resta legale l’altro triplo talaq, il «talaq-ul sunnat», che funziona così: il marito dice il primo talaq, ma prima di pronunciare il secondo deve aspettare il successivo ciclo lunare. Se lo pronuncia, allora la moglie si deve preparare al periodo dell’«iddat» che copre tre cicli mestruali. La legge islamica dice proprio così. Se in questo trimestre il marito ci ripensa e si riconcilia con la moglie, bene. Altrimenti è finita.
Secondo la legge islamica, in vigore nelle comunità musulmane indiane, anche la moglie ha diritto a chiedere il divorzio, ma deve restituire per intero la dote pagata dal marito. Siamo ben lontani da una parvenza di parità.
Ieri comunque c’è stata festa tra molte donne indiane, soprattutto tra le cinque coraggiose che hanno firmato per prime la petizione anti-talaq presentata alla Corte Suprema e che ha portato a questo risultato storico. Esultava Shayara Bano, 36enne dall’Uttarkahnd scaricata dal marito con una lettera dopo che i suoceri l’avevano maltrattata per mesi e costretta ad abortire sei volte. Gioiva Ishrat Jahan che dal marito ricevette una telefonata da Dubai, tre talaq e clic. Ed era felice Gulshan Parveen che ha trovato la parola scritta tre volte in un pezzo di carta con un francobollo da 10 rupie, 13 centesimi, ed è stata cacciata di casa con un figlio di 2 anni.
Ma fanno festa anche i politici del partito di governo, il Bjp del fondamentalismo induista dalle forti antipatie anti-islamiche, con il primo ministro Narendra Modi che ha twittato (esagerando) «la decisione della Corte Suprema dà eguaglianza alle donne musulmane ed è uno strumento per dare più potere alle donne». Anche il portavoce dell’opposizione ha twittato accogliendo «la decisione storica, perché l’Islam rifiuta lo sfruttamento delle donne musulmane». E così via in uno sciame di congratulazioni e pacche sulle spalle, raramente giustificate.
Ci ha pensato la scrittrice dissidente Taslima Nasreen, in esilio dal Bangladesh dal ’94, a zittire tutti con dichiarazioni molto secche, che fanno da eco a Oriana Fallaci: «Perché abolire solo il triplo talaq? Tutta la legge islamica e la Sharia andrebbero abolite. Tutte le leggi religiose dovrebbero essere abolite per il bene dell’umanità. Abolire il triplo talaq non porta certo alla libertà delle donne. Le donne hanno bisogno di essere istruite e dovrebbero diventare indipendenti».
Ma è anche vero che in questo contesto, la decisione della Corte Suprema è almeno un passo nella direzione giusta. Anche perché quest’eguaglianza sventolata dal premier Modi è ben lontana dall’essere consolidata.
Ci ha pensato Asaduddin Owaisi, dell’All India Majlis-eIttehadul Muslimeen, una delle più importanti associazioni musulmane indiane a soffiare un po’ di realismo tra i festeggiamenti: «Dobbiamo rispettare questa decisione. Sarà una sfida degna di Ercole riuscire a farla applicare sul campo». Come a dire: fate pure le vostre leggi, noi continuiamo così.
Ma qualcosa s’è incrinato. Ora le donne musulmane sanno che la legge è dalla loro parte, e avranno meno paura di andare dalle autorità a far valere quello che da ieri è un loro diritto: non farsi scaricare dal marito senza un motivo, senza un soldo, con tre semplici e crudeli paroline.

La Stampa 23.8.17
Mordi e fuggi, così Davide rivince contro Golia
Nella guerra asimmetrica che li oppone agli inarrestabili Mongoli i Mamelucchi trionfano grazie alla disciplina. Salvando l’islam e l’Europa
di Gianni Riotta


Gli studiosi di strategia, Sun Tzu, Vegezio, Clausewitz o Delbrük, ricordano come, in guerra, la disciplina sia virtù cardinale, un esercito ben disciplinato può aver la meglio su truppe audaci ma irruente. I pazienti svizzeri, con le loro picche, armi derivate da attrezzi agricoli, sconfissero nel 1400 il fiore della cavalleria e a Dien Bien Phu, 1954, i contadini viet minh del generale Giap assediarono con successo gli intrepidi parà del colonnello francese De Castries. Tra le battaglie che gli storici considerano «decisive», capaci di girare un’epoca, in poche la disciplina ha avuto però un ruolo cruciale come nello scontro, oggi dimenticato, di Ayn Jalut, che nel 1260 vide i Mamelucchi musulmani battersi contro gli invincibili Mongoli.
Ayn Jalut, ora in Israele, è sacra alla guerra asimmetrica fin dal nome, che significa Fonte di Golia, il gigante atterrato dal fanciullo Davide. Poco distante la biblica Megiddo, dove i terroristi di Isis, stravolgendo l’Antico Testamento, aspettano l’Apocalisse e il prevalere della loro fede. Invece, in quel 1260, l’islam sembrava vicino alla fine. I Mongoli, guidati da Hülegü Khan, erano calati dalle steppe asiatiche. Nel febbraio 1258 avevano preso Baghdad, giustiziando perfino i musulmani traditori - «Han tradito una volta, tradiranno ancora» - e arso la favolosa biblioteca, con una settimana di saccheggi e stupri. L’orda muove dunque verso il Mediterraneo, terrorizzando musulmani e cristiani. A tappe forzate la cavalleria mongola si riversa su città ancora in guerra nel XXI secolo, Aleppo, in Siria, cade nel gennaio 1260, a marzo tocca a Damasco, da lì i Mongoli entrano a Nablus e Gaza. Hülegü invia al sultano al-Muzaffar Sayf al-Din Qutuz una sprezzante lettera, ordinandogli di arrendersi: «Io comando 300.000 uomini, tu 20.000».
