Repubblica 20.11.18
Storia e leggenda
La fortuna di un simbolo
L’eros senza maschio di Leda e il cigno
di Silvia Ronchey
Ed
ecco che a Pompei la sempre imponderabile cabala dei crolli e dei
controlli fa riemergere una variante ancora più antica, pittorica, di un
episodio amoroso da sempre simbolo, nella storia della pittura e della
letteratura, dell’autoerotismo femminile: del piacere che la donna può
darsi senza la cooperazione del maschio, anzi, di alcun umano. Nella
scultura adrianea, copia di un originale ellenistico, il corpo di Leda,
completamente nudo, è contratto nell’amplesso, la mano celata nel grembo
premuto alle piume, stretto fra le unghie di un onirico cigno dotato di
doppio fallo, dove quello proteso nel lungo collo, cui le labbra si
accostano in un’appena dissimulata fellatio, prevale sull’altro che si
insinua fra le cosce tremanti — per citare i versi di Yeats — della
ragazza che è in piedi e barcolla. Nell’altrettanto esplicito erotismo
dell’affresco pompeiano, Leda, i drappeggi dell’abito appena scostati,
ancora cinta di diadema e calzari, è abbandonata su una sedia ed è al
seno scoperto che si protende il becco del bianco fantasma erotico
avvinghiato alle sue cosce.
Nelle grandi Lede della storia
dell’arte successiva c’è sempre qualcosa di ineffabile dipinto sul viso
della donna da cui non a caso nascerà Elena, e con lei la guerra di
Troia, e dunque Roma, con la fuga di Enea. Perfino il sorriso
leonardesco del dipinto della Galleria Borghese è solo uno dei tanti
misteriosi, allusivi, indecifrabili sorrisi che Leda, moltiplicata nel
suo sogno in infinite immagini pittoriche, regala prima, durante o
spesso dopo l’amplesso all’empatia dei pittori.
Del resto, della
meno censurata tra le Lede dei grandi maestri, quella di Michelangelo,
non sopravvive l’esecuzione finale, smarrita o censurata in un giro di
corti che dalla committenza estense si arenerà in quella di Francia, ma
la copia di Rosso Fiorentino della National Gallery dà un’idea di quanto
meno pudica della Leda post coitum di Leonardo fosse l’idea che
Michelangelo aveva di quell’amplesso.
Il cigno non è una bestia. È
la figurazione simbolica dei desideri repressi e insieme delle paure
erotiche femminili. Tutta l’imponderabilità e irrefrenabilità
dell’erezione maschile è richiusa e dischiusa in quelle grandi ali
frementi, che nell’iconografia assumono, come sempre le immagini dei
sogni, proporzioni vertiginosamente variabili, ora ridotte alla
sensualità del passer della Lesbia di Catullo, ora talmente gigantesche
da far intravedere nel corpo a corpo erotico delle Lede avviluppate
nelle loro piume qualcosa di simile alla lotta di Giacobbe con l’angelo.
In effetti, se a qualcosa la loro tradizione iconografica può essere
accostata, è quella di una vertigine del volo — pensiamo allo slancio di
Icaro — che il mondo greco, attingendo alla tradizione orientale,
consegnerà all’angelologia cristiana e islamica.
Che siano di
chimera, di fenice o di cigno, che richiamino Eros o Ermes dal piede
alato, e con lui la natura stessa del sogno, le ali, tipico oggetto di
fobia sessuale femminile, sono un altro potente simbolo di hybris
fallica. Creato dalla fantasia, dalla forza del sogno, dall’urgenza del
simbolo, il cigno di Leda è quanto di più lontano da una concreta
presenza animale.
Nulla a che fare con gli accoppiamenti bestiali
della mitologia greca, come quello di Pasifae col nero, potente toro
dall’immenso membro, che non a caso farà sorgere alle fondamenta
dell’edificio psicologico greco una creatura — il Minotauro — che
simboleggia nella mitologia l’assoluto irrazionale, la parte bestiale
che è in noi, tanto avida quanto sapiente, tenuta a guardia del grande
labirinto dell’inconscio.
Ma neanche quel figlio, per i greci, è
il male, anzi. Sarà la sua uccisione da parte dell’infido eroe Teseo a
produrre la combinazione di eventi che porterà a un’ancora più potente
compensazione simbolica: a consegnare Arianna, sorella del Minotauro e
suo esatto contrario, sacerdotessa della razionalità della dea Atena, a
farsi sposa, abbandonata a Nasso, di Dioniso, il dio della natura
scatenata e dell’ebbrezza.
Il prodotto dell’accoppiamento di Leda non sarà meno inquietante.
Elena
incarnerà la femminilità più potente di tutto il mito greco, quella cui
non si resiste, capace di addormentare con il suo nepente il cuore
degli uomini, di scatenare le loro guerre, di disseminare, con la sua
forza di donna creata dal puro piacere di una donna, il massimo
disorientamento nel mondo dei maschi. Elena dalle bianche braccia,
candida e onirica come "il bianco tumulto" che la fa nascere, sarà la
femme fatale per eccellenza, la splendida strega capace di scardinare
ognuno degli aspetti dell’egemonia maschile.
Il mito di Leda è
dunque il mito d’origine dell’autonomia femminile, del suo desiderio
sessuale emancipato dal maschio, delle sue non solo erotiche ma anche
concrete paure — poiché certo essere ingravidate da un sogno è da sempre
nelle donne uno dei più irrazionali e archetipi timori, non a caso
esorcizzato nelle storie di maghe e di streghe. È forse questo solo, nel
mito di Leda, l’intervento di Zeus. Per una volta assolviamolo dalla
sua fama di stupratore. Quello di Leda è il contrario di uno stupro. E
la vasta fortuna della sua iconografia è uno dei tanti segni nascosti,
sotterranei, carsici che la psiche femminile ha lasciato, indecifrati
dai molti, còlti dagli artisti e dai poeti, serbati e sussurrati nel
segreto delle corti, della sua indipendenza e della sua libertà.