mercoledì 3 ottobre 2018

Corriere 3.7.18
Cuneo
Assegnato il premio Paraloup-Nuto Revelli a Carlo Smuraglia


Carlo Smuraglia ha vinto il Premio Paraloup-Nuto Revelli destinato a persone che «si siano distinte nel campo della cultura intesa come impegno civile e strumento di riscatto sociale». La cerimonia di consegna del riconoscimento avverrà venerdì 5 ottobre, alle ore 18, nel Salone d’onore del municipio di Cuneo, la città dove nacque e morì Nuto Revelli (1919-2004), scrittore, ufficiale e partigiano, autore, tra l’altro, della Guerra dei poveri, del Mondo dei vinti, del Disperso di Marburg. Carlo Smuraglia, «partigiano, giurista, scrittore, testimone esemplare della storia migliore del nostro Paese», dice la motivazione del premio creato dalla Fondazione Nuto Revelli, «non ha mai rinunciato a battersi per le ragioni della libertà (...). In giovinezza nella Resistenza, nella maturità come avvocato e docente universitario al servizio della giustizia, in Parlamento come garante della memoria e soprattutto come combattivo custode della Costituzione». Consegnerà il premio Marco Revelli, figlio di Nuto, mentre Corrado Stajano presenterà il vincitore. (ma. b.)

La Stampa 3.7.18
Scuola, il colloquio con i professori è più veloce se paghi 3 euro
di Nicola Pinna


È lo stesso metodo usato dalle compagnie aeree low cost: chi paga, salta la fila. E trova persino il posto assegnato. Come in aeroporto, ma in una scuola pubblica. Nei giorni dei classici colloqui tra genitori e docenti. Il ticket per scamparsi le lunghe code prima di incontrare i professori costa tre euro: idea dell’istituto comprensivo di Selargius, in provincia di Cagliari, dove è attiva una sorta di «eliminacode», che ha già fatto scoppiare la polemica.
Le proteste dei genitori
Il dirigente dell’istituto comprensivo di Su Planu, scuole elementari e medie alla periferia della cittadina del Cagliaritano, considera l’iniziativa come un servizio di cui far vanto. Innovativo e molto utile per i genitori. Il debutto c’era stato alla fine dello scorso anno scolastico, con un sistema di prenotazioni online che era stato ribattezzato «Colloqui facili». Passata la fase sperimentale, ora il servizio diventa a pagamento. Ma non è detto che tutti i genitori siano disposti a pagare per farsi raccontare se i figli si impegnano, studiano con costanza o hanno preso qualche brutto voto. «Assurdo che ci chiedano di pagare anche per i colloqui - protesta una mamma -. Farebbero bene a gestire gli incontri con gli insegnanti in modo che non si creino code. D’altronde, le file e le attese sono un disservizio e non è accettabile che pretendano di pagare per eliminarlo». «È un altro modo per finanziare le attività scolastiche, visti i tagli continui dei contributi all’istruzione? - chiedo altri genitori -. Se i colloqui si possono sostituire con appuntamenti a pagamento, evidentemente è anche possibile eliminare il disagio anche senza chiedere un contributo».
Il ticket di tre euro vale tutto l’anno: per i colloqui del primo quadrimestre e anche per quelli del secondo. Proprio come fa una compagnia aerea: imbarco prioritario, sia per il viaggio di andata, sia per quello di ritorno. «È soltanto una cifra simbolica, che servirà a ricompensare il lavoro della società che abbiamo incaricato per svolgere questo servizio - risponde il vice dirigente dell’istituto comprensivo, Tore Serra -. I genitori ogni anno si lamentano perché prima di incontrare i docenti sono costretti ad attendere ore e ore davanti alla porta e per questo abbiamo pensato di potenziare il servizio che già lo scorso anno aveva avuto grande successo. Ci sembra una bella idea: meglio pagare tre euro, che stare in fila ad attendere il proprio turno il giorno dei colloqui». Niente check-in, c’è l’imbarco prioritario..

Il Fatto 3.10.18
Libertà e Giustizia contro le “strettoie legali” anti-migranti
di Libertà e Giustizia


Nella drammatica vicenda che ha investito il sindaco di Riace, al di là di ogni valutazione di merito (a partire dalla severità della misura cautelare adottata), di pertinenza della magistratura, due elementi spiccano sugli altri.
Il primo è l’oscena soddisfazione ostentata da attori istituzionali di primissimo piano, che, con cinismo senza pari, gongolano nel veder minata un’esperienza di accoglienza presa a modello in tutto il mondo.
Il secondo è la strettoia che si è venuta a creare nell’ordinamento giuridico con riguardo alla possibilità di accedere legalmente nel nostro Paese, al di là delle ipotesi di protezione internazionale sancite dalla Costituzione. Come se fosse possibile negare per legge l’esistenza di un fenomeno epocale, peraltro, almeno in parte, frutto di squilibri internazionali da noi stessi alimentati.
In questo momento chi ha a cuore la costruzione di una legalità coerente con la Costituzione sente di condividere profondamente le battaglie civili del sindaco Mimmo Lucano.

La Stampa 3.10.18
Luigi Zoja
“Lo straniero ci fa paura Solo conoscendolo potremo accettarlo”


L’uomo è anche una specie animale: ha degli istinti, che sono gli stessi dalla fine del paleolitico. Per quello sessuale o nutritivo le possibilità di soddisfazione si sono moltiplicate. L’istinto territoriale è stato invece sconvolto dalla civiltà. Ognuno di noi si muove già in appartamenti troppo piccoli. Ma se esce di casa? È costretto a stiparsi con cento altre persone in un vagone della metropolitana. Gli animali - anche quelli più intelligenti e disciplinati - difficilmente lo accetterebbero: l’istinto vuole prima controllare se i vicini sono amici. Diffidare è una difesa istintiva, non una malattia. La ragione del passeggero accetta i vicini perché «sa» che sono viaggiatori, non invasori. Ma l’istinto entra in allarme.
Per giunta ormai molti passeggeri provengono da Paesi lontani: sono «diversi» e non integrati. Per i nostri istinti sono quasi appartenenti a una specie non umana: ci sentiamo minacciati senza saper spiegare perché. La differenza è sentita come un pericolo, soprattutto da chi è abituato a reagire con «la pancia» più che con la riflessione. [...]
Ora passiamo dal caso individuale alla massa. Nella Germania di Weimar, dove la stabilità quotidiana era sconvolta da una inflazione mai vista, già dominava il panico. Secondo Hitler il Paese era minacciato dal corrompersi della razza: soprattutto per via degli ebrei, che «complottavano» per prendere il potere. Come il passeggero del metrò, Hitler si lasciava guidare da istinto: come i cani che, vedendo un’ombra, abbaiano prima di capire. Ma la società umana è più complessa di quella animale, il nostro «abbaiare» andrebbe filtrato dalla consapevolezza. Hitler invece non cercò di dimostrare l’esistenza di un «complotto ebraico». Passò direttamente alle leggi razziali e all’annientamento di tutti i diversi.
Come la bulimia è una degenerazione dell’appetito, la paura paranoica nasce dal sospetto, in sé necessario: non possiamo sempre fidarci. Il paranoico, però, razionalizza la diffidenza con categorie morali. Hitler e Stalin giustificarono le loro stragi come lotta tra «bene» e «male». Ma queste categorie poggiavano su una scissione assoluta fra noi e gli «altri». Nessuno è perfetto, il male esiste in tutti. Ma il paranoico manca di ogni capacità psicologica: non sa guardarsi dentro. Il suo male è semplicemente espulso e attribuito agli avversari. [...]
Da quando esistono i mezzi di comunicazione, abbiamo maggior accesso alle spiegazioni reali e non dovremmo aver più bisogno di quelle superstiziose (malocchio o «complotti»). Invece stampa, radio e televisione vengono manipolati, additando qualcuno sufficientemente «altro»: lo si trasforma in nemico, riattivando le nostre paure più animali. Le dittature dispiegavano una paranoia hard, mentre quella di oggi è solo soft. Purtroppo si sovrappone a un nuovo inconveniente, il «paradosso di internet». La rete ci offre conoscenza. Ma, oltre un certo limite, fa invece aumentare l’ignoranza. Inoltre, l’uso di internet è massimo fra i più giovani. Più che accedere a dialoghi nuovi, si comunica fra coetanei, rinforzando pregiudizi già esistenti. Ne soffre lo scambio intergenerazionale; e con esso la conoscenza della storia. Racconti brevi, velocissimi e gratuiti. Ma fra le popolazioni meno colte avvengono ormai linciaggi per false accuse «postate» su Facebook. Come ho notato nel testo Nella mente di un terrorista, persino in Italia c’è chi non esce più di casa per paura del terrorismo, che da noi finora non ha colpito. Mentre nessuno si rifiuta di uscire perché fuori ci sta un altro killer: l’inquinamento (in Italia causa 83.000 morti all’anno, Eea). L’aria tossica non è un «diverso» da additare sui media e sui social.
Conseguenza del terrorismo è la sopravvalutazione del numero di immigrati musulmani in tutta Europa: si crede sia fino a settanta volte superiore al reale. Un pericolo terrorista esiste. Ma in questo caso corrisponderà a un settantesimo del problema. Gli altri sessantanove settantesimi sono paure paranoiche.
Gli studi su questi preoccupanti temi ci offrono però una notizia buona, suggerendo una via semplice e antica. La paura paranoica dell’«altro» è massima dove i «diversi» sono quasi assenti, minima dove sono molti. L’uomo resta uomo: per natura un animale sociale, che ha bisogno di rapporti. Anche gli studi storici sugli scontri razziali e i genocidi lo provano. Non è difficile attizzare l’ostilità verso un gruppo sconosciuto. Conoscere personalmente «l’altro» è invece la difesa migliore contro le nostre paure.

Corriere 3.10.18
Amore e salute Il neurologo Rosario Sorrentino indaga con un romanzo (Mondadori) gli attacchi di panico
Nella prigione della malattia scoprire che la libertà è a un passo
di Carlo Baroni


Amore e salute Il neurologo Rosario Sorrentino indaga con un romanzo (Mondadori) gli attacchi di panico
Nella prigione della malattia scoprire che la libertà è a un passo
di Carlo Baroni
La nemica è di quelle che non puoi guardare negli occhi. È astuta e vigliacca. Ti attacca alle spalle. Non dorme e non mangia. Si avvicina mentre sei in coda al supermercato. O sulla panchina di un parco. Una «bestia» immonda. I medici la chiamano «attacco di panico». Che detto così sembra solo una patologia tra le tante. Per Laura, invece, è l’inizio di un nuovo mondo. Ostile e imprevedibile. Lei che prima sembrava impermeabile alle debolezze. Una donna di successo. Altera e determinata. Cattiva, persino. Capace di fare terra bruciata. Di calpestare gli altri. Che pretende il meglio. E non importa come. Così quando finisce nel gorgo si chiede se non sia colpa sua o una punizione divina. Ma davvero c’è un momento in cui tutto comincia? O doveva andare così e basta? Colpa del destino o del tuo dna che, forse, sono la stessa cosa?
Attacco di panico è un romanzo e una bussola per ritrovare una strada che la «bestia» ha devastato e nascosto tra i rovi. L’autore, Rosario Sorrentino, è un medico, un neurologo, divulgatore scientifico, impegnato a smascherare queste «bugie del cervello».
Per Laura, la protagonista, il viaggio all’inferno comincia per gradi, un giorno in auto che sta per andare a comprare una casa. Il cuore che batte all’impazzata, il sudore che ti avvolge, il non capire quello che sta succedendo. E poi il pronto soccorso. Circondata da infermiere distratte e un medico che la liquida con una diagnosi di stress. Ma lei sa che non è solo tensione accumulata. La «bestia» si è fatta strada dentro di lei senza chiederle il permesso di soggiorno. Sta lì, silenziosa, pronta a sbranarla.
Nel lettino a fianco un giovane uomo, Riccardo, l’unico in quella umanità ad accorgersi di lei davvero. A guardarla, parlarle. Un salvagente da afferrare subito. La ragione dice di farlo, tutto il resto (cuore, istinto, nervi) la sbatte dall’altra parte. Laura viene dimessa, ma non è guarita. Il terrore di ricadere in balia della «bestia» la costringe a restare davanti al pronto soccorso. L’auto è diventata la sua casa. Il perimetro della sua vita tra il bar di fronte e un supermercato. Il resto è una scatola di lamiera e vetri che la protegge. Si rende conto di cadere, di non potercela, di non volercela fare. E neanche Daniela, l’amica del cuore, riesce a smuoverla. Laura la maltratta: è il suo modo per non coinvolgerla nel dramma. Con Riccardo è anche peggio. È nato un sentimento di quelli difficili da comprendere. Per lui è amore, non compassione. Lei avrebbe voglia di lasciarsi andare. Seguirlo, fidarsi di lui. Ma la «bestia» è gelosa. Non vuole rivali. La possiede senza ritegno. E non c’è solo il male.
Il parcheggio è nel territorio di una banda di criminali. Gente senza scrupoli. Laura diventa la preda indifesa, un oggetto che si può far fruttare. Magari nel traffico di organi. Nessuno si accorgerebbe della sua scomparsa. Il suo rene venduto e lei che ci ricava persino dei soldi. Laura li affronta. Per un momento ritrova il piglio altero.
Ma la lotta è impari. E lei non vuole farsi aiutare. Un medico paziente la avvicina. Le spiega che la soluzione, lenta, faticosa, lunga sta in una cura. Laura non si fida. Odia i farmaci. Ha paura che la trasformino. Le «rubino» la coscienza. La riducano in schiavitù. E ha il terrore di morire soffocata da una pastiglia. Il medico non desiste. Riccardo le sta accanto. Dalle pastiglie si passa alle gocce. Laura cede. Poco per volta. E attorno, al di là della «bestia» c’è ancora la banda di criminali. E Riccardo da proteggere. La paura fuori di te la puoi riuscire a piegare.
Perché la vedi, ha una faccia. Parla e si muove. La puoi anticipare, contrastare, sconfiggere. La «bestia» no. La battaglia ha bisogno di strategie creative. E chi ti dà coraggio non sa cosa provi. E tu non puoi spiegarglielo. Solo restare in attesa. Di un altro attacco. Dovunque. A qualunque ora. Sai che la battaglia sarà lunga, mai disperata, però.

