domenica 11 agosto 2019

Corriere 118.19
Il leader leghista ha sottovalutato e reazioni alla sua mossa
L’istinto di onnipotenza di Salvini comincia a fare i conti con la Costituzione e il Parlamento.
di Massimo Franco

Il suo blitz teso a portare l’Italia alle elezioni anticipate sta riuscendo, ma solo in parte. Sancire unilateralmente la fine della maggioranza con il Movimento 5 Stelle potrebbe condurre quasi per forza di inerzia alle urne. Eppure l’esito è incerto. La Lega, nella sua corsa affannosa verso il voto, addita e pretende il traguardo vicinissimo; il Parlamento, nel quale per ora ha solo il 17% dei voti, invece, lo osserva col cannocchiale rovesciato: più lontano, forse non a portata di ottobre. D’altronde, lo strappo leghista costituisce una forzatura che ha fatto scivolare in secondo piano l’interesse nazionale, privilegiando solo i calcoli elettorali di un partito sicuro di avere il vento in poppa e di doverlo sfruttare subito. Il Carroccio sembra avere sottovalutato l’allarme che il suo diktat sta provocando, e non solo in Italia, per la forte componente estremistica e antieuropea che sprigiona. Esistono impegni finanziari e scadenze di governo da rispettare, e vincoli che non possono essere scansati solo per permettere la «presa del potere» salviniana dai contorni di una guerra-lampo sulla pelle dell’Italia. Restituire lo scettro della crisi al Parlamento e al Quirinale è una via obbligata costituzionalmente. Non si tratta di frenare le ambizioni di vittoria leghiste ma di permettere all’opinione pubblica di comprendere le ragioni della rottura e renderla trasparente nei suoi passaggi. Non sarà facile. Il terrore grillino di un voto anticipato che falcidierebbe i suoi consensi e le sue rappresentanze parlamentari porta un redivivo Beppe Grillo a invocare un fronte contro i «barbari» di Salvini: versione aggiornata e pasticciata di unità nazionale. Proposta singolare. Il «nuovo» si aggrappa all’odiato sistema non per salvare il Paese e la tenuta dei conti pubblici, ma soprattutto per salvare se stesso, contando di mettere insieme paure trasversali. È una reazione simmetrica e opposta a quella della Lega. E offre il medesimo brutto spettacolo da parte della ormai ex maggioranza. Avventurismo elettorale leghista e strumentale trasformismo grillino vanno a braccetto, accompagnati dal solito corredo di insulti. Con quali esiti, si vedrà. Ma proprio per questo, ora più che mai Costituzione, Parlamento e Quirinale sono le uniche garanzie di serietà contro azzardi e furbizie accomunati da una spregiudicatezza venata di irresponsabilità. Se e quando si arriverà alle elezioni è ancora da capire. E non è detto che sia la cosa migliore per il Paese. Si dovranno evitare pasticci e ammucchiate improbabili, ma anche scongiurare accelerazioni foriere solo di fratture più profonde e pericolose, per i rapporti interni, per la tenuta dell’Italia e per le relazioni con i nostri alleati europei. Il rispetto delle regole è il minimo che si debba pretendere da chi da tempo mostra una prepotente inclinazione a calpestarle per il proprio esclusivo tornaconto. Sarebbe bene se ne rendessero conto anche le opposizioni, per non ridursi al ruolo di strumenti subalterni di una demagogia che ha già prodotto molti guasti.


Il Sole 11.8.19
Un esecutivo neutrale per il voto
La crisi di governo che sta per aprirsi si presenta con dei connotati in parte inediti. Non nasce infatti semplicemente, come in occasioni del passato, a causa del distacco di una delle forze politiche della maggioranza dall’accordo di governo, e nemmeno perché è stato approvato in Parlamento un provvedimento non condiviso da una parte del Governo
di Valerio Onida


