giovedì 27 giugno 2019

L’Espresso 23.6.2019

In alto a sinistra
Da luglio Helsinki guiderà il semestre Ue. 
Ed è in “pole” per la bce. Mentre il nuovo governo di socialisti e verdi alleati alza le tasse in nome dell’ambiente 


di Gianfrancesco Turano da Helsinki

Di centrosinistra contro l’Italia, un paese infelice, sudista e di centrodestra. Potrebbe essere questo il tono del semestre finlandese di presidenza del Consiglio dell’Ue che inizia il primo luglio.
La nazione dell’oriente scandinavo, al confine con la Russia, può guardare dall’al-to, e non solo geograficamente, l’Europa del sud. L’Onu l’ha appena confermata in testa alla classifica dei luoghi dov’è meglio vivere. In più, è campione del mondo. Non di calcio, che qui conta fino a un certo punto. Nei negozi di Helsinki illuminati dalle notti bianche sono ancora in evidenza le magliette celebrative del mondiale di hockey su ghiaccio, lo sport nazionale, vinto a maggio in Slovacchia, dove una squadra di atleti giovani e sconosciuti guidati dal capitano Markko Anttila, un fuscello di 203 centimetri per 104 chili, ha spianato la concorrenza di russi, svedesi e canadesi portando in piazza decine di migliaia di tifosi.
Dal mondiale di hockey agli europei della politica, nella seconda parte del 2019 i finlandesi giocheranno le proprie carte per le nomine della commissione a Bruxelles e della Bce a Francoforte, entrambe in scadenza il 31 ottobre. Oltre agli equilibrismi fra Stati e schieramenti politici, la questione romana è in cima alla lista delle patate bollenti del Consiglio e dell’Unione in generale, con una procedura di infra- zione per deficit all’orizzonte e il governo grillo-leghista in arretramento rispetto ai suoi impegni europei, come si chiamavano una volta. I FALCHI DOPO DRAGHI
Non sempre in passato la Finlandia è stata tenera verso l’andazzo del debito pubblico italiano. Fra le bestie nere del lassismo contabile di palazzo Chigi, soprattutto durante gli esecutivi del Pd, Jyrki Katainen è il più noto. L’ex vicepresidente della Commissione Juncker e commissario uscente per il lavoro, gli investimenti e la competizione era stato fra gli spitzenkandidat (capilista) del Ppe per la prossima commissione prima di sorprendere tutti e annunciare il suo ritiro dalla politica. Katainen si è lasciato coinvolgere dall’onda ambientalista che furoreggia in Scandinavia. Dovrebbe prendere la testa del Sitra, il fondo costituito nel 1967 e finanziato dal governo di Helsinki che si occupa di economia circolare e che ha tenuto la sua assise annuale ai primi di giugno nella Finlandia Hall progettata da Alvar Aalto. Nel domino Ue hanno rilievo le due candidature finniche per la successione a Mario Draghi. In un recente sondaggio del Financial Times fra economisti, Erkki Liikanen, 68 anni, ha raccolto i favori del pronostico. Ex governatore della Banca di Finlandia e autore nel 2012 del Rap- porto Liikanen sulla condizione degli istituti di credito dopo la crisi finanziaria, il socialdemocratico originario della piccola Mikkeli si pone nel segno della continuità con la politica monetaria di Draghi e del suo “whatever it takes” (qualunque cosa ci voglia) culminato con il quantitative easing, il programma di sostegno da 2600 miliardi della Bce. Liikanen è noto per avere posizioni generalmente più morbide verso i paesi del cosiddetto Club Med, la sigla dispregitiva che i falchi del nord riservano al fronte meridionale.
Tra questi c’è il secondo candidato alla Bce, Olli Rehn, 57 anni. Il governatore della Banca di Finlandia in carica è un concittadino di Liikanen ed è entrato nel Partito di centro dopo una gioventù da calciatore nella serie A nazionale. Come Liikanen e a differenza del candidato tedesco Jens Weidmann, è allineato e coperto sulla linea Draghi ma da ex commissario Ue agli affari economici e monetari durante la seconda presidenza di Manuel Barroso (2009-2014), ha spesso picchiato duro su Italia, Spagna e Grecia. L’esecutivo di Giuseppe Conte lo vede male per una questione di manuale Cencelli europeo. Una Bce a guida finlandese, anziché francese o tedesca, non libererebbe un posto per l’Italia nel consiglio direttivo della banca continentale.