Corriere 3.10.18
Decreto sicurezza
Uno strappo alle regole e le sue pericolose ricadute
di Luigi Ferrarella


I sospiri di sollievo che stanno accogliendo la versione definitiva della legge dell’ovvero, in uno dei punti qualificanti del cosiddetto «decreto sicurezza» fortemente voluto dal ministro leghista dell’Interno Matteo Salvini, rivelano l’acquiescenza con la quale ormai vengono accettati come normali, e persino quasi nemmeno più percepiti, i progressivi sbriciolamenti di mattoni dello stato di diritto, e gli ulteriori arretramenti di garanzie processuali che (come la presunzione di non colpevolezza sino a sentenza definitiva, o quantomeno sino a un primo significativo giudicato) si pensavano acquisite una volta per sempre.
Diversamente dalla prima versione, che dalla commissione di taluni reati da parte di richiedenti asilo voleva far discendere automaticamente la sospensione della domanda di protezione internazionale, ora il testo definitivo dispone che «la Commissione territoriale competente per il riconoscimento della protezione internazionale» (organo amministrativo nell’orbita del Viminale, composto da un viceprefetto, un funzionario di polizia, un rappresentante di un ente territoriale designato dalla Conferenza Stato-autonomie locali, e un delegato dell’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati) «provveda nell’immediatezza all’audizione dell’interessato e adotti contestuale decisione». Se sarà di diniego, determinerà l’immediato allontanamento del migrante dall’Italia, velando così di ipocrita ineffettività la pur teorica possibilità di far poi ricorso ai Tribunali italiani dall’altro capo del mondo.
La rinuncia al meccanismo di cieco automatismo, e l’esame invece caso per caso (con audizione della persona), sono certamente un passo avanti. Che però non cancella l’enormità del presupposto, che nella legge resta inalterato: e cioè il fatto che non una condanna definitiva (come avviene oggi), e neanche esclusivamente almeno una condanna di primo grado, ma già solo la semplice denuncia dello straniero alle Procure da parte delle forze dell’ordine potrà fargli rischiare di perdere la domanda di asilo per un catalogo di reati peraltro abbinato a una gassosa nozione di «pericolosità sociale»: catalogo già contemplato dalla legge in vigore in caso di verdetti definitivi, e ora ancor più ampliato dal decreto-sicurezza in maniera disomogenea, ad esempio con l’inserimento (accanto a reati gravi come violenze sessuali o traffico di droga) di un tipo di denunce tanto diffuso quanto per sua natura sempre bisognoso di verifiche come la «minaccia» o la «resistenza a pubblico ufficiale».
L’articolo 10 del decreto, infatti, vale «quando il richiedente asilo è sottoposto a procedimento penale ovvero è stato condannato anche con sentenza non definitiva». E ovvero, nelle leggi, non ha il significato esplicativo equivalente di ossia, di e cioè, ma quello disgiuntivo alternativo di oppure. Il testo del decreto dice quindi che, affinché il richiedente asilo incappi nel rischio dello stop immediato alla sua domanda legato a eventuali reati, i presupposti potranno essere due: o condanna in primo grado o sottoposizione a procedimento penale . E che dunque potrà bastare già la semplice denuncia. Il mero sospetto.
Nel decreto-Minniti si era iniziato a togliere ai richiedenti asilo il grado di appello contro i dinieghi dei giudici civili alla protezione, adesso nel decreto-Salvini si inizia a infrangere il tabù della presunzione di non colpevolezza sino a sentenza definitiva. Se le parole dei testi normativi hanno un senso, non è quindi miope il ministro dell’Interno quando ieri a Napoli vanta il decreto («Il richiedente asilo commette un reato? Immediata convocazione in Commissione, sospensione ed espulsione: questo accadrà!»): è miope chi non prende sul serio le ricadute (prima o poi anche sugli italiani) delle forzature di norme per ora sperimentate sugli stranieri.

il manifesto 3.10.18
Arrestato il sindaco di Riace, con accuse «vaghe e generiche»
Pericolo pubblico. Dalla truffa aggravata alla malversazione, il gip rigetta sette capi di imputazione e ridimensiona l’inchiesta: «Errori grossolani»
A Riace la raccolta differenziata dei rifiuti si fa con gli asini
di Silvio Messinetti


LOCRI (RC) Un’operazione molto strana che sa di rappresaglia. Ieri mattina Riace si è svegliata con questa sensazione. Mimmo Lucano, il sindaco della cittadina della Locride, è stato messo agli arresti domiciliari dalla Guardia di finanza, nell’ambito dell’indagine Xenia. Alla sua compagna, Tesfahun Lemlem, è stato notificato il divieto di dimora. Ciò che in Europa è un modello, per la procura di Locri è un reato, anzi, un castello costruito sugli illeciti. Tuttavia quelli più gravi, inizialmente contestati, malversazione, truffa ai danni dello Stato e concussione, sono caduti, non hanno trovato riscontro, derubricati dal gip di Locri, Salvatore di Croce, a «malcostume diffuso». La gestione dei fondi – si legge in un passaggio del provvedimento di 134 pagine – «è stata magari disordinata, ma non ci sono illeciti e nessuno ha mai intascato un centesimo». Nonostante ciò a Lucano e a Teshafun è stata comminata la misura coercitiva sulla base di un generico pericolo di reiterazione criminosa. E sulla base di ipotesi di reato lievi, sproporzionate rispetto alla custodia domiciliare.
NELL’ORDINANZA di custodia cautelare, con il capo d’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, è riportata una sola intercettazione telefonica con cui gli inquirenti mirano a screditare il sindaco riacese. Gli contestano di organizzare presunti matrimoni ad hoc per far ottenere il permesso di soggiorno.
Quel che invece si capisce bene in queste carte è che il sindaco di Riace è un «fuorilegge» che si autodenuncia, che va contro «le leggi balorde» del governo, come lui stesso dice al telefono. E per questo atto di disobbedienza civile «in barba a Minniti», per evitare che una nigeriana di nome Joy, diniegata per tre volte dalla commissione, continuasse a prostituirsi, (lo stesso artifizio utilizzato per evitare che un’altra nigeriana, Stella, facesse la stessa fine) ora Lucano si trova agli arresti nella sua abitazione.
L’altra ipotesi di reato rimasta in piedi concerne invece l’affidamento diretto della raccolta rifiuti, fraudolenta secondo il Gip. Sul primo punto gli inquirenti stigmatizzano «la particolare spregiudicatezza del sindaco Lucano, nonostante il ruolo istituzionale rivestito, nell’organizzare veri e propri “matrimoni di convenienza” tra cittadini riacesi e donne straniere, al fine di favorire illecitamente la permanenza di queste ultime nel territorio italiano».
NELLO SPECIFICO il sindaco, nella conversazione intercettata, ragionava ad alta voce con una non meglio specificata interlocutrice sulla delicata situazione di Joy, cui era stato negato il permesso di soggiorno . «Se ne deve andare, se ha avuto per tre volte il diniego, ecco perché non lo rinnovano più. Lei non può stare … mica dipende da … questo purtroppo, dico purtroppo perché io non sono d’accordo con questo decreto, come documenti lei non ha diritto di stare in Italia. Se la vedono i carabinieri la rinchiudono, perché non ha i documenti, non ha niente». E a chi gli chiedeva lumi sulla situazione della ragazza spiegava: «Lei i documenti difficilmente ce li avrà, perché ha fatto già tre volte la commissione, ecco perché non rinnovano il permesso di soggiorno. Però proprio per disattendere queste leggi balorde vado contro la legge… Io la carta d’identità gliela faccio. Io sono un fuorilegge perché per fare la carta d’identità io dovrei avere un permesso di soggiorno in corso di validità … in più lei deve dimostrare, che ha una dimora a Riace, allora io dico così, non mando neanche i vigili, mi assumo io la responsabilità, sono responsabile dei vigili… la carta d’identità tre fotografie, all’ufficio anagrafe, la iscriviamo subito».
NELL’AFFIDAMENTO DIRETTO del servizio di raccolta e trasporto dei rifiuti, secondo la Procura, Lucano avrebbe favorito due cooperative sociali, la Ecoriace e L’Aquilone, impedendo l’effettuazione delle necessarie procedure di gara previste dal Codice dei contratti pubblici. «Le predette cooperative sociali – scrivono gli inquirenti – difettavano dei requisiti richiesti per l’ottenimento del servizio pubblico, poiché non iscritte nell’apposito albo regionale previsto dalla normativa e Lucano, al precipuo scopo di ottenere il suo illecito fine, a seguito dei suoi vani e diretti tentativi di far ottenere quella iscrizione, si è determinato ad istituire un albo comunale delle cooperative sociali cui poter affidare direttamente lo svolgimento di servizi pubblici».
Sulla gestione dei fondi destinati all’accoglienza le accuse sono, come detto, cadute e «può pacificamente essere esclusa – scrive il Gip – la sussistenza di un grave compendio indiziario». È lo stesso Gip poi a parlare di «errori grossolani» e di «tesi congetturali» nell’inchiesta, per cui «ferme restando le valutazioni già espresse in ordine alla tutt’altro che trasparente gestione delle risorse erogate per l’esecuzione dei progetti Sprar e Cas, il diffuso malcostume emerso nel corso delle indagini non si è tradotto in alcuna delle ipotesi delittuose ipotizzate».
La procura ha annunciato che ricorrerà al Tribunale della Libertà di Reggio Calabria e trasmetterà subito gli atti alla Procura regionale della Corte dei Conti.