La vicenda delle mozioni sulla Tav poteva non essere di per sé decisiva, se uno dei partiti di governo avesse semplicemente accettato (e così in fondo è stato per il M5s) un voto parlamentare in cui prevalesse una delle due posizioni espresse dai partiti al governo. Si può ricordare, si parva licet componere magnis, che le leggi sul divorzio (1970) e sull’aborto (1978) passarono in Parlamento contro la posizione espressa dalla Dc, che era all’epoca il maggior partito del governo in carica ed esprimeva il Presidente del Consiglio dei ministri; e non provocarono di per sé crisi di governo né dislocazioni decisive nella maggioranza parlamentare che sorreggeva il Governo. In regime parlamentare è possibile, anche se non frequente, che su singoli temi, che si accetta non facciano parte del programma di governo, si manifestino maggioranze diverse da quella che sostiene l’esecutivo.
Ciò che di singolare ha questa crisi è piuttosto il fatto che essa nasce da dissensi e scontri fra le due forze della maggioranza persino più aspri di quelli che caratterizzano la dialettica fra maggioranza e opposizioni. In ogni modo, è una crisi, quella attuale, che non sembra poter avere altro sbocco se non le elezioni. Infatti la maggioranza non c’è più, e non sembra che nell’attuale Parlamento possa manifestarsi una qualsiasi diversa maggioranza politica, ricomponendo il puzzle degli attuali gruppi parlamentari.
Non solo dunque il Governo in carica deve necessariamente dimettersi, aprendo anche formalmente la crisi; ma esso non sembra possa avere alcuna alternativa politica in questa legislatura. A questo punto, è bene però che le dimissioni del Governo conseguano ad un voto o almeno ad un dibattito parlamentare che ratifichi esplicitamente l’apertura della crisi: e bene ha fatto il Presidente Conte a volere questo passaggio per la cosiddetta “parlamentarizzazione” della crisi. Non che dal dibattito possa emergere, per quanto è prevedibile, una qualsiasi maggioranza alternativa per governare, sulla base degli attuali rapporti di forza nelle Camere: ma almeno dovrebbero risultare chiare le posizioni dei vari gruppi sugli indirizzi fondamentali sui quali gli elettori saranno chiamati a pronunciarsi. Le elezioni appaiono dunque come l’unica strada possibile per ridare un indirizzo politico di governo al Paese.
Non sembra infatti plausibile nemmeno l’ipotesi di un Governo “tecnico” che duri magari fino ad elezioni non del tutto prossime, sul modello del Governo Monti del 2011. Questo nacque, lo ricordiamo, da una più o meno convinta accettazione da parte di molte forze parlamentari, della maggioranza uscente e delle opposizioni, di una fase di “decantazione”, di fronte a problemi in parte nuovi posti dai rapporti con le istituzioni europee, e quindi con un programma ben individuabile. Oggi i problemi, vecchi e nuovi, sussistono, certo, ma non sembra esserci all’orizzonte di questo Parlamento alcun indirizzo di “larga coalizione” attorno a cui possa sorgere un nuovo esecutivo.
In queste condizioni normalmente il Governo, dimissionario perché sfiduciato, assume il compito di assicurare gli “affari correnti” fino al voto e al successivo formarsi di una nuova maggioranza. Però oggi questa non sembra a sua volta una soluzione facile e pacifica. Infatti, in attesa del voto e poi della formazione della nuova maggioranza, avremmo una fase che non sembra facilmente affrontabile in termini di “ordinaria amministrazione”. Da un lato abbiamo una compagine governativa attraversata da divisioni anche più profonde di quelle che normalmente caratterizzano la dialettica fra maggioranza e opposizioni: ed è quindi difficile che questo Governo, con questi ministri, sia in grado di amministrare il Paese con la necessaria “neutralità” politica che dovrebbe caratterizzare l’attesa delle decisioni degli elettori. Dall’altro lato, nei mesi che dovranno trascorrere prima della formazione del nuovo Governo post-elettorale dovranno essere prese delle decisioni, ad esempio in materia di bilancio, che difficilmente potranno essere solo di “ordinaria amministrazione”: non foss’altro una decisione che “congeli” la situazione finanziaria e apra la strada a un esercizio provvisorio (espressamente previsto dalla Costituzione) in attesa della definizione della nuova politica di bilancio per il 2020.
Occorre, dunque, che il Governo in carica nel periodo elettorale sia in grado e sia capace di adottare queste decisioni col massimo possibile di “neutralità”, e dunque con il consenso parlamentare più ampio possibile. In definitiva, un Governo che si proponga come esclusivo fine quello di consentire lo svolgimento delle elezioni in un clima in cui le esasperazioni polemiche di tutti contro tutti possano lasciare il posto, almeno in parte, ad un confronto più serio, in sede elettorale e postelettorale, sugli indirizzi di fondo da imprimere alla politica nazionale, europea e internazionale del nostro Paese.

Il Sole 11.8.19
Etica. Pubblicato il ciclo di conferenze tenute a Friburgo dal 1920 al 1924
Quando a lezione Husserl criticò Kant
di Ermanno Bencivenga