Qutuz era stato poverissimo, aveva conosciuto la dura disciplina dei Mamelucchi, soldati-schiavi capaci di ripetere mille volte al giorno un singolo colpo di scherma e passare stagioni intere all’ippodromo a replicare cariche di equitazione. Infine i Mamelucchi avevano preso il potere, pretoriani del sultanato. Qutuz - cosciente che tra resa e sconfitta non c’era differenza, i Mongoli non gli avrebbero dato scampo - ordina di giustiziare il messo di Hülegü. Qui la sorte concede una mano, insperata, ai Mamelucchi. Hülegü è informato da un altro messaggero che il Grande Khan è morto. Temendo gli intrighi di corte decide di tornare in patria, ma lascia contro Qutuz 20.000 guerrieri scelti, che ritiene invincibili. Nessun esercito era riuscito, fino ad allora, a battere i suoi cavalieri, maestri di finte e galoppo, maestri con l’arco contro bersagli remoti. Con diplomazia i rivali si assicurano alleati, Qutuz negozia con i crociati rifornimenti di viveri e movimenti di truppe, Hülegü schiera addirittura, a fianco di mercenari siriani, cavalieri cristiani, armeni e georgiani, vuoi per amore della pelle o in odio ai musulmani.
Come i marines in Vietnam
Con Qutuz guida i Mamelucchi il futuro sultano Baybars, dall’infinito nome ufficiale al-Malik al-Zahir Rukn al-Din Baybars al-Bunduqdari. La leggenda narra che Baybars, predone e schiavo, avesse partecipato da giovane a scorrerie intorno a Ayn Jalut, che conosce passo passo. Sarebbe stato lui, secondo le cronache che fece stilare di persona, una volta sultano, a concepire l’audace tattica della battaglia. Già dieci anni prima, ad Al-Mansurah, aveva sconfitto i crociati e catturato re Luigi IX di Francia, riscattato a peso d’oro. Da allora sogna di diventar sultano, Ayn Jalut è l’occasione perfetta per le sue ambizioni. Qutuz nasconde sulla boscaglia delle colline circostanti il grosso delle forze, mentre Baybars logora i Mongoli con frenetiche cariche e ritirate. L’attacco seguito da finta fuga aveva confuso a lungo i crociati, costretti dal codice cavalleresco a disprezzare la ritirata: ancora oggi elemento cruciale della guerra asimmetrica, il «mordi e fuggi» ha dissanguato gli americani in Vietnam, Somalia, Iraq e Afghanistan, finché il colonnello John Nagl non ha studiato la paziente repressione degli inglesi contro la rivolta in Malesia, che richiede il sacrificio costante di «mangiar la zuppa col coltello», secondo il motto di Lawrence d’Arabia. Nagl è amico del cuore del generale McMaster, consigliere per la Sicurezza di Trump.
A quel punto Baybars ordina ai suoi cavalieri di improvvisare una rotta, precipitosa e terrorizzata, verso le alture. I Mongoli hanno a capo un cristiano nestoriano - vedete? l’asettico «scontro di civiltà» dei talk show tv è nella vera storia labirinto di specchi -, l’abile Kitbuga Noyan, vittorioso con Hülegü nella lunga campagna e ora deciso a offrire la testa di Qutuz al nuovo Khan.
Una lezione per l’oggi
Ebbro di vittoria, Kitbuga guida la carica mortale dei Mongoli, che mai era stata fermata. Ma, all’ordine di Qutuz, i Mamelucchi, come al campo d’arme, girano i destrieri in un metro di terreno, e riattaccano, mentre in ordine dalle colline caricano i compagni nascosti. Accerchiati, spaventati dai primi colpi di artiglieria mai sparati in battaglia (le cronache divergono su questo dettaglio), da cannoni a mano detti midfa, capaci più di frastuono che di danni, i Mongoli si battono con determinazione, sommersi da frecce, sciabole, lance, pugnali nel corpo a corpo. Cadono uno dopo l’altro, certi testimoni dicono che Kitbuga sia travolto nella mischia, quando Qutuz, toltosi l’elmetto per non mostrar paura, sprona i suoi a morire per la fede, altri che sia stato catturato e decapitato, sdegnando il riscatto: «Infedeli, il Khan mi vendicherà».
Baybars pugnalò poi Qutuz, che gli offriva in regalo una vergine mongola, e fu sultano fino al 1277. I Mongoli, che sognavano di chiudere l’Europa in una morsa, dalla Polonia a Gibilterra, videro dissolvere l’aura mistica dell’invincibilità. L’epica di Ayn Jalut è celebrata in film kolossal e cartoni animati per i bambini, mentre, maligna, Isis sogna alla Fonte di Golia l’Apocalisse di Megiddo e la caduta dell’Occidente. Come allora, solo alleati e disciplina piegheranno un nemico ambizioso e tenace.