Svolta a sinistra
In Finlandia, un paese con 5,5 milioni di abitanti grande poco più dell’Italia con un decimo della superficie occupato da 188 mila laghi, è tempo di svolte politiche. Dopo sedici anni, una coalizione di centrosi- nistra ha spodestato il centrodestra alle elezioni politiche del 14 aprile. L’11 giugno il nuovo premier, il socialdemocratico Antti Rinne, ha esposto il programma del suo esecutivo «per costruire una società sostenibile socialmente, economicamente ed ecologicamente». Rinne, ex sindacalista, ha detto che aumenterà le tasse per migliorare i servizi pubblici. Non è l’unico cambio di rotta. La nuova coalizione a cin- que ha anche escluso dall’esecutivo il par- tito dei Finni di Jussi Halla-aho. La forma- zione di destra, xenofoba ed euroscettica, si è piazzata seconda alle elezioni di mag- gio per un soffio dietro i socialdemocratici (17,5 contro 17,7 per cento) ma ha perso qualche frazione di punto rispetto alle votazioni precedenti e ha confermato la flessione al voto europeo del 26 maggio, quando è scesa al 13,8 per cento. Compongono il governo anche il Partito di Centro del premier uscente Juha Sipila, in forte flessione, e il Partito degli Svedesi, espressio- ne della più numerosa minoranza etnica del paese.
A consentire la svolta progressista è stato il successo dell’Alleanza di Sinistra quattro seggi in più) e soprattutto dei Verdi. Il loro +3 per cento rispetto al 2015 è stato incrementato al voto continentale quando il partito presieduto da Pekka Ha- avisto, già inviato dell’Onu per l’Environment programme in Africa e Asia, è salito dall’11,5 per cento delle politiche al 16 per cento cioè al secondo posto. Durante la campagna elettorale Rinne ha insistito sulla necessità di mantenere e anzi rilanciare il welfare state includendo nel programma l’aumento delle pensioni per i dipendenti pubblici e un piano di forti investimenti nelle infrastrutture. L’aeroporto di Vantaa a Helsinki era già in ampliamento. Nel 2018 ha superato i 20 milioni di passeggeri per la prima volta. Il terminal 2 sta prendendo nuova forma con 1 miliardo di euro investiti nella nuova aerostazione disegnata dagli architetti dello studio Ala, gli stessi che hanno realizzato la biblioteca pubblica di Oodi, nel centro della capitale, un bellissimo centro polifunzionale dove un libro, un dvd e una poltrona sono sempre disponibili. Anche il porto passeggeri di Helsinki è in fase di ampliamento nella zona a ovest del molo destinato alle grandi navi che collegano la città con Stoccolma, l’Estonia e San Pietroburgo. Le grandi opere (1,2 miliardi di euro di investimenti annunciati) dovranno essere realizzate senza conflitti con l’obiettivo annunciato dal governo di avere un paese a zero emissioni di carbonio entro il 2035.
Generosi ma vecchi 
La felicità era un concetto complesso da molto prima che l’Onu decidesse di declinarla in una classifica. Dopo la vittoria nel 2018, anche nel 2019 la Finlandia è risultata al primo posto. L’Italia è al numero 47, dietro anche a El Salvador (40°), paese che in un’altra classifica delle Nazioni Unite ha la peggiore statistica mondiale per omicidi (83 ogni 100 mila abitanti).
I finlandesi battono la concorrenza globale con un punteggio basato su sei elementi: pil pro capite (46 mila dollari contro 32 mila dell’Italia secondo i dati della Banca mondiale), servizi sociali, libertà di scelta, corruzione, aspettativa di vita e generosità. È proprio la generosità che, secondo le Nazioni Unite, caratterizza in modo particolare i finnici. Metà di loro effettua regolari donazioni alle onlus e alle charity nazionali. In compenso, la politica di accoglienza verso i rifugiati è stata piuttosto sparagnina durante il governo del centro- destra. Per le strade di Helsinki le facce da straniero sono rare, se si escludono le comitive di turisti asiatici che usano l’aeroporto di Vantaa come hub di transito per le loro visite in Europa, facilitate dalle rotte brevi attraverso la zona preartica. I dati dell’Ufficio immigrazione finlandese dicono che, dopo il boom di richieste presentate nel 2015 (32 mila in maggioranza da Siria, Iraq, Etiopia), l’anno coincidente con il successo elettorale della destra, le domande sono scese a 3-4 mila nell’ultimo biennio. Il coefficiente di missioni è il 43 per cento nel 2018, in risa- lita rispetto al 2017 (40 per cento).
