Corriere La Lettura 18.11.18
La vera Teresa d’Avila: femminile e marrana
I suoi testi spesso trascurati dagli intellettuali ora sono accessibili in un’edizione con l’originale a fronte
Peccato che il saggio introduttivo dimentichi l’origine ebrea della sua famiglia e cancelli ogni tratto identitario
di Donatella Di Cesare
La
mano correva veloce sui fogli, un’ora dopo l’altra, senza più il senso
del tempo. Negli interminabili pomeriggi d’estate, nelle lunghe notti
d’inverno, quando avrebbe potuto assalirla la malinconia, spettro
funesto del monastero, lei era lì, per terra, seduta su una stuoia,
appoggiata al ripiano di pietra sotto la finestra. Meditava, ricordava,
scriveva. Non che il resto del giorno si sottraesse agli innumerevoli
compiti — prendere l’acqua al pozzo, badare alla porta, filare, tessere,
cucinare, ricamare — cui tutte le suore erano obbligate, se non
volevano perdere quell’autonomia così faticosamente conquistata. Già nel
municipio si mormorava che «certe donne, monache carmelitane, avevano
abusivamente occupato una casa». Qualcuno aveva perfino minacciato un
assalto al convento; quella novità era scandalosa.
Eppure lì, a
San José, nell’autunno del 1565, dopo anni di amari tormenti e cupe
inquietudini, a Teresa sembrava che la sua vita interiore procedesse
come «una navigazione con un vento molto pacato». Era l’augurio che
aveva espresso nella sua autobiografia, la Vida, composta «per ordine
del confessore» — altrimenti si poteva immaginare che lei, una donna,
scrivesse così, liberamente — e poi più volte corretta per eludere i
sospetti dell’Inquisizione.
Finalmente era riuscita nel suo
progetto: lasciarsi alle spalle l’esistenza confortevole e banale, che
si conduceva all’ombra dei chiostri, per riprendere le regole antiche
del Carmelo. Silenzio, povertà, introspezione, preghiera, vita
comunitaria. Si erano scalzate; portavano sandali di tela e corda,
indossavano un abito di lana grezza. Non possedevano nulla. Era una
nuova forma di vita all’insegna dell’uguaglianza. Lì, tra loro, il
sangue non sarebbe mai stato criterio per escludere, discriminare,
colpevolizzare; la limpieza de sangre, assurta a legge razzista nella
Spagna cattolica, che aveva già espulso gli ebrei, non avrebbe avuto
alcun valore nello spazio del monastero. Tanto più che molte di loro, da
Leonor de Cepeda a Maria de Ocampo, erano, come lei, figlie di
conversos, ebrei convertiti al cristianesimo e segnati poi da una
duplice non-appartenenza, non più ebrei, ma neppure ancora cristiani.
L’acqua del battesimo non era bastata a lavare l’«impuro sangue
ebraico», quel fluido ineffabile in cui si condensava il «male
incurabile» dell’ebraismo. No, i «nuovi cristiani» non venivano
considerati fratelli. Erano bollati piuttosto come «marrani», perfidi e
infidi, capaci di dissimularsi, di farsi passare per cattolici, mentre
restavano segretamente ebrei.
Teresa non aveva dimenticato. Come
avrebbe potuto? Certo, non ne aveva parlato nella storia della sua vita.
E anche altrove fu accorta; ad esempio là dove, nelle Costituzioni,
scritte per le carmelitane, aveva espunto la frase «è importante per
coloro che vogliano essere figli di Dio non tener in nessun conto il
lignaggio». Nella sua infanzia e nell’adolescenza il lignaggio aveva
pesato in modo subdolo, atroce, ingiusto. Per sempre lei sarebbe stata
afflitta dall’obbligo di sustentar la honra, di sopportare il peso di
una reputazione perduta.
Oltre le alte mura di Avila si ergeva il
terribile ricordo di quel che era avvenuto a Toledo, quando suo nonno
Juan Sánchez, drappiere e mercader, fu costretto a passare per le vie
della città, tra i lazzi e le invettive della folla, indossando il
sambenito, l’infame scapolare giallo che marchiava i marrani. Con lui
sfilò l’intera famiglia, anche il figlio minore Alonso. Dopo aver
acquistato un certificato falso di hidalguía, che avrebbe dovuto
attestare il sangue «pulito», scongiurando carcere e tortura, i Sánchez
de Cepeda si rifugiarono ad Avila per ricominciare una vita al di sopra
di ogni sospetto. Alonso tentò di eliminare, insieme a quell’antica
disgrazia, ogni traccia di ebraismo; sposò in seconde nozze Beatriz de
Ahumada, donna di grande bellezza, appartenente alla piccola nobiltà. Il
28 marzo 1515 nacque Teresa, chiamata così in ricordo della nonna
paterna Teresa Sánchez. Ma lo scomodo patronimico ebraico (appunto
Sánchez) scomparve, soppiantato dai cognomi cattolici. Ma per i Cepeda y
Ahumada, nonostante ogni occultamento, il passato restò incancellabile.