La Stampa 23.8.17
Andremo a esplorare le altre Terre
in cerca degli alieni
Il 2018 è l’anno del telescopio della Nasa “James Webb” Individuerà nuovi esopianeti e studierà le loro atmosfere E altre missioni si preparano a svelare i misteri della vita
di Amedeo Balbi


Non tutti ne sono ancora consapevoli, ma proprio in questi anni stiamo vivendo una rivoluzione scientifica che potrebbe avere profonde conseguenze per la comprensione del nostro posto nell’Universo, paragonabili a quelle prodotte dalle idee di Copernico o di Darwin. Da poco più di 20 anni abbiamo trovato le prove che esistono altri pianeti intorno ad altre stelle. Non solo, ma molti di questi pianeti sembrano avere caratteristiche fisiche che potrebbero potenzialmente renderli adatti alla presenza di forme di vita. Se ci si ferma a riflettere sui numeri, c’è da rimanere a bocca aperta: le stime attuali ci dicono che molto probabilmente ognuna dei circa 200 miliardi di stelle della nostra galassia ha almeno un pianeta che le orbita attorno. Quelli potenzialmente abitabili (non da noi, naturalmente, ma da qualche forma di vita «autoctona», magari microscopica) potrebbero essere decine di miliardi. Quando guardate il cielo in una notte d’estate, provate a pensare all’incredibile vastità di ambienti alieni che state abbracciando con un solo sguardo.
Quelle precedenti sono estrapolazioni basate sulle osservazioni di esopianeti (pianeti che orbitano attorno ad altre stelle), compiute negli ultimi due decenni grazie a una serie di sofisticati strumenti astronomici. Attualmente il numero di esopianeti noti supera di poco quota 3500. La maggior parte è stata scoperta da una missione spaziale di grande successo, il satellite Kepler della Nasa. Kepler è un telescopio relativamente modesto (ha uno specchio di 95 cm, poca cosa rispetto ai più grandi telescopi terrestri che ormai toccano la decina di metri di apertura), ma il fatto di trovarsi nello spazio lo mette in una posizione di vantaggio. Kepler ha potuto osservare la minuscola diminuzione di luminosità causata dal transito di un pianeta di fronte alla propria stella, con una sensibilità che al momento è preclusa agli strumenti terrestri. Alcune centinaia di esopianeti sono stati scoperti con una tecnica differente, basata sull’osservazione del piccolo spostamento periodico della stella indotto dall’interazione gravitazionale con uno o più pianeti.
Dopo la valanga di scoperte recenti, ora stiamo entrando in una seconda fase nello studio degli esopianeti, in cui si esamineranno più in dettaglio i candidati più interessanti, in particolare quelli che sembrano più promettenti dal punto di vista della potenziale abitabilità. Il futuro prevede una serie di nuovi progetti osservativi, alcuni dei quali vedranno la luce a breve. Due nuove missioni spaziali, una dell’Esa e l’altra della Nasa, dovrebbero essere lanciate entro l’anno prossimo. Si tratta, rispettivamente, di Cheops e di Tess. Il primo, un piccolo telescopio spaziale di appena 30 cm di apertura, osserverà il transito di esopianeti già noti per provare a determinarne la densità e quindi la composizione fisica. Il secondo cercherà di incrementare il bottino di pianeti di dimensioni simili alla Terra messo insieme da Kepler, concentrandosi soprattutto su stelle brillanti e relativamente vicine alla nostra. Ciò preparerà la strada per le osservazioni del James Webb Space Telescope, il successore del telescopio spaziale Hubble che la Nasa dovrebbe mettere in orbita verso la fine del 2018.
Le aspettative per questa missione sono altissime (anche visto l’enorme impegno economico profuso per la sua realizzazione) e prevedono la possibilità di studiare le atmosfere di esopianeti già noti, determinandone la natura e la composizione. Capire come è fatta l’atmosfera di un pianeta è uno degli ingredienti cruciali per stabilirne le condizioni climatiche e l’effettiva propensione a ospitare organismi viventi. Non solo, ma la presenza stessa della vita può alterare in modo misurabile la composizione dell’atmosfera, come è avvenuto sul nostro pianeta con la comparsa degli organismi fotosintetici, che hanno rilasciato enormi quantità di ossigeno.
Investigare mondi lontanissimi dal nostro, fino addirittura a cercarvi le possibili tracce della vita, è un obiettivo difficile, che non sarà raggiunto nel giro di pochi anni, e che richiederà uno sforzo congiunto e l’applicazione di molte tecniche diverse. Non solo osservazioni dallo spazio, ma anche con telescopi terrestri: quelli di prossima generazione, come lo European Extremely Large Telescope, o Elt, di cui è iniziata la costruzione in Cile, avranno dimensioni imponenti (lo specchio sfiorerà i 40 metri di diametro) e potrebbero persino ottenere le prime immagini dirette di pianeti simili alla Terra. Se i passati 20 anni sono stati quelli in cui abbiamo capito che esistono altri mondi oltre a quelli del sistema solare, i prossimi 20 saranno quelli in cui proveremo a capire una volta per tutte se siamo davvero soli nell’Universo.

