sabato 29 settembre 2018

Il Fatto 29.9.18
“Papa Francesco sapeva tutto e ha coperto gli abusi in patria”
Da Buenos Aires  Julieta Añazco. Per la prima volta parla la donna vittima di violenze da parte del prete argentino Ricardo Giménez, e accusa Bergoglio. Julieta Añazco: “Ho spedito una lettera in Vaticano. L’hanno ricevuta ma nessuna risposta”
di Dolores Álvarez e Maddalena Oliva


È un racconto che inizia passeggiando vicino a una chiesa di La Plata, provincia di Buenos Aires, Argentina. È lì che nel 2011 Julieta Añazco, 46 anni, ha avuto all’improvviso un brivido. E un ricordo sepolto non è più rimasto al suo posto.
Julieta Añazco, cosa è successo?
Mi ritrovai di fronte alla basilica Sagrado Corazón de Jesús, a La Plata, la mia città. Una chiesa famosa per organizzare campeggi tra i bambini della parrocchia. E famosa perché lì c’era un prete, Ricardo Giménez, denunciato per aver abusato di minori. Non avevo associato… Quel prete aveva violentato anche me. Ma era come se l’avessi messo in fondo a un cassetto della memoria. Dopo due anni da quella passeggiata, nacque mio nipote. Cominciai a sentire una paura folle, inspiegabile. E ho iniziato a ricordare.
Cosa fece?
Cercai su Internet, scoprii altre vittime. Ho cominciato a rivivere tutto: nel campeggio, lui che diceva che quello che succedeva al momento della confessione non doveva essere raccontato, altrimenti saremmo andate all’inferno. Non lo raccontai a nessuno. E così le mie amichette dell’epoca.
Quando ha smesso di rimuovere?
A 18 anni l’ho raccontato per la prima volta, e poi è come se non fossi stata in grado di vederlo fino a cinque anni fa.
E cosa ha fatto dopo aver realizzato?
Ho contattato avvocati per capire se potessi fare una denuncia. Dicevano che il reato, dopo 30 anni, era prescritto. Poi è iniziato questo lungo cammino di denunce e lotta. Grazie ai social ho potuto contare su una catena umana di “investigatori”. Ho scoperto così il suo nome. Con un gruppo di donne di La Plata e un collettivo di donne vittime di abusi di Neuquén abbiamo organizzato una protesta pubblica di fronte alla chiesa in cui Giménez faceva messa, e un’altra di fronte alla sua abitazione. Un giorno sono andata a messa, e ho riconosciuto la sua voce: era lui.
E cosa ha fatto a quel punto?
L’ho avuto di fronte a me e non ho detto una parola.
Quante persone abusate da padre Giménez ha rintracciato?
Più di 50.
Avete avuto giustizia?
A carico di Giménez c’erano altre due denunce precedenti alla mia, una dell’86 e una del ’95: archiviate. A luglio scorso due nuove vittime l’hanno denunciato.
Lui adesso dov’è?
L’arcivescovo di La Plata l’ha mandato in una casa per anziani che dipende della Chiesa. Dopo le denunce, il Vaticano l’ha dichiarato colpevole e la “giusta pena” stabilita dal processo ecclesiastico è stata dieci anni di orazione, e penitenza in questa casa per anziani. Lui non celebra messa, ma affianca il sacerdote che lo fa. Porta ancora l’abito talare. E continua a essere in contatto con minori.
Qual è stato il ruolo di Papa Bergoglio?
Ho mandato una lettera personale alla Segreteria del Vaticano a dicembre 2013. So per certo che è arrivata a destinazione, conservo la ricevuta di ritorno col timbro vaticano.
Cosa scriveva in questa lettera?
Raccontavo al Papa del nostro gruppo: allora 19 donne, abusate da Giménez. Molte di noi sono in terapia da anni, alcune si sono suicidate, altre sono diventate dipendenti da alcol, droghe. Denunciavo che Giménez era ancora a contatto con minori. Era una richiesta di fare qualcosa perché la storia non si ripetesse.
Ha ricevuto risposte?
Nessuna. Ma pochi mesi dopo ho ricevuto un invito in Vaticano attraverso un’amica di Eduardo Valdés, l’allora ambasciatore argentino presso la Santa sede. Tramite lei, Valdés ci assicurò in via informale che il Papa ci avrebbe ricevuto. Ma tra noi in tanti avevano già cercato di contattare Bergoglio quando era arcivescovo a Buenos Aires. Lui si era sempre negato. E molti degli abusati non hanno dimenticato.
E poi?
In quell’incontro avuto con l’amica di Valdés, lei specificò che il Papa non voleva che partecipassero alla delegazione per Roma né le vittime di padre Julio Grassi né quelle del sacerdote Rubén Pardo. E questo, per la nostra “Rete di sopravvissuti agli abusi ecclesiastici” era inaccettabile.
Bergoglio poteva non sapere degli abusi di Giménez?
No. Ricardo Giménez è stato prete in due chiese della città di Buenos Aires. Negli anni ‘60, era alla Chiesa Santa Lucía di Barracas e, dopo le proteste dei genitori, venne trasferito alla Chiesa Santa Clara nel quartiere Flores, dove viveva Bergoglio. I due sono quasi coetanei. Anche a Flores, dopo nuove proteste, Giménez venne mandato via. Bergoglio sapeva.
Sta dicendo che il Papa, allora arcivescovo di Buenos Aires, ha coperto abusi di preti in Argentina, da padre Giménez a Don Corradi?
Io ne sono convinta. A quell’epoca, non era così comune denunciare pubblicamente un prete per pedofilia. In più, io gli ho indirizzato la lettera e i legali della nostra rete di abusati sono venuti a Roma per consegnare le nostre denunce. Lui sapeva tutto, e non ha mai fatto niente.
Lei è ancora credente?
No.
Si può rimarginare una ferita così?
È uno stigma che ci porteremo indietro per tutta la vita. Ognuno di noi dovrà imparare a conviverci, cercando di non suicidarsi, di non farsi del male, di capire che non abbiamo avuto alcuna colpa: eravamo piccoli e la colpa è dell’altro, solo dell’altro.

La Stampa TuttoLibri 29.9.18
Non è il diavolo che ci stupra ma voi maschi che predicate la Bibbia
La scrittrice canadese ricostruisce una storia vera avvenuta in un villaggio mennonita della Bolivia Giovani, anziane e bambine (di tre anni) venivano narcotizzate e violentate dai membri della comunità
di Federica Bosco


Sono immensamente grata di poter recensire il nuovo romanzo di Miriam Toews, scrittrice che amo alla follia, dotata di un talento unico e coraggioso, che in ogni sua storia riesce a scomporre il dolore e ricomporlo in qualcosa di decente, vivibile, sopportabile. Un talento resiliente che le ha permesso di vedere la facciata illuminata delle cose, quella nascosta, quella bella, quella per cui vale ancora la pena vivere.
E ci voleva una donna coraggiosa per raccontare una storia così aberrante, incivile e inaccettabile che ti aspetteresti fosse ambientata nel medioevo e non nel civile terzo millennio; quella degli stupri avvenuti intorno al 2005 e per molti anni a seguire, in una comunità mennonita in Bolivia, dove quasi tutte le donne (giovani, anziane, e bambine anche piccolissime) venivano anestetizzate con uno spray veterinario e abusate nel sonno da un gruppo di uomini (spesso parenti stretti, fratelli, zii).
Al loro risveglio, in stato confusionale, ferite e sanguinanti, veniva detto loro che erano stati i demoni a punirle per i loro peccati, o ancora, che si trattava di «sfrenata immaginazione femminile» con lo scopo di attirare l’attenzione o coprire un adulterio. E come negare l’ insindacabile autorità del pastore, gli uomini e gli anziani, coloro che interpretano la Bibbia?
Queste donne così pie e innocenti, devastate nell’anima e nel corpo avevano reagito con il silenzio, con l’oblio, la follia, il suicidio. Molte erano rimaste incinte, molte – come la piccola Miep di 3 anni- infettate.
Ma è solo quando la fiera Salomè, si scaglia, pazza di rabbia, con una falce contro quelle bestie senz’anima, che il pastore decide di affidarli alle autorità del paese vicino per proteggerne l’incolumità. Al loro ritorno, se le donne saranno disposte a perdonare, avranno salva l’anima, in caso contrario verranno dannate. Come se ci fosse un inferno ancora peggiore.
Nell’attesa che gli uomini tornino dal paese dopo aver pagato la cauzione e liberato i compagni, alcune donne decidono di radunarsi per stabilire se restare, perdonare, combattere o andarsene.
E hanno solo 48 ore di tempo per farlo.
Una decisione epica, difficilissima, spaventosa che Miriam Toews (cresciuta lei stessa in una comunità mennonita) ricostruisce calandosi perfettamente in quella dimensione surreale, fuori dal mondo e dal tempo, (perché il tempo è eterno e non si deve misurare) tratteggiando lo spirito e la forza di queste donne succubi di un destino crudele, ma ancora così piene di dignità e voglia di vivere.
Donne che non sanno leggere e scrivere, che lavorano come bestie, che fanno figli senza sosta, e vengono picchiate e vessate, che non hanno diritto all’istruzione e alle cure mediche, costrette ad obbedire anche ai loro stessi figli adolescenti da cui possono venire scomunicate, che parlano una lingua dimenticata fatta di rudimenti di tedesco, e non sanno nemmeno dove si trovano nel mondo perché non hanno una mappa. Alla mercé di un Dio capriccioso e volubile, inventato dagli anziani e interpretato a proprio uso e consumo, dietro la costante minaccia dell’espulsione da un regno dei cieli che vede le donne sempre un gradino meno degne degli animali.
Ma queste donne, nonostante tutto, sono forti, resistenti, determinate, intelligenti, acute, intuitive, dotate di senso dell’umorismo, e consapevoli della loro importanza sociale, («gli uomini senza di noi non sopravvivrebbero più di due giorni») e malgrado la paura dell’ignoto, sono assolutamente convinte di voler lottare per tre ragioni: proteggere i propri figli, mantenere salda la propria fede e soprattutto rivendicare il loro diritto di pensare.
Due giorni passati in un fienile a discutere, litigare, interpretare, interrogarsi sulla vita, comprendere il proprio ruolo sociale, e pensare, (pensare!) sotto lo sguardo amorevole del mite August, l’insegnante, incaricato di redigere i verbali, un uomo buono, sensibile, troppo. L’invisibile, il reietto, cacciato insieme ai genitori che avevano osato divulgare libri d’arte e riaccolto ormai adulto come un paria.
Personaggi indimenticabili dalle personalità uniche che dopo qualche pagina sembra già di conoscere, come stare seduti in un angolino del fienile e osservare Mariche la testarda, Salomè la rabbiosa, Mejal la fumatrice incallita dalla vita segreta, e Ona, la splendida ribelle, considerata figlia del demonio perché zitella, perché sensibile.
Quarantotto ore che cambiano i destini, in un romanzo corale necessario, intenso, doloroso e bellissimo che indigna, commuove, ma dona speranza.
Un consiglio personale e assolutamente di parte: leggete tutto quello che ha scritto Miriam Toews, perché sarà un prezioso dono alla vostra anima.

Il Fatto 29.9.18
Costituzione, errori da non ripetere
di Alfiero Grandi


Malgrado la vittoria del No al referendum del 4 dicembre 2016 sulle modifiche della Costituzione volute da Renzi, la nuova maggioranza Lega-M5S prova a sua volta a modificare la Costituzione con varie proposte. Da decenni si susseguono tentativi di scaricare sulla Carta costituzionale le difficoltà di governare. Certo, maggioranza e governo attuali non hanno dimenticato le intemerate di Alessandro Pace e altri costituzionalisti contro i pacchetti che hanno affastellato modifiche incoerenti della Costituzione e hanno presentato proposte singole. Tuttavia il valore delle modifiche della Costituzione proposte ora va oltre la somma delle singole proposte. Tanto più che queste proposte sono presentate da governo e maggioranza senza un confronto pubblico preventivo. E chi prima ha partecipato allo schieramento per il No nel referendum del 4 dicembre ora ne ripropone alcuni punti bocciati.
Partiamo dal Cnel, proprio perché la sua abolizione viene considerata una battaglia vinta in partenza. Ammesso che sia da abolire, manca qualunque proposta di cosa potrebbe prenderne il posto. Il “dialogo sociale” istituito nel 1993 dall’allora presidente del Consiglio Carlo Azeglio Ciampi può essere il riferimento.
Sulla riduzione del numero dei parlamentari: è in corso un attacco al ruolo del Parlamento, descritto come scarsamente produttivo, in prospettiva perfino da superare, peccato sia un architrave della Costituzione della nostra Repubblica. La ragione per ridurre i parlamentari sembra stare nei risparmi e conferma la sottovalutazione del problema. Il nuovo governo ha imparato in fretta difetti di quelli precedenti, usa a piene mani i decreti legge e ora pure i voti di fiducia. Tutti strumenti che sviliscono il ruolo del Parlamento, lo rendono subalterno al governo. Dai Cinque Stelle ci si poteva attendere più attenzione al ruolo del Parlamento, basta ricordare le parole di Roberto Fico all’insediamento da presidente della Camera.
Il problema è piuttosto mettere in sicurezza il nostro assetto costituzionale da tentazioni presidenzialiste e accentratrici della destra e della Lega. Per questo sarebbe preferibile riprendere la storica proposta di Stefano Rodotà e Gianni Ferrara di puntare su una sola Camera legando questa modifica a un sistema elettorale proporzionale e dando la certezza agli elettori di poter scegliere tutti i parlamentari.
Rivedere il numero dei parlamentari ha senso se insieme si rilancia il ruolo del Parlamento come fondamento della democrazia costituzionale e rappresentante effettivo degli elettori. Per questo il numero dei parlamentari è in stretto rapporto con la funzione e la composizione del Parlamento che dovrebbe avvenire sulla base di due criteri di fondo: gli elettori scelgono i parlamentari e la rappresentanza è proporzionale. Altrimenti la riduzione dei parlamentari può essere l’occasione per un colpo decisivo al ruolo del Parlamento e quindi alla Costituzione.
Per i referendum ci sono proposte interessanti. Il quorum per la validità dei referendum è da rivedere in modo da incentivare la partecipazione al voto anziché l’opportunismo astensionista, ma azzerare il quorum porta all’eccesso opposto e quindi va individuato un punto di equilibrio tra quorum attuale e azzeramento, tanto più se oltre a quello abrogativo verrà introdotto anche il referendum propositivo.
Non va poi dimenticato che i referendum debbono essere esigibili, quindi occorre intervenire sul numero e modalità di raccolta delle firme, sugli alti costi, e fin dall’inizio del percorso occorre la certezza della validità del quesito. Quindi semplificazione, informatizzazione della raccolta delle firme, eliminazione dei certificati inutili, costi accessibili, sono tutti problemi da risolvere, anche per le proposte di legge di iniziativa popolare. Ci sono proposte che potrebbero essere raccolte dai lavori parlamentari.
Risolvere i problemi di incompatibilità e ineleggibilità dei parlamentari affidandoli alla Corte costituzionale, o a un organo giurisdizionale ad hoc, è un’idea interessante. C’è un vuoto preoccupante nelle iniziative costituzionali del governo sull’autonomia delle Regioni. L’attuale versione dell’articolo 116 viene interpretata dal governo e da una parte delle Regioni in chiave di sostanziale rottura dell’unità nazionale, di diversificazione dei diritti effettivi dei cittadini. Il governo non può rinunciare al suo ruolo nazionale e costituzionale e il giudizio sulle proposte di modifica della Costituzione inevitabilmente verrà influenzato dalla soluzione di questo problema.
La Costituzione non è monopolio della sola maggioranza ma garanzia per tutti.

La Stampa 29.9.18
Spike Lee: “Continuiamo a combattere l’odio Attaccare rifugiati e migranti è la stessa cosa che fecero i nazisti”
intervista di Fulvia Caprara


Una sola condizione, levate quella bottiglia dal tavolo: «Posso avere una San Pellegrino? Perché devo bere quest’acqua tedesca che porta il nome del Kaiser?». Sono passati oltre 30 anni dal successo folgorante di Lola Darling , e Spike Lee, che allora ne aveva 26, ha lo stesso look variopinto, solo che, al posto del ragazzo imbronciato degli esordi, poco amante di interviste e confessioni, c’è un signore di 61 anni, pronto a insegnare la cosa giusta agli studenti che seguono le sue lezioni, alle nuove generazioni distratte dai temi di fondo, e ai suoi due figli, Satchel e Jackson, di cui, non senza soddisfazione, illustra i traguardi: «Loro sono cresciuti, e io sto per festeggiare il mio venticinquesimo anniversario di matrimonio. Mia figlia Satchel sta finendo il College e Jackson sta studiando per laurearsi». 
Quanto si sente mutato rispetto ai tempi degli esordi e alle speranze che nutriva, allora, per un mondo migliore? 
«Sono fiducioso, ma la speranza e la fiducia non bastano a costruire il cambiamento, e infatti le cose non sono molto diverse da quell’epoca. Non serve sperare e guardare le stelle. Adesso il prossimo obiettivo importante è far sentire la nostra voce nelle elezioni presidenziali di metà mandato. Bisogna muoversi, mobilitarsi affinché le cose accadano, il che non vuol dire smettere di pregare: io continuo a farlo».
Lei è ormai un maestro del cinema. Qual è il concetto fondamentale che desidera trasmettere ai suoi studenti? 
«Ho appena ripreso a tenere le lezioni. Quello che ripeterò in aula, anche quest’anno, sarà “sii te stesso”. È importante imparare dagli altri, è successo anche a me, il mio primo film era fortemente influenzato dall’esempio di Rashomon di Akira Kurosawa, regista che ho sempre idolatrato. Poi, però, ognuno deve essere in grado di trovare la propria strada, non c’è un solo modo di fare questo lavoro».
Alla Mostra di Venezia, dove ha tenuto una masterclass per Mastercard, la polemica sulle piattaforme digitali ha tenuto banco. Lei, che per Netflix, ha diretto «She’s Gotta Have it», cosa ne pensa? 
«Sono contento che esistano Netflix e Amazon e altre piattaforme in grado di dare ai registi i soldi per lavorare, ma io sono vecchio stampo, e non mi piace l’idea che oggi i ragazzi finiscano per vedere sugli schermi dei cellulari grandi film del passato, nati per lo schermo. E comunque niente offre le stesse emozioni del vedere un film in una sala cinematografica».
Il suo «Blackkklansman» ha vinto il Gran Premio della giuria al Festival di Cannes e sta avendo ovunque successo, forse anche perché è un film molto adatto ai tempi che stiamo vivendo. 
«Il progetto non era mio, ma del produttore Jordan Peele, me lo ha proposto, ed era il momento giusto per realizzarlo. Quel cavolo di Ku Klux KLan è assurdo. Il movimento politico “Alt-Right” è assurdo. I “Neo-Nazi” del cavolo sono assurdi anche loro. E così abbiamo portato nel film tutta quell’assurdità. Volevamo richiamare l’attenzione su quello che sta accadendo adesso, non solo in Usa, con Trump, il nostro “Agente Arancio”, ma anche in Europa, con Brexit, e con il fenomeno che vede ovunque il ritorno della destra al potere».
Come pensa che andrà avanti la presidenza Trump, potrebbero esserci eventi che la interrompano? 
«Una delle due, o “impeachment” oppure la galera, o magari tutte e due le cose insieme. Chissà. Ma perchè tutto vada come deve andare ci vuole la protezione di Dio». 
Perchè è importante parlare adesso dei pericoli legati al razzismo? 
«Perchè la storia ci ha dimostrato che le cose si ripetono. Che l’odio continua a guidare le azioni delle persone. Quello che sta succedendo oggi con gli immigrati, anche qui in Italia, non è un fatto nuovo, è già avvenuto a suo tempo con gli ebrei. Le autorità cercano di creare questo rifiuto, ripetendo alla gente che tutto il negativo viene da loro, dai rifugiati e dai migranti, ed è proprio quello che fecero i nazisti».
Nel suo film c’è una scena in cui Harry Belafonte rievoca la storia vera del linciaggio di Jesse Washington, al quale aveva assistito da ragazzo. È vero che quel giorno ha chiesto alla troupe di indossare lo smoking in onore di Belafonte? 
«Certo, eravamo tutti genuinamente commossi. Lavorare con lui è stato un onore. “Blackkklansman” è un’analisi del mondo in cui viviamo. Un esame sulla battaglia culturale “Amore versus Odio”, le stesse parole che Radio Raheem portava sulle nocche in “Fa’ la cosa giusta”, le stesse dei tatuaggi di Robert Mitchum in “La morte corre sul fiume”. Amore versus Odio. Incroci le dita, e speri che la gente capisca».
Del film si dice che sia tra i possibili candidati agli Oscar 2019. Che cosa ne pensa? 
«So che lo hanno scritto, ma io non ne parlo, se succede bene, ma parlarne porta sfortuna».

il manifesto 29.9.18
I pentaleghisti e lo spartito democristiano
Il def gialloverde. Debito, assistenzialismo, evasione fiscale, non proprio una rivoluzione, piuttosto la replica di vecchi modelli, spolverati con tagli simbolici ai privilegi (vitalizi, pensioni d’oro). Solo che ora i conti non si fanno più in casa, ora inizia il confronto con l’Europa e con la giostra dei mercati
di Norma Rangeri


Il governo segna un punto. La dura battaglia del Def ne rafforza l’immagine e ne esalta la sostanza pattizia. Di Maio e Salvini alla fine hanno piegato la resistenza del ministro Tria e divelto i paletti del commissario Moscovici. Il risultato del braccio di ferro presenta il conto di una legge di bilancio che risponde alle promesse elettorali del contratto gialloverde.
Lega e 5Stelle scaricano sul mercato del debito le misure sociali, dalla Fornero ai sussidi pubblici per chi non arriva a 780 euro al mese, all’aumento delle pensioni minime. Poi accarezzano gli evasori con un bel condono e la promessa di abbassare le tasse a chi sta in testa alla scala sociale aumentando così la forbice della diseguaglianza.
È vero che sembra una manovra di classico stampo democristiano, e se i 5Stelle ne sono gli eredi 2.0 si capisce la scena delle bandiere bianche in piazza Montecitorio e dei ministri che si affacciano al balcone di palazzo Chigi per festeggiare il punto messo a segno. E i mal di pancia pentastellati trovano sfogo in un compattamento che li rilancia nella sfida con il concorrente leghista.
Debito, assistenzialismo, evasione fiscale, non proprio una rivoluzione, piuttosto la replica di vecchi modelli, spolverati con tagli simbolici ai privilegi (vitalizi, pensioni d’oro). Solo che ora i conti non si fanno più in casa, ora inizia il confronto con l’Europa e con la giostra dei mercati.
A Bruxelles non sfugge il largo consenso del governo gialloverde e l’Italia è un paese da maneggiare con cura. Le elezioni politiche hanno testimoniato un terremoto con uno spostamento di milioni di voti verso Lega e 5Stelle, e quelle europee potrebbero replicare il risultato presentando un Parlamento e una Commissione con rapporti di forza ribaltati rispetto a quelli che l’hanno governata negli ultimi anni.
Purtroppo nessun «new deal» è alle viste, non si festeggia il 2,4% del deficit per una stagione di investimenti sulla scuola e sulla ricerca, sulla sanità e sull’ambiente. Nessun «new deal» e nessuna sinistra capace di convincere gli elettori su un’alternativa credibile di programma e di valori democratici.
Perché la spallata del Def avviene in un clima politico avvelenato dalla parola d’ordine «prima gli italiani», da un decreto sulla sicurezza che aggrava la condizione dei migranti in Italia, che non rispetta i diritti, contro il quale sono in campo tutte le associazioni, laiche e cattoliche, un decreto che la Cei ieri giudicava «incostituzionale». E non è strano se il Pd ha qualche difficoltà a chiamare domani i suoi elettori a manifestare per la difesa dei migranti visto che, a voler essere coerente, dovrebbe rivendicare in piazza la politica dei respingimenti libici dell’ex ministro dell’Interno Minniti.
L’opposizione del Pd, come del resto anche quella di Forza Italia, si riduce alla difesa dei parametri europei. Forza Italia non grida più al complotto dello «spread» e Renzi si è già dimenticato di quando, per portare a casa gli 80 euro, minacciava di sforare il tabù del 3%. Questo modo di fare opposizione certo non riguadagnerà al Pd il consenso delle periferie sociali che il 4 marzo lo hanno abbandonato scegliendo Lega e 5Stelle. Senza argini, né a destra, né a sinistra, il governo non solo segna un punto ma agli occhi del paese rafforza l’immagine di unico soggetto politico in campo.

La Stampa 29.9.18
Il dado è tratto
Non esiste un piano B
di Marcello Sorgi


Come previsto, un po’ peggio, un po’ meglio. Le reazioni alla decisione del governo italiano di alzare il rapporto deficit-Pil al 2,4 % hanno sollevato una tempesta sui mercati, con lo spread che per molte ore ha viaggiato attorno ai 280 punti (300 è il limite dell’emergenza) e la Borsa a picco, trascinata dalle banche piene di titoli di Stato da ieri meno attrattivi e solidi. La Commissione europea, che non ha ancora ricevuto alcun documento formale, ha risposto per bocca del commissario Moscovici in modo meno perentorio di quanto ci si poteva aspettare, rivolgendosi al premier Conte e al ministro Tria per avere al più presto un chiarimento, a partire dal fatto che la Ue non è interessata a una crisi con l’Italia.
D’altra parte, a sentire Di Maio e Salvini (soprattutto quest’ultimo) il dado ormai è tratto e non c’è alcuna intenzione di prevedere aggiustamenti né di fare marcia indietro. Anzi il leader leghista annuncia che in caso di bocciatura europea il governo «andrà avanti lo stesso», per nulla preoccupato del fatto che queste affermazioni, lunedì, dopo il weekend di chiusura dei mercati, dovranno fare il conto con la riapertura della Borsa e con ALLO SCONTRO CON L’EUROPA NON CALCOLANDO LE CONSEGUENZE
di Massimo Franco
C’è una disinvolta leggerezza, nella reazione del governo e delle sue appendici istituzionali di fronte ai contraccolpi di una manovra finanziaria solo annunciata. Si nota indifferenza per la crescita dello spread, la differenza tra gli interessi dei titoli di Stato italiani e tedeschi. Si sfidano eventuali sanzioni della Commissione europea dopo la decisione di sfondare i vincoli di bilancio, ipotizzando un 2,4 per cento nel rapporto deficit-Pil per i prossimi tre anni. E si maramaldeggia contro Giovanni Tria.
Si sottovaluta l’impatto che le dimissioni del ministro dell’Economia e del suo staff avrebbero; e che tuttora sembrano da non escludersi, una volta presentata la Legge di bilancio. «Siamo una famiglia di fatto», scherza il vicepremier e leader leghista Matteo Salvini, negando qualunque contrasto. «Andiamo d’amore e d’accordo». Il premier Giuseppe Conte, assicura di non temere una bocciatura europea. E il ministro del M5S per i rapporti col Parlamento, Riccardo Fraccaro, racconta: abbiamo «ricordato» a Tria «che dobbiamo mantenere le promesse». Dopo lo strappo, la maggioranza sembra pronta a affrontare ogni opposizione, interna e internazionale.
Qualcuno, tra i Cinque Stelle, parla di «presa della Bastiglia» additando il vicepremier Luigi Di Maio sul balcone di Palazzo Chigi, ieri sera, trionfante per avere ottenuto il reddito di cittadinanza: spettacolo più da Sud America che da Rivoluzione francese, in realtà. Ma dal punto di vista delle forze di governo, l’entusiasmo si capisce. Non c’è nessuno sguardo lungo. M5S e Carroccio guardano solo al proprio elettorato. Il traguardo sono le Europee di maggio, e magari anche elezioni politiche anticipate.
La scommessa arriva a quella scadenza, e i «contraenti» pensano di vincerla per mancanza di avversari e abbondanza di alleati nazionalisti e populisti in Europa. Per come hanno impostato la politica economica, riuscendo a piegare Tria, il vero sfondamento si registrerà nel 2019. Ieri si è avuto solo un assaggio: una strategia di ritorsione contro un establishment percepito come fallimentare; e che può essere sfidato nelle istituzioni italiane e a Bruxelles.
Il presidente della Camera, Roberto Fico, puntella il governo parlando di «iniezione di liquidità nell’economia reale»; e negando una volontà di scontro con l’Ue: affermazione singolare mentre se ne creano le condizioni. E i governi del Pd sono accusati di avere fatto proposte simili, sul rapporto deficit-Pil. Se l’economia andrà male, la colpa sarà scaricata magari su «chi soffia sullo spread». Eppure, i pasticci sul decreto per la ricostruzione del ponte di Genova crollato a Ferragosto, vistato ieri dal Quirinale, non depongono bene sulla capacità di M5S e Lega di governare le crisi.gli spread. La sferzata di ieri, per quanto a metà giornata abbia fatto temere il peggio, ha ancora un che di interlocutorio, come se gli investitori internazionali stessero valutando se la situazione dei conti italiani possa sfuggire al controllo, e soprattutto cosa accadrà quando la manovra arriverà in Parlamento, soggetta a un’ondata di emendamenti che se non tenuta a bada dal governo comporterebbe altri sforamenti di deficit e debito.
Chiamati come interlocutori da Moscovici, Conte e Tria, come s’è visto negli ultimi giorni, non hanno margini per spingere i due vicepremier ad atteggiamenti più responsabili. Malgrado la tempesta di ieri, insomma, non c’è un piano B.