All’indomani della vittoria, il premier Rinne ha annunciato di volere integrare nella forza lavoro anche chi viene respinto, con una posizione molto diversa da quella che pure ha portato alla vittoria la sinistra in Danimarca. Fra gli elementi di infelicità c’è un tasso di invecchiamento fra i più alti dell’Unione. I cittadini in età lavorativa (15-64 anni) sono il 62 per cento, contro il 64 per cento di un paese vecchio come l’Italia e il 60 per cento dei più vecchi del mondo, i giappo- nesi. Il livello dovrebbe peggiorare fino al 60 per cento nel 2030 e al 58 per cento nel 2050. Questa statistica è ancora più critica se si considera che nessun altro paese dell’Unione ha lo stesso numero di madri con più di quattro figli (oltre il 10 per cento secondo Eurostat), grazie all’efficienza del welfare per l’infanzia. L’invecchiamento rappresenta un problema per i saldi del sistema pensionistico, che il governo di centrodestra non è riuscito a riformare e che Rinne potrebbe appesantire con la sua proposta di innal- zamento dei minimi.
Orso e porcospino 
Il semestre di presidenza finlandese non cambierà i cardini della politica estera europea ma a Helsinki sono molto attenti ai rapporti cordiali con i vicini di casa. La Nordic coalition (Finlandia, Svezia, Norve- gia e Danimarca) ha sottolineato di recente gli sforzi comuni per promuovere l’economia circolare: «I membri della coalizione sono piccoli ma insieme siamo l’undicesima economia del mondo». 
Più delicata è la relazione con il vicino russo, con il quale la Finlandia condivide oltre 1300 chilometri di confine e una storia di guerre iniziata a fine Settecento, durante il dominio svedese, e finita con la sconfitta dell’Asse nel 1945, quando parte della Carelia finnica passò al territorio dell’Unione Sovietica. 
A Helsinki stanno attenti a non trasferire la rivalità sportiva dell’hockey agli equilibri geopolitici. Del resto, nella piazza del Senato troneggia da oltre un secolo la statua dedicata ad Alessandro II, lo “zar buono” che ridiede una parziale autonomia al parlamento locale. Con lo zar in carica oggi al Cremlino, Vladimir Putin, i rapporti al momento sono altrettanto distesi. Helsinki ha sempre respinto ogni tentazione di aderire alla Nato, una linea condivisa con i vicini svedesi. L’allarme lanciato di recente dall’ex presidente geor- giano Mikheil Saak’ashvili, che ha messo Finlandia e Svezia fra i più probabili obiettivi dell’espansionismo militare putiniano nel prossimo futuro, è stato con- testato da Jyri Raitasalo, docente alla Finnish national defense university, in un articolo on line su Foreign Policy. «Anche l’orso più grande», ha concluso l’analista, «non mangerà un porcospino». Resta da vedere se il porcospino finnico andrà di traverso a qualche governo europeo dell’area mediterranea.

L’Espresso 23.6.2019

Non è stato il solo testimone di Auschwitz ma ha indagato l’animo umano. A un secolo dalla nascita, è il momento di riconoscere in lui un autore universale che parla di vita e non di annientamentoPrimo Levi scrittore ritrovato

di Marco Belpoliti e Wlodek Goldkorn


Nella scrittura il racconto della verità trasfigurata dallo sguardo del narratore è più reale del reale. Per capire cosa sia accaduto nei lager serve la letteratura
Primo Levi per decenni è stato celebrato come un grande testimone della Shoah, un’icona dell’antifscismo, custode della preziosa memoria, diventato scrittore per via delle esperienze ad Auschwitz e quindi uno scrittore sui generis. Il testimone tuttavia è una persona che rende conto, nei tribunali, degli eventi cui ha assistito, con tanto di date e circostanze. Il testimone aiuta il giudice, o lo storico, a ricostruire un evento nei dettagli, quasi sempre in ordine cronologico. Spetta a chi ascolta dare un senso: giuridico, storiografico, politico, alla testimonianza. Lo scrittore invece procede in un modo contrario rispetto al testimone, costruisce un mondo attraverso un sistema di simboli, segni, metafore, libero di usare frammenti di ricordi, di ricomporli in un ordine che corrisponda alle emozioni e non alle misure convenzionali del tempo. E lo fa per indagare sulla condizione umana e per dare un senso al mondo e alle cose prime e ultime. Oggi, a cent’anni dalla sua nascita, il compleanno cade il 31 luglio, possiamo sentirci liberi di affermare che Levi è uno dei più grandi scrittori del Novecento e non un testimone? 