il manifesto 23.8.17
Sacco e Vanzetti, quando gli italiani erano «bastardi»
Stati Uniti. Novant’anni fa l’esecuzione dei due anarchici immigrati dal nostro Paese: condannati non solo perché ritenuti sovversivi, ma anche per le loro origini. Oggi, nell'era di Trump, sono discriminati i nativi, gli ispanici e i musulmani
di Stefano Luconi


Il 23 agosto 1927, nel penitenziario di Charlestown a Boston, furono giustiziati gli anarchici italiani Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti. Al termine di un contestatissimo iter giudiziario, il cui esito aveva suscitato proteste non solo negli Stati Uniti ma anche nel resto del mondo, i due erano stati ritenuti responsabili del duplice omicidio di un contabile e di una guardia giurata, avvenuto il 15 aprile 1920 durante una rapina.
Le prove a loro carico erano indiziarie e forse manipolate a loro danno, un reo confesso del doppio assassinio li aveva scagionati e il giudice che li aveva mandati sulla sedia elettrica non si era fatto scrupolo di definirli «bastardi». Però, nulla di tutto ciò era valso a ottenere una revisione del processo o un provvedimento di clemenza. Solo mezzo secolo più tardi, nel 1977, il governatore del Massachusetts Michael Dukakis avrebbe riabilitato la loro memoria, riconoscendo i pregiudizi che avevano determinato il verdetto di colpevolezza.
La cattura di Sacco e Vanzetti e la successiva condanna maturarono nell’ambito della Red Scare (la paura rossa), la capillare e draconiana campagna contro i sovversivi che le autorità americane scatenarono nel biennio 1919-1920, in risposta all’eco della rivoluzione bolscevica in Russia, per il timore che le forze della sinistra estremista conquistassero il potere anche negli Stati Uniti. In aggiunta a Sacco e Vanzetti, la «caccia alle streghe» del governo mieté ulteriori vittime. Oltre a migliaia di arresti e alla deportazione sbrigativa nei paesi d’origine per più di 500 immigrati radicali privi della cittadinanza americana, due giorni prima che fossero fermati Sacco e Vanzetti, il 3 maggio 1920, un terzo anarchico italiano, Andrea Salsedo, aveva perso la vita, precipitando dalla finestra di un commissariato, in circostanze mai chiarite, nel corso di un interrogatorio.
Come quattro milioni di altri italiani giunti negli Stati Uniti tra la fine dell’Ottocento e il primo dopoguerra, Sacco e Vanzetti immigrarono in America nel 1908 nella speranza di migliorare le proprie condizioni economiche e di condurre un’esistenza meno precaria di quella che avrebbero vissuto in patria. Sacco, insofferente della monarchia parlamentare sabauda, fu perfino attratto dalle istituzioni repubblicane statunitensi, alle quali all’inizio attribuì un maggiore rispetto dei diritti individuali e dell’eguaglianza tra le persone.
Ben presto, però, in entrambi subentrò la disillusione. Ai loro occhi, gli Stati Uniti non si rivelarono né la terra del benessere né la nazione della libertà. L’America si dimostrò, invece, il paese dove il capitalismo sfrenato provocava lo sfruttamento selvaggio e indiscriminato dei lavoratori. Questa consapevolezza indusse Sacco e Vanzetti a radicalizzare la loro posizione politica. Aderirono così alla corrente antiorganizzativa dell’anarchismo, che si rifaceva a Luigi Galleani, anch’egli destinato a essere espulso dagli Stati Uniti nel 1919, e alle sue teorie sulla legittimità del ricorso agli attentati politici per distruggere il capitalismo e abbattere lo Stato.
Dopo lo scoppio della prima guerra mondiale i due si trasferirono temporaneamente in Messico per sottrarsi alla coscrizione, rifiutandosi di fungere da carne da cannone in uno scontro che attribuivano alla mera rivalità tra paesi imperialistici. Al rientro negli Stati Uniti si ritrovarono invischiati nella repressione governativa che sfruttò l’incitamento di Galleani alla violenza come pretesto per sradicare un movimento quanto mai scomodo nella nazione trasformata dalla vittoria contro la Germania nella principale potenza capitalistica mondiale.
La fede anarchica e la renitenza alla leva resero Sacco e Vanzetti i bersagli ideali della crociata contro il radicalismo di sinistra. A segnare la loro sorte, però, non fu tanto l’ideologia politica quanto l’origine italiana. Nell’America postbellica era in gioco non solo il futuro del capitalismo, ma anche la natura della società statunitense. La ripresa dell’immigrazione alla fine del conflitto accrebbe la presenza di stranieri provenienti dall’Europa orientale e meridionale e accentuò la reazione xenofoba della popolazione di ascendenza anglosassone.
Gran parte dell’opinione pubblica riteneva che l’appartenenza agli Stati Uniti fosse una questione di sangue e non accettava i nuovi arrivati, ritenendoli individui etnicamente inferiori e inassimilabili perché le loro radici non affondavano nell’Europa settentrionale, a differenza dei discendenti dei colonizzatori dell’America del Nord e della maggioranza degli immigrati giunti fino agli anni Ottanta dell’Ottocento.
In particolare, gli italiani erano accusati di essere incivili, sporchi, violenti, dediti al crimine e, in un’ipotetica gerarchia razziale, più simili e vicini ai neri che ai bianchi a causa del colore olivastro della pelle di molti meridionali e dei loro plurisecolari rapporti con i nordafricani. Non a caso, tra il 1886 e il 1910, almeno 34 immigrati italiani, in prevalenza siciliani, vennero linciati, cioè furono colpiti da quella forma di giustizia sommaria popolare che nel Sud razzista si accaniva sugli afroamericani.