Il Fatto 3.10.18
Una sfida allo spirito dei tempi
di Francesco La Licata


L’arresto di Mimmo Lucano, sindaco di Riace famoso in tutto il mondo per aver «inventato» un «inedito» sistema di accoglienza per immigrati, rappresenta - forse - la perfetta immagine per illustrare lo stato di incertezza generale in cui versa il Paese ormai da qualche tempo.
Secondo la magistratura di Locri, infatti, il primo cittadino della piccola (circa 2000 abitanti) comunità calabrese merita la carcerazione preventiva perché indiziato dei reati di «favoreggiamento dell’immigrazione clandestina ed illeciti nell’affidamento diretto del servizio di raccolta dei rifiuti».
Ma, allora, viene da chiedersi se quel Mimmo Lucano, descritto dai giudici come molto simile ai padroni delle cooperative di Mafia Capitale, sia lo stesso che da anni viene celebrato dall’opinione pubblica di mezzo mondo come l’eroe che ha reso sostenibile l’impensabile, cioè un processo di integrazione di immigrati sbarcati in Italia e, piano piano, inseriti in molti piccoli centri del nostro Meridione. Se sia, il detenuto Mimmo Lucano, lo stesso sindaco descritto a Berlino dal regista Wim Wenders come un esempio, più importante dell’utopia della caduta del Muro.
E’ davvero strano, il destino di questo anomalo amministratore pubblico. Una sorta di «mostro a due facce», un dott. Jekyll e Mr. Hyde: isolato dalla comunità perché considerato pernicioso e pericoloso (si giustifica anche così la scelta dell’arresto), ma, nello stesso tempo, amato e stimato da una moltitudine di persone.
Secondo le indagini della magistratura (una inchiesta paradossalmente chiamata Xenia, con chiaro riferimento al concetto di accoglienza), Lucano - che ha sposato una immigrata - avrebbe «agevolato» matrimoni di convenienza con residenti italiani per aggirare le strettoie burocratiche preposte al rilascio dell’agognato permesso di soggiorno. L’altro capo di imputazione fa riferimento a una gestione «disinvolta» di due appalti per lo smaltimento dei rifiuti, aggiudicati «direttamente» dal consiglio comunale a due cooperative. E siccome il nome di Lucano, si sa, provoca reazioni opposte, c’è chi dice che si sia inventato un sistema per evitare pastoie burocratiche che costringono i cittadini a convivere con la monnezza e chi, invece, sospetta che abbia voluto favorire cooperative a lui vicine. Ma, se è così, non ci metteranno molto i magistrati a venire a capo della verità, abituati come sono a scandagliare i profondi legami tra mafia ed amministrazione pubblica.
In verità Mimmo aveva già ricevuto, un anno fa, attenzioni investigative per via di un’altra invenzione: la cosiddetta moneta complementare (ideata da Re.Co.Sol., la rete dei comuni solidali nata nel 2003) destinata agli immigrati ospitati in quel territorio. Qualcosa di simile ai ticket per l’acquisto di alimenti molto in uso tra gli impiegati titolari di benefit. Una «moneta» spendibile solo nei negozi di quel territorio, in modo che rimanesse nell’indotto locale e fosse immediatamente utilizzabile senza attendere gli otto mesi che necessitano ai finanziamenti ministeriali per giungere a destinazione. E’ ovvio che, anche in quel caso, gli investigatori sottolinearono l’eccesso di disinvoltura e la scarsa attenzione per le regole burocratiche, ma conclusero che non si potessero addebitare a Mimmo i reati di truffa e concussione perché non fu riscontrato nessun vantaggio personale per l’amministratore. Di contro il «modello di accoglienza calabrese» è oggi esteso a 194 comuni. E non è escluso che possa essere stato celebrato più di un matrimonio «combinato» che ha evitato qualche espulsione. Lo stesso sindaco non ha fatto mai mistero della sua vocazione all’accoglienza, anche oltre lo spirito del tempo attuale. Sarà per questo che si è attirato l’ironia di Matteo Salvini sui «buonisti che vogliono riempire l’Italia di immigrati», ma anche la solidarietà di Beppe Fiorello, protagonista della fiction «Tutto il mondo è paese» (ispirata alla esperienza di Lucano), che ha lanciato un appello al Papa in favore di Mimmo. Dunque, eroe o delinquente?

Corriere 3.10.18
L’inchiesta  le carte
«Gestione opaca dei fondi e matrimoni combinati Ma non voleva arricchirsi»
di Fiorenza Sarzanini    


Il giudice: scappatoie per aiutare gli ingressi illegali
Roma «Io sono un fuorilegge... proprio per disattendere queste leggi balorde vado contro la legge... la legge sull’immigrazione è una legge che presenta tantissime lacune e tante interpretazioni... Uno può cercare quelle più restrittive se la sua indole ... e può cercare quelle più elastiche se tu condividi, se non sei d’accordo con quella legge, c’è un livello di interpretazione». È il 22 luglio 2017. Mentre sta organizzando un finto matrimonio per Joy, ragazza straniera che vive a Riace, il sindaco Domenico Lucano parla con la responsabile di una struttura di accoglienza e le spiega che ha deciso di aiutare la ragazza ad avere il permesso di soggiorno facendola sposare con un anziano paesano.
Il malcostume
Sono le intercettazioni ambientali e le testimonianze a raccontare il «sistema Riace». Il giudice sottolinea come «Lucano vive oltre le regole, che ritiene di poter impunemente violare nell’ottica del “fine che giustifica i mezzi”». Nell’ordinanza di cattura parla di «comportamenti di estrema superficialità e diffuso malcostume», ma evidenzia che «non c’è stato alcun vantaggio patrimoniale» né per Lucano né per gli «enti attuatori». E così spiega la decisione di ordinare l’arresto: «La gestione quantomeno opaca e discutibile dei fondi destinati all’accoglienza di cittadini extracomunitari tratteggia il Lucano come soggetto avvezzo a muoversi sul confine (invero sottile in tali materie) tra lecito ed illecito... Appare evidente che l’incarico attualmente ricoperto e la copiosa presenza di stranieri sul territorio riacese potrebbero costituire occasioni propizie per l’adozione di atti amministrativi volutamente viziati o per la proposizione a soggetti extracomunitari di facili ed illegali scappatoie per ottenere l’ingresso in Italia».
I finti matrimoni
Sono tre i matrimoni che Lucano combina. Uno lo fa per assecondare la richiesta della compagna etiope Lemlen Tesfahun(anche lei agli arresti) che progetta di sposare suo fratello pur di farlo arrivare in Calabria e non riesce soltanto perché il giovane nel frattempo è stato arrestato. I dettagli li racconta nel luglio 2017 mentre si trova nell’associazione «Città Futura».
Lucano: questa ragazza nigeriana è stata diniegata tre volte, per cui con il nuovo decreto Minniti deve andare via l’unica possibilità per rimanere era quella di sposarsi con un cittadino ... questo qua si chiama Giosi. Mi ha chiamato la sorella, non è tanto... poverino, anzi devo dire la verità ha votato per me... mi sono barattato... l’unica cosa ... mi ha detto così io ti voglio votare però mi devi trovare una fidanzata... Abbiamo fatto un altro matrimonio con la consapevolezza che un’altra ragazza anche lei nigeriana, che si chiama Stella, si è sposata con uno che si chiama Nazareno, Stella è una bella ragazza, lui è piccolino così, mai avuto donne...
Donna: quindi quando fate questi matrimoni tra giovani e vecchi? L’altro è...
Lucano: addirittura Daniela... questa Daniela Maggiulli... voleva sposarsi lei con un matrimonio tra donne, però poi abbiamo visto che praticamente Sara non era di questo progetto di Riace, Daniela le ha dato un passaggio quando faceva la prostituta, l’ha recuperata e poi le abbiamo dato una casa, non c’entra con lo Sprar, l’abbiamo presa dalla strada e ora le volevamo risolvere anche questo problema, però poi abbiamo visto che se sono due donne o due uomini non vale ai fini del permesso di soggiorno... perché per me era bello come sindaco fare il primo matrimonio tra due donne...
«Ti cacciano, capito?»
Nel luglio di un anno fa, quando entra in vigore il decreto firmato dal ministro dell’Interno Marco Minniti il sindaco parla con le ragazze straniere.
Lucano: ti cacciano dall’Italia adesso, tu capisci l’italiano?
Joy: si
Lucano: Stella si è sposata, perché diniegata, perché in Nigeria li stanno diniegando tutti... no no no la commissione, una volta, due volte ... adesso con il governo nuovo c’è uno che si chiama Minniti, una brutta persona, vi mandano via, vi cacciano... hai capito?

Il Fatto3.10.18
Il paese si divide su Domenico “u curdu”
Tanta solidarietà dai concittadini, ma c’è anche chi sputa veleno: “Cazzi suoi”
Il paese si divide su Domenico “u curdu”
di Lucio Musolino


A Riace ha piovuto ieri. Una bomba d’acqua verso l’ora di pranzo ha lavato le strade deserte di una cittadina nella Locride che si è svegliata stordita da una tempesta. Stordita e confusa perché Mimmo u curdu, il sindaco, è finito agli arresti domiciliari per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Una bufera giudiziaria che tutti avevano previsto da oltre un anno dopo le polemiche dovute al blocco dei fondi per l’accoglienza dei migranti. In mattinata, nel piazzale davanti al Comune non c’era nessuno. Solo qualche migrante che non capiva perché Mimmo Lucano ancora non si era fatto vedere.
Le tapparelle della sua abitazione, a due isolati dal municipio, erano tutte abbassate. Solo una finestra aperta dove si è affacciato il fratello Giuseppe. Stava ancora dormendo quando ha bussato la Guardia di finanza per arrestare Mimmo: “Ho sentito Mimmo che era molto sorpreso – dice – perché questa indagine è iniziata da un anno e mezzo e lui si era fatto interrogare spontaneamente. Non pensava si arrivasse addirittura agli arresti domiciliari”.
Negli occhi di Giuseppe c’è tutto l’orgoglio per un fratello che ha creato un modello di accoglienza sul quale Wim Wenders ci ha fatto film (e Beppe Fiorello una fiction). Addirittura, un paio d’anni fa, era finito pure nella classifica di Fortune tra le 50 persone più influenti al mondo. “Mimmo resisterà”. Suo fratello non ha dubbi: “Lui non ha nulla da nascondere, non ha rubato niente. Anzi ci ha rimesso. Vediamo alla fine cosa decideranno i magistrati. Secondo me è un’azione politica considerato il clima che si vive in questi giorni in Italia”.
Giuseppe lascia la finestra, ed esce: “Il tweet di Salvini l’ho visto. Il ministro ha sfruttato l’occasione per scagliarsi per l’ennesima volta contro la buona pratica dell’immigrazione. Lui vorrebbe chiudere tutto e Riace, invece, è un modello che vuole aprire tutto. Qui è rinato il borgo e le migliaia di persone che sono passate hanno riacquistato, grazie a mio fratello, la dignità di esseri umani”. “L’arresto – assicura il vicesindaco Giuseppe Gervasi – non mette fine al modello Riace. Anzi, credo che possa essere un nuovo inizio”.
In piazza c’è un unico bar aperto all’ora di pranzo. La titolare difende Mimmo, mentre inizia a piovere: “Ha pensato sempre al paese, e non a lui. Secondo me è un’ingiustizia”. Una ragazza poco distante le dà ragione: “Mimmo è una persona che ha aiutato tutti. Lo conosco da una vita. Adesso che è stato arrestato, Riace morirà”. Nell’altro bar, però, c’è chi non lo può vedere: “Sfido a trovare un amico di Mimmo. Io sono un suo nemico. Quindi non mi interessa quello che succede”. La pioggia si fa più forte. Vedendo i giornalisti, un signore con l’ombrello non vuole perdere l’occasione per sputare anche lui la sua dose di fango contro il sindaco. Il detto “Nemo profeta in patria” non rende a pieno il veleno nutrito da alcuni: “Sono cazzi suoi. – dice – Voleva essere il simbolo dell’accoglienza, ma lo faccia a casa sua”.
Nella piazza dove poche settimane fa c’è stato Roberto Saviano, adesso gioca un bambino di colore. Accanto c’è sua madre. “Avrà anche sbagliato qualcosa ma ha fatto tanto per me e per mio figlio”. A stento riesce a tenere il piccolo lontano dalle telecamere. Vorrebbe parlare con Mimmo: “Mi dispiace che vada in galera”. E poi gli manda a dire: “Vorrei che tu stessi con me per sempre. Ti voglio bene”.