Corriere 29.9.18
Allo scontro con l’Europa non calcolando le conseguenze
di Massimo Franco


C’è una disinvolta leggerezza, nella reazione del governo e delle sue appendici istituzionali di fronte ai contraccolpi di una manovra finanziaria solo annunciata. Si nota indifferenza per la crescita dello spread, la differenza tra gli interessi dei titoli di Stato italiani e tedeschi. Si sfidano eventuali sanzioni della Commissione europea dopo la decisione di sfondare i vincoli di bilancio, ipotizzando un 2,4 per cento nel rapporto deficit-Pil per i prossimi tre anni. E si maramaldeggia contro Giovanni Tria.
Si sottovaluta l’impatto che le dimissioni del ministro dell’Economia e del suo staff avrebbero; e che tuttora sembrano da non escludersi, una volta presentata la Legge di bilancio. «Siamo una famiglia di fatto», scherza il vicepremier e leader leghista Matteo Salvini, negando qualunque contrasto. «Andiamo d’amore e d’accordo». Il premier Giuseppe Conte, assicura di non temere una bocciatura europea. E il ministro del M5S per i rapporti col Parlamento, Riccardo Fraccaro, racconta: abbiamo «ricordato» a Tria «che dobbiamo mantenere le promesse». Dopo lo strappo, la maggioranza sembra pronta a affrontare ogni opposizione, interna e internazionale.
Qualcuno, tra i Cinque Stelle, parla di «presa della Bastiglia» additando il vicepremier Luigi Di Maio sul balcone di Palazzo Chigi, ieri sera, trionfante per avere ottenuto il reddito di cittadinanza: spettacolo più da Sud America che da Rivoluzione francese, in realtà. Ma dal punto di vista delle forze di governo, l’entusiasmo si capisce. Non c’è nessuno sguardo lungo. M5S e Carroccio guardano solo al proprio elettorato. Il traguardo sono le Europee di maggio, e magari anche elezioni politiche anticipate.
La scommessa arriva a quella scadenza, e i «contraenti» pensano di vincerla per mancanza di avversari e abbondanza di alleati nazionalisti e populisti in Europa. Per come hanno impostato la politica economica, riuscendo a piegare Tria, il vero sfondamento si registrerà nel 2019. Ieri si è avuto solo un assaggio: una strategia di ritorsione contro un establishment percepito come fallimentare; e che può essere sfidato nelle istituzioni italiane e a Bruxelles.
Il presidente della Camera, Roberto Fico, puntella il governo parlando di «iniezione di liquidità nell’economia reale»; e negando una volontà di scontro con l’Ue: affermazione singolare mentre se ne creano le condizioni. E i governi del Pd sono accusati di avere fatto proposte simili, sul rapporto deficit-Pil. Se l’economia andrà male, la colpa sarà scaricata magari su «chi soffia sullo spread». Eppure, i pasticci sul decreto per la ricostruzione del ponte di Genova crollato a Ferragosto, vistato ieri dal Quirinale, non depongono bene sulla capacità di M5S e Lega di governare le crisi.

Corriere 29.9.18
Il reddito di cittadinanza divide: contrario il 46%, favorevole il 44%
Un sì compatto solo dagli elettori M5S. Il no alla Fornero la mossa più popolare
di Nando Pagnoncelli


sondaggio odierno ci siamo focalizzati sulle quattro misure più significative: il reddito di cittadinanza, la riforma fiscale, le modifiche alla legge Fornero e la pace fiscale. Iniziamo dalla misura più controversa, cioè il reddito di cittadinanza. Gli elettori sono divisi: prevalgono, sia pure di poco, i contrari (46%) sui favorevoli (44%). Il consenso prevale tra i pentastellati (69%, ma uno su quattro è contrario) e più blandamente tra i leghisti (50% a favore, 44% contro). Tra gli elettori del centrosinistra il risultato è rovesciato rispetto ai pentastellati: 68% contrari e uno su quattro favorevole. E nel centrodestra (esclusa la Lega), il 53% si dichiara contrario e il 40% favorevole. Il provvedimento incontra, comprensibilmente, il favore dei disoccupati, dei lavoratori esecutivi, dei residenti nelle regioni centromeridionali e, più in generale, tra i ceti più in difficoltà mentre suscita perplessità o dissenso tra gli altri che pensano sia una misura assistenzialistica.
La riforma fiscale ottiene l’approvazione del 47%, mentre il 32% è contrario, e incontra il consenso anche degli elettori dell’opposizione di centrodestra (53%), da sempre sensibili al tema fiscale.
La modifica della legge Fornero, con l’introduzione della «quota 100», è il provvedimento più popolare: 55% a favore, 32% contro. L’opposizione di centrodestra è favorevole (56%) mentre quella di centro sinistra è divisa: prevalgono i no (45%) ma i sì sono al 40%.
Da ultimo la cosiddetta pace fiscale: uno su due (49%) approva mentre il 41% dissente. L’opposizione di centrodestra ha orientamenti quasi identici rispetto ai leghisti.
Tra i quattro provvedimenti quello giudicato più urgente è la riforma fiscale (28%), seguito dalla «quota 100» (25%), dal reddito di cittadinanza (20%) e dalla pace fiscale (solo 7%).
Nel complesso, dunque, tutte le misure sono approvate dalla maggioranza degli elettori di Lega e M5s, sia pure con quote non trascurabili di contrarietà; gli elettori dell’opposizione di centrodestra apprezzano tre provvedimenti su quattro, quelli di centrosinistra li bocciano tutti, anche se non mancano i sostenitori della modifica alla Fornero e del reddito di cittadinanza.
In queste settimane si è dibattuto sui rischi di tenuta dei conti pubblici nel caso di approvazione della legge di bilancio: il 41% è ottimista mentre il 38% pensa che ci saranno conseguenze negative.
Nei giorni scorsi il presidente della Bce Mario Draghi ha sottolineato che le dichiarazioni di alcuni esponenti del governo sulla politica di bilancio hanno avuto conseguenze negative per le famiglie e le imprese, costrette a pagare tassi di interesse più elevati, e per lo Stato, a causa dell’aumento dei costi dei titoli. Il monito divide: il 39% è d’accordo, il 38% dissente.
La legge di bilancio è il primo banco di prova del governo e gli elettori della maggioranza mostrano di approvare i principali provvedimenti. Come si spiega l’elevato consenso, dato che le misure modificano quanto promesso in campagna elettorale? Le ragioni sono sostanzialmente due: innanzitutto gli elettori pentaleghisti sono consapevoli che un’alleanza basata su un contratto tra due forze diverse comporti una buona dose di compromessi. Il secondo motivo riguarda una metamorfosi dello stile comunicativo dell’esecutivo rispetto a tutti i governi precedenti. È una metamorfosi che si evidenzia soprattutto nel linguaggio, con la scelta di temi e di parole fortemente evocative, sia che si tratti di individuare vincoli ed oppositori («le resistenze di uffici e ragionieri»), sia di mostrare che il governo sta dalla parte dei cittadini («la manovra del popolo» che «abolisce la povertà»).
L’incessante ricorso agli interessi e alle priorità degli italiani contro le élites nei discorsi della maggioranza rappresenta una modalità retorica di grande impatto che consente di superare il principio di non contraddizione.

La Stampa 29.9.18
Di Maio e il richiamo del balcone
Ma c’è più Fantozzi che Mussolini
di Mattia Feltri


Bisognerebbe trattenerla questa smania di balcone, perché poi la memoria si fa suggestionare, e finisce per forza lì, se non altro per pigrizia. È venuto in mente a tutti il balcone di piazza Venezia, ma fu proprio quell’altro, quello da cui si è affacciato Luigi Di Maio coi suoi ministri, il primo balcone di Sua Eccellenza il presidente del Consiglio (e futuro Duce) Benito Mussolini. Ogni tanto, all’inizio degli Anni 20, sotto le finestre di Palazzo Chigi arrivavano dei camerati con bandiere e gagliardetti a rinfocolare il già impetuoso capo, che tutto soddisfatto usciva a salutare. E siccome i gruppuscoli divennero schiere e poi folle, e chiedevano l’arringa, lui ci prese gusto e si trasferì sul balcone laterale, detto la Prua d’Italia, da dove conservava il dominio della piazza, di via del Corso, di largo Chigi, e vedeva il consenso crescere metro dopo metro. Poi i metri non bastarono più, e venne l’idea di piazza Venezia, ampia come la potenza del Fascio e squadernata sulla gloria dell’Impero. E lui, l’ultimo dei Cesari, aveva il suo popolo a portata di mano, in un rapporto fisico, diretto e palingenetico che questo secolo ha gioiosamente ereditato dal Novecento.
Non è per dire che sarà la medesima progressione di Di Maio, piuttosto per segnalare che durante la Repubblica la smania di balcone s’era annacquata proprio per gli imbarazzanti precedenti storici. Il balcone di Palazzo Venezia è da allora impraticabile, e al cronista cui fu concesso il privilegio di godere della vista sul «cielo della nostra Patria» venne raccomandato di restare un po’ discosto, per non dare scandalo. Si ricorda giusto Giovanni Spadolini che colto dall’entusiasmo impegnò la Prua d’Italia sessant’anni dopo Mussolini, e persino col tricolore in mano; ma era l’anno dei Mondiali dell’82, e il premier, che non capiva nulla di calcio, era entrato due volte consecutivamente in una riunione raccolta attorno alla tv accesa, e nell’istante esatto in cui Paolo Rossi segnava due dei tre gol rifilati al Brasile; così si sparse la voce che Spadolini era più di un leader, era un amuleto, e lui se ne persuase e alla vittoria successiva (semifinale con Polonia) osò l’inosabile. Sono frivolezze. Dettagli. Nel 1976 Enrico Berlinguer salì sul balcone di Botteghe Oscure per annunciare che un italiano su tre vota comunista. Nel 2014 Matteo Renzi fece ciao ciao con la manina da una finestra di Palazzo Chigi. Stavolta, invece, la smania di balcone è di nuovo quel fremito irresistibile, è un braccio teso al popolo direttamente dalle stanze del potere, come se i portoni fossero stati spalancati d’istinto e d’impeto, la struttura è smantellata, il Palazzo d’Inverno è preso, i cospiratori sloggiati.
Corsi e ricorsi
Ma non è, nemmeno qui, per tracciare un parallelo fra questo governo, già così frenetico e infiammato dalle folle digitali di Facebook, e le dittature del secolo scorso, sebbene siano le dittature a issarsi sui balconi e sui piedistalli, per poi tracollare rovinosamente. Sennò ci giocheremmo l’ultimo Nicolae Ceausescu che, a quattro giorni dal Natale del 1989, affrontò il suo ultimo balcone e - meraviglie dei ricorsi - annunciò aumenti salariali, pensionistici e dei sussidi per l’infanzia, e ragguagliò sugli scontri di Timisoara provocati da sabotatori di destra e da infiltrati dell’imperialismo, ma la gente era stufa di favolette e di complotti planetari, e lo lasciò terreo in una salva di fischi. Ci giocheremmo Fidel Castro e il suo balcone di Santiago de Cuba: la rivoluzione è fatta! Ci giocheremmo anche Hugo Chávez per il sublime motivo che il suo balcone di Caracas si chiamava così cinquestellamente Balcone del Popolo. E naturalmente ci giocheremmo Evita Perón, che non era certo un dittatore, ma ogni domenica mattina dava appuntamento sotto al balcone della Casa Rosada ai descamisados di cui si era eletta testa, braccio e cuore.
Allora si preferisce spararla grossa, ma grossa tanto, e lo diciamo: il balcone di Di Maio con indice e medio sparati a V di Vittoria era piuttosto il balcone di Whitehall da cui, l’8 maggio 1945, Winston Churchill mostrò la sua di V: la Seconda guerra mondiale era finita, il nazismo era sbaragliato. Certo, lui aveva sconfitto Adolf Hitler, non Giovanni Tria, e aveva promesso lacrime, fatica, sudore e sangue, non il reddito di cittadinanza, ma il punto forte di Di Maio non è il senso delle proporzioni. Sembra impegnato a iscrivere nel marmo una biografia immaginaria: mentre stendevano il contratto disse «stiamo facendo la storia», mentre schierava la Raf contro il Mef (il ministero di Tria) diceva «aboliremo la povertà», l’altra sera mentre rispolverava l’epica rivoltosa del balcone ha gridato «ce l’abbiamo fatta», e stava parlando di un prestito nemmeno agevolato.
Ecco, le suggestioni di cui parlavamo all’inizio sono parecchie: se ci si vuole inquietare c’è di che inquietarsi, se si vuole indugiare nello spropositato gli spropositi si trovano, ma infine ce n’è uno che più di tutti ricalca il balcone di Di Maio: è il balcone da cui Fantozzi si cala per prendere l’autobus al volo. L’autobus passa, lui prova ad aggrapparsi e tira giù l’ultimo passeggero, e l’ultimo tira giù il penultimo, e così via finché tutti quanti i passeggeri sono stati sbalzati a terra. E il guaio è che intanto l’autobus non s’è fermato.

Repubblica 29.9.18
Di Maio guida i suoi ministri con gesti da ultrà. Una scena che sfiora il tabù nato a Palazzo Venezia e conferma l’allergia alla compostezza
Palazzo Chigi
Lo show dei 5 Stelle
L’esultanza dal balcone antico vizio del potere
di Filippo Ceccarelli


ROMA Tutto torna a Roma, anche il balcone; e non è che ci sia troppo da rallegrarsene, ma tant’è. Così l’altra sera, agitando come scalpo, o magari come un trofeo quel rischiosissimo 2,4 per cento, senza chiedere il permesso al padrone di casa, il vicepremier Di Maio e i suoi ministri hanno aperto la fatidica porta-finestra del primo piano e lì sul balcone si sono offerti ai flash e alle telecamere alzando le braccia come tifosi al momento del gol. Al grido «ce l’abbiamo fatta! Ce l’abbiamo fatta!», Di Maio gioiosamente scravattato ha quindi posto fine alla gioiosa invasione: «Adesso scendiamo!», mentre il suo collega Toninelli, che a distinguersi ci ha preso gusto, seguitava a esprimere il suo giubilo con un singolare barrito un po’ da coro disneyano — " Yù- ùuuu!" — che avrà senz’altro rallegrato la piccola folla di parlamentari e tifosi cinque stelle convocati nottetempo con bandiere a piazza Colonna.
Di tutto questo, tra meno di una settimana, non resterà che un confuso e pallido ricordo — come pure dell’enfasi che ha accompagnato la "manovra del popolo".
Eppure, i balconi sono pietre miliari della storia politica del novecento, e non certo della più provvida, prospera e pacifica.
Detta altrimenti: da Palazzo Chigi a Palazzo Venezia sono appena due fermate di autobus (quando passa!) e lo storico balcone del secondo edificio è rimasto a tal punto impresso come tribuna, specchio e misuratore del consenso mussoliniano che da oltre 70 anni risulta chiuso con un lucchetto.
In realtà il duce fu abile a far sua la grande lezione del vero, grande inventore del balconismo scenico e tonitruante all’italiana: «Il popolo tumultuava chiamandomi sotto le mie finestre — si legge negli appunti del Vate durante la spedizione fiumana — la disumana massa ribolliva come materia in fusione. Certe cadenze e clausole mi balenavano dentro come quei baleni che appariscono a fior del metallo strutto. Una forza non più contenibile mi saliva a sommo del petto, mi anelava nella gola: credo mi soffiasse non so che fluorescenza tra i denti e le labbra, gittavo un grido, andavo alla ringhiera, andavo ad bestias? Ad animas? Sì, al popolo» (certo discutibile il fervore, ma mica male come prosa, rispetto ai social).
Bisogna infatti accontentarsi, e magari anche, nell’interesse del popolo, toccare ferro.
Ma prima che qualcuno alzi moniti sull’improponibilità di confronti tra fascismo, dannunzianesimo e governo del cambiamento, varrà la pena di chiarire che la riapertura del balcone di Palazzo Chigi si connota piuttosto come l’espressione di un antico e latente vizio del potere in Italia: o meglio di certo potere del tutto incapace di decorosa compostezza, anzi condannato all’esibizionismo, all’ostentazione, alla mancanza di rispetto per le forme e per ogni sorta di sorvegliata dignità. Per cui la scenetta e il video che studiatamente l’ha preceduta, con i ministri che non stanno nella pelle e Di Maio che nell’anticamera vieppiù scalda l’atmosfera, «Ciao a tutti, cittadini italiani, adesso vi portiamo fuori e vi facciamo vedere perché è una cosa incredibile...», ecco, l’attitudine a buttarla in caciara è il cuore nascosto, ma non troppo, del guittismo nazionale da balcone, un filo lungo e tenace che dalla palpitante aggressività di D’Annunzio e dalle instivalate performance di Mussolini giunge al sanculottismo social-tifoso dei cinque stelle.
Poi sì, certo, in mezzo e cioè fra antichi e novissimi padri figli e fratelli del Popolo, non è che tutti gli altri si siano sottratti. Farsi vedere da lassù, anche se non necessariamente alla ringhiera, ma solo alla finestra, segnala comunque uno status, una parvenza di dominio che però via via, anche sul piano dei luoghi e delle apparizioni, si faceva in realtà sempre più flebile, malaccorto, trascurabile se non esplicitamente, ma inconfessabilmente parassitario.
In questo senso è significativo che nel 1982 l’allora premier Spadolini si mostrò (forse in finestra, scansando le tende) dopo la vittoria della nazionale in una delle partite del Mundial benedicendo, ricambiato (se ne compiacque anche con Pertini), i caroselli dei tifosi sulla piazza. Per le stesse ragioni nelle cronache e negli archivi fotografici si trova traccia di calciatori e ministri affacciati con la coppa in alto (forse anche al balcone) dopo il trionfo sempre ai Mondiali del 2006. Ma Prodi, sembra di ricordare, fece appena capolino.
Nel 2008, dopo il primo consiglio dei ministri, Berlusconi eseguì il suo bel numero balconesco, accolto dalla claque al canto di "Meno male che Silvio c’è".
Qualche anno dopo, alla finestra, come chi non vuole comparve il giovane Renzi in bianca maglietta sportiva. "Per dovere di cronaca", come riportato a scanso di sgradevoli accostamenti dall’AdnKronos, esiste a Palazzo Chigi un altro balcone: d’angolo e coperto, ancora da D’Annunzio battezzato "la prora d’Italia". Era qui che nel 1925 Tito Zaniboni mise nel mirino Mussolini per fargli la pelle. Non ci riuscì, ma la faccenda si può anche leggere come la conferma che sporgersi, a volte, non è mica tanto conveniente.

La Stampa 29.9.18
Angelo Baiocchi, saggista
“Mossa teatrale del vicepremier sembra ispirarsi a Evita Perón”
intervista di Matteo Novarini


«È stata una scena all’insegna della teatralità, coerente con la comunicazione del governo. Ed è l’emblema di un esecutivo che finora, comunque la si pensi sui contenuti, ha mantenuto le promesse». Così Angelo Baiocchi, presidente di Publicis Media Italia e autore di
Comunicazione e politica. Guida moderna per cittadini sbandati e politici allo sbando (Edizioni Ponte Sisto), interpreta l’immagine di Luigi di Maio in trionfo sul balcone di Palazzo Chigi, assieme agli altri ministri pentastellati.
Baiocchi, lei è stato fra i primi a pronosticare un’alleanza gialloverde. Quale significato attribuisce alla scena di giovedì sera per il governo?
«L’episodio dimostra una difficoltà di Di Maio: è stato un modo per tornare protagonista, dopo essere stato a lungo messo in ombra da Salvini».
Quali modelli del passato le ha richiamato alla mente l’episodio?
«La novità, rispetto a molti precedenti di politici che parlano alla piazza, è che Di Maio era in una sede istituzionale, non a un comizio. Ho ripensato alla definizione ottocentesca di “bonapartismo”: il leader che si identifica con l’istituzione. È stato il caso di Napoleone III, di Peron, o, in Italia, di Mussolini, senza fare paragoni di contenuti».
In passato, di solito si affacciava dal balcone chi “conquistava il palazzo”, non chi era al governo. Come spiega questa anomalia?
«Non credo ci fossero dietro messaggi del tipo: “Siamo al potere, ma restiamo anti-Stato”. Penso fosse solo un modo per celebrare un successo, magari dettato dall’adrenalina del momento».
Nel suo libro, lei descrive Di Maio come un unicum, che coniuga la «sguaiataggine» grillina e un aspetto da «primo della classe». Questo ibrido funziona?
«Per ora ha successo. Va comunque sottolineato che il vicepremier è un “primo della classe” solo nel look. Per il resto, si esprime da populista».
Lei denuncia da tempo la «spirale» verso il basso della comunicazione politica italiana. Dopo le polemiche sulla manovra, a che punto della discesa ci troviamo?
«Molto in basso. Credo sia ormai impossibile discutere di politica facendo analisi. Il dibattito si è appiattito su poche formule. Penso a espressioni come abolizione della povertà. Un linguaggio tipico del populismo che, sia chiaro, può essere efficace: è stato, per esempio, lo stile di Evita Perón, che considero la più grande comunicatrice politica di tutti i tempi».

il manifesto 29.9.18
La manovra cementa l’alleanza pentaleghista
Il Def gialloverde. Con l’immagine dei 5S sul balcone di Palazzo Chigi cambia il segno della legislatura
Parlamentari M5S e della Lega lo scorso maggio al Pirellone per il tavolo tecnico sul «contratto di governo». La retorica della dignità nazionale recuperata unisce come non mai grillini e leghisti
di Giuliano Santoro


C’erano i ministri del Movimento 5 Stelle, l’altro giorno, affacciati al balcone di Palazzo Chigi per annunciare la «manovra del popolo». Erano acclamati da una piccola folla composta per la grande parte da parlamentari grillini e collaboratori dei gruppi alla camera e al senato. È l’immagine che rimane del varo della nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza, che rappresenta un passaggio importante, destinato a cambiare il segno della legislatura.
Gli eletti che si stringono attorno a Luigi Di Maio e alla sua squadra hanno un duplice significato. Innanzitutto, mettono a tacere le flebili voci e i dubbi che cominciavano a serpeggiare tra i 5S sull’alleanza con la Lega. «Ci atterremo al contratto di governo», era la formula usata per mascherare come una fredda soluzione tecnica l’imbarazzo di aver abbracciato Matteo Salvini. Adesso però la sfida ai vincoli di bilancio cementa l’alleanza. Lo sapeva il leader leghista, che ha scelto con determinazione di forzare la mano al ministro Tria smentendo anche il parere di alcuni dei suoi e che tiene un piede nel centrodestra ma da oggi ha una sponda più forte nel M5S.
«IL LEADER LEGHISTA POTEVA tenersi l’agenda a costo zero, fatta di emergenze sicurezza e condoni fiscali, ma ha voluto assecondare il M5S per rinsaldare il governo e far passare in secondo piano i dissidi», dicono con riconoscenza gli uomini più vicini al capo politico grillino. La sintonia durerà almeno fino alle elezioni europee, che a questo punto i gialloverdi si giocheranno tutte sul filo della tensione con Bruxelles. È la strada che Di Maio aveva tracciato qualche settimana fa, promettendo che «dopo il voto di primavera cambierà tutto». Ed è una strada che, anche se a livello continentale non passerebbe per un’alleanza organica con i sovranisti, restituirebbe un senso alle voci mai smentite dal M5S sull’incontro tra Di Maio e Steve Bannon di sabato scorso.
ECCO IL SECONDO EFFETTO, anch’esso rappresentato dall’immagine della festa sotto il balcone del governo. Mai come in questi giorni la maggioranza con la Lega assume un significato politico coerente, trova una sintesi e, condizione fondamentale e basica per ogni aggregato strategico, riconosce nei «burocrati di Bruxelles» un nemico comune contro il quale battersi e mettere da parte le differenze. «Finalmente c’è un governo che mette la giustizia sociale al centro delle proprie politiche e che scommette con coraggio sul rilancio dell’economia» dicono ad esempio i parlamentari europei del M5S, gli stessi che solo pochi giorni fa avevano votato contro l’Ungheria di Orbán, salutando la vittoria della linea di Di Maio. Anche se c’è qualcuno, è il caso del viceministro dell’università Lorenzo Fioramonti, che smorza i toni e auspica di trovare un ambiente favorevole in Europa. «Mi sembra che in questo momento ci siano tutte le condizioni, viste le posizioni degli altri paesi, perché l’Ue si renda conto che c’è davvero bisogno di fare quegli investimenti che per troppi anni non sono stati concessi», dice Fioramonti.
DOMINA PERÒ, e questo è il tratto che accomuna come non mai grillini e leghisti, la retorica della sovranità perduta e della dignità nazionale recuperata: «L’Italia finalmente è rispettata», non smettono di dire i gialloverdi con parole che si erano sentite anche in occasione delle crisi sui migranti. «Gli investimenti contenuti nella manovra e le politiche economiche espansive ci consentiranno di ricostruire una vera politica industriale, che in Italia manca da decenni, e di rilanciare il nostro paese a livello internazionale», concludono in un comunicato i deputati M5S della commissione lavoro. «Stamattina ci siamo svegliati in una nuova Italia» esultano i consiglieri comunali del M5S romano, che solo qualche giorno fa aveva visto con sospetto la discesa in campo dei leghisti contro Virginia Raggi, in vista delle prossime amministrative. Restano insomma le divisioni e la concorrenza sui territori, ma quel blocco sociale comune che ha assunto lo stile comunicativo e linguaggi molto simili che in queste settimane si sono incontrati sui social network per mettere a tacere i pochi dissidenti, trova un terreno più fecondo.

Il Fatto 29.9.18
La sinistra che applaude alla manovra espansiva
Imbarazzi - La difficile sopravvivenza tra la retorica dei tifosi dello spread e quella gialloverde
di Marco Palombi


La via intellettualmente più complessa per fare opposizione al governo gialloverde sulle politiche economiche è quella che tocca – forse non paradossalmente – alla sinistra ovunque residuata nel Paese al netto del tracollante equivoco noto come Partito democratico. Questa sinistra s’è a lungo spesa contro il Fiscal compact – cioè quell’insieme di regole che impongono ai Paesi dell’Eurozona il pareggio di bilancio a tappe forzate – e il pareggio di bilancio in Costituzione (la Cgil provò addirittura la via del referendum) e ora non può reagire come un renziano qualunque (“pazzi irresponsabili”) alla prima manovra almeno un po’ espansiva da molti anni.
Il filo retorico su cui deve camminare quest’area politica è sottile. Si va dall’autodafé di Michele Emiliano (“c’è da chiedersi come è possibile che nel passato la sinistra ufficiale non sia riuscita a fare manovre del genere”) alla formula “sì, ma…” in vigore nella maggior parte di LeU: “Il problema non è utilizzare il deficit in sé (…) Il punto è cosa ci fai con quel deficit”, scrive Nicola Fratoianni. “Non saremo certo noi a stracciarci le vesti per lo sforamento del deficit in sé (…) Il problema è come vengono usate le risorse”, fa eco la senatrice Loredana De Petris. E che bisognava farci? “Un robusto piano di investimenti pubblici” (Fratoianni) e, invece, “lo sforamento sarà utilizzato per la spesa corrente” (De Petris). Peccato che poi si denunci un taglio della spesa corrente previsto nel Def (circa 5 miliardi) come un taglio al welfare e sempre lì dentro siano previste pure misure definite “condivisibili“: “La quota 100 nella Fornero, il reddito di cittadinanza, l’aumento delle pensioni minime” (De Petris). Insomma, no alla flat tax della Lega e il resto può andare.
Potere al Popolo, invece, è su una posizione più aggressiva: “Siamo contro il governo perché rispetta il 3% di deficit dell’Ue e vuole abolire la povertà ma intanto decreta la prigione per i poveri. Contro l’ingiustizia sociale il Def è poco, non troppo”, detta la linea l’ex sindacalista Giorgio Cremaschi. Il profilo twitter di PaP rilancia – contro “i tifosi dello spread e quelli del debito” – un articolo dell’economista Emiliano Brancaccio di qualche giorno fa che bocciava i vari “fronti” elettorali anti-populisti proposti in zona Pd: “Appelli sbagliati. L’antifascismo liberista e deflazionista di Macron e dei suoi epigoni è un ossimoro, è una contraddizione in termini. È un’ipocrisia politica ed è un fallimento annunciato”.
Scomoda assai la posizione di chi stava nel Pd e tenta di far valere il proprio percorso senza le necessarie precauzioni retoriche. L’ex deputato Alfredo D’Attorre (LeU) s’è dovuto difendere su Twitter: “Sono stato rimproverato per aver parlato di ‘opposizione anti-italiana’. Ma come definire quella parte di opposizione che si ispira a Macron, il quale innalza il deficit al 2,8%, ma in Italia chiede che il deficit venga ridotto sempre di più? È assurdo polemizzare con il governo perché trasgredisce il Fiscal Compact”.
Ancor più netto il suo amico Stefano Fassina: “Si apre una inedita partita. Finalmente, ritorna il primato della politica sull’economia, condizione necessaria, ahimé non sufficiente dati i rapporti di forza interni e esterni, al primato della sovranità costituzionale. La cosiddetta sinistra da che parte sta? Continua ad affidarsi al Generale Spread per miopi illusioni elettorali?”. Una strada sottile, forse troppo.

Il Fatto 29.9.18
Riforma Fornero, l’effetto peggiore è sulle donne
Il documento - Tra il 2012 e il 2017 a diminuire maggiormente sono state le pensioni di vecchiaia, soprattutto quelle femminili
di Salvatore Cannavò


Altro che quota 100, il problema sociale più rilevante provocato dalla riforma Fornero non riguarda le pensioni di anzianità, cioè le pensioni basate sulla vita contributiva, ma quelle di vecchiaia, soprattutto le pensioni delle donne.
La situazione forma oggetto di una discussione che sta avvenendo all’interno del palazzo dell’Inps, in una serie di calcoli che comporranno un documento che sarà pronto a metà ottobre. Dati che Il Fattoha potuto visionare e che raccontano l’andamento delle pensioni di vecchiaia e quello delle pensioni di anzianità dal 2012, primo anno dell’era Fornero, al 2017. In forte calo le prime, soprattutto nel caso delle donne in aumento le seconde, nonostante le restrizioni decise nel 2011.
Anche per questo il presidente dell’Inps, Tito Boeri, ieri ha accusato il governo di “grande iniquità nelle scelte sulle pensioni” definendolo “non previdente” in materia. Il problema sollevato dal presidente Inps riguarda la sostenibilità dei conti dell’istituto: “Ammesso e non concesso che per ogni pensionato creato per scelta politica ci sia un lavoratore giovane – ha spiegato – bisogna tenere conto che chi va in pensione oggi in media ha una retribuzione di 36.000 euro lordi, mentre un giovane assunto con contratto a tempo indeterminato, cosa molto rara, avrà una retribuzione di 18.000 euro. Quindi ci vorrebbe la retribuzione di almeno due giovani lavoratori per pagare una pensione”.
Tornando agli effetti della Fornero, le pensioni previdenziali, tra il 2012 e il 2017, sono diminuite di circa 570 mila unità passando da 17.423.177 a 16.856.153. La riforma ha colpito quindi in profondità, ma il calo non ha riguardato le pensioni di anzianità. Queste, alla data di entrata in vigore delle nuove norme si basavano sulla cosiddetta quota 96, il cumulo cioè degli anni di contribuzione e dell’età anagrafica fermo restando il requisito minimo dei 35 anni di contributi. Per cui si poteva andare in pensione anche a 61 anni di età. La Fornero ha modificato i termini, introducendo la pensione “anticipata” e portando il requisito contributivo a 42anni e 1 mese per gli uomini e a 41 anni e 1 mese per le donne, requisito poi elevato a 42 anni e 10 mesi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne nel 2019. Sono quelle su cui vuole intervenire il ministro Salvini quando ipotizza “quota 100”, cioè una maggiore possibilità di mescolare età contributiva ed età anagrafica creando per decreto, come dice Boeri, 500 mila nuovi pensionati. Che vanno ad arricchire un numero già in crescita. Nel periodo preso in esame dall’Inps sono aumentate di circa 630 mila unità passando da 5.531.244 a 5.965.866 unità. L’arrivo all’età pensionabile della generazione del “baby boom” è stato più forte delle rigide maglie imposte dal governo Monti. E questo ha impresso una dinamica ascendente.
A essere davvero penalizzate dalla riforma sono state le pensioni di vecchiaia per le quali la Fornero ha elevato di anno in anno la soglia di accesso portandola a 66 anni e 7 mesi, da adeguare d’ora in poi alle aspettative di vita. E così le pensioni dei lavoratori dipendenti sono passate da 3.530.994 del 2012 a 3.018.369 del 2017, quelle degli autonomi da 1.719.015 nel 2012 a 1.583.023 nel 2017. Complessivamente, considerando dipendenti pubblici e parasubordinati, la riduzione è stata di oltre 544 mila unità. Così, se nel 2012 il rapporto tra pensioni di vecchiaia e anzianità era di 1,44, nel 2017 si è passati a 1,11. Il vero “scalone” si è prodotto in questo comparto.
A rimetterci sono state soprattutto le donne, tanto che la storica prevalenza del sesso femminile su quello maschile è passata da un rapporto iniziale di 1,29 a un rapporto di 1,01. Se nel 2012 alle donne erano state liquidate 89.656 pensioni di vecchiaia contro le 48.182 degli uomini, nel 2017 il rapporto si inverte: 79.555 per gli uomini contro 40.179 alle donne. Il rapporto sfavorevole è parzialmente compensato dall’andamento delle pensioni di anzianità che ha visto aumentare quelle liquidate alle donne passate da 48.834 a 81.472.
Secondo i primi dati del 2018 questo squilibrio perdurerà ancora anche perché il requisito anagrafico aumenterà ancora portando la soglia minima a 67 anni per tutti. L’età effettiva di pensionamento per le donne è passata da 61,5 del 2012 a 64,8 nel 2017, mentre nel caso delle pensioni di anzianità il peggioramento è stato sensibilmente ridotto: l’età media delle donne è passata, nel caso dei dipendenti privati, da 58,2 anni a 60,3. Per gli uomini si è passati da 59,5 a 61,5 e gli uomini, in virtù di una differenza di condizioni pregressa hanno sofferto meno l’allungamento dei termini per la pensione di vecchiaia: l’età media infatti si è allungata da 65,1 a 66,1 anni sempre relativamente ai lavoratori dipendenti.

Repubblica 29.9.18
A rischio il congedo per i papà "Ma così l’Italia torna indietro"
I 4 giorni di assenza retribuita non figurano nel Milleproroghe. E la misura (sperimentale) scade alla fine dell’anno
di Maria Novella De Luca


Roma Il rischio è che adesso scompaia tutto. Anche quei (pochissimi) giorni, all’inizio soltanto due, poi finalmente quattro, dedicati ai neo- papà e al loro diritto-dovere di condividere con mogli e compagne la gioia e i mille impegni che accompagnano la nascita di un figlio. Alla fine dell’anno infatti scadrà la legge Fornero, che nel 2012 istituì — con una vera rivoluzione culturale per il nostro Paese — i " congedi di paternità obbligatori". Ossia due giorni pienamente retribuiti di cui i neo- papà potevano usufruire entro i primi 5 mesi di vita dei bambini. Due giorni, allora assai criticati perché troppo pochi, in assoluto ritardo rispetto al resto d’Europa, ma che avevano rotto il fronte del nulla sui congedi obbligatori per nuovi padri. Una legge sperimentale però e non strutturale, comunque rifinanziata nel 2015 dal governo di centrosinistra, che per il 2018 ha portato a 4 i giorni di congedo.
Ma il governo gialloverde della " bigenitorialità perfetta", del decreto Pillon che vorrebbe ridurre il presunto " strapotere" delle madri nelle separazioni e nei divorzi, della maggioranza che auspica culle piene e sostegno alla famiglia naturale, non ha per adesso annunciato il rifinanziamento della legge Fornero. Anzi, ha respinto la richiesta del Pd di approvare i congedi dei papà nel decreto Milleproroghe. Bocciando poi in aula la proposta di Maria Elena Boschi che chiedeva, almeno, « di rimediare inserendo la legge nel primo provvedimento utile». Ad esempio la prossima legge di bilancio. Ma anche questo ordine del giorno, ha spiegato Boschi, «è stato respinto dalla maggioranza » . Quindi per adesso non c’è alcun impegno formale. Il governo si impegnerà a trovare i circa 40 milioni che servono per finanziare la condivisione dei padri nella nascita di un figlio?
I dati Inps dimostrano che, seppure partito in sordina, l’utilizzo della "paternità" obbligatoria è andato via via crescendo, infatti nel 2017 sono stati oltre 100mila i padri che sono rimasti felicemente accanto ai loro neonati. A fronte invece di un numero irrisorio ( 863) di neogenitori maschi che hanno chiesto i congedi facoltativi.
Ma il timore che la legge sulla paternità venga cancellata è così forte che in questi giorni è partita una petizione al governo, firmata da docenti ed esperti che si occupano di politiche per la famiglia, e già sottoscritta da migliaia di persone. Non soltanto perché vengano confermati i quattro giorni attuali di congedo, ma affinché diventino dieci e la legge da sperimentale si trasformi in strutturale.
Tra i promotori della petizione ci sono Alessandro Rosina, uno dei maggiori esperti italiani di demografia, Titti Di Salvo, presidente di Led (Libertà e diritti), Riccarda Zezza, manager e ideatrice di Maam-Maternity as a master. Perché contro la crescita zero e il calo drammatico delle nascite, scrivono gli autori della petizione, «servono investimenti pubblici a lungo termine, serve l’effetto moltiplicatore dell’aumento delle donne nel mercato del lavoro » . E poi, « incentivare la condivisione delle responsabilità familiari tra madri e padri».
Del resto la famosa, anche se lenta, "rivoluzione dei padri" è ormairealtà, soprattutto tra le coppie più giovani, basti pensare che oggi la percentuale dei maschi che assistono al parto arriva all’85%, quasi la totalità. Anche se poi sono ancora pochissimi quelli che si sostituiscono alle madri nei congedi parentali facoltativi. Per due motivi: la differenza dei salari, per cui se viene a mancare lo stipendio femminile l’incidenza è minore. Ma anche la difficoltà culturale del mondo maschile ad allontanarsi seppure per qualche mese dal proprio ambito lavorativo.
Spiega Francesca Puglisi, responsabile pd per le politiche sull’infanzia e sull’adolescenza: «Il congedo di 4 giorni per i neo-padri costa circa 40 milioni. Sarà disposto questo governo a trovare le risorse nella finanziaria? Il mancato inserimento della legge sulla paternità nel Milleproroghe è un segnale negativo, conferma la visione quantomeno contorta di genitorialità che hanno Lega e Cinque Stelle. Le donne a casa con i figli. Gli uomini a lavorare. Ma se si separano, allora, con il decreto legge Pillon sull’affido condiviso, riscoprono invece il valore della " paternità". E come Re Salomone dividono i bambini in due, pur di cancellare l’assegno di mantenimento e l’assegnazione della casa familiare».

Il Fatto 29.9.18
Sulla salute siamo al solito Def: manca un miliardo
Conti - Il finanziamento al Servizio sanitario è scarso, il riordino in corso non basta. Il ministero: “Spingeremo in Parlamento”
di Virginia Della Sala


Diventerà anche la “manovra del popolo”, ma ora che è stata approvata la nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza bisogna iniziare a contare. E i conti della sanità, tolti i non previsti successi futuri del ministro Giulia Grillo, rischiano di non tornare.
A far scattare l’allarme, prima ancora che si raggiungesse l’accordo sul Def, era stato una question time di giovedì del ministro della Sanità al Senato. Rispondendo all’interrogazione di Vasco Errani (Misto -Leu), Grillo aveva parlato dei finanziamenti al servizio sanitario nazionale per il 2019 e aveva spiegato che era previsto un incremento di un miliardo rispetto al 2018. L’incremento, però, non è una novità: il finanziamento resta infatti quello previsto dalla precedente legge di Bilancio, del governo Gentiloni, e vale 114,4 miliardi di euro (115 miliardi a cui vanno sottratti 600 milioni per le Regioni speciali). Un po’ pochi, se si considerano le necessità urgenti del sistema sanitario nazionale e i tagli dell’ultimo decennio.
Mancano ad esempio i soldi per coprire il rinnovo dei contratti del personale del servizio sanitario nazionale, bloccato da nove anni. “La legge di Stabilità per il 2017 aveva previsto, nell’ambito del Fondo sanitario nazionale (Fsn) il vincolo delle risorse necessarie – ha detto la Grillo – senza tuttavia prevedere a tale scopo un incremento dello stesso Fondo”. Si tratta di centinaia di milioni di euro, circa 600-700 per la precisione, che ad oggi non sono conteggiati. “Il ministro si è impegnata a reperire questi fondi nella prossima manovra – spiega Stefano Cecconi, Responsabile Sanità della Cgil – Ma al momento i fondi per la sanità restano al palo”.
Altro punto critico è la pesante riduzione dell’incidenza della spesa sanitaria sul Pil: nell’ultimo Def del governo Gentiloni si passa dal 6,7% di quest’anno al 6,3% del 2019. “Di fatto – spiega Cecconi – si segue la china calante di questi anni. Rappresenta tecnicamente un definanziamento, soprattutto se si tiene conto solo della crescita nominale del Pil”. Ci sarebbe poi da coprire l’abolizione del superticket promessa dalla stessa Grillo, che vale tra i 350 e i 500 milioni di euro. Insomma, servirebbe almeno un altro miliardo. I conti veri, comunque, si faranno nella Legge di Bilancio alla quale, però, le categorie guardano con preoccupazione.
Tra il 2010 e il 2014, secondo i dati della Corte dei Conti, sono stati tolti al servizio sanitario nazionale 14,5 miliardi e altri 10,5 miliardi nel triennio 2015-2018 per finanziare le diverse misure di politica economica, dagli 80 euro in busta paga agli sgravi alle assunzioni del Jobs act (-11,17 miliardi alla sanità nel 2015-2019). Ogni anno si è fatto crescere di poco il finanziamento nelle previsioni e si è tagliato al momento della manovra. E senza tenere conto del fatto che anche solo per adeguarsi a prezzi e tecnologie, il fondo dovrebbe crescere del 2 per cento l’anno, cosa che non accade da molti anni.
Nel 2018, per esempio, l’intesa con le Regioni prevedeva che il Fondo di finanziamento del Ssn sarebbe stato di 115 miliardi. Poi la manovra lo ridusse a 114 miliardi: sono stati tolti per decreto 604 milioni di tagli che le Regioni speciali non si sono volute accollare e che per legge, senza intesa, si scaricano su quelle a statuto ordinario; e poi c’è stato un taglio alle Regioni di altri 2,7 miliardi, di cui 300 milioni alla sanità come “contributo alla finanza pubblica”.
Al momento, l’obiettivo della Grillo è fare in modo che in manovra ci si assicuri quel miliardo per poi recuperare quanto più possibile anche considerando l’accordo raggiunto sul deficit al 2,4 per cento per il 2019, non ancora certezza durante il question time (quando l’orizzonte contemplato andava dal minimo di 1,6 a un massimo di 1,9 per cento). Resta l’idea di puntare prima di tutto sulla razionalizzazione e la riorganizzazione: dal tavolo sulla governance ai beni e i servizi, che dovrebbero coprire il taglio del superticket. Tutto il resto si vedrà. Difficilmente però dai riconteggi riusciranno a venir fuori i soldi per i medici.

La Stampa 29.9.18
Femminicidio. Tara Fares, 22 anni
Assassinata la modella più famosa di Baghdad
di Giordano Stabile


Star su Instagram, modella di successo, influencer e blogger seguita da milioni di iracheni. L’uccisione di Tara Fares, 22 anni, il volto dell’emancipazione femminile in Iraq, ha scioccato tutti, specie le giovani donne che a lei si ispiravano in un Paese ancora molto conservatore. Anche perché l’omicidio arriva a quattro giorni di distanza da quello di un’altra figura femminile di spicco, l’attivista per i diritti civili Suad al-Ali. Ma se in questo caso ci possono essere motivi politici, per Tara Fares il movente sembra la «punizione» maschilista da parte di una gang che si riteneva «offesa» dal suo stile di vita.
Tara Fares è stata uccisa verso le cinque del pomeriggio di giovedì. Il referto medico parla di tre pallottole sparate a distanza ravvicinata. Il killer l’ha colpita mentre saliva sulla sua auto nel distretto di Kam Sara a Baghdad. La modella viveva da anni a Erbil, dopo un breve soggiorno in Europa, ma tornava spesso nella capitale. Nata in Iraq da madre libanese e padre iracheno, a 18 anni aveva vinto un concorso di bellezza e poi aveva costruito la sua carriera sul Web: con tre milioni di seguaci su Instagram e un blog che spaziava dalla moda alla politica.
Ora i fan la piangono in Rete: «La sua morte urla discriminazione, mancanza di libertà e diritti», si legge. «Le donne non sono sicure in Iraq, non doveva lasciare il Kurdistan». Altri notano che nelle principali tv si sottolinei il suo stile di vita «eccessivo», e le foto sexy postate sul Web, come se fosse una giustificazione a ucciderla.
Un ammiratore, Omar di Mosul, sottolinea che quattro donne famose sono state assassinate in un mese in Iraq. Quattro giorni fa è toccato a Suad al-Ali fondatrice e presidente della ong Al-Weed al-Alaiami che si batte per diritti civili a Bassora, una città attraversata da mesi da dimostrazioni di massa che contestano tutto il sistema politico, sia i partiti filo-iraniani che quelli filo-americani. È una nuova società civile, che nasce a fatica, guidata soprattutto da donne. E sono loro nel mirino.

il manifesto 29.9.18
Nella destra razzista l’unione tra filosemiti e antisemiti
Ebrei per Afd. Nel partito di estrema destra tedesco entra il gruppo Ebrei per la Germania. Perché stupirsene? Una destra intollerante e xenofoba governa da quarant’anni Israele e, riguardo alla questione palestinese, è da tempo approdata a pratiche nemmeno più colonialiste ma in sostanza segregazioniste. Se ognuno riconosce i suoi, l’estrema destra tedesca non può che rallegrarsene
di Massimo Raffaeli


In una corrispondenza da Berlino del 27 settembre a firma di Sebastiano Canetta, sul manifesto si legge che il partito paranazista o neonazista tedesco, Afd, ha incorporato un gruppo autodenominatasi per l’occasione «Ebrei per la Germania».
Ci si può indignare ma non esattamente stupire perché a costoro, di qualunque estrazione essi siano, interessa con ogni evidenza appoggiare le politiche più aggressive e rovinose di Netanyahu e di Lieberman per diffondere l’odio contro i turchi, gli arabi e i cittadini di religione islamica.
Andrebbe sempre ricordato che una destra intollerante e xenofoba governa da quarant’anni Israele quasi senza interruzioni e che tale destra, riguardo alla questione palestinese, è da tempo approdata a pratiche nemmeno più colonialiste ma in sostanza segregazioniste. Se ognuno riconosce i suoi, l’estrema destra tedesca non può che rallegrarsene.
Anche in Italia dirsi «amici degli ebrei» spesso equivale a schierarsi preventivamente, come per riflesso condizionato, senza eccepire né distinguere, con la stessa etnocrazia che un diffuso stereotipo vorrebbe l’unica democrazia in Medio Oriente.
Se esiste a sinistra, ed esiste certamente, chi ancora contrabbanda per antisionismo, ovvero per opposizione alle politiche del governo di Israele, un immondo e sottaciuto antisemitismo (è il vecchio, e a cadenza redivivo, socialismo degli imbecilli di cui disse il vecchio Bebel a proposito di antisemiti travestiti da anticapitalisti) è vera, però, anche la reciproca.
L’antisemita non distingue ma confonde, ritenendole interscambiabili, nozioni che dovrebbero rimanere distinte quali «ebraismo», «sionismo», «Stato di Israele» e «governo di Israele»: l’antisemita ne colpisce una per infamarle e sfregiarle tutte quante in blocco. Ma così si comportano, sia pure a segno invertito, coloro che si proclamano amici degli ebrei e pretendono di esserlo per il solo fatto di schierarsi a priori dalla parte del governo di Israele e delle sue attuali politiche.
L’appoggio incondizionato e persino provocatorio di Donald Trump consuona con il fatto che oggi a Berlino, e senza soverchio clamore, ai neonazisti di Afd si possano affiliare degli «Ebrei per la Germania» perché è difficile sia un caso convergano proprio su questo punto dei nostalgici o dei risentiti squadristi e il mitomane che abita la Casa bianca.
Esiste dunque un corrispettivo liberalismo degli imbecilli incapace di vedere tutto questo e di coglierne il senso? O portato invece a ignorarlo? Le destre al governo in Israele da tempo hanno preparato il terreno, rovesciando il combinato antisemita fino al più estremo dei sillogismi: per i Netanyahu e i Lieberman, come per i loro alleati e adulatori, chi critica le azioni del governo è di per sé un antisionista, un nemico di Israele e degli ebrei, anzi un amico dei terroristi, e infine è un potenziale negazionista, quasi che i ministri di un governo potessero mai autoproclamarsi eredi e depositari esclusivi della Shoah nello stesso momento in cui la profanano e la sconciano facendone un’arma della lotta politica.
L’arma è letale, tende ad ammutolire qualsiasi oppositore, a farne un reprobo e appunto a dipingerlo come un mascalzone antisemita. Su questa micidiale dinamica, entrata nel senso comune, ha scritto un libro straordinario, e troppo poco rammentato in Italia, Idith Zertal, Israele e La Shoah. La nazione e il culto della tragedia (Einaudi 2007) dove si legge a un certo punto che la memoria dello sterminio è via via divenuta nel disegno delle classi dirigenti «una figura retorica, un oggetto pronto all’uso» ormai «scambiabile con qualsiasi esigenza storica anche totalmente diversa».
Si dovrebbe tenerlo presente, prima di dolersi per quegli ebrei tedeschi che hanno scelto di indossare la camicia bruna.

Il Fatto 29.9.18
“Migranti schiavi delle milizie in guerra”
Tripoli - Le Ong: “Gruppi armati usano i profughi dei centri di detenzione abbandonati dalle autorità”
di Pierfrancesco Curzi


Migranti usati come manovalanza dalle milizie durante la guerriglia per le strade di Tripoli. Nuove storie di schiavismo, di coercizione e di vergogna dalla Libia. La denuncia arriva dai diretti interessati e da quanto raccolto dalle organizzazioni umanitarie. Un gruppo di profughi del Corno d’Africa, almeno 200 persone tra cui una sessantina di bambini e minori, recluso nel centro denominato ‘Semaforo 70’, sopravvive in condizioni drammatiche. Siamo a Faruja, periferia sud della città, epicentro di combattimenti tra gruppi armati che in un mese (26 agosto-26 settembre) hanno fatto 117 morti ufficiali e circa 600 feriti. Uno dei 25 campi dove le organizzazioni internazionali entrano in supporto di profughi, Unhcr in particolare. O meglio entravano, visto che ciò, per motivi di sicurezza, non accade da quasi due mesi. Una fonte confidenziale a Tripoli ha raccolto il racconto di uno dei migranti: “Il centro è sotto il controllo di una milizia. Molti di noi vengono presi di forza, portati nella zona degli scontri e usati per trasportare armi e munizioni in prima linea, col rischio di essere uccisi. Altri vengono sfruttati per fare le pulizie negli uffici e nelle caserme dei capi, anche se stremati e in pessime condizioni di salute. Siamo gli schiavi moderni in mezzo ad una guerra civile. I miliziani ci vedono come merce di scambio e la vita nel centro è un inferno. Non abbiamo ricevuto acqua e cibo per quasi una settimana. Assetati, alcuni hanno bevuto acqua da pozzi e rubinetti insicuri e soffrono di violenti attacchi di dissenteria. La gente sta male e non viene curata, siamo allo stremo”.
Una situazione analoga è stata registrata in un altro centro lontano dal cuore della capitale, a Qasr Ben Gashir. L’allarme è stato raccolto dall’Unhcr, dall’Oim (l’agenzia Onu per i migranti) e da altre organizzazioni operative sul territorio. L’unica speranza per migliaia di profughi rinchiusi e veri e propri lager. A causa dell’instabilità. Tripoli è diventato un campo di battaglia e per il settore umanitario è difficile raggiungere i quartieri in conflitto. Ci sono strutture dove Unhcr e Oim non riescono a operare da mesi, difficile dunque capire la portata della tragedia, lontana dai radar della cooperazione.
Il cessate-il-fuoco siglato mercoledì sembra reggere, per ora, e ciò ha permesso quanto meno di tappare alcune falle. Come garantire cibo e accesso ad acqua potabile, coperte, prodotti per l’igiene e cure mediche di primo soccorso. Tra i migranti numerosi i casi di tubercolosi, scabbia e altre malattie trasmissibili, ma anche infezioni purulente, ferite non trattate e ustioni gravi. Tanti avrebbero bisogno di trattamenti sanitari e interventi chirurgici.
Un pezzo di Libia di cui il ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi, dovrà tener conto in Senato quando martedì riferirà a proposito di ciò che sta accadendo sull’altra sponda del Mediterraneo. Intanto l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha diffuso le statistiche esatte sulle vittime degli scontri dell’ultimo mese: 108 maschi e 9 femmine, 8 minorenni e 3 bambini sotto i 5 anni. In tutto 79 giovani tra i 18 e i 35 anni. I morti libici sono 106, 11 non libici: tra loro 1 turco, 2 del Niger, 1 siriano, 1 egiziano, 2 ivoriani, 1 burkinabè, 1 nigeriano; 2 sono rimasti sconosciuti.

La Stampa 29.9.18
L’intreccio tra militari e populismo scuote il Brasile orfano di Lula
Il 7 ottobre le elezioni
Il Partito dei lavoratori è al potere da un quarto di secolo
di Juan Luis Cebriàn


Anche se è in carcere da aprile, condannato per corruzione, e il tribunale gli ha vietato di candidarsi, Lula da Silva, che è stato presidente del Brasile per otto anni, continuerà a svolgere un ruolo cruciale nelle elezioni del 7 ottobre. L’influenza sull’opinione pubblica di questo ex sindacalista settantaduenne, più volte candidato alla presidenza fino alla vittoria del 2002, rimane un fattore determinante. I suoi seguaci, e non solo loro, sperano che il suo sostegno a Fernando Haddad, candidato per il suo partito (Pt), possa evitare l’elezione di Jair Bolsonaro, un ex militare di estrema destra, xenofobo e ultranazionalista.
Le imminenti elezioni in Brasile segnano la fine di un processo politico che ha avuto inizio con l’impeachment dell’ex presidente Dilma Roussef che molti, a cominciare da lei stessa, non esitano a definire vero colpo di Stato. È stata destituita con l’accusa di manipolare i conti pubblici ritardando i pagamenti e i depositi nelle banche, cosa che in molti Paesi è considerata pratica comune per soddisfare le necessità finanziarie. Le è subentrato il vicepresidente Temer, ugualmente coinvolto in casi di corruzione, così come il presidente della Camera dei deputati che ha chiesto l’impeachment, Eduardo Cunha, condannato a quindici anni di carcere per aver accettato tangenti.
Roussef, ex guerrigliera, amministratrice onesta anche se poco carismatica, era la candidata scelta da Lula per succedergli. Il leader del Pt voleva così sviluppare ulteriormente le riforme che aveva lanciato e che tra le altre cose hanno salvato dalla povertà 30 milioni di brasiliani. Roussef nel 2014 aveva di nuovo vinto e i suoi oppositori temevano che, alla fine del suo mandato Lula potesse vincere di nuovo le elezioni del prossimo ottobre, prolungando di altri otto anni l’egemonia della sinistra. Avere al potere il Partito dei lavoratori ininterrottamente per un quarto di secolo dev’essere sembrato un po’ troppo all’influente borghesia di San Paolo che controlla i destini del paese. La destituzione di Roussef e l’interdizione di Lula, tuttora il leader più popolare nel Paese nonostante sia in carcere, sono indicati dagli analisti come fasi dello stesso processo, nell’insieme legale anche se non privo di ombre, destinato a ristabilire il governo della destra.
Il ruolo della magistratura
La condanna e la prigionia di Lula per alcuni sono un esempio dell’indipendenza della magistratura brasiliana. Ma i suoi fedeli pensano che l’ex presidente sia la vittima innocente di una cospirazione. Condannato in appello per aver accettato come tangente un appartamento a Playa de las Asturias (cosa che nega), è stato escluso dalla candidatura in nome della Ley de Ficha limpia, la legge della fedina penale pulita, che lui stesso, paradossalmente, aveva firmato da presidente, anche se molti altri in situazioni simili non hanno ricevuto lo stesso trattamento.
La corruzione in Brasile, recentemente collegata in gran parte alla compagnia petrolifera statale Petrobas e all’azienda edile privata Odebrecht, ha molto a che fare con i processi elettorali e il finanziamento delle campagne. In parlamento sono rappresentati fino a venticinque partiti e la necessità di creare coalizioni genera spesso tangenti e complicità poco confessabili. Scomparsa la corruzione delle imprese, le fonti di finanziamento occulto per le formazioni politiche possono concentrarsi sul traffico di droga e sulle ricche comunità religiose.
I movimenti evangelici
L’influenza politica dei movimenti evangelici in America Latina è in rapida crescita. Bolsonaro e Haddad sono i candidati che presumibilmente arriveranno al ballottaggio e in Brasile molti pastori hanno già annunciato il loro sostegno al primo.
La vittoria dell’esponente di estrema destra, che all’inizio del mese durante un comizio è stato pugnalato da un malato di mente e si trova ancora convalescente in ospedale, potrebbe essere evitata solo se la grande maggioranza degli sconfitti il 7 ottobre appoggiasse il candidato di Lula. Intanto, all’interno del Pt, si stanno moltiplicando gli intrighi per evitare la svolta centrista e socialdemocratica rappresentata da Haddad. Se quest’ultimo sarà sconfitto è più che probabile che l’opposizione lulista organizzi manifestazioni di piazza, aumentando così il senso di insicurezza e di caos, e questo sarebbe il miglior terreno di coltura per applicare le nuove e rigide politiche di sicurezza volute dal presidente.
La militarizzazione dell’ordine pubblico è stata ripetutamente messa in pratica dal presidente Temer, che a febbraio ha decretato l’intervento delle forze militari a Rio de Janeiro. Non è una tendenza esclusiva del Brasile. Il presidente messicano Calderón già un decennio fa decise di coinvolgere la marina e l’esercito nella lotta contro il traffico di droga. Oggi si registra un aumento allarmante nella vendita di fucili e carabine di precisione a vari Paesi dell’America Latina, presumibilmente destinati alla criminalità organizzata.
La debolezza e la corruzione di molte forze di polizia facilitano il ruolo assunto dall’esercito nei compiti di sicurezza interna.
Lo spettro del colpo di Stato
Il Brasile è la maggiore potenza del Sud America, un continente gravato da problemi drammatici, con l’Argentina ancora una volta sull’orlo della bancarotta e il Venezuela diventato scenario di una crisi umanitaria di proporzioni globali. Da ciò che avverrà alle prossime elezioni dipenderà il suo futuro: continuerà a identificarsi con i valori fondamentali e le istituzioni della democrazia o finirà in mano a un governo populista? Uno di più al mondo e stavolta sì, di ideologia e pratiche chiaramente fasciste, in più con il supporto di un esercito sempre pronto a intervenire nei processi politici. Al punto che il numero due di Bolsonaro, il generale in pensione candidato alla vicepresidenza, Hamilton Mourao, che dirige la campagna elettorale in assenza del suo capo ricoverato in ospedale, ha dichiarato che non può escludere un colpo di Stato, se servirà al Paese. Come nel famoso samba «O Bêbado e a Equilibrista», diventato un inno contro la dittatura, «la speranza danza su una fune con un ombrello» e a ogni passo «può finire male».
traduzione di Carla Reschia

Il Fatto 29.9.18
Razzismo della busta paga: il colore della pelle costa caro
Londra - Nella Sanità pubblica un chirurgo bianco guadagna 10 mila sterline in più
di Sabrina Provenzani


“Pensa che l’Nhs sia razzista?”. “Sì”. C’è dell’ironia nel fatto che tocchi al dottor Chaand Nagpaul – il primo presidente non bianco nei 186 anni di storia della British Medical Association, l’associazione dei categoria dei medici britannici – commentare gli sconfortanti dati di un approfondito studio sulle discriminazioni salariali nel servizio sanitario britannico. Verdetto senza possibilità di equivoci: perfino per il servizio pubblico non conta il merito, conta il colore della pelle.
Lo studio di Nhs Digital ha incrociato salari e appartenenza etnica di 750 mila dipendenti della Sanità pubblica, dagli inservienti ai primari: in qualsiasi mansione, i lavoratori di colore – britannici, africani, Caraibici – guadagnano meno dei bianchi con identiche responsabilità.
Fra i medici più esperti, i neri guadagnano fino a 10 mila sterline in meno all’anno rispetto ai colleghi bianchi.
Gli infermieri neri in media 1.870 sterline meno di quelli bianchi. Per le infermiere il gap è di 2.700 sterline. E la discriminazione non si ferma a questo.
Fra i 100 mila medici impiegati dall’Nhs, circa un terzo appartiene a minoranze etniche, principalmente nere o asiatiche. Ma solo 7 su 100 occupano posizioni manageriali o di vertice. E i dati dimostrano che i medici bianchi sono anche meno soggetti a sanzioni disciplinari, mentre i colleghi di minoranze etniche vengono deferiti più spesso agli organi di vigilanza e gli errori puniti più duramente.
Fra gli specialisti, i bianchi guadagnano in media il 3,5% in più dei neri, quasi il 5% più degli asiatici e oltre il 6 più di quelli di etnia mista. Differenze che la maggior anzianità media dei dottori bianchi non basta a giustificare.
Se di questo fenomeno servisse un testimonial, il sessantenne dottor Nagpaul sarebbe il candidato perfetto.
Arrivato nel Regno Unito dal Kenya a 7 anni, figlio di immigrati indiani, sostiene che la sua domanda per diventare medico di famiglia sia stata respinta nove volte a causa del suo cognome.
“In ogni fase della mia carriera ho dovuto lavorare molto più duramente del normale per andare avanti. Ho dovuto accettarlo, ma non ci sono dubbi sulla mancanza di eguali opportunità nell’Nhs”.
Il sottosegretario alla Salute, Stephen Barclay, promette: “Stiamo lavorando a un piano per affrontare le disuguaglianze. Abbiamo pubblicato questi dati proprio perché siamo determinati a fare dell’Nhs un luogo di lavoro più inclusivo ed egualitario”. E ci sono progressi, almeno in Inghilterra, dove il numero di medici di minoranze etniche in posizioni senior, secondo Nhs England, è aumentato del 18% in due anni.
Una parte della società britannica, principalmente nel settore pubblico, tenta di fare i conti con le proprie storture: raccoglie segnalazioni, commissiona analisi, lancia sondaggi e, di fronte alle costanti evidenze di un’integrazione ancora mal riuscita, avvia meticolose politiche di inclusione.
Ma quello della discriminazione delle minoranze etniche è uno fenomeno così pervasivo che ha smesso di stupire, mentre aumentano il risentimento e la disillusione di intere comunità.

Il Fatto 29.9.18
Il rocker di Maidan, onda della nuova Ucraina
Simbolo - Vakarchuk era l’idolo dei ragazzi della rivoluzione: ora lo vogliono candidare presidente
di Michela A. G. Iaccarino


Forse il rock può salvare l’Ucraina e le rime possono fermare la guerra. Forse, pensano i ragazzi di Kiev, può salvare il Paese il cantante Sviatoslav Vakarchuk e l’“Oceano di Elza”, Okean Elzy, il suo gruppo musicale.
Se scrivi il nome del cantautore in Internet in cirillico, il primo suggerimento del server slavo da qualche mese è prezident: è Vakarchuk uno dei possibili candidati favoriti alla presidenza per le prossime elezioni ucraine 2019.
Si candiderà sul serio? Questa domanda è semplice quanto il suo silenzio di risposta, che allude, ma non conferma: sta valutando.
Le conclusioni però le traggono gli ultimi sondaggi del Socis, istituto sociologico internazionale: più del 7 per cento della popolazione sarebbe pronto a votarlo, una percentuale di poco inferiore a quella di Yulia Timoshenko. Il primo concerto dell’anno Vakarchuk ha deciso di farlo proprio il 24 agosto, data non ufficiale di inizio della campagna elettorale, e 80 mila fan allo stadio olimpico di Kiev che potrebbero diventare elettori.
“Non mi arrenderò senza combattere!”. La sua canzone, Bez boyu, senza lotta, la cantavano i ragazzi sulle barricate di Maidan nel 2013 prima che arrivasse lui a intonarla sul palco per sostenere la rivoluzione della piazza gialloblù che mise in fuga l’ex presidente Viktor Yanukovich.
“Se sarà necessario lo farò”, ha detto in passato a chi gli chiedeva di candidarsi, ma adesso potrebbe davvero sfidare la vecchia zarina Yulia Timoshenko e il presidente in carica Poroshenko – che ha appena querelato la Bbc per aver diffuso la notizia secondo cui avrebbe pagato 400 mila dollari a Michael Cohen per assicurarsi un incontro con Trump nel 2017 –.
Nato al confine coi Carpazi più occidentale del Paese, bastione delle forze nazionaliste, Vakarchuk è cresciuto in quella Lviv – Lvov per i russi – che ha appena dichiarato illegale l’uso scritto e parlato della “lingua dell’invasore” nella regione.
Per 24 anni e dieci album, i suoi versi hanno accompagnato alcuni ragazzi all’altare, altri in trincea contro le repubbliche del Donbass.
Fisico come tutti nella sua famiglia, politico come quasi nessuno nell’industria musicale ma come suo padre, ex ministro dell’Educazione, Vakarchuk nel 2007, eletto con il partito Blocco di auto-difesa, entra al Parlamento ma non resiste, non riesce a respirare quella che chiama “atmosfera di corruzione” e dopo un anno abbandona gli scranni.
“Un esercito, una polizia muscolare” sarebbero la sua risposta efficace all’immorale classe politica d’Ucraina. Nel 2014 dopo l’annessione della Crimea, ha rinunciato a cantare nel paese dove in milioni lo ascoltano, la Russia, e le arene erano piene da Mosca a Vladivostok nonostante cantasse in ucraino.
Non solo l’aedo della rivoluzione: anche il comico più famoso del Paese, Volodomyr Zelensky, potrebbe scegliere di percorrere la strada che porta alla Verkhovna Rada, Parlamento di Kiev.
In quell’Ucraina dove il 6 per cento della popolazione sarebbe pronto a votarlo, è diventato famoso per la serie “servitore del popolo”: recita la parte di un professore di Storia che diventa presidente del Paese per sbaglio.

Corriere 29.9.18
Elettrodomestici Candy ai cinesi Qingdao Haier compra il 100%
La famiglia Fumagalli vende per 475 milioni. È l’ultimo marchio italiano del bianco
di Corinna De Cesare


Candy come la canzone di Nat King Cole ma in Italia, quando parlavi di Candy, parlavi della lavatrice. Merito dei Fumagalli di Monza che nell’Italia post-bellica del boom economico portarono nel nostro Paese la prima lavabiancheria «made in Italy» con riscaldamento dell’acqua e pompa di scarico. «Tante grazie, è Candy» diceva lo spot degli anni 50. Fu una vera rivoluzione, cui seguì la semi-automatica con risciacquo e centrifuga. Insieme a tutto il resto: lavastoviglie, frigoriferi. Fino ad arrivare alle acquisizioni, l’internazionalizzazione e le operazioni che portarono la ex Officine Meccaniche Eden Fumagalli al gruppo da 1,14 miliardi di fatturato di oggi, con 4.660 dipendenti e sei stabilimenti in Europa. Il quartiere generale però è sempre rimasto lì, a Brugherio, e lì resterà anche ora che Candy è stata ceduta ai cinesi di Haier.
L’ultima grande azienda italiana del «bianco», un settore che fino a poco tempo fa faceva dell’Italia la fabbrica d’Europa degli elettrodomestici, è passata infatti alla Qingdao Haier per 475 milioni di euro. Al gruppo quotato sul listino di Shanghai andrà il 100% dello storico marchio della famiglia Fumagalli, che resterà operativa fino al perfezionamento della vendita all’inizio del 2019. Poi i Fumagalli usciranno di scena pur restando nel consiglio. Nel giugno dello scorso anno Candy aveva annunciato un ambizioso piano di investimenti da quasi 300 milioni di euro in tre anni. Piani confermati anche dopo la vendita. «Resteremo nel board proprio per verificare che saranno realizzati — dice l’amministratore delegato Beppe Fumagalli rassicurando i sindacati preoccupati per il futuro dei mille lavoratori di Brugherio —. Per il gruppo si apre una fase di espansione, cinque mesi fa non avevamo intenzione di vendere, poi siamo entrati in contatto con questa azienda e ne è nata un’operazione finanziaria».
Da poche settimane però le sigle sindacali avevano firmato un accordo per gestire con la cassa integrazione 200 esuberi a Brugherio. La paura è quella di finire come le tante aziende italiane acquistate da gruppi internazionali e poi ridimensionate o chiuse. «La preoccupazione è comprensibile ma c’è l’impegno — aggiunge Fumagalli — di mantenere la sede come quartier generale per almeno dieci anni e dal punto di vista produttivo saranno rispettati tutti gli accordi».
È stata la forza europea di Candy, che vanta anche marchi come Hoover e Rosières, ad attrarre i cinesi di Haier considerati da Euromonitor come il maggior marchio di elettrodomestici al mondo in termini di vendite. Candy consegue oggi il fatturato principalmente dall’estero (Uk e Francia i principali mercati) ma come per tutti i gruppi del «bianco», ha risentito molto della crisi economica. Dopo tre anni in perdita, tra il 2011 e il 2014, nel 2016 il bilancio si è chiuso con il superamento della soglia storica di un miliardo di euro di ricavi. Non è bastato e i Fumagalli hanno ceduto alla corte dei cinesi. «Tante grazie, è Candy».

il manifesto 29.9.18
Il Migliore e il nemico, se il noir indaga sul Pci
Florinas in giallo. Apparati riservati e cimici a Togliatti. Ma il vero mistero è come sia sparito tutto quel mondo. A poposito dell'ultimo libro di Vindice Lecis
di Daniela Preziosi


Dicembre 1951, via Arbe, quartiere Montesacro, Roma. Palmiro Togliatti esce dal villino con Nilde Iotti e la piccola Marisa. La scena è familiare, rassicurante. Ma quando i tre si allontanano un gruppo di uomini entra nella casa e la dissemina di microfoni. Non sono nemici. Sono compagni. Agli ordini del “partito”, in questo caso di Giulio Seniga, vicepresidente della commissione Vigilanza. Ma il segretario non sa nulla. Forse neanche Pietro Secchia, potente capo dell’organizzazione, “togliattiano riluttante”, contrario alla linea della legalità costituzionale che il Migliore ha imposto al Pci.
È l’episodio iniziale dell’ultimo noir storico di Vindice Lecis, Il nemico. Intrighi, sospetti e misteri nel Pci della guerra fredda (Nutrimenti, pp. 194, euro 16). L’autore, una vita da cronista all’Espresso, una seconda vita da scrittore, si basa su documenti in qualche caso inediti, archivi e sullo studio meticoloso della memorialistica sul Pci degli anni 50. Un partito di massa, due milioni di iscritti, tre scuole di formazione nazionali e molte locali che sfornano in 5 anni 61mila dirigenti. Ma il Pci è anche «un paese nel paese», assediato dal sospetto di intelligenza con l’Urss, bastonato nelle piazze, come spiega Secchia in una burrascosa seduta al senato («A Roma sono stati arrestati, dal primo di quest’anno, 868 lavoratori, 1119 sono stati processati in pretura o in tribunale, (…). A Napoli gli arrestati sono stati 407 di cui 308 processati e 99 condannati a pene varie. A Reggio Emilia, 410 arrestati per diffusione di manifestini, sciopero, strillonaggio dell’Unità…»). In piena guerra fredda in comunisti insomma sono il nemico della Dc, il partito di governo. Ma quanti nemici ha davvero Togliatti? È in questo clima che il Pci adotta una serie di rigorose misure interne: sconfina nella psicosi o non ha scelta? Lecis si diverte a descrivere l’apparato riservato, non inventa, non aggiunge, non serve. Nel suo racconto non ci sono cedimenti al complottismo, quello oggi che va alla grande nelle librerie (e nelle urne). Il meccanismo del giallo qui serve per indagare su alcuni punti dolenti della storia della sinistra, per tornare sui luoghi del delitto (politico). L’autore è un comunista italiano (nel senso di piccista) non pentito ma non agiografo. Nel precendente L’infiltrato riflette sulla partecipazione attiva del Pci alle operazioni del generale Dalla Chiesa contro le Br. Qui siamo vent’anni prima: le microspie ’amiche’ a casa di Togliatti nascono dalla necessità di proteggere il capo ma anche dalla ossessiva diffidenza di Botteghe Oscure nei confronti di Iotti, considerata troppo vicina ad ambienti cattolici. In quel periodo il segretario subisce un incidente d’auto, una successiva cura medica sbagliata lo riduce in fin di vita. Stalin non lo ama – è del 50 la “proposta” di andare a dirigere il Kominform, l’ufficio di informazione dei partiti comunisti, per farlo fuori dalla guida del più grande partito comunista occidentale. Dunque a chi risponde Secchia? E a chi Seniga, l’unico che conosce i nomi segretissimi dei compagni ai quali il Pci dà in custodia ingenti somme di denaro – utili in caso di golpe – e che nel 1954 fuggirà con la cassa per inseguire la fantasia di un partito rivoluzionario? Non manca poi l’indagine psicologica sui personaggi e sul vero mistero italiano: chi erano quei comunisti, e come si sono estinti.
Il nemico sarà presentato domani pomeriggio nella giornata finale della nona edizione di Florinas in giallo. Sul tema del ’furto’, variamente declinato, anche quest’anno autori e lettori si sono dati appuntamento nella cittadina logudorese arrampicata sulla collina, non lontano da Sassari, perfetta ambientazione per il festival «L’Isola dei misteri».

il manifesto 29.9.18
I confini e le sovranità necessarie alla retorica del capitalismo
Europa fronte del conflitto. L’organizzazione e la divisione tra Stati è un’eredità del passato che il capitalismo riattualizza facendone forse l’arma più efficace del suo successo di classe
di Piero Bevilacqua


Ma davvero, al livello cui è giunta l’economia mondiale, avremmo ancora bisogno di «crescere»,«correre», «competere», se l’umanità non fosse divisa in stati, con le loro frontiere e le loro bandiere? Avremmo ancora bisogno di «andare avanti», cioè di accumulare ulteriore ricchezza, se ciascuno non perseguisse per sé, l’obiettivo che è comune, vale a dire il benessere di tutti? Osservata da una prospettiva che prescinda dagli stati nazionali, questa costruzione storica che ancora decide il destino dell’umanità, il meccanismo che ispira il capitalismo del nostro tempo, appare in tutta la sua tragica assurdità. Che bisogno c’è ancora di crescere se ogni anno vanno al macero 1, 3 miliardi di tonnellate di cibo, rimangono invendute, solo in Europa, decine di milioni di auto e un numero imprecisato viene quotidianamente rottamato, se l’iperconsumo fa crescere di anno in anno rifiuti e discariche in ogni angolo del pianeta, e una nuova micidiale spazzatura – la cosiddetta e-waste, la spazzatura elettronica – va divorando sempre nuovi territori, tanto nei paesi ricchi che in quelli poveri?
E QUALE RAZIONALITÀ SEGRETA sorregge questa corsa all’infinito, dal momento che per alimentarla, stiamo distruggendo la vita dei mari, saccheggiando le risorse idriche del pianeta, avvelenando le terre fertili, inquinando l’aria, riducendo la biodiversità naturale, alterando irreversibilmente il clima? A che fine questa corsa l’un contro l’altro stato, se essa condanna una parte estesa dell’umanità alla disoccupazione e alla precarietà, alla polverizzazione della vita sociale, al ritorno del lavoro schiavile anche nelle campagne ?
È EVIDENTE che l’organizzazione e la divisione tra stati è una eredità del passato che il capitalismo del nostro tempo – grande stratega nelle mosse di dominio sull’umanità – riattualizza facendone forse l’arma più efficace del suo successo di classe. Dunque è sufficiente porre mente a questo stato di cose per scorgere oggi l’inanità della lotta politica tutta interna ai vincoli dei singoli stati nazionali. Restando chiusi dentro questi confini i partiti politici operano come zelanti servitori delle retoriche capitalistiche, accentando una insuperabile subalternità al capitale industriale e finanziario, libero di muoversi senza limiti di frontiere e di bandiere.
NON È CERTO UN CASO che da quando è scomparso dalla scena del mondo l’antagonista globale rappresentato dal comunismo, mostro burocratico, ma pur sempre «mostro», questo modo di produzione va celebrando i fasti più distruttivi della sua storia, contro il lavoro e contro gli ecosistemi della Terra. E non è vero che a impedire oggi il conflitto di classe sia la destrutturazione postfordista del lavoro di fabbrica. È la limitatezza territoriale della lotta operaia e popolare di fronte allo spazio di movimento mondiale del capitale. Ma mai come oggi la logica della crescita fa tutt’uno con la distruzione degli equilibri della Terra, offrendo alla sinistra l’opportunità egemonica di far coincidere il riscatto dei subalterni con la salvezza del pianeta. È evidente che senza una forza di contrapposizione di ampiezza sovranazionale, capace di colpire il capitale nei suoi interessi vitali, la politica riformista ha la potenza del graffio del gatto.
LA SPAZIO POLITICO dell’Unione europea è dunque lo spazio minimo in cui pensare un’azione politica in grado di una qualche efficacia, come hanno efficacemente argomentato su questo giornale Luciana Castellina (14/ 9 e Marco Bascetta, 22/9). Del resto, quel che può ancora oggi la politica di fronte ai colossi dell’economia, l’ha mostrato proprio l’UE con le recenti sanzioni a Microsoft e Google. Sappiamo bene che è arduo modificare i trattati neoliberisti che reggono l’impalcatura dell’Unione, ma il fronte della lotta oggi è questo continente, non le retrovie nazionali.
Esattamente per tale ragione, occorre dire che i vari tentativi oggi in corso di resuscitare il centro-sinistra costituiscono velleità da scansare. L’operazione avrebbe la stessa possibilità di tenuta del ponte Morandi ricostruito con le macerie oggi nel greto del Polcevera. Non si costruisce nulla di solido con le rovine di un edificio, per giunta mal costruito. E non c’è modo più serio di liberare le forze avanzate e riformatrici attive in quell’ambito che dichiarare solennemente chiusa quella esperienza.
MA TALE POSIZIONE chiede alla sinistra radicale una serietà e un senso di responsabilità che finora sono mancati. Il tentativo di Varoufakis – uno dei pochi leader politici che ha conoscenza profonda dell’Unione – e di altri dirigenti di Diem (una trama transnazionale con un organico programma per le elezioni europee) deve essere colto dalla varie sigle della nostra sinistra come una grande occasione di unificazione in un momento grave della storia d’Europa. Potere al Popolo, Sinistra Italiana, Rifondazione, Possibile non possono più continuare il loro irresponsabile gioco a scacchi.

Repubblica 29.9.18
La lezione (dimenticata) del Novecento
Dietro gli slogan sovranisti l’eterno ritorno del nazionalismo
di Umberto Gentiloni


Come me nessuno mai, sono stato il più capace di tutti» parole pronunciate martedì scorso dal presidente degli Stati Uniti nel Palazzo di vetro delle Nazioni Unite mentre il paragone azzardato con amministrazioni precedenti scatenava risa e facili battute in platea. Ma come spesso accade, quando sembra che le frasi di Trump siano destinate al fugace contesto del suo profilo Twitter, alla fine di un discorso restano gli interrogativi sui destinatari di messaggi che sono ben più profondi e impegnativi di una battuta fuori luogo. Gli ingredienti dei suoi continui richiami al primato americano sono ormai sperimentati e ben noti tra gli addetti ai lavori e non solo: isolazionismo e chiusura identitaria, protezionismo come orizzonte di riferimento combinato con il rilancio di paure e impulsi contro l’immigrazione e l’immigrato in quanto tale. Una ricetta venduta come grande innovazione del tempo presente, come scoperta e rivelazione epocale che in realtà ha già attraversato pagine e tornanti della storia degli Stati Uniti e delle relazioni tra il nuovo mondo e il vecchio continente. Basta tornare a dare un senso alle parole che leggiamo o ascoltiamo.
Dietro le presunte categorie di un "sovranismo" diffuso che va per la maggiore si celano le più classiche sembianze di un becero nazionalismo che ha attraversato e insanguinato il secolo scorso. Gli anni tra le due guerre mondiali portano il segno di un passato rimosso troppo in fretta, quando la sconfitta del disegno di un ordine internazionale rilancia le ragioni di un’America chiusa, restia a uscire dai recinti di un perimetro rassicurante e sperimentato.
Un’oscillazione continua tra l’apertura e il dialogo per costruire ponti o architetture condivise e le sirene di un primato fondato sulla forza economica o il predominio militare. La sconfitta del wilsonismo e dei suoi valori di riferimento mette da parte, negli anni Venti del Novecento, un’ispirazione morale che pur tra debolezze e incongruenze aveva abbozzato l’ipotesi di radicare un sistema internazionale condiviso e partecipato, un embrione possibile di un governo mondiale come risorsa contro aggressioni e prove di forza. Ma il pendolo ha continuato a oscillare pericolosamente, confermando i timori di chi con ambizione e utopia pensava di poter ridimensionare il ricorso alla guerra come principale strumento per la risoluzione dei conflitti. Un tracciato che affonda le radici nella democrazia americana e nelle priorità della sua politica estera per dirla con Walter Russell Mead e un suo celebre volume del 2001 ( Il serpente e la colomba. Storia della politica estera degli Stati Uniti d’America): l’economia prima di tutto (hamiltoniani), la difesa della democrazia ad ogni costo (jeffersoniani), la nazione e la sua rispettabilità minacciata (jacksoniani), i valori morali irrinunciabili e intoccabili (wilsoniani). Filoni contraddittori e contrastanti di presenza degli Usa sulla scena internazionale per scrollarsi di dosso le insinuazioni del cancelliere Bismark che avevano come bersaglio la proiezione esterna della nascente potenza americana considerata illogica e pericolosa, salvata da una «speciale provvidenza in grado di mettere insieme i matti, gli ubriachi e gli Stati Uniti d’America». E il secolo americano avrebbe rilanciato la dialettica tra egoismo e partecipazione portandosi dietro il paradosso di una doppia contrarietà: chi ha contrastato il predominio e l’interventismo unipolare e su un altro versante chi ne ha sottolineato i rischi per un disimpegno, una fuga da teatri di crisi di difficile gestione. Troppa o poca America a seconda dei casi e delle esigenze strumentali. La collaborazione tra diversi presuppone che il nazionalismo della singola nazione non metta in discussione un quadro condiviso di regole e riferimenti, non intacchi un tessuto prezioso eredità di generazioni lontane. Altro che primato in solitaria di una potenza incontrastata: voltarsi indietro rischia di essere un cammino senza ritorno. Ogni soggetto è pronto (o dovrebbe esserlo) a rinunciare a porzioni crescenti di sovranità e potere, questo il lascito doloroso del secolo XX. Nessuno può salvarsi da solo.

Repubblica 29.9.18
La lezione (da ricordare) del mondo antico
Quando le élite aprirono ai barbari e salvarono Roma per undici secoli
di Silvia Ronchey


Da sempre l’ideologia politica dell’America si nutre di un’analogia simbolica, perfino iconografica, con l’impero romano. Basta guardare l’architettura del potere a Washington, dal Lincoln Memorial al Jefferson Memorial, dal Supreme Court Building a Capitol Hill. Era stato già Thomas Jefferson a volere che la sede del Congresso degli Stati Uniti replicasse un antico edificio romano. Negli anni 80 del secolo scorso Francis Ford Coppola aveva immaginato di ambientare in quella eloquente scenografia un film sulla congiura di Catilina, in cui perfino il casting fosse calcato sui volti della statuaria dei Musei Capitolini. Fin dal secondo dopoguerra l’idea di pax americana, in analogia con quella augustea, ha dominato il lessico politico e anche se da qualche decennio la cosiddetta tardoantichistica, ossia la storia del declino dell’impero romano, è divenuta una specialità delle università statunitensi, gli Stati Uniti hanno continuato a darsi