In tale contesto, Sacco e Vanzetti divennero i capri espiatori della protesta nativista contro gli immigrati che non erano di ceppo anglosassone. La loro esecuzione si configurò come una sorta di linciaggio legale, successivo di pochi anni al varo delle misure per limitare gli arrivi da paesi sgraditi come l’Italia, culminate nel Johnson-Reed Act che nel 1924 chiuse l’epoca dell’immigrazione di massa.
A novant’anni di distanza, mentre gli incidenti di Charlottesville hanno riacceso la diatriba su chi possa essere considerato un «vero» statunitense e l’appartenenza alla nazione di afroamericani, ispanici e mussulmani è messa in discussione nell’America di Trump, la vicenda di Sacco e Vanzetti resta a monito delle aberrazioni dell’intolleranza xenofoba che periodicamente riaffiora nel paese che ambirebbe a essere la terra degli immigrati per antonomasia.

lunedì 21 agosto 2017

l’Espresso 20 agosto 2017
Diritti Terapie controverse
Elettroshock
In Italia ogni anno sono almeno 300 i malati mentali gravi curati con le scariche elettriche. E il mondo accademico si divide
di Gianna Milano


«È come dare un colpo a una radio rotta: una volta su dieci ottieni qualcosa, le altre nove fai un danno peggiore» diceva Franco Basaglia nel 1978

Ogni lunedì, mercoledì e venerdì, per tutti i mesi dell'anno, all'ospedale Montichiari di Brescia accompagno i pazienti che fanno la Tec, ovvero la terapia elettroconvulsivante, nota come elettroshock. Luca è giovane, schizofrenico ma è fortunato perché ha scoperto per tempo di soffrire di un disturbo mentale e può curarsi senza buttare via anni di vita. A me non è andata così, io di anni ne ho persi tanti, senza sapere perché stessi in un certo modo. Nel 1973, a sei anni ho tentato il suicidio per la prima volta. Nei trenta anni successivi, ci sono stati altri nove tentativi di suicidio e stati maniacali, prima che qualcuno mi dicesse che ero bipolare. Avevo 37 anni. È il 2010 quando per la prima volta percorro il corridoio che conduce alla sala del day hospital, dove faccio le Tec. Ci ritornerò altre tre volte nei tre anni successivi. Mi sono liberato dal fardello della sofferenza: la terapia mi ha restituito la lucidità, e mi ha fatto tornare la voglia di vivere». Questa è la storia di Giampietro Ferrari, "utente esperto" che oggi con l'associazione AITEC-Etica cerca di informare «su quello che erroneamente si chiama elettroshock».
Una tecnica terapeutica che ha conosciuto fasi alterne: sperimentata per la prima volta nel 1938 da due neuropsichiatri italiani, Ugo Cerletti e Lucio Bini, induce una crisi convulsiva con un passaggio di corrente elettrica attraverso il cervello per curare le malattie mentali. Accolta con entusiasmo negli anni '40 e usata fino a metà degli anni '60 la Pushbotton Psychiatry, come la definì un libro del 2002 sulla storia culturale dell'elettroshock in America, venne poi soppiantata dall'avvento della psicofarmacologia e solo verso la fine degli anni '80 ha conosciuto un revival. Di cui poco si sa. La psichiatria sociale su modello basagliano lo considera un trattamento obsoleto se non peggio: simbolo di una visione della malattia mentale legata al passato che porta all'annullamento dell'individuo. Repressiva e inumana. Un punto di vista condiviso anche dall'opinione pubblica che ricorda immagini brutali di film come "Qualcuno volò sul nido del cuculo" e "La fossa dei serpenti". «L'elettroshock di oggi è diverso da quello presente nell'immaginario collettivo e molto meno traumatizzante sul piano emotivo. Lo si pratica secondo linee guida internazionali: in anestesia totale, con una dose di corrente molto bassa (inferiore a 5 volt) che stimola il cervello per pochi secondi (al massimo 6 o 8), e che ottiene una crisi convulsiva di 30-40 secondi. Gli elettrodi sono applicati sulla fronte sinistra e la tempia destra o bilateralmente (a seconda della patologia) e i parametri variano da un paziente all'altro», spiega Giuseppe Fàzzari, psichiatra che dirige l'Unità Operativa di Psichiatria agli Spedali Civili di Brescia, uno dei centri in cui si fa la Tec in Italia. In teoria fra cliniche private e strutture pubbliche i centri sono 16, ma dove lo si fa davvero sono forse la metà e i pazienti circa 300 l'anno. «Quando a Milano mi sono specializzato in psichiatria ero contrario all'elettroshock, poi nel 1991 capitò qui una giovane con una depressione grave e disturbi psicotici post partum. Parlava di suicidio e i farmaci non le facevano granché. Decisi di provare e, con il suo consenso, fu sottoposta a 8 trattamenti. Il risultato fu sorprendente. Altri casi seguirono: riuscii a ottenere attraverso una donazione un apparecchio moderno per la Tec e convinsi direttore sanitario e comitato etico ad accreditare l'ospedale per questi trattamenti» continua Fàzzari. Era il 2005.