La Stampa 3.10.18
Nel borgo travolto dall’inchiesta
I profughi in lacrime: “Non è giusto”
La difesa del fratel
lo: “Non ha intascato un soldo. Se ha sbagliato era in qbuona fede”
di Nicolò Zancan

Il 14 ottobre 2016, davanti alla platea gremita del teatro Rendano di Cosenza, era salito sul palco un sindaco molto emozionato. Mimmo Lucano, sindaco di Riace: «Grazie per questo riconoscimento, non so nemmeno se sia meritato. Magari, un giorno o l’altro, verranno ad arrestarmi». Stupore in sala. Lui al microfono: «Non ci capisco niente di tutti questi regolamenti. Firmo un mucchio di carte. Cerco solo di fare del mio meglio.
Secondo me, contano più gli esseri umani della burocrazia». Era la cerimonia di consegna del premio per la Cultura Mediterranea della Fondazione Carical. Il sindaco aveva vinto per il modello di integrazione dei migranti nel suo paese.
Ieri mattina alle 6,30, cinque agenti della Guardia di Finanza sono venuti ad arrestarlo. I militari hanno bussato alla porta di questa palazzina in salita, a sinistra del Municipio. Il sindaco dormiva. È andato ad aprire in pigiama. «Ho già chiarito tutto», ha detto sorpreso. «Non capisco quello che state facendo. Sono venuto da voi a deporre spontaneamente». Era la notifica degli arresti domiciliari. Dopo diciotto mesi di indagini sul modello Riace, la profezia del sindaco che ha salvato il suo paese aprendo le porte ai migranti si è avverata.
Ora in piazza c’è un uomo che piange. Il suo nome è Saibou Sabitiou, 44 anni, dal Togo. Piange mentre viene buio, e si capisce che da queste parti nulla sarà mai più come prima: «È un’ingiustizia. Non ha senso prendersela con Mimmo. Noi non lo abbandoneremo mai. Saremo sempre dalla sua parte». Mostra una fotografia nel telefono. Accanto a Sabitiou, con una sciarpa celeste c’è il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. «Era il 2010. Facevo il bracciante a Rosarno. Stavo tornando in bicicletta, quando mi hanno sparato da una macchina in corsa. Mi hanno colpito all’inguine. Sono stato 15 giorni in ospedale. Lo hanno fatto per razzismo. E poi, quando mi hanno dimesso, è venuto il presidente Napolitano. E dopo il presidente, è arrivato Mimmo: è lui che mi ha portato qui a Riace. Gli devo tutto. Una vita in pace. Un lavoro. Stavamo benissimo, qui. Non è giusto, non è giusto…».
Per i 430 rifugiati che vivono a Riace, su una popolazione di 1900 abitanti, non è stato facile capire. Ma continuavano ad arrivare le televisioni per tutto il giorno. E tutte parlavano del sindaco. Di Mimmo Lucano. «Very kind man» dice Favour Owunso, 26 anni del Ghana, spingendo un passeggino avanti e indietro. «Mimmo è gentile. È un padre. Ci dava sempre da mangiare. Si toglieva i soldi dalle tasche per darli a noi. Non faceva niente di male».
Il telefono del sindaco squilla a vuoto. Affacciato alla finestra di casa sua, il fratello Giuseppe Lucano risponde a tutti con grande pazienza. Dice così: «È sconvolto, amareggiato, tristissimo, incredulo». Però un po’ se lo aspettava, diciamo noi. E il fratello risponde: «Quelli che gli contestano sono reati fino a un certo punto. Non ha mai intascato un soldo. Mi sembra che ci sia stato dell’accanimento nei suoi confronti. Se ha sbagliato, lo ha fatto in buona fede. Mio fratello ripeteva sempre: “Quello che è giusto, bisogna farlo. La legge non è umana”».
Hanno cercato nei conti. Hanno ipotizzato anche il reato di peculato. Quello che hanno trovato, secondo il gip, è un matrimonio combinato per dare la cittadinanza a una donna etiope. E poi irregolarità nell’assegnazione di un appalto per i rifiuti. «Spregiudicatezza». «Diffuso malcostume». Ha scritto il giudice per le indagini preliminari. Che non ha risparmiato critiche anche agli investigatori della Guardia di Finanza. «Vaghezza delle accuse». «Genericità». «Circostanze che appaiono indimostrabili o prive di precisi riscontri». «Errori macroscopici». Addirittura un interrogatorio senza avvocato. Però, adesso, il sindaco di Riace è ai domiciliari.
Mimmo Lucano è un professore di chimica di sessant’anni. Ha insegnato prima a Bussoleno, poi a Roccella Ionica. Sposato, divorziato. Padre di tre figli. Ha sempre amato la politica con passione. Sta a sinistra. La sinistra di Che Guevara. Quella di Peppino Impastato. Quella di Emiliano Zapata, ritratto in un murales che campeggia al centro del paese: «Se non c’è giustizia per il popolo, lascia che non ci sia pace per il governo».
Da quindici anni è sindaco di Riace. Tre mandati. La sua vita è cambiata nel 1998, quando 300 profughi curdi sono sbarcati lungo la costa. «Mimmo ha pensato che accoglierli fosse un bene per tutti», racconta ancora il fratello Giuseppe. «Un bene per loro, senza una casa. E un bene per il paese, che si stava spopolando». È stata la nascita del modello Riace. Conosciuto in tutto il mondo. Vincitore di molti premi.
Mimmo Lucano non ha mai nascosto le sue idee. Ha coniato una moneta parallela per pagare i migranti quando i soldi ministeriali tardavano ad arrivare. Già due anni fa era stato convocato al ministero dell’Interno per le irregolarità nella gestione dei fondi. Quando gli sono stati bloccati i finanziamenti, ha fatto lo sciopero della fame.
Adesso al caffè Meeting, al centro di Riace, dicono mezze frasi: «Se ha sbagliato, deve pagare». «Perché dovremmo dispiacerci per il sindaco? Non l’abbiamo mica fatto ingabbiare noi». È una terra dura. Di Comuni che continuano ad essere sciolti per mafia. Di cartelli sulle montagne ancora crivellati dai proiettili dell’anonima sequestri. La terra in cui il boss della ’ndrangheta Antonio Pelle ha potuto comodamente evadere dall’ospedale di Locri, dove si era fatto ricoverare per anoressia. Questa era anche la terra del modello Riace. La terra del sindaco Mimmo Lucano.
Ieri sera tardi, sotto il diluvio, tre turiste tedesche si aggiravano per le vie strette del paese. Erano partite da Dresda per venire qui: «Abbiamo visto un servizio in televisione sul paese dei migranti». Era difficile spiegare. Anche a loro.

Corriere 3.10.18
Mimì Capatosta che batteva moneta «Amo più la giustizia della legalità»
La solidarietà della sua gente e il ruolo della compagna etiope, anche lei indagata
dall’inviato Goffredo Buccini


Riace (Reggio Calabria) Non affannatevi a salvarlo o a crocifiggerlo, «Mimì Capatosta» ha già confessato. Nelle intercettazioni: «Se queste leggi sono balorde io ci vado contro!». E persino nelle interviste: «Che volete? Sono innamorato più della giustizia che della legalità». Così, per merito o per colpa sua, questo paesino di mille e cinquecento anime di cui oltre quattrocento immigrati, che prima del suo pirotecnico sindaco s’era trovato sui giornali solo nel 1972 per via dei Bronzi e pareva destinato all’estinzione, è stato scaraventato sul palcoscenico del mondo quale «modello d’accoglienza alla Riace»; e adesso che il miele è diventato fiele si scopre catapultato dentro quesiti filosofici, se il diritto sia forma o sia sostanza, e domande più terrene, se il fine giustifichi sempre i mezzi. Perché, intendiamoci: se i mezzi sono apparsi ai giudici così discutibili da infliggergli ieri all’alba gli arresti domiciliari nella casa di famiglia, nessuno, nemmeno tra i suoi rari nemici, pensa che il fine di Domenico Lucano (il copyright di Mimì Capatosta è di Tiziana Barillà e del suo bel libro) sia stato men che buono.
Inno alla bontà
«Da ragazzino si toglieva la giacca per coprire chi aveva freddo», dice Pietro Zucco, che ci è cresciuto insieme e che pure gli rimproverava cattive compagnie negli ultimi tempi. Tutto, in verità, qui a Riace, un pugno di case arroccate otto chilometri sopra la famigerata statale 106, è un inno alla bontà, talmente insistito da assordare: i murales del Bene, con il Che e Peppino Impastato a braccetto; i laboratori di artigianato solidale coi tessuti e le ceramiche delle mamme migranti; i «bonus» con cui il sindaco batteva moneta come un monarca stampando i visi degli eroi antimafia su banconote da Monopoli che si cambiavano uno a uno con l’euro nelle botteghe (poi ripagate da Mimì coi contributi dello Stato); il Villaggio Globale dove i migranti hanno trovato casa riempiendo le case abbandonate dai riacesi; quei graffiti che ricordano Libano e Sudan, Etiopia ed Eritrea e le mille terre d’origine di questo nuovo popolo che adesso piange il suo protettore, già parlandone al passato.
Come Aywa che, picchiando i pugni a terra, dice che «era un padre, a Rosarno mi avevano sparato e lui mi ha salvato». Come Rosy, del Camerun, che trema: «Se finisce male lui, finiamo male noi. Lui non c’è, noi non ci siamo più». O come Chimene, che stringe il suo piccolo Gabriel febbricitante e strilla che adesso in farmacia non le danno più le medicine, ora che i bonus sono diventati carta straccia: e che le mura della repubblica del Bene sembrano vacillare. Mimì s’era inventato qualcosa, piaccia o meno. E questo qualcosa, oggi che è in disgrazia, spacca l’Italia, perché spacca l’idea stessa delle migrazioni, avendo il sindaco provato a farne una risorsa invece che un problema. A modo suo. Da capatosta, rosso da ragazzino (Lotta Continua), rosso adesso (Potere al Popolo) ma di quel rosso virato sull’evangelico che manda in bestia i teocon. Quando Salvini gli ha detto che era «uno zero», lui ha mormorato ai suoi: «Sono contento, mi sento uno zero tra gli zero del mondo».
La difesa dei fratelli
Davanti alla casa di famiglia di via Milano s’affacciano i fratelli, protettivi. Sandro, più esplicito, dice che quest’inchiesta è «tutta una caz...». Giuseppe, più diplomatico, dice che «il modello Riace è nel mirino, mio fratello ne é il simbolo. Era pure andato a farsi interrogare, è molto amareggiato. Tende a dare fiducia, è una ciminiera di idee, magari qualche sbaglio ci sta, ma l’arresto... si è giocato anche la famiglia per stare accanto agli immigrati». Non è un mistero, la moglie separata di Mimì vive lontano coi figli. E non è un mistero nemmeno che accanto a lui sia apparsa una giovane signora etiope, Lemlem Tesfahun, con lui finita sotto indagine. In paese la chiamano «la Lady», le maldicenze si spingono fino a mormorare di chissà quali sue spese disinvolte. Non è maldicenza ma atto giudiziario però il matrimonio fasullo che lei, coperta da Mimì, avrebbe fatto con suo fratello per farlo venire in Italia. Il sindaco, per amore dei suoi ultimi, s’era trasformato in sensale? «Si sposa! Il matrimonio te lo faccio immediatamente... con un cittadino italiano!», lo sentono dire nelle microspie. Un metodo? La via breve per la cittadinanza e per la salvezza, la via sicura per la dannazione di un amministratore.
E ancora la sua gente lo difende. Anche chi è danneggiato dall’utopia di quest’uomo incontenibile, che «si è inventato l’accoglienza prima degli Sprar». Anche chi sta proprio dall’altra parte. Fernando il fruttivendolo dice «sono fascista» e fa il saluto romano: «Ho tremila euro di bonus che mi devono pagare», mormora, «io davo frutta e verdura vere alle signore immigrate». Preoccupato? «No, ho fiducia nel sindaco, hanno fatto male ad arrestarlo, qualcuno mi pagherà». I bonus sono diventati carta straccia quando la prefettura ha stretto i cordoni dei finanziamenti (dopo accertamenti contraddittori sul sistema Riace). Mimì allora ha appeso la sciarpa tricolore a un chiodo del Villaggio Globale e s’è messo a fare sciopero della fame. Era agosto. Già si capiva che le cose si stavano mettendo male, i laboratori erano chiusi da un pezzo, il lavoro una mezza chimera.
Il clima cambiato
Eppure fino a sera salgono quassù ex sindaci d’ogni colore politico a portare solidarietà, sabato prossimo faranno una manifestazione. «Il clima era già cambiato con Minniti», dice Domenico Vestito, sindaco di Marina di Gioiosa finché non gli hanno sciolto il Comune per mafia, «mi aspettavo che succedesse». «In Calabria se uno fa una cosa buona arriva la ‘ndrangheta o la repressione», sbotta ribelle Ilario Ammendolia, ex sindaco di Caulonia, un figlio coinvolto nell’inchiesta: «Pure io mi aspettavo che succedesse». Tutti se l’aspettavano. Tranne Mimì, forse. «Sono un fuorilegge!», proclamava nelle intercettazioni. Ma la legge da cui si chiamava fuori, per lui, doveva valere meno dei soldi del Monopoli.