Lo chiedo a lei, Marco Belpoliti, che è il curatore delle opere di Primo Levi.
Belpoliti Già negli anni Novanta c’era un gruppo di scrittori e poeti - ne cito alcuni: Antonella Anedda, Eraldo Affinati, Stefano Bartezzaghi, Domenico Starnone, Massimo Raffaeli, Dario Voltolini, di sinistra, antifascisti nati negli anni Cinquanta e Sessanta - che avevano capito quanto Levi fosse uno scrittore e non solo un testimone, e quanto la letteratura italiana e quella mondiale gli siano debitrici, non perché parlasse della Shoah, termine che per altro non usa nei suoi testi, ma per come scrivesse del mondo. Levi è uno scrittore contemporaneo, da un lato ottocentesco, classico, dall’altro straordinariamente postmoderno. Per postmoderno intendo la citazione, il riuso dei testi, l’ironia, la parodia. Lui parodiava i testi che citava.
Goldkorn Un esempio?
Belpoliti Il centauro. La figura metà uomo metà cavallo della mitologia greca, spesso utilizzata da altri, nei romanzi di fantasia, di invenzione, di intrattenimento, gli dedica un racconto, “Quaestio de centauris”, molto importante. Anche Levi lo usa, ma per parlare della condizione esistenziale dell’uomo dopo Auschwitz, della sua dualità. 
Goldkorn La necessità di raccontare è comune a tutti i superstiti e i sopravvissuti. Ma, nel caso della Shoah, si trattava di cose inenarrabili e inimmaginabili, eppure accadute. E non esisteva un canone letterario di questa materia. Molti testi, prodotti quindi subito dopo l’Olocausto sono stati scritti usando iperboli, frasi fatte, citazioni di letteratura dell’orrore, oppure in un idioma militante, socialista degli anni Trenta. Levi invece intuisce che di fronte a tutto quello che gli è accaduto, lui, da scrittore vero, deve creare una mitologia. Quello che racconta è accaduto, ma necessita di una mitologia come sulla crudeltà del destino, sull’importanza della fortuna e dell’astuzia. “Se questo è un uomo”, il suo capolavoro, è un libro non solo su Auschwitz, ma è un magnifico testo sulla catastrofe degli umani, sapendo che la catastrofe non è una parentesi nella storia e nelle biografie, ma svela tutte le contraddizioni della condizione umana. 
Belpoliti Infatti, il libro si intitola “Se questo è un uomo” e non “Se questo è un ebreo”, perché per Levi è chiarissimo il fatto che l’opera dei nazisti consisteva nel tentativo di cambiare, attraverso il sistema dei Lager, la natura umana. I nazisti, Levi lo capisce, non vogliono solo ammazzare tutti gli ebrei del mondo, ma intendono mutare i dati antropologici dell’universo umano. Il capitolo “I sommersi e i salvati” in “Se questo è un uomo”, è un testo di una grande profondità filosofica. Ed è un capitolo in cui l’autore parla di un “esperimento biologico e sociale”. Sembra anticipare le opere di Michel Foucault sulla biopolitica. Levi aveva un suo côté positivistico darwiniano. E così interpretava il Lager come un tentativo di trasformare il genere umano. La portata radicale dell’esperimento nazista poteva intuirla solo un uomo forma- tosi come scienziato e scrittore in potenza. 
Goldkorn Possiamo pensare che non sia stato Auschwitz a trasformare Levi in uno scrittore, ma al contrario Levi ha potuto raccontare il Lager perché aveva le capacità di osservazione di un letterato? 
Belpoliti Su questo non c’è dubbio. Noi non sappiamo che genere di scrittore sarebbe diventato senza l’esperienza di Auschwitz. Però qualcosa si vede in “Il sistema periodico” o nei racconti di fantascienza, o fantabiologia, come li chiamava Italo Calvino, scritti con lo pseudonimo Damiano Malabaila. 
Goldkorn Uno scrittore di fantasia, dotato di un’immaginazione fuori dal comune. 