I casi nei quali la letteratura scientifica concorda sui risultati ottenuti dall'elettroshock sono le depressioni gravi con alto rischio di suicidio resistenti ai farmaci, e le forme maniacali o miste che non rispondono alle terapie. L'esperienza clinica ne ha poi dimostrato l'efficacia in altri disturbi mentali, come schizofrenia, catatonia, sindrome maligna da neurolettici, sindrome ossessivo-compulsiva non rispondenti alle terapie. Una meta-analisi, ossia una revisione sistematica di diversi studi eseguiti per valutare efficacia e sicurezza della Tec (Ect, l'acronimo in inglese) pubblicata su Lancet, una delle riviste mediche più autorevoli, concludeva nel 2003 che il trattamento era «probabilmente più efficace dei farmaci nella depressione». «Di solito all'elettroshock ci si arriva dopo anni di tentativi falliti: abbiamo provato di tutto perché non la Tec. I medici di base, ma anche gli psicologi e gli psichiatri ne sanno poco. All'università non se ne parla e non lo si insegna», dice Alessandra Minelli, psicoterapeuta dell'Università di Brescia. A riconoscerne l'efficacia sono l'American Psychiatric Association, l'American Medical Association, il National Institute of Mental Health, la Food and Drug Administration, e le corrispondenti organizzazioni in Canada, Gran Bretagna e altri Paesi europei.
Nel mondo si stima siano 2 milioni le persone sottoposte a Tec e solo negli Usa 300 mila. Sono cinquemila i pazienti trattati in Belgio su una popolazione di 11 milioni di abitanti, e dodicimila nel Regno Unito su una popolazione di 64 milioni di abitanti. Quanti siano esattamente in Italia non si sa. Gli unici dati ufficiali furono raccolti nel 2012 dall'allora ministro della Salute Renato Balduzzi e si parlava di 1.406 pazienti tra il 2008 e il 2010 (521 nel 2008, 480 nel 2009 e 405 nel 2010). Dopo di allora solo stime parziali. Un'indagine eseguita da Fàzzari ha concluso che nel 2014 sono stati trattati 18 pazienti a Oristano, 12 a Brunico, 63 a Brescia-Montichiari, 57 a Pisa, 110 alla casa di cura Villa Santa Chiara a Verona. Poche centinaia rispetto a Europa, Stati Uniti e Canada dove la Tec è considerata una terapia tra le tante disponibili e talora di prima scelta. «Ai convegni di psichiatria in Italia non se ne parla e siamo per lo più assenti a livello internazionale. Solo pochi di noi hanno contatti con centri di ricerca all'estero», sostiene Fàzzari. «Le ragioni di questo pregiudizio ideologico e acritico? C'è chi teme di dispiacere alle case farmaceutiche, chi lo vive come uno stigma e un conflitto con i propri principi. Qualora i clinici ne facessero richiesta, ben difficilmente gli amministratori accetterebbero di acquistare l'apparecchiatura, non perché costosa (25 mila euro), ma per il timore di critiche. La Tec non prevede un Drg nel tariffario della Sanità: è una terapia che non ha un ritorno economico».
Il Comitato nazionale di bioetica nel 1995, dopo aver esaminato le diverse posizioni scientifiche e aver valutato le più autorevoli fonti internazionali concluse che non vi erano «motivazioni bioetiche per porre in dubbio la liceità della terapia elettroconvulsivante nelle indicazioni documentate nella letteratura scientifica». E il Consiglio Superiore di Sanità, dopo aver dibattuto le perplessità suscitate dal trattamento nel 1996 concluse che: «Il diritto del malato alla tutela della vita, della salute e della sua piena dignità di essere umano, in accordo con il Comitato nazionale di bioetica, rappresenta un aspetto centrale nella valutazione dell'opportunità di un trattamento medico e che tale diritto non può costituirsi in opposizione alla scienza, né può anteporle affermazioni o teorie di natura ideologica». Ma nel 1999 una circolare del ministro della Sanità Rosy Bindi chiudeva: «La psichiatria attualmente dispone di ben altri mezzi per alleviare la sofferenza mentale, a tal punto che la Tec risulterebbe quasi desueta almeno nelle strutture pubbliche sia universitarie che del Servizio Sanitario Nazionale». Una delle obiezioni avanzate dai detrattori dell'elettroshock è che non se ne conosce il meccanismo d'azione. Franco Basaglia, lo psichiatra che nel 1978 portò all'approvazione della legge 180 e al superamento dei manicomi, lo descrisse così: «È come dare una botta a una radio rotta: una volta su dieci riprende a funzionare. Nove volte su dieci si ottengono danni peggiori. Ma anche in quella singola volta in cui la radio si aggiusta non sappiamo il perché».  Ribatte Marco Bortolomasi, psichiatra, direttore sanitario della Clinica Villa Santa Chiara di Verona: «Vari studi avvalorano l'ipotesi che la ripetuta stimolazione attivi fattori di crescita delle cellule nervose. L'effetto terapeutico è in rapporto a complesse modificazioni neurochimiche (di neurotrasmettitori e neurormoni) e neurofisiologiche come per gli psicofarmaci».