La Stampa 3.10.18
Sfida alla Ue e scadenze elettorali
di Marcello Sorgi


C’è un evidente contenuto elettorale, rivolto alle elezioni europee del prossimo maggio - ma anche verso possibili elezioni politiche anticipate - nel modo in cui Di Maio e Salvini stanno conducendo lo scontro con l’Europa, che ieri, per tramite dell’Ecofin e della Commissione, ha dato un brusco altolà al governo italiano.
Il punto non è più la difesa del 2,4 per cento del rapporto deficit-pil (anche se lo spread ieri in apertura e in chiusura della giornata ha superato la soglia-limite dei 300 punti), e neppure il dettaglio della manovra (più investimenti, per favorire il negoziato con le autorità europee, o più assistenzialismo, per realizzare gli obiettivi del contratto di governo?), ma il modo in cui il braccio di ferro con Bruxelles viene condotto. Se si cerca una strada per l’intesa, come sta facendo il ministro dell’Economia Tria, non si delegittima l’interlocutore insultandolo (Salvini ha trattato Juncker da ubriaco, Di Maio ha detto che la Commissione non ha neppure l’uno per cento del consenso degli elettori). Se invece si è convinti che l’Europa cederà perché non può permettersi di comportarsi con l’Italia come con la Grecia di Tsipras, si va avanti sulla linea dello scontro, come appunto sta facendo il governo italiano, incurante che anche l’Austria, che ha i populisti nella prossima maggioranza, e a cui tocca la presidenza dell’Ecofin, abbia condiviso il “no” alla manovra italiana e il secco richiamo alle regole di Maastricht.
Pur essendo convinti di sfondare, i vicepremier potrebbero invece trovarsi di fronte a un’imprevista durezza della Commissione per le stesse ragioni che motivano il loro comportamento. La vigilia elettorale vale anche per gli europeisti, che non possono permettersi di cedere né di negoziare più di tanto con i sovranisti nostrani. Basterebbe guardare un po’ oltre il cortile di casa, e valutare le rigidità emerse nel negoziato sulla Brexit, per capirlo.

Il Fatto 3.10.18
Dopo le due piazze c’è vita a sinistra? Sì, ma troppo poca
di Silvia Truzzi


Le due manifestazioni che si sono svolte in contemporanea a Roma e Milano domenica scorsa sarebbero in teoria una buona notizia. E in parte lo sono. Non tanto per il consueto balletto di cifre sull’adesione (è incredibile che non esista un sistema che conta le persone con ragionevole certezza) quanto perché testimoniano che a sinistra esiste ancora qualche forma di vita. O meglio, qualche forma di vita fuori dalla scatola magica della tv dove resiste una “narrazione” largamente nostalgica. A Roma il Pd prova a ripartire dalla piazza più equivoca che esista: piazza del Popolo. Sembra una barzelletta perché il guaio della attuale classe dirigente democratica (non solo Renzi e compagnia) è la siderale distanza dai ceti più marginali della società e dai loro problemi di sopravvivenza. Si parla, non a caso, di congresso non come momento di riflessione (e dibattito, come succedeva quando esistevano le tesi congressuali) ma come scontro di potere tra correnti, più o meno dichiarate. Di un segretario come di un leader, non come il rappresentante di un’idea di mondo, di società. Da marzo a oggi – e sembrava un’impresa impossibile – il Pd continua a scendere nei sondaggi (l’ultima rilevazione effettuata lunedì da Swg per il Tg di La7 lo dava al 15,7%).
A Milano,invece, piazza Duomo era tutta colorata di rosso per una manifestazione indetta da Anpi, Aned e Sentinelli, l’associazione nata nel 2014 in contrapposizione alle ultracattoliche “sentinelle in piedi”. Si protestava contro i messaggi d’odio e razzismo del governo a trazione leghista. I valori sono certamente un buon terreno su cui fondare la protesta e l’opposizione, specialmente mentre le opposizioni “istituzionali” appaiono smarrite. E qui, sul terreno del disorientamento, bisogna chiamare in causa non solo il Pd, ma anche tutto quello che si è aggregato, scisso e poi di nuovo riunito a sinistra del Pd. Non basta, a nessuno, urlare al pericolo fascista, al regime, al colpo di Stato autoritario ogni cinque minuti. Non basta nemmeno dire che bisogna fare autocritica o che la gente non ha capito le cose fatte dagli esecutivi di centrosinistra. L’idea che siano gli elettori a essere incolpati è l’ultima frontiera del tafazzismo irresponsabile. La penultima era il popcorn di Renzi. Un’ideona: sempre i sondaggi svelano che i consensi delle forze di governo superano, dopo cinque mesi, il 62%.
C’è sicuramente un’opinione pubblica di sinistra che non si vuole più turare il naso e che non si accontenta di dire che sono tornati i fascisti (che per ora non sono tornati). E questo accade perché i valori civili, l’unico terreno su cui la sinistra ha lavorato negli ultimi anni, non sono la prima preoccupazione di una gran parte della popolazione che si sente abbandonata.
Qualche giorno fa la Corte costituzionale ha dichiarato illegittima un pezzo del Jobs act, la parte in cui fissava un indennizzo fisso per il licenziamento ingiusto (il giudice dovrà decidere caso per caso). Lo ricordiamo qui perché abolire l’articolo 18 (diritto al reintegro) è stato un suicidio per una sinistra che ha deciso di adottare le parole d’ordine di quelli che un tempo erano nemici: non più tutela del lavoro, ma flessibilità; meritocrazia (concetto vuoto) al posto dell’uguaglianza. Il guaio è che, a lungo andare, non è possibile organizzare un’area politica attorno al programma “andare a braccetto coi manager multimiliardari, ma anche coi disoccupati e chi guadagna 1.200 euro al mese” (e, in caso di problemi, tenersi stretti ai primi). Com’è noto i secondi e i terzi contano meno, ma sono di più: il che tende ad avere una certa rilevanza quando si aprono le urne.

il manifesto 3.10.18
Alla sinistra del Pd, ma ciascuno a casa propria
di Antonio Floridia


«A che punto è la notte?», è la domanda che è inevitabile porsi se si guarda allo stato delle cose della sinistra in Italia.
Cominciamo dal Pd, anche perché, è inutile negarlo, piaccia o non piaccia, molto è legato a quello che accadrà a questo partito. Il Pd, come è stato giustamente detto, al momento è parte (e una parte enorme) del problema, non la soluzione. Lo stato di incertezza, in quel campo, è notevole, e non investe solo i gruppi dirigenti, ma anche gli osservatori e i commentatori. Ad esempio, qualche settimana fa, una persona stimabile come il filosofo Roberto Esposito, in un suo intervento, aveva mostrato una disarmante ingenuità: vanno benissimo le critiche al Pd, anche quelle più dure, ha detto; ma facciamo anche qualcosa di concreto: iscriviamoci al partito!
Ma a fare che?, gli si poteva obiettare. Si ha un’idea di cosa concretamente sia oggi il Pd? È forse un luogo in cui si possa discutere, valorizzare le competenze intellettuali, tradurre le analisi in azione politica? Al massimo, chi ne ha voglia, potrà andare al gazebo, quando sarà il momento. Ed infatti, pochi giorni fa, lo stesso Esposito è arrivato ad un’altra conclusione: il Pd, così com’è, non regge, meglio una “separazione consensuale” tra un “polo repubblicano” e un “polo socialista”. Non è il solo: l’idea che, oramai, non abbia più senso “riformare” il Pd si sta facendo strada; ma stenta ancora a farsi strada la piena consapevolezza di come questo partito sia “intrappolato” nelle sue stesse regole e di come siano profondamente cambiate le sue stesse “ragioni sociali”: cos’è, effettivamente, oggi, la “base” di questo partito? Quale platea sarà realmente coinvolta nelle cosiddette “primarie”?
A dire il vero, nei mesi scorsi, si era levata qualche voce per chiedere un “vero congresso”: ma qualcuno se ne sta preoccupando? In verità, qui è il nodo scorsoio che lascia poche speranze a questo partito. Per fare un “vero congresso” occorrerebbe azzerare le attuali regole, puntare su un vero confronto tra tesi e mozioni, in cui sia scritto nero su bianco che idea che si ha di questo partito, del suo profilo ideale e programmatico, della sua strategia; e, soprattutto, farla finita con l’impianto plebiscitario dell’elezione diretta del segretario, ed eleggere piuttosto degli organismi rappresentativi, a tutti i livelli, che scelgano, poi, a loro volta, il segretario. L’opposto di quanto accade oggi, e di quanto accadrà se restano le attuali regole: oggi, sono i candidati-segretario che “fanno eleggere”, trainandoli, i membri degli organismi (attentamente selezionati tra le correnti, le sub-correnti, i notabili e i vari potentati locali), non sono questi ultimi ad eleggere un segretario.
Ma basta enunciare queste ipotesi per rendersi conto di quanto esse siano improbabili, e per un semplice motivo: dovrebbero essere gli attuali organismi a decidere questa “sospensione” delle vecchie regole, e in questi organismi è tuttora molto elevato il potere di veto che Renzi continua ad esercitare. Non deve sorprendere il ritorno sulla scena di Renzi, e dei suoi bagni di folla in qualche festa di partito (che è un’offesa alla memoria continuare a chiamare de “l’Unità”): in un partito oramai rattrappito, Renzi conserva intatto il suo appeal presso una quota di aficionados, convinti davvero che la sconfitta sia frutto del “fuoco amico”. Quello che sorprende piuttosto è il modo con cui si stanno muovendo i suoi oppositori. Tutto si sta svolgendo dentro il perimetro sempre più asfittico di quello che oramai è diventato il Pd: si pensa davvero, in questo modo, di poter appassionare alla disputa sul segretario del partito le centinaia di migliaia di elettori e militanti che se ne sono già andati? E quali ragioni potrebbero mai avere per tornare ai “gazebo”?
L’impressione è che si attenda il casus belli, per poter finalmente prendere atto che quello strano esperimento avviato dieci anni fa è fallito, e che raddrizzare questo “legno storto” è oramai impossibile: sarebbe una liberazione per tutti, se ognuno potesse prendere la strada che ritiene più giusta. Innestare uno scontro sulle regole (ma, in realtà, sull’idea di partito che si ha in testa) potrebbe essere risolutivo, e potrebbe portare a quel chiarimento che, stando così le cose, non sembra proprio alle viste.
Quello che avviene nel Pd sta producendo effetti paralizzanti anche fuori dal Pd, alla sua sinistra. Il “processo costituente” che, da Leu avrebbe dovuto portare alla nascita di un nuovo partito, è sul punto di arenarsi. Quel che è peggio, non vi è un dibattito pubblico che permetta di capire quali opzioni si stanno realmente misurando. Intendiamoci, le differenze politiche non mancano: ma quale è l’alternativa ad un processo inclusivo, che provi finalmente a unificare e riorganizzare un’area di forze oggi disperse, e sempre più sconsolate, che si trovano a sinistra del Pd? Non sarebbe di gran lunga più salutare costruire un partito (retto e garantito da solide regole democratiche) in cui anche le diverse opzioni strategiche possano meglio confrontarsi? O è meglio che ciascuno se ne rimanga a casa propria, a rimuginare tra quei (pochi) amici e compagni che la pensano allo stesso modo?
Quel che è certo è che una posizione “attendista” che guardi solo a quel che accade nel Pd, è una posizione assai debole; e questo vale quali che siano gli scenari che si profilano. Sia nel caso di una benefica “implosione” del Pd, sia nel caso di un Pd “riformato”, un partito della sinistra, capace di proporre e costruire una propria autonoma identità politico-culturale, ci vorrebbe comunque, e sarebbe essenziale alla ricostruzione di un campo democratico, per dare una spinta innovativa a questo processo. Ma ci vorrebbe anche coraggio e generosità, e un po’ di lungimiranza.

Il Fatto 3.10.18
Fondi per la sanità: i conti non tornano
di Chiara Daina


Da una parte il ministro Giulia Grillo assicura un miliardo di euro in più per il fondo sanitario nazionale del 2019 (rispetto al finanziamento del 2018 di circa 114 miliardi), confermando la cifra già prevista dal precedente governo nella legge di Bilancio 2017; dall’altro, nell’indifferenza quasi generale le Regioni chiedono più o meno altri 2,5 miliardi. Devono assumere personale e rinnovare i contratti bloccati dal 2010 e non sanno come fare. “La spesa per il personale oggi non può essere superiore a quella del 2004 ridotta dell’1,4%: questa soglia va tolta, ma poi va finanziata la maggiore spesa per assumere”, ha detto in questi giorni il coordinatore degli assessori alla Sanità Antonio Saitta, proponendo di “vincolare il fondo alle assunzioni” visto che liste di attesa e intasamento dei pronto soccorso dipendono dalla carenza di medici e infermieri. Poi c’è un punto del contratto Lega-5S che tormenta l’opposizione, sollevato dalla dem Elena Carnevali: “Scrivono che il finanziamento del Ssn sarà ‘prevalentemente pubblico’, quindi non sarà più garantito interamente dalla fiscalità collettiva? L’ho chiesto due mesi fa al ministro ma non mi ha ancora risposto”.