Triste è il destino dei grandi filosofi. Per capirli sarebbe necessaria una mente alla loro altezza, rara come una mosca bianca; di solito, rimangono ostaggio degli «studiosi» che in ogni occasione citano libro e versetto ma sul senso di quelle sacre scritture ne sanno quanto i sei ciechi della parabola su come è fatto un elefante. Ogni tanto compare all’orizzonte un altro grande filosofo, e capita pure, magari, che voglia dire la sua sul collega; ma le grandi menti hanno poco tempo per i dettagli altrui, impegnate come sono ad articolare i propri. E poi sono ambiziose: se parlano di un collega, è per usarlo come trampolino di lancio per i loro voli, come ombra sullo sfondo della quale far risplendere i loro bagliori.
L’Introduzione all’etica comprende un ciclo di lezioni tenute da Edmund Husserl nel 1920 e ancora nel 1924, a Friburgo, davanti a un pubblico d’eccezione che comprendeva Norbert Elias, Karl Löwith, Herbert Marcuse e Hans Jonas. Tratta il suo argomento storicamente, il che è insolito in Husserl, seguendo un percorso cronologico che va dai sofisti a Kant. Ci sono scelte idiosincratiche: Aristotele viene appena menzionato ma si presta attenzione ad Aristippo; nella modernità la Gran Bretagna è meglio rappresentata (con Hobbes, Locke, Hume e Mill) del continente europeo.
Ma il confronto più teso e sostenuto è con il personaggio culmine della vicenda: il saggio di Königsberg, al quale Husserl dedica in chiusura una quarantina di pagine ma la cui figura incombe su tutto il testo. Viene introdotto con rispetto: due interi paragrafi sono dedicati a un sommario di alcune parti della Critica della ragion pratica. E gli viene riconosciuto il grande merito di aver combattuto l’edonismo (definito «la negazione dell’etica»). Ma tali concessioni servono solo a indorare l’amara pillola: precedute da un minaccioso «Passiamo ora alla critica», gli vengono riversate contro le accuse più severe, senza appello. I suoi sono «meri concetti, significati morti, estranei agli atti della vita originariamente conferente senso»; le sue dottrine sono assurde, incomprensibili, fallimentari e perfino impensabili.
Qual è l’oggetto del contendere? Ce ne sono vari, ma accomunati da una cruciale differenza di tono. Kant ci consegna un mondo indeterminato e pericolante, in cui gli oggetti sono fragili aggregazioni di dati, tenuti insieme da misteriosi atti sintetici e pronti a disfarsi quando meno dovrebbero, o a esplodere in antinomie se facciamo troppe domande. In ambito etico, dichiara che è la ragione a dare ordini, ma la lettura dei nostri comportamenti alla luce delle sue ingiunzioni formali sarà sempre aperta al dubbio: potremo solo sperare di aver fatto la cosa giusta, la nostra perfezione morale va perseguita «con timore e tremore».
Husserl, invece, è pieno di certezze: basta che mi concentri sul contenuto della mia coscienza e «posso cogliere verità generali in una certezza assoluta, posso vederle in atti di una perfetta comprensione evidente». «Come sempre, solo l’indagine fenomenologica può fare chiarezza su tali questioni.»
Perché dunque porsi tanti problemi con le entità instabili, fenomeniche che popolano la nostra quotidianità? Non ci sono forse oggetti ideali, per esempio matematici, che possiamo cogliere con perfetta evidenza? E non è il bene un oggetto di questo tipo? Kant esitava a riconoscere uno statuto cognitivo indipendente alla matematica, e non aveva tutti i torti: qualche anno dopo queste lezioni di Husserl, il teorema di Gödel avrebbe dimostrato che delle teorie matematiche non siamo in grado di conoscere non dico la verità, ma neanche la coerenza.
Kant attribuisce il giudizio morale alla ragione, e per Husserl è «impensabile un volere che non abbia basi motivazionali» sensibili. Kant però lo sapeva, e infatti dice: «La legge morale contiene senza dubbio delle prescrizioni, ma non dei moventi; essa manca di quella forza esecutiva, che costituisce il sentimento morale». Basterebbe leggerlo. Che io sappia che cosa dovrei fare non implica che lo farò; posso solo sperare, dicevo, che l’educazione che ho ricevuto, la società che mi circonda e i sentimenti che entrambe mi hanno ispirato siano efficaci al proposito.
La bella sicurezza ostentata da Husserl ha fatto il suo tempo; oggi a darle credito sono rimasti pochi fedeli (e, si capisce, gli «studiosi»). Rimane il rimpianto per l’incomprensione e l’arroganza testimoniate in queste pagine e ingiustificate sulla base del reale rapporto tra i due filosofi. Lasciando al loro destino le sciocchezze di verità ideali percepite con assoluta evidenza, la fenomenologia ha fatto molto per sviluppare l’idealismo trascendentale, che Kant aveva iniziato e abbozzato ma non aveva completato. La faticosa costruzione dell’impianto «copernicano» continua in Husserl e nella sua scuola, con le incertezze e i dubbi che naturalmente le si accompagnano, ed è opera di innegabile valore. Se solo le grandi menti la smettessero di darsi addosso e imparassero a lavorare insieme!





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