Un trattamento di solito prevede tre sedute di Tec alla settimana, a giorni alterni. «Per due settimane o più, a seconda della patologia, più o meno grave. In alcuni casi sono previste terapie di mantenimento: una ogni 3 settimane. Alcuni studi clinici controllati hanno dimostrato l'opportunità di questi richiami. Una cosa è certa, non esiste un'unica ricetta» spiega Fàzzari. Uno degli effetti collaterali della Tec è la perdita della memoria, anche se transitoria. Per Beppe Dell'Acqua, che lavorò a fianco di Basaglia all'Ospedale psichiatrico di Trieste, è a questo cervello "smemorizzato", che si attribuisce il sollievo dalla sofferenza mentale. Con il recupero della memoria torna, a suo parere, anche la sofferenza. «Ma quando i farmaci non danno sollievo, non ti consentono di convivere con la malattia e tantomeno di vivere. Quando non esistono strutture che ti accompagnino in un progetto terapeutico o capaci di restituirti attraverso le relazioni e il lavoro un ruolo sociale? Io avevo sperimentato di tutto. Per me è stata l'ultima spiaggia e ora mi dico: perché non potevamo arrivarci prima?», conclude Ferrari.

l’Espresso 20 agosto 2017
Diritti Terapie controverse
Non basta dire che fa bene al paziente
di Ignazio Marino


Ci sono situazioni in cui tutti noi, pur non disponendo di informazioni scientifiche, tuttavia attribuiamo senza esitare un giudizio negativo: è il caso dell'elettroshock, una scarica elettrica a cui si ricorre per alcune forme di grave depressione, avvolto da ombre che non si dissolvono. Eppure un metodo che si pratica con una certa regolarità all'estero ma anche in alcune strutture in Italia. Ci sono stati anni in cui non se ne parlava più. Quando frequentavo la facoltà di medicina, pur essendo un trattamento descritto nei manuali, di fatto non era mai chiesto agli esami e non ricordo nessuno che ci scrisse la tesi di laurea. In realtà non è mai davvero scomparso e, anzi, nel tempo si è profondamente trasformato. Oggi si pratica in un ambiente ospedaliero controllato, con tutte le attenzioni necessarie in procedure complesse. Il paziente viene addormentato e durante la terapia elettroconvulsivante (Tec), eseguita in anestesia generale, non prova alcun dolore. Al risveglio molte persone riferiscono di sentirsi meglio e di trarre un beneficio dalla terapia. E davvero nei centri in cui si pratica l'elettroshock non esiste nulla di ciò che la maggior parte delle persone ha costruito nel proprio immaginario grazie soprattutto al cinema e alla letteratura, anche se il modo in cui è praticato non può non suscitare forte emozione: si tratta pur sempre di una scarica elettrica che provoca al corpo del paziente convulsioni scuotenti. Fermandosi a queste constatazioni, forse si potrebbe affermare che se il paziente riscontra un beneficio allora il metodo va applicato. Ma chi si occupa di medicina e di scienza ha il dovere professionale e morale di farsi qualche domanda in più. Perché quale sia il beneficio reale collegato a una scarica elettrica nel cervello non è dato saperlo e al momento non vi sono riscontri scientifici certi sul meccanismo di azione. Siamo nel campo delle ipotesi, mentre ciò che invece sappiamo con certezza è che ogni trattamento distrugge un certo numero di neuroni, in diversi casi fa perdere anche parte dei ricordi memorizzati e, inoltre, espone sempre il paziente ai rischi inevitabili connessi all'anestesia generale. Parliamo dunque di un metodo invasivo il cui meccanismo di azione non è mai stato validato scientificamente. Se si accettano le regole della scienza, è necessario spiegare come funziona una terapia, su cosa agisce, quali conseguenze ha, quali sono gli effetti collaterali, senza tutto questo siamo fuori dai parametri di ciò che si definisce cura o trattamento medico.
Fatte le debite differenze, si può azzardare un paragone con l'omeopatia. Chi assume sostanze omeopatiche racconta spesso di trarne un beneficio, eppure non vi è alcuna evidenza scientifica che l'omeopatia sia una cura, anzi, la medicina tradizionale non la riconosce, proprio perché le sostanze somministrate non sono sottoposte al metodo sperimentale previsto per i farmaci e quando è stato fatto i risultati non sono stati soddisfacenti. Per questo l'Organizzazione Mondiale della Sanità sostiene che l'omeopatia non sia un trattamento medico. La rivista Lancet, spesso chiamata in causa per i suoi autorevoli giudizi, nel 2007 ha decretato che l'efficacia delle cure omeopatiche riscontrabile in alcuni pazienti è spiegabile solo con l'effetto placebo.
Il potere della suggestione, ma almeno con l'omeopatia non si corrono
grossi rischi.
Nel caso dell'elettroshock purtroppo parliamo di situazioni molto gravi, di malati che non trovano più giovamento nei farmaci e per i quali la Tec rappresenta l'ultima tappa di un percorso pesante e doloroso. Per questo, per rispetto verso tutti questi pazienti, sarebbe il caso di fare chiarezza. Per avere un giudizio più sereno in merito all'utilizzo della terapia elettroconvulsivante servirebbe almeno quella che nell'ambiente scientifico viene chiamata una consensus conference, ovvero un confronto tra un ampio gruppo di esperti della materia che, assieme a rappresentanti della società debitamente informati, esprimano una posizione possibilmente unanime. Sulla base di questo giudizio dovrebbero poi essere adottate le decisioni sanitarie. Un percorso che anche la Corte Costituzionale italiana ha indicato in due sentenze, nel 2002 e nel 2003, affermando che le scelte terapeutiche, nel caso specifico l'elettroshock, non possono dipendere dalla discrezionalità della politica che
le autorizza o le vieta, ma dovrebbero basarsi sulle conoscenze scientifiche
e sulle evidenze sperimentali acquisite tramite organismi tecnico-scientifici nazionali o sovranazionali.