La Stampa 3.10.18
Madre a 14 anni
“Troppo giovane” E l’Inps le nega il bonus bebè
di Barbara Morra

Compirà tre anni tra poco, ai primi di novembre, il piccolo Matteo (nome di fantasia) e ancora non si rende conto che, legata alla sua nascita, si è aperta una questione burocratica che gli uffici chiamano «caso limite». La mamma lo ha messo al mondo nel Trevigiano quando aveva solo 14 anni e frequentava il primo anno del liceo. La nonna, che è nata nel 1980, impiegata e residente in provincia di Cuneo, ha presentato domanda telematica all’Inps per beneficiare dell’assegno di natalità, quello che tutti chiamano «bonus bebe». Lo ha fatto «in nome e per conto della figlia minorenne», inserendo nella banca dati dell’istituto il proprio codice pin, di cui dispone in quanto lavoratrice dipendente. Sia lei sia la figlia, cioè la baby nonna e la baby mamma, possiedono i requisito che la legge chiede per ottenere il bonus. La risposta dell’operatore al call center dell’Istituto di previdenza è stata tranchant: il bonus bebè non è erogabile perchè la madre, che oggi ha 17 anni, è ancora una studentessa non è «censita» dall’Inps.
Da 80 a 60 euro mensili
«La nonna ha deciso, sempre in nome e per conto della figlia minorenne, di rivolgersi a noi per valutare le dovute azioni giudiziarie contro l’Inps - spiega Mario Ferri dell’Associazione italiana risparmiatori -. La giovanissima madre studia e fa qualche lavoro precario e non avrebbe potuto proporre domanda in proprio, in quanto ancora minorenne. La legge non contempla i casi di madri molto giovani come lei, seppure sia la ragazza sia la madre, cioè la nonna del piccolo Matteo abbiano i requisiti per beneficiare del bonus: una cifra che va da 80 a 60 euro mensili e che può essere spalmata fino a 36 mesi. Queste variazioni dipendono dal reddito: se è inferiore a 4000 euro, l’erogazione è di 160, se fra 4000 e 8000, l’assegno mensile scende a 80 euro».
Dall’Associazione, che presta servizio gratuitamente ( il sito è www.fondazioneitalianarisparmiatori.it) e si appoggia a studi legali, ritengono che, in generale, il sistema di erogazione del bonus bebè non funzioni. Conclude Ferri: «Ci sono una marea di contestazioni all’Inps per casi che rientrano nella norma, altro che i casi limite». E ricorda una vicenda all’estremo opposto: una donna che a 64 anni, con l’inseminazione artificiale divenne madre. In quel caso il no all’erogazione era basato sul fatto che la donna percepisse già la pensione e non fosse possibile una seconda previdenza.

Corriere 3.10.18
Il libro, l’elenco
E lo Stato si piegò alla razza
L’espulsione dei dipendenti pubblici ebrei nel 1938 fu la tomba del diritto
Hanno un nome gli statali ebrei buttati fuori dal lavoro nel ’38
Memoria Ottant’anni dopo, un libro di Giorgio Fabre e Annalisa Capristo con l’elenco delle persone cacciate (il Mulino)
di Gian Antonio Stella


Pace Raffaele, usciere. Minerbi Fernando, magistrato. Haim Massimiliano, operaio giornaliero. De Angelis Guido, vicedirettore del Tesoro. Luzzatto Mario, archivista. Foà Giovanna, professoressa. E via così… Hanno finalmente un nome gli ebrei che, sulla base delle leggi razziali del 1938, furono buttati fuori dallo Stato italiano per il quale lavoravano e nel quale credevano spesso con mal riposta devozione. Ottant’anni hanno dovuto aspettare perché fosse loro riconosciuto il primo dei diritti umani: la dignità di un nome. Una identità.
Quella che i nazisti cancellarono tatuando sulla pelle dei deportati un numero. Come quello impresso sul braccio della senatrice a vita Liliana Segre: n. 75190.
Nomi recuperati uno ad uno, con infinita, minuziosa, infaticabile pazienza da Annalisa Capristo e Giorgio Fabre, che firmano Il registro. La cacciata degli ebrei dallo Stato italiano nei protocolli della Corte dei Conti 1938-1943 (in libreria per il Mulino dall’11 ottobre). Un volume nel quale tutti quei nomi, recuperati appunto sui registri dei decreti di cessazione e di liquidazione di tutti i dipendenti pubblici ebrei, «ci si fanno davanti», come scrive Adriano Prosperi nella postfazione, «riscattati dal silenzio».
All’esterno, scrivono i due storici, «quei grandi volumi di protocollo “in folio” sembrano normali registri tipici dell’epoca, magari solo molto voluminosi e poco maneggevoli. Ma basta aprirne uno e, a seguire, gli altri, e con un colpo d’occhio viene fuori immediata la grande e cupa sorpresa. Le pagine — molte pagine, talvolta, per intero — sono costellate di righe rosse, in corrispondenza di alcuni dei nomi presenti nel registro. Le righe rosse sottolineano le parole “Razza Ebraica”, “Ebreo”, “Ebrea”».
Nomi, storie, tragedie. Come quella dell’impiegata del ministero delle Comunicazioni Lidia Della Riccia, che il 18 novembre di quell’autunno nero scrive, «orfana e sola», a Vittorio Emanuele III una lettera gonfia di delusione e di sconcerto. Dove spiega non solo di esser stata battezzata, ma di essere entrata di ruolo con un decreto del 20 settembre 1938 e a partire dal 28 ottobre 1938. Cioè «dopo» l’inizio dell’offensiva razziale fascista: «Ero felice di essermi assicurata (…) un posto che mi avrebbe permesso di lavorare onestamente tutta la vita, quando le recenti disposizioni di legge in materia di appartenenti alla razza ebraica sono venute a togliermi quel posto così faticosamente guadagnato ed a respingermi nella miseria non avendo io diritto, data la mia limitata anzianità di servizio, a pensione o a indennità di alcuna specie».
E parlando di miseria la poveretta non esagerava. Le leggi sul lavoro, spiegano gli autori della ricerca, «spaccarono la comunità ebraica in due o addirittura in più segmenti, per cui una piccola parte comunque rimase protetta, e un’altra fu tremendamente impoverita». Qualcuno, in qualche modo, se la cavò. Come Paolo Vita Finzi che aveva 21 anni di servizio, era console a Sydney, sede disagiata per l’enorme distanza da casa, e «passò da uno stipendio medio di 21.262 lire a 8.141 di pensione», ma «probabilmente riuscì a vivere dignitosamente perché rimase all’estero, a Buenos Aires». A migliaia di chilometri da Roma e dalle persecuzioni antiebraiche in arrivo.
Molto peggio andò ad altri. Come il commissario Guido Cammeo che, vedovo con sette figli, venne espulso dalla polizia e dal ministero dell’Interno il 5 settembre 1938, il giorno stesso della firma apposta dal re alla prima delle leggi fasciste. Non vedeva l’ora, Benito Mussolini che firmò il decreto, di buttar fuori quel funzionario con una pensione di 11.840 lire, la metà di quanto guadagnava prima. Non vedeva l’ora.
Figlio del rabbino di Modena, Guido Cammeo aveva agli occhi del Duce due colpe imperdonabili. La prima: nel 1923, a dispetto del regime già al potere, era stato assolto nel processo (aveva rifiutato l’amnistia: voleva il giudizio in tribunale) per una sparatoria nel 1921, a Modena, in cui erano morti otto fascisti (tra cui un ebreo, Duilio Sinigaglia) che «intendevano assaltare la Camera del Lavoro». La seconda colpa: era ebreo.
Reintegrato in servizio dopo l’assoluzione, per Cammeo era «iniziato un calvario in varie prefetture d’Italia: dopo qualche tempo che arrivava in una nuova sede, qualcuno capiva chi era e incominciava una sarabanda contro di lui e doveva venir trasferito». L’espulsione, corredata da un «ritocco» alle date (anche l’infamia ci tiene ai timbri in regola), fu insomma per il Duce il coronamento di una vendetta. Covata per anni.
«Il totale minimo dei dipendenti statali “in pianta stabile” licenziati perché “di razza ebraica”», spiega nella prefazione Michele Sarfatti, «fu di oltre 720. Assieme ad essi furono estromessi coloro che avevano (anche allora) un rapporto di tipo precario o che rientravano in situazioni normative complesse». Una umanità di «maestre, operai della Zecca, chimici, ragionieri, professori universitari, direttori di carceri, insegnanti di violino…» senza differenze di classe. Tutti «collettivamente e più o meno simultaneamente licenziati, esonerati, allontanati, espulsi, estromessi, reietti, banditi; insomma, dissolti». Dissolti mentre, «parallelamente, altrettanti dipendenti, nati di “razza giusta”, vennero assunti o fecero uno scatto di carriera». Magari compiaciuti della «botta di fortuna».
Il registro , scrive Prosperi, «non è un libro su Mussolini o su qualcuna delle sue vittime, è un libro su come muore uno Stato. (…) Basta sfogliare gli atti amministrativi scoperti e pubblicati in questo volume per vedere come, pagina dopo pagina e persona dopo persona, lo Stato cancelli la legge e faccia straccio delle regole con le quali era costruito il reticolo di rapporti che lo costituivano». Derubando i dissolti, a capriccio, anche delle liquidazioni e delle pensioni cui avevano, per legge, diritto.
Questo furono allora «lo Stato, i suoi ministeri, la sua magistratura contabile: tanti corvi dal solenne aspetto impegnati a saccheggiare quel che spettava ai “liquidati” sotto il segno dell’arbitrio e della prepotenza». A ottobre, pochi giorni dopo le leggi razziali, riaprirono le scuole. Con «vuoti fra i banchi degli allievi e nelle file del corpo docente». Eppure, accusa Prosperi, «Non ci furono reazioni. Chi mancava era entrato nell’ombra di percorsi privati, silenziosi e sofferti. Tra compagni e colleghi fu pronunziata a bassa voce la parola “ebreo”. E tutto finì lì» .

Il Fatto 3.10.18
L’Opera fantasma e i lavoratori invisibili Le Fondazioni a picco
Dagli archivisti ai musicisti, agli attori: sabato a Roma la prima manifestazione unitaria : “Siamo professionisti, non guitti”
di Alessia Grossi