Belpoliti Levi era attentissimo ai dettagli. Ne cito uno. La questione di Mahorka, il tabacco dozzinale che ad Auschwitz serviva da moneta di scambio tra i deportati e con il cantiere della Buna. Con tutto quello che succedeva nel Lager, tre pagine per parlare delle quotazioni in una specie di Borsa nera, di Mahorka? Ma non è strano, Levi lavora con il dettaglio per parlare del mondo. Tiene sempre i piedi per terra, ma è molto fantasioso. 
Goldkorn In “Se questo è un uomo” c’è una scena di impiccagione. Simili scene le raccontano quasi tutti i testimoni. Elie Wiesel, narrando una storia analoga, si chiede dove sia finito Dio: risponde sul patibolo. Levi dice che chi ha assistito a questa scena e ha dovuto chinare la testa senza reagire non è più un uomo. Capisce che il nichilismo è diventata realtà. Non c’è speranza nel racconto. Dio non gli interessa. 
Belpoliti È un uomo che non crede in Dio, lo ha detto in più di una intervista, è un tori- nese di cultura illuministica e positivista, ed è socialista. Un borghese che vive del proprio lavoro. È pure antifascista e anche un ebreo, ma laico. Un fenomeno unico, nel panorama italiano. 
Goldkorn Un chimico torinese, ebreo integra-issimo. In nessun paese del mondo gli ebrei erano integrati come nell’Italia post unità nazionale, e vede nel Lager un universo che non conosceva, di ebrei dell’Est. Gente che parla lo yiddish, che porta nel corpo la memoria dei pogrom. Levi osserva il mondo di Auschwitz come un entomologo. Ne fa parte, perché è prigioniero e vittima. Ma mantiene distanza. È quella distanza che gli permette di capire il Lager? 
Belpoliti Levi sembra un antropologo venuto da un altro pianeta su una terra incognita. In questa terra ci sono due entità: i carnefici e le vittime. Vede che cos’hanno in comune le vittime e i boia: l’umanità. Alla fine de “I sommersi e i salvati”, dice: io di mostri non ne ho visti tanti, suggerisce che le SS fossero persone educate male, nelle scuole dove si insegnava ubbidienza e non pensiero critico. Levi era diventato scrittore perché gli interessava capire come cambiavano le cose. Per questo era capace di raccontare la bestialità e l’asservimento dei kapo, non come fatto morale ma come dato antropologico. Sapeva cosa era l’uomo. E poi era un chimico. Ave- va fiuto. Alla lettera. All’epoca non c’erano macchinari per fare il mestiere di chimico: il chimico, per sapere le cose, doveva avere un buon naso. Lui ce l’aveva. 
Goldkorn Di “Se questo è un uomo” ci sono due versioni. La prima, del 1947, dopo la poesia, comincia con la descrizione della situazione degli ebrei italiani a Fossoli nel 1944. La seconda, canonica, del 1958 inizia invece (sempre dopo la poesia) con le parole: “Ero stato catturato dalla Milizia fascista il 13 dicembre 1943. Avevo ventiquattro anni, poco senno, nessuna esperienza...”. Il primo incipit non è bello né accattivante; il secondo allude all’epica classica e pone l’eroe, il nar- ratore, al centro. 
Belpoliti Dal 1947 e fino a metà degli anni Cinquanta Levi raffina le strategie di narrazione. Un esempio. Nella prima versione, Alberto (Alberto dalla Volta, compagno di prigionia di Levi, ndr) è solo una delle persone citate, mentre nella seconda viene raccontato come il miglior amico, al centro della storia nei punti salienti. La spiegazione è semplice: Levi aveva nel frattempo cominciato a scrivere racconti. E ha progettato il secondo romanzo “La tregua”. Ha lavorato sulla qualità della scrittura di “Se questo è un uomo”, sulla struttura e sull’architettura di quel testo perché aveva deciso di essere scrittore appunto. Faccio un altro esempio. Il capitolo di “Se questo è un uomo” dove parla dei traffici dei manici di scopa, nel capitolo “L’ultimo”. Quelle pagine seguono la scena di impiccagione di cui abbiamo parlato prima. Abbiamo detto che in quella scena non c’è trascendenza né speranza, solo la morte e il Nulla. E allora perché dopo quella narrazione Levi decide di raccontare episodi che riguardano i traffici delle povere merci nel Lager? Per rimettere la persona umana, che traffica, e quindi si occupa della vita e del futuro, al centro. Per parlare della vita e non più dell’annientamento. È un procedimento da grande scrittore, non da testimone che racconta gli eventi in ordine cronologico. 
Goldkorn Forse la scena più bella e che meglio dà l’idea dell’uomo al centro dell’universo, anche nel Lager, è il racconto dove il narratore, mentre vanno a prendere la zuppa, recita al compagno di detenzione, Pikolo, Il canto di Ulisse di Dante. Levi fa vedere le stelle, il mare, fa respirare l’aria di libertà. Possiamo ipotizzare che almeno in parte quella scena è immaginata?
Belpoliti Jean Samuel, il Pikolo, non si ricordava di quell’episodio, ha detto dopo la morte di Primo. Probabilmente Levi ha parlato a Samuel di Dante, ma forse non in termini in cui lo ha scritto. Ma la storia è talmente bella che va approfondita. Levi dunque voleva citare Dante, perché era il suo punto di riferimento costante, era l’uomo in esilio, l’uomo che fugge, l’uomo libero. E poi c’è Ulisse, l’uomo che sfida gli déi. Tutto quello che ha scritto Levi è ancorato nella tradizione della letteratur italiana, in ogni riga c’è l’eco di un autore che lui ha frequentato, e credo che con il Canto di Ulisse volesse parlare pure della bellezza della lingua italiana. Aggiungo: la letteratura è un luogo della libertà, questo ci dice Levi. Ma se è così, la letteratura produce la realtà. Nella letteratura il racconto del reale, trasfigurato dallo scrittore, è più reale del reale. 
Goldkorn Levi è Ulisse. È astuto, fedele alla sua biografia, determinato a tornare a casa. Ha la sua Itaca in Corso Umberto a Torino. “La tregua”, in cui narra il vagabondare da Auschwitz a Torino, è la storia di Ulisse dopo Auschwitz. E in quel romanzo si manifesta il Levi creatore di una mitologia. È curioso quanto non racconti di Katowice, città dove soggiornò per più di tre mesi nel campo pro- fughi, perché è un luogo che si presta poco a una narrazione epica e quanto invece as- sume toni quasi atemporali parlando della Russia. Vi incontra uomini e donne vestiti di pelli d’animale. Vede boschi dove ci si perde come Hänsel e Gretel nella favola dei fratelli Grimm. 
Belpoliti Un libro riscritto due volte. Nel dattiloscritto che ho esaminato, ho trovato che aveva pensato di iniziare la storia con il Greco, suo compagno di viaggio. E poi ha riscritto anche il capitolo che si intitola così. Ha cassato un inizio meno letterario. Ha deciso di cominciare con due capitoli che appartenevano alla realtà di Auschwitz, là dove parla della salvezza e l’altro dedicato ai bambini e dove c’è l’episodio di Hurbinek. Li aveva già scritti all’epoca di “Se questo è un uomo”. Non butta nulla e poi ha pensato quel secondo libro come continuazione del primo, anche se letterariamente non lo è. Pensa da scrittore. Ha anche calcolato la lunghezza dei due libri contando le parole e le lunghezze dei capitoli: sono lunghi uguali. Ragiona come un chimico e tiene conto dei lettori. 
Goldkorn Un raccontatore di storie mentre il linguaggio è autonomo rispetto all’autore. La capacità di farlo trasforma un narratore in un grande scrittore. 
Belpoliti Per questo, considerare Levi uno scrittore significa porre di nuovo la questione del testimone. Ora la grande sfida è prendere la figura dello scrittore, liberata dal ruolo del testimone, e reinserirla nel discorso della te- stimonianza. Un compito non facile, ma decisivo per la testimonianza e per il nostro futuro di memoria viva. Ci serve la letteratura. La letteratura potenzia lo sguardo e lo rende acuto. Levi nel 1947 non usò il linguaggio neorealista allora di moda, ma il linguaggio classico della borghesia. Forse per questo Einaudi si rifiutò di pubblicarlo. Per capire cosa sia accaduto ad Auschwitz ci vuole la lettera- tura, perché solo la letteratura ci permette di comprendere cose che i realisti non riescono a immaginare. Levi prova che Auschwitz può essere narrata, però lo può fare uno scrittore, un artista, un musicista. La letteratura è il prosaico portato al sublime. 
Goldkorn Abbiamo parlato di Levi narratore di Auschwitz, non perché gli altri libri siano meno importanti (“La chiave a stella” è un capolavoro), ma per sottolineare quanto ha appena detto: solo la letteratura può dare senso all’inenarrabile. Perché Levi diceva di non sentirsi del tutto scrittore? 
Belpoliti Un po’ perché era rimasto traumatizzato dal rifiuto di Einaudi. Ma soprattutto perché da antifascista temeva che, presentandosi solo come scrittore, la forza della sua testimonianza potesse essere messa in dubbio. Era un problema politico e culturale, e lo sentiva molto, perché, ri- cordiamolo, nessuno, subito dopo la guerra, voleva ascoltare quanto era accaduto nei Lager. Gli scrittori inventano. Levi non inventava, costruiva la memoria sotto forma di una prosa sublime.
La chimica, l’Olocausto e la letteratura 
Di Federico Marconi
È il 31 luglio 1919. In una Torino alle prese con la febbre spagnola e scossa dai primi moti del Biennio Rosso nasce Primo Levi, primogenito di Cesare Levi ed Ester Luzzatti, entrambi di religione ebraica. Primo è gracile e di salute spesso cagionevole: così nei primi anni non frequenta la scuola con costanza, costretto a ricorrere a insegnanti privati. Nel 1934 inizia il liceo, il Massimo D’Azeglio, già sede di professori antifascisti ma allora politicamente “epurato”. Studia con profitto: sempre buoni i voti nelle materie scientifiche, meno quelli in italiano. Anche per questo, presa la licenza, nel 1937 decide di frequentare il corso di laurea in Scienze all’Università di Torino. Giusto in tempo: un anno dopo il regime promulga le leggi razziali che non gli avrebbero permesso di iscriversi. Levi si scopre diverso, discriminato, un nemico anche lui che era stato balilla prima e avanguardista poi.
Nel 1941, quando termina gli studi, sul diploma di laurea insieme alla lode ci sarà la menzione della “razza ebraica”. Inizia subito a lavorare e, nel 1942, si trasferisce a Milano. Lì inizia a militare nella Resistenza: dopo la caduta di Mussolini e l’armistizio di Badoglio, con l’inizio dell’occupazione nazista del Nord Italia si rifugia sulle montagne della Val d’Aosta.
Serve a poco: il 13 dicembre 1943 viene catturato e spedito nel campo di concentramento di Fossoli, vicino a Carpi.
Da lì, pochi mesi dopo, è caricato su un treno direzione Auschwitz. Levi ha studiato, è considerato manodopera specializzata, per questo i tedeschi lo fanno lavorare nell’impianto chimico di Buna. È uno dei fattori che contribuiranno alla sua salvezza, insieme alla scarlattina: si ammala poco prima dell’arrivo dei russi, il 27 gennaio 1945, e le SS non lo portano con loro. Inizia allora un lungo giro d’Europa al seguito dei sovietici, raccontato ne “La Tregua”. Torna a Torino nel 1946 e inizia subito a scrivere la sua esperienza di deportato: nasce così “Se questo è un uomo”. Rifiutato da Einaudi, il libro è pubblicato da De Silva nel 1947: viene accolto da buona critica, ma delle 2500 copie stampate ne vengono vendute poco più della metà.
Levi, deluso, continua a scrivere ma torna a lavorare in fabbrica. Solo nel 1956 ritrova fiducia nella sua penna e ripropone il libro a Einaudi, che questa volta lo pubblica anche per l’interesse suscitato da Levi dopo una mostra sulla deportazione negli anni della guerra. Nel 1961 inizia a scrivere “La Tregua”, che pubblica due anni dopo e gli fa vincere il primo Premio Campiello.
Negli anni Settanta pubblica “Il sistema periodico” (1975) e “La chiave a stella” (1978), frutto dei suoi viaggi a Togliattigrad, con cui vince lo Strega. Poi è la volta di “Se non ora, quando”, del 1982, romanzo con cui vince di nuovo il Campiello e de “I sommersi e i salvati” (1986), da molti considerato il suo capolavoro intellettuale.
È il suo ultimo libro: malato e depresso, l’11 aprile 1987 si getta nella tromba delle scale del palazzo dove era nato 67 anni prima.

L’Espresso 23.6.2019 

L’abiura di Galileo e i dubbi di Brecht 
Nell’atteggiamento dello scienziato di fronte all’Inquisizione
il drammaturgo rivive la sua esperienza nell’America maccartista
di Bernardo Valli

Frammenti di Rembrandt, di Fra’ Angelico, di Caravaggio, di Raffaello dominano la scenografia di “La Vita di Galileo” rappresentata in questa stagione alla Comédie-Française. Per evocare subito nell’immaginario collettivo il Vaticano, la cappella Sistina, i palazzi veneziani o fiorentini o padovani, in generale l’imperante atmosfera religiosa dell’epoca in cui si svolge l’opera di Bertolt Brecht, il palcoscenico parigino è spesso avvolto da particolari di celebri dipinti, sapientemente ingranditi. E poiché il diavolo è nei dettagli, sottolinea Eric Ruf, il regista e scenografo, gli angeli scelti, scovati da lui hanno sguardi dubbiosi, e i santi espressioni distratte. Tutt’altro che ispirate. Galileo Galilei è come prigioniero di quelle immagini svagate rispetto alla pietà, come sentimento d’amore e comprensione. Su di lui pesa l’oscurantismo: l’Inquisizione. Il carattere del Galileo di Brecht non corrisponde a quello dei libri di storia. Anche se i fatti sono fedeli alla sua biografia. Sulla scena appare un personaggio ironico, a tratti spavaldo, sprezzante, reso euforico dalle sue scoperte, ma anche sconcertato, confuso, quando deve affrontare le conseguenze delle tesi (copernicane) da lui apertamente sostenute. Non perde tuttavia l’ambizione e la lucidità di fronte alla sconfitta e alle minacce fisiche, pur ritirandosi nella solitudine e nei rimorsi. L’attore Hervé Pierre interpreta, quasi sillaba, questi zigzaganti umori di Galileo, mentre intorno a lui si muove, scettica o minacciosa o delusa, una folla di personaggi: dal Papa ai cardinali, dai semplici inquisitori agli allievi fedeli o sconcertati: i cui costumi creati dal sarto Christian Lacroix sembrano usciti dai dipinti dell’epoca. Ricco dunque lo spettacolo, sia pure entro i classici canoni della Comédie-Française.
Come tutte le grandi opere il Galileo di Brecht esprime valori che vanno al di là dell’epoca in cui è ambientato. Brecht vi ha lavorato a lungo. Ne ha fatto tre versioni: quella danese (1938- ’39) durante il primo esilio dopo l’avvento del nazismo, quella statuniten- se (1943-’45), quella berlinese (1956). Quest’ultima rappresentata subito dopo la sua morte. La vita di Galileo tormenta Brecht. La legge anche at- traverso la lente del presente. Del suo presente. Nell’opera teatrale pone con chiarezza l’equazione tra il rifiuto dell’ oscurantismo religioso e il fondamentale dubbio sulla compiutezza, sulla perfezione della scienza. Trasformato un semplice cannocchiale olandese in un telescopio astro- nomico, Galileo si presenta trionfante alla corte fiorentina dei Medici dove spera di essere assecondato nelle sue ricerche. La Luna, sostiene, non ha una luce propria, è illuminata dal Sole, come la Terra, che gli ruota attorno. L’Inquisizione non è d’ accordo, giudica inaccettabile l’idea: se la Terra non è più al centro dell’universo che cos’è, allora, l’uomo nel creato? Sotto la minaccia della tortura Galileo ritratta le proprie idee. L’abiura lo salva fisicamente. Brecht si chiede allora se si possa parlare di sopravvivenza sen- za affrontare il problema della viltà. Costretto a lasciare la Germania nel 1933, dopo l’incendio del Reichstag, lui, Brecht, conosce la sorte subita dagli artisti e dagli intellettuali sotto- posti alla violenza nazista e costretti a risolvere il dilemma: accettare o meno il nuovo regime. Più tardi, negli Stati Uniti, si interessa alle appassionate discussioni, iniziate da Albert Einstein, sulle conseguenze del progresso scientifico, e sull’uso che gli scienziati fanno del loro sapere. Un’altra prova si presenta per Brecht quando, sempre negli Stati Uniti, con altri intellettuali viene convocato dal comitato del Congresso che si occupa delle attività antiamericane. Se la cava assumendo furbescamente atteggiamenti ingenui che gli valgono le felicitazioni degli inquirenti.
Incalzato dagli avvenimenti e dai dubbi Brecht ritocca più volte il giudizio sul “suo” Galileo. Ne fa un combattente, perché dopo l’abiura continua in segreto i suoi studi, affidando i risultati a un allievo incaricato di diffonderli. Ma ne fa anche un col- pevole. Lo stesso Galileo pronuncia un’autocondanna: riconosce che se avesse rifiutato di rinnegare le sue tesi avrebbe lasciato un esempio: un invito a utilizzare la scienza unicamente per il bene dell’umanità. Il Galileo di Brecht ha optato in definitiva per un compromesso.

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