l’Espresso 20 agosto 2017
Diritti Terapie controverse
Smemorarsi non è curarsi
«I benefici della Tec arrivano solo dalla temporanea perdita di memoria. Ma appena tornano i ricordi, svanisce ogni effetto positivo»
di Alessandra Cattoi


Febbraio 2015, il pilota spagnolo Fernando Alonso esce di pista e con ogni probabilità riceve una scarica elettrica all'interno dell'abitacolo della sua automobile in modo accidentale e incontrollato. Una volta ripresa conoscenza, Alonso non ricorda più nulla della sua vita fino al 1995, tutto rimosso tranne il suo sogno di diventare pilota di Formula 1. Fortunatamente Alonso rimase senza memoria solo per un paio di giorni ma la sua storia presenta esattamente i sintomi tipici dell'amnesia post elettroshock. E rivela il nodo centrale sulla questione: la terapia elettro convulsivante non ha effetti collaterali tranne per la perdita della memoria. Dunque, sostengono molti psichiatri, se si toglie la memoria a una persona depressa e la si riporta indietro di un anno o anche di pochi mesi, i sintomi della depressione possono affievolirsi ma non perché vi sia una guarigione, piuttosto perché vi è una perdita di pezzi di sé e poi, quando la memoria riemerge, ritorna anche il male di vivere.
Piero Cipriano, psichiatra presso il dipartimento di salute mentale dell'ospedale San Filippo Neri di Roma e autore del libro "Il manicomio chimico", è fortemente critico verso la pratica dell'elettroshock, avendola sperimentata personalmente. Durante gli anni della sua formazione venne cooptato nel gruppo della clinica universitaria romana che praticava l'elettroshock. «Ho assistito ad alcuni casi, ho visto chi vi accedeva e quali erano gli esiti. Per fortuna dopo poco tempo sono partito per il militare e, conoscendo un altro tipo di psichiatria, ho iniziato a pormi molte domande. Ricordo un anziano giornalista che, dopo venti anni di farmaci antidepressivi, aveva iniziato le sedute di elettroshock ma la sua depressione si trasformava in stolidità, sembrava perdere pezzi della propria storia. Al contrario, ricordo una ragazza con diagnosi di disturbo borderline che scappava sempre dai luoghi di cura. Venne sottoposta a sei o otto sedute di elettroshock e non ebbe alcuna perdita di memoria, ma nemmeno alcun beneficio per il suo problema psichiatrico. A riprova che se non vi è effetto sulla memoria, non vi è effetto alcuno».
Eppure molti centri clinici di paesi avanzati nelle cure psichiatriche, come la Gran Bretagna, la Germania, ma anche gli Stati Uniti, vi ricorrono in maniera quasi sistematica.
«Dove prevale un'impostazione organicistica quando uno strumento non funziona si ricorre ad un altro, così quando i farmaci non bastano più, si passa alla corrente elettrica. Sappiamo che gli antidepressivi dopo quindici o vent'anni perdono il loro effetto. È un po' quello che succede con la cocaina o le benzodiazepine. La prima somministrazione è la migliore. All'inizio c'è una vera e propria luna di miele ma poi, gradualmente, le sostanze modificano i vari recettori cerebrali, l'effetto si attenua, e bisogna aumentare il dosaggio. Si va avanti così fino a quando i farmaci perdono il loro effetto e ricorrere alla terapia elettrica è l'unica cosa in più che si può fare, ma in realtà si aggiunge danno al danno. Lo racconta bene Paolo Virzì nel film "La pazza gioia" in cui la protagonista chiede di andare a Pisa a fare l'elettroshock, non per guarire, bensì per non pensare, smemorarsi, come farsi dare una botta in testa».
Seguendo questo ragionamento allora l'intervento andrebbe fatto a monte, nella terapia farmacologica. «Oggi i medici di famiglia, i neurologi o altri specialisti prescrivono gli antidepressivi a pioggia, per qualunque forma di tristezza, per i lutti o per disturbi leggeri. Per di più con dosaggi uguali per tutti. È lapalissiano dire che sarebbe meglio prescrivere gli psicofarmaci solo quando veramente è necessario, alle dosi minime efficaci e per periodi limitati».
In Italia il ricorso all'elettroshock è tutto sommato molto limitato, forse perché l'eredità di Basaglia e della sua scuola sono ancora molto forti. «A mio parere abbiamo il migliore sistema che ci sia, i servizi di salute mentale con tutti i loro problemi affrontano le malattie mentali con la relazione, con la psicoterapia e non solo con i farmaci. Senza demonizzarli, ma le sostanze che si pensava avrebbero spazzato via le malattie mentali non si sono rivelate miracolose e di certo il rimedio non può essere l'elettroshock, di cui riguardo ai meccanismi di azione non si sa assolutamente nulla. Concordo con lo psichiatra Kurt Schneider molto apprezzato dagli organicisti: anche se tutto ciò fosse di aiuto, non tutto ciò che aiuta è consentito».