La situazione più critica nel settore culturale è certamente quella delle Fondazioni lirico-sinfoniche di mezza Italia: dal Verdi di Trieste al Petruzzelli di Bari, fino al Massimo di Palermo. Ex Enti pubblici che nel 1996 subiscono per primi – seguiranno altri – la trasformazione in Fondazioni di diritto privato. Un modo, secondo l’allora ministro dei Beni culturali Walter Veltroni, che doveva servire a non appoggiarsi completamente al pubblico. A sostenere le produzioni dovevano entrare anche gli sponsor, mentre ai soci fondatori, Regioni e Comuni, non restava che finanziarle con aiuti una tantum. Di statale sarebbero rimasti e bastati i contributi del Fondo Unico per lo spettacolo (Fus). Sono passati 22 anni dalla nascita delle nuove fondazioni, e 33 da quella del fondo unico, ma “il modello non ha funzionato”, spiegano i rappresentanti delle sigle sindacali riunite a Roma al Conservatorio di Santa Cecilia per presentare la piattaforma comune di rivendicazione che porterà in piazza, sabato 6 ottobre, non soltanto i lavoratori delle Fondazioni suddette, ma 70 gruppi tra comitati di lavoratori culturali, organizzazioni sindacali, studenti e movimenti politici e democratici. Giornata simbolica visto che il 6 ottobre del 1600 a Firenze nacque l’Opera.
A prendere la parola per primo è proprio il direttore del Conservatorio, Roberto Giuliani, che si dice “vicino alle rivendicazioni dei suoi ospiti, non soltanto perché è lo stesso Conservatorio da lui diretto a portare i segni della razionalizzazione dei fondi pubblici – 270 mila euro annui per tutte le attività del Conservatorio di musica più importante d’Italia che in parte svolge ormai una attività volontaristica – confessa Giuliani, ma soprattutto perché la situazione che denunciano i lavoratori oggi sarà il futuro dei miei studenti. Bene che vada – conclude amaramente – i più bravi finiranno in orchestre straniere”.
A scendere in piazza sabato saranno anche archivisti, storici dell’arte, attori, oltreché maestranze, musicisti e coristi. La richiesta è unica e si appella all’articolo 9 della Costituzione “quello che delega e attribuisce la responsabilità della tutela della cultura ai cittadini”. Ci sarà anche il settore pubblico nel corteo che partirà da Porta San Paolo, a partire dai funzionari del Mibact a testimoniare i tagli progressivi che il dicastero ha riservato al comparto culturale. “Che arrivano anche al 50 per cento dello stanziamento iniziale”, denunciano. “Per anni ci hanno fatto credere che fosse una questione di ripartizione dei pochi soldi che c’erano. Ci hanno spinto alla competizione reciproca. Ma non è così – spiega il rappresentante de ‘Mi riconosci? Sono un lavoratore dei beni culturali’. I soldi ci sono e si possono trovare. Ma soprattutto non può esistere la competizione”, conclude.
Ma i malati più gravi, dicevamo, sembrano essere le Fondazioni lirico-sinfoniche “indebitate per 290 milioni di euro” a detta dello stesso Commissario straordinario Gianluca Sole durante l’ultima audizione in Senato qualche giorno fa. Si parla di nove teatri (la cui situazione economica riportiamo nell’elenco accanto) che al 31 dicembre 2017 vengono ammessi alla procedura di finanziamento e che hanno ricevuto per il triennio 2016-2018 contributi pari a 158,1 milioni, a fronte dell’approvazione dei nuovi piani di risanamento rispetto al primo del 2014. Il fondo, non utilizzabile per la gestione corrente, ma per all’ammortamento del debito deve essere restituito in 30 anni, secondo quanto disposto dal decreto del 2014. Peccato che stando alle parole di Sole “neanche in 100 anni – visti gli utili ridotti dei teatri – questi riuscirebbero a ripagare il debito”. Siamo al 2018, dunque, alla conclusione del triennio mancano pochi mesi e del risanamento non si vede l’ombra. Anzi, in totale il debito delle Fondazioni è quasi raddoppiato, sempre secondo i dati del Commissario, anche se tutti hanno raggiunto l’equilibrio gestionale – condizione sine qua non per non venire liquidati coattamente – secondo quanto previsto dall’accordo con il ministero.
Da parte sua, il Commissario ha spiegato nella sua relazione che si sta procedendo anche ad altri aiuti ai teatri in difficoltà, soprattutto per quanto riguarda il debito fiscale. “Misure queste ancora insufficienti comunque ad abbattere il debito delle Fondazioni – ha spiegato Sole – a cui per questo motivo vanno aggiunte altre azioni, come quella di incitare i soci alla ricapitalizzazione reale e immediata. Da affiancare a un nuovo contratto per i lavoratori che tenga conto delle loro specificità”. In poche parole Comuni e Regioni non possono più “limitarsi a inserire in bilancio un ipotetico finanziamento che poi non erogano o lo fanno troppo tardi”, redarguisce Sole. Tra le altre misure individuate dal Commissario quella di un possibile rinvestimento del debito annuale restituito dai teatri nelle produzioni stesse. Ma siamo al fotofinish e la Lirica non sembra essere uscita dall’impasse.

il manifesto 3.10.18
Occupazioni a prova di infelicità
«Bullshit Jobs», un volume dell’antropologo e attivista statunitense David Graeber per Garzanti. L’autore non ha mai nascosto il suo anarchismo, ma è vicino a Max Weber, Gabriel Tarde e Marx. Un programma di reddito minimo eliminerebbe l’ossessione del lavoro: offrirebbe un ragionevole livello di vita. Il singolo può poi decidere se cercare di guadagnare ancora
di Benedetto Vecchi


David Graeber è un antropologo che ha concentrato la sua attenzione di studioso su fenomeni e comportamenti decisamente metropolitani. Dunque niente esotismo per le culture tribali o fascino per il «selvaggio». Da alcuni anni a questa parte ha, infatti, concentrato la sua attenzione sul secolare ruolo del debito come tecnologia del controllo sociale (Debito. I primi 5000 anni, Il Saggiatore).
Con lo stesso spirito etnografico ha studiato la burocrazia, fondamentale anello nella catena di comando finalizzata al dominio della società da parte di una ristretta élite (Burocrazia, Il Saggiatore); oppure ha passato al microscopio rituali, consuetudini e convenzioni socialmente necessarie alla democrazia (Progetto democrazia, Il Saggiatore). Graeber non ha mai nascosto il suo anarchismo, anche se la sua costellazione teorica contempla Max Weber, Gabriel Tarde e timidissimi riferimenti a Karl Marx, studiosi lontani dalla filosofia e antropologia libertaria condivisa.
LA PASSIONE MILITANTE lo porta spesso a collaborare e scrivere per riviste, magazine, quotidiani su argomenti legati all’attualità. E questo suo ultimo libro nasce proprio come evoluzione di una saggio scritto nel 2013 per la rivista online Strike. Il tema del suo contributo doveva essere la precarietà, la disoccupazione dovuta all’automazione, nonché l’annunciata scomparsa della classe operaia nel capitalismo. Con un movimento spiazzante, tuttavia, Graeber lo affronta da un altro punto di vista rispetto quanto circolava nei gruppi politici radicali dei movimenti sociali, quello della infelicità per i lavori senza senso, che alimentano nei singoli un paradosso difficile da gestire: lavorare impegnando gran parte delle proprie energie fisiche, psichiche e della propria creatività per poter pagare le bollette e odiare quel lavoro considerato dall’ideologia dominante l’elemento fondamentale della propria identità personale, nonché collante della società.
L’ESPRESSIONE usata da Graeber non è proprio senza senso, perché l’espressione scelta – bullshit jobs – è ben più colorita, visto che può essere tradotta come «lavoro di merda»). Il testo ha avuto una diffusione virale e in molti hanno scritto lunghe e-mail all’autore, raccontando la loro esperienza lavorativa, condividendo il punto di vista del saggio; o criticandolo. Graeber ha così raccolto centinaia di testimonianze, catalogate e archiviate per poi essere rielaborate per comporre una accurata ricerca antropologica o etnografica sul lavoro dei colletti bianchi nel capitalismo contemporaneo. In Italia è stata la Garzanti a tradurla e pubblicarla con il titolo Bullshit Jobs (pp. 396, euro 19, traduzione di Albertine Cerutti).
La prima chiave di lettura della ricerca investe le caratteristiche del lavoro manageriale, all’interno di una struttura gerarchica di tipo feudale. Una piramide dove i rapporti sono legati da relazioni vis-à-vis e da un complesso e in divenire, flusso di procedure che definiscono e valutano il lavoro dei sottoposti. Graeber parla di un feudalesimo manageriale, dove ricatto del licenziamento, fedeltà al superiore e accettazione silenziosa delle procedure sono le premesse dalla stabilità aziendale. Anzi, è la stabilità aziendale, la sua possibilità di riprodursi come organizzazione la mission del lavoro dei colletti bianchi.
ED È PROPRIO la costellazione sul lavoro impiegatizio che emerge nella prima parte del volume. C’è ovviamente il saggio di Charles Wright Mills (Colletti bianchi, Einaudi), ma anche l’antico Impiegati di Siegfried Kracauer (Einaudi) e L’uomo dell’organizzazione di William H. Whyte (sempre Einaudi). E ancora, come già evidenziato, la riflessione di Weber sulla burocrazia come elemento di costruzione dei rapporti di potere e di consenso nella società moderna. Ma se queste sono le «stelle» che orientano la navigazione nel lavoro senza senso, Graeber ha il merito di introdurre vere e proprie tipologie di figure chiave del feudalesimo manageriale. Ci sono gli sgherri, i ricucitori, gli sbarracaselle, i supervisori. Figure che non hanno necessità di spiegazioni, a conferma della loro inutilità effettuale. Producono carta straccia, oppure lunghe mail che vengono catalogate e archiviate nella loro inoperatività. Gran parte del tempo di lavoro è passato nella finzione di fare qualche operazione dotata di senso. Ma questo produce stress e una infelicità cronica. Molti rimangono a svolgere il loro lavoro, perché normalmente è pagato per sopravvivere in un capitalismo predatorio. Alcuni però rinunciano a quel salario dignitoso e si inventano o scelgono lavori che hanno una qualche utilità sociale (insegnanti, infermieri, contadini, sviluppatori di software open source) anche se pagati poco.
COSÌ VIENE INTRODOTTA la distinzione tra «lavori di merda» e «lavori senza senso». I primi fanno parte della grande schiera degli impieghi precari, sottopagati, esposti all’intermittenza. Possono riguardare il settore industriale, come quello dei servizi, ma sono forme di lavoro variamente analizzate. Quelli senza senso, invece, poco o nulla sono stati indagati. Il primo merito del libro di Graeber sta proprio nell’essere un volume di inchiesta, seppur poco militante e molto accademico.
Infelicità, stress, insensatezza delle relazioni personali. Ci sono quelli che studiano, scrivono romanzi, sceneggiature, schiattano sui social media, altri provano testardamente a proporre nuove modalità lavorative che diano senso alle ore passate in ufficio. La partecipazione, con nickname che non celano il vero nome, a Facebook e a Twitter ha la funzione di socializzare la propria condizione lavorativa, cercando conforto e rispecchiamento sulle tristi passioni dell’impresa contemporanea. Ma anche in questo caso non prelude a nessuna autorganizzazione né sindacale né di autocoscienza. Si tratta solo di sfoghi, che possono assumere tonalità rabbiose, di risentimento e di teorizzazione di pratiche opportunistiche. Elementi, secondo Graeber, che spiegano la crescita delle formazioni politiche populiste e xenofobe.
GRAEBER LO ESPLICITA chiaramente che l’afflato polemico del libro è contro le retoriche, dominanti nel mondo anglosassone, della «classe creativa», dei «knowledge workers», del «lavoro immateriale» sia nelle loro declinazioni conservative che progressiste, convergenti nell’indicare nel «lavoro senza senso» una centralità nei rapporti sociali di produzioni. Una convinzione smentita sia dalle statistiche che dai racconti raccolti.
Oltre alle narrazioni, sono interessanti anche le statistiche, in particolare quelle che mettono in evidenza che, oltre il 60% degli occupati nel management sono inutili, servono solo a costruire il consenso a un regime di accumulazione capitalistica in deficit di legittimazione a causa dei movimenti sociali globali e delle ricorrenti crisi finanziarie, sociali e ambientali. Illuminante è la frase di Obama riportata nel volume. L’ex-presidente degli Stati Uniti nel dire che la mediazione sulla riforma sanitaria aveva incontrato poca passione nel suo elettorato, dà una spiegazione abbastanza brutale e indica quei milioni e milioni di posti di lavoro nelle compagnie assicurative private che si sarebbero trovate senza lavoro. Obama aggiunge che non avrebbe certo potuto dare il via a programmi di investimenti per lavori socialmente utili che riassorbissero la disoccupazione. Per questo, era meglio mantenere milioni di lavori senza senso e un’assicurazione sanitaria penalizzante per chi ha salari bassi piuttostoche avere il coraggio di immaginare un nuovo new deal.
È su questo crinale che il libro compie, figurativamente, una vera svolta. Graeber richiama discussioni antiche sul lavoro produttivo e improduttivo, sulla teoria del valore-lavoro. Da buon anarchico prende le distanze dalla vision marxiana della teoria del valore-lavoro ed è più indulgente verso la centralità della divisione del lavoro in Ada Smista, sulla teoria di Davide Riccardo del lavoro, degli artigiani in Proudon o Riccarda Sennett. Ma è anche avvertito osservatore partecipante ai movimenti sociali. Graeber è stato, ad esempio, una presenza costante durante il movimento no-globali e di Occupy Wall Street arrivando a maturare la convinzione che occorre partire dai quei lavori che hanno una finalità sociale per trasformare i rapporti di potere nel capitalismo.
DA QUI LA TERZA CHIAVE di lettura del volume, che lo chiude. Si tratta dell’automazione che cancella lavori, compresi quelli senza senso. Quindi cosa fare? Certo, sviluppare iniziative produttive e lavorative autogestite finalizzate a produrre beni e servizi socialmente utili. Ma per questo occorre un reddito minimo garantito su base universale. Non quella carità dei redditi di inclusione o dei sussidi di disoccupazione progettati in Europa e negli Stati Uniti (l’ultimo in ordine di tempo è la proposta del governo italiano leghista e grillino) come una inferriata da aggiungere alla gabbia del lavoro salariato, bensì un reddito universale che consenta di vivere, sperimentando appunto forme di lavoro sociale.
Graeber non nasconde la difficoltà di questa proposta e i rischi che comporta nel rafforzare il ruolo di controllo sociale esercitato dalle istituzioni statali, le uniche immaginate per erogare il reddito minimo garantito. Ma sono rischi che vanno corsi, per evitare che le stigmate del lavoro senza senso e di merda colpiscano la maggioranza della popolazione. Ritorna così centrale la distinzione tra il 99% della popolazione depredata dalla ricchezza prodotta da parte dell’un per cento, cara a Occupy Wall Street. Non è un ritorno al passato, ma l’angolo prospettico per immaginare un futuro e un presente di libertà.

Il Fatto 3.10.18
Belle da morire: chi uccide le influencer d’Iraq?
Serial killer - Una blogger, un’attivista, una chirurga e un’imprenditrice eliminate in poche settimane
di Michela A. G. Iaccarino


Con il trucco pesante, tatuaggi e rossetto, linguaccia dei Rolling Stone sulla maglietta, aveva sempre l’aria frivola e spensierata, ma chissà se Tara Fares lo era davvero. Centinaia di selfie, decine di abiti, star dei social media, 22 anni. Miss Bagdad è stata uccisa. Tra le nuvole umide della capitale irachena un uomo si è avvicinato alla sua Porsche e le ha sparato.
Libanese la madre sciita, cristiano il padre iracheno. Fara viveva ad Erbil, con perenne mascara e tacco 12. Lontano da quel Medio Oriente di guerra e violenza, quelle foto da ragazzina ammiccante che postava continuamente non si sarebbero neppure notate, uguali a migliaia di altre. Ma se sei donna, puoi morire di bellezza in Iraq. Tara è stata ammazzata, ma il suo profilo con due milioni e 800mila followers è rimasto on line. Come la sua vita, anche la sua morte ora è virale, ripresa dalle telecamere di sicurezza della città.
Se l’omicida voleva uccidere lei o la sua immagine, o entrambe, non lo sanno i fan che ora la piangono, e nemmeno gli haters che di continuo la insultano, approvando la fine da “puttana che meritava”. Nessuno li ferma. Il web iracheno è spaccato a metà, tra lutto e oscena derisione, come la società stessa, polarizzata alle elezioni, dove per la prima volta nella storia si è candidata una donna alla presidenza: Sarwa Abdel Wahid.
Bellezza o libertà civile: per le donne è comunque tragedia corale. Tara aveva 22 anni, Suad al Ali ne aveva 46. Da Bagdad la liturgia mortale si è ripetuta uguale a Bassora, città senza acqua né elettricità, solo proteste quotidiane. Un’altra donna uccisa al volante: anche Suad, attivista politica, è stata ammazzata in auto, avvicinata da un motociclista che in pochi secondi le ha tolto la vita.
Dispotismo patriarcale riassunto nel piombo di un proiettile. Tara è stata uccisa per le sue immagini, Suad per le sue parole.
Sono state ritrovate cadavere in circostanze misteriose nelle loro case, senza causa di morte certa, ma solo ipotesi circondate da pettegolezzi, altre due donne bellissime lo scorso agosto: Rasha al Hassan era la direttrice della clinica di bellezza Viola, Rafifi al Yasiri, 32 anni, era un chirurgo estetico, quella dottoressa che tutti chiamavano in tv la “Barbie irachena”. Praticava, viveva e propagandava apparenza come inizio dell’indipendenza femminile.
Queste donne non si conoscevano, ma in comune avevano volti noti, capo svelato e testa alta in una società profondamente maschilista. Tutte sono state fagocitate e spente da odio ignoto, per finire dai social alle sezioni di cronaca nera dei quotidiani iracheni.
La mano armata è dei fondamentalisti? Della criminalità organizzata?
Sono quattro scie di sangue distanti, morti lontane l’una dall’altra in città diverse, ma ricongiunte nelle parole del primo ministro Haider al Abadi: “C’è un piano comune dietro questi crimini”. Gli stralci di indizi sono da riunire in un filone unico, ha ordinato il premier ai responsabili del ministero degli Interni e ai servizi segreti.
Nel paese di guerra, dove la sopravvivenza non è mai stata certezza per nessuno, adesso anche Miss Iraq ha paura, perché dopo la morte di Tara è stata minacciata di morte. Lo ha raccontato lei stessa, in un video che ha postato due giorni fa on line.

La Stampa 3.10.18
L’urlo disperato di Miss Iraq
“Vogliono ucciderci tutte”
di Giordano Stabile


Adesso c’è anche Miss Iraq nel mirino dei killer misteriosi che in meno di un mese hanno ucciso quattro irachene colpevoli di non starsene a casa, di essere troppo «appariscenti» ed emancipate. Nel video postato su Instagram Shaima Qassem, vincitrice del titolo nel 2015, ha rivelato di essere stata minacciata di morte in un messaggio. «Tu sei la prossima», le hanno scritto, e Qassem ha preso l’avvertimento molto sul serio, anche perché non è il primo. Ancora sotto choc per l’uccisione in pieno giorno e in pieno centro a Baghdad della blogger e modella Tara Faris, Qassem ha lanciato una richiesta di aiuto, fra le lacrime: «Ci uccideranno tutte, soltanto perché siamo famose e appariamo nei media? Se non li fermiamo, ci ammazzeranno come animali».
Sospetti di una banda organizzata
Nell’ultimo mese oltre a Tara Faris sono state assassinate l’attivista per i diritti umani Souad al-Ali, a Bassora, e due proprietarie di centri estetici a Baghdad, molto conosciute anche sul Web, Rafif al-Yaseri e Rasha al-Hassan. Il premier Haider al-Abadi ha ordinato un’«inchiesta a tutto campo». Il governo sospetta che ci sia una banda organizzata, per lo meno dietro i tre omicidi di Baghdad e alle minacce ricevute da altre donne. I killer sembrano sceglierle in base al seguito sui social media, la nuova frontiera della scontro fra i settori più conservatori della società e le donne che rivendicano il diritto di vivere e vestirsi come pare a loro.
Shaima Qassem ha 2,7 milioni di seguaci su Instagram. Tara Fares ne aveva tre milioni. «Una martire», l’ha definita la reginetta di bellezza, un termine che in Iraq indica una persona disposta a dare la propria vita per una causa. La battaglia è in corso, i sostenitori di Shaima, di Tara, notano come nelle tv principali le donne assassinate vengono ancora criticate per suo stile di vita «eccessivo», le foto sexy postate sul Web, come se fossero giustificazioni a ucciderle.
Già minacciata nel 2015
Qassem era già stata minacciata di morte dall’Isis nel 2015, subito dopo aver vinto il titolo. Quella volta gli islamisti l’avevano chiamata al telefono: «O ti converti, o lasci l’Iraq, o morirai». Questa volta però non è chiaro che gruppo o banda ci sia dietro l’ondata di violenze.
Per Haana Edward, fondatrice della Ong Al-Amal, la Speranza, gli omicidi sono «un messaggio prima di tutto alle attiviste, poi a tutta la società, un modo per costringere le donne a stare zitte e restarsene a casa».

Repubblica 3.10.18
Tara Fares e le altre vittime
Morire di odio al tempo di Instagram
La modella uccisa per le vie di Bagdad è solo l’ultima Come lei, molte giovani donne finiscono nel mirino per la voglia di rappresentare sui social un futuro laico e più libero per i loro Paesi
di Francesca Caferri


Tara Fares, uccisa per le strade di Bagdad giovedì, non è stata che l’ultima vittima. La spiegazione per la morte, hanno raccontato i giornali, è da ricercarsi nella sua attività sui social network. Con i suoi 2,8 milioni di followers su Instagram, la app di condivisione delle fotografie, Fares offriva un’immagine alternativa dell’Iraq: sexy, scanzonata e controcorrente. Per questo è stata eliminata. Nel mirino degli haters ora c’è un’altra reginetta di bellezza irachena, Shimaa Qassem: «La prossima sarai tu», le hanno scritto su Instagram dopo la morte della collega. Parole che, purtroppo, non sono del tutto nuove: a settembre c’era stato il caso di Anam Tanoli, 26 anni, modella e influencer pachistana trovata morta nella sua casa di Lahore il giorno dopo aver denunciato su Instagram la campagna di odio di cui era vittima in rete. «I bulli sono solo dei codardi», aveva detto. La polizia ha archiviato la morte come suicidio, ma il paragone con Qandeel Baloch, la regina dell’Instagram pachistano, uccisa nel 2017 dal fratello per «salvare l’onore della famiglia», messo in discussione dalle esternazioni della ragazza sui Social non sono mancate. Di Instagram si muore dunque, sopratutto nei Paesi più conservatori. E le vittime spesso sono donne: «Dietro a queste violenze ci sono elementi specifici in ogni luogo: in Iraq per esempio c’è la volontà di colpire un Paese che sta tentando di cambiare — spiega Renata Pepicelli, docente di Storia dei Paesi islamici all’università di Pisa — ma è anche vero che le donne vengono colpite perché spesso sono il simbolo del cambiamento. E, attraverso i social, propongono un modello di comportamento diverso: e facilmente accessibile a tutti». Colpire chi si presenta come diverso dunque, significa tentare di bloccare la possibile diffusione di comportamenti considerati pericolosi: è il caso di Maedeh Hojabri, arrestata a luglio in Iran per aver condiviso con i suoi 600mila followers su Instagram video girati mentre ballava. «I social possono facilmente diventare strumenti di amplificazione di determinati fenomeni. Uno di questi è l’idea che le donne siano un soggetto debole e per questo possano essere prese di mira, con fake news o con campagne di odio», conclude Gabriela Jacomella, giornalista e co-fondatrice di Factcheckers-it.

Repubblica 3.10.18
L’esecuzione di Zeinab
Giustiziata in Iran la sposa bambina che uccise il marito

I numerosi appelli per la sua liberazione non sono serviti.
All’alba di ieri è stata eseguita in Iran la condanna a morte di Zeinab Sekaanvand, la ventiquattrenne curdo-iraniana arrestata nel 2011 per l’omicidio del marito che era stata costretta a sposare all’età di 15 anni. Dopo gli abusi fisici e psicologici, la donna si era fatta giustizia da sè.
L’esecuzione della sposa bambina è avvenuta nel carcere di Urmia, nel Nord-ovest del Paese. «Non solo Zeinab era minorenne al momento del reato, ma il suo processo era stato gravemente irregolare. Aveva avuto assistenza legale solo nelle fasi finali del procedimento, nel 2014, quando aveva ritrattato la confessione, resa a suo dire dopo che agenti di polizia l’avevano picchiata», ha denunciato Amnesty International.
L’Iran è rimasto l’unico Paese al mondo a mettere a morte minorenni al momento del reato.

Corriere 3.10.18
Non lasciamo soli i curdi iracheni, divisi e irrilevanti
di Lorenzo Cremonesi


È preoccupante il destino dei curdi iracheni. Le recenti elezioni per il rinnovo del parlamento regionale, ignorate nel mondo, sanciscono in ultima analisi la loro irrilevanza. A ben vedere, la loro storia recente è un susseguirsi di altalenanti fortune. Da minoranza perseguitata ai tempi di Saddam Hussein a polo di successo nel nord del Paese fino alla crisi più nera degli ultimi mesi. Una crisi iniziata poco più di un anno fa, quando l’errore cieco e ostinato da parte di Massud Barzani — che volle tenere a tutti i costi il referendum sulla nascita di un Kurdistan indipendente, contro i consigli di tutte le forze amiche (compreso il governo italiano) — condusse allo scontro militare con Bagdad, alle divisioni interne, alla perdita dei poli petroliferi di Kirkuk e quindi al disastro politico ed economico. Per comprenderne le dimensioni basta ricordare quanto la regione autonoma fosse progressivamente diventata prospera già agli inizi del Duemila. Ancora cinque o sei anni fa si arrivava in auto da Bagdad ad Erbil tirando un sospiro di sollievo. Al primo posto di blocco dei Peshmerga terminava la paura di terrorismo e rapimenti, finiva la serie infinita di agglomerati urbani poveri e disordinati, e si presentava invece un Paese pulito, ordinato, con i negozi ben forniti e i grattacieli luccicanti del recente boom economico. Nel 2014 i curdi furono il baluardo della civiltà contro l’Isis trionfante a Mosul. Il segreto del successo? La capacità di superare antiche gelosie e rivalità tribali tra i clan Barzani e Talabani. Per un attimo parve che i curdi potessero finalmente parlare con una voce sola. Ora non più. Le antiche faide sono tornate più virulente. Tanto acute che adesso tra Barzani e Talabani non riescono neppure ad esprimere assieme una preferenza per il loro candidato alla presidenza dell’Iraq, che da dopo la guerra del 2003 dovrebbe essere curdo. La caduta del prezzo del petrolio e le recenti divergenze con il governo di Ankara rendono la situazione ancora più difficile.