Dopo
aver messo al mondo dieci figli, la madre morì molto presto, a
trentatré anni. Con lei Teresa aveva condiviso l’amore appassionato per
la lettura, conforto e sostegno per una donna timorata, chiusa nel
matrimonio. Seguire quel modello? O cercarne un altro? Quando si era
abbandonata all’amore per un cugino, con severità il padre era
intervenuto per interrompere quella relazione. I fratelli emigravano in
cerca di fortuna nel Nuovo Mondo; persino il suo prediletto Rodrigo
salpò per il Río de la Plata. Via via anche la sua sorte sembrò
ineluttabile. Don Alonso continuava a sperperare denaro e un buon
matrimonio appariva una chimera. Teresa fuggì. Meglio il convento: la
certezza di una dignità, la risorsa dello studio e della preghiera, la
possibilità di restare sola, la paradossale libertà nel chiuso di
quattro mura. Il padre andò a riprendersela. Lei fu irremovibile e
pronunciò i voti nel 1537. Un anno dopo fece ritorno a casa gravemente
malata. Un morbo oscuro le divorava la vita. Fu un susseguirsi di
palpitazioni, convulsioni, addirittura paralisi. Decisivo fu l’incontro
con Pedro de Cepeda, zio paterno, che da «cristiano nuovo» aveva scelto
di farsi frate. Grazie a lui Teresa scoprì l’opera di un altro converso,
Francisco de Osuna, che le additava un’avventura possibile, tutta
interiore, la scoperta delle Indie di Dio.
Questa fu la
«conversione» di Teresa, donna tormentata e ironica, radicale e
appassionata, che sfugge ai limiti della sua epoca e appare una
contemporanea. Di qui l’attrazione esercitata dai suoi scritti che,
spesso trascurati nel mondo intellettuale, sono adesso accessibili in
una splendida edizione con testo a fronte, curata da Massimo Bettetini e
pubblicata da Bompiani. Peccato solo che il saggio introduttivo dipinga
sin dall’inizio Teresa come una suorina in nuce, cancellando ogni
tratto femminile, rimuovendo del tutto il passato ebraico. Non una volta
si menziona Toledo! Come se non fosse mai esistito. Teologia della
sostituzione che ripete — ancora adesso e, certo, non senza violenza —
il gesto che fagocita, ingloba, elimina.
Ma Teresa, beata, santa,
dottore della Chiesa, era una marrana. Perché negarlo? Dal 1946 le carte
d’archivio non lasciano dubbi. E proprio questa sua peculiarità, che la
relega al margine, si riflette nel suo originalissimo pensiero. Michel
de Certeau la inserisce nella tradizione umiliata dei «nuovi cristiani»,
anime divise, pervase dal bisogno di un’intimità nascosta. L’incontro
fra due tradizioni religiose, una respinta in un ritiro interiore,
l’altra trionfante ma «corrotta», permette agli esponenti di questa
intellighenzia di entrare nel cristianesimo articolando l’esperienza di
un altrove. Tra meditazione e poesia, sono i percorsi autobiografici che
consentono una libertà insperata per attraversare quella «notte oscura
dell’anima», secondo il titolo del celebre poema di Juan de la Cruz.
Come
spiegare altrimenti il capolavoro di Teresa d’Avila Las Moradas, ossia
le dimore, detto anche El castillo interior (1577). Il castello è
«dimora presa a prestito», dove l’anima può lasciarsi trasportare fuori
di sé. Diamante e cristallo riflettono la luce di questo spazio
interiore dove l’altro parla «per me». Il dialogo dell’anima si dispiega
in uno sdoppiamento: l’altro abita nel sé, il sé nell’altro. Nessuna
identità integrale. Tu sei altro da te stesso. Anche nell’unione mistica
la separazione del sé da sé stesso è ineluttabile. Anzi è grazie alla
separazione che l’anima può ospitare, può far posto all’altro infinito.
Teresa scrive seguendo il dettato di una parola che la oltrepassa,
parola condivisa, che viene dalla sua cerchia, che si dispiega in un tra
— tra donne — e nella sua duplice differenza, femminile e marrana, non
può non infrangere e contaminare l’universo cattolico. Così indica un sé
inaccessibile anche a sé stesso, abitato dall’altro, infinitamente
altro, e perciò sacro, che occorre difendere e salvaguardare. Tutta la
mistica marrana è una risposta alla violenza degli inquisitori di ieri e
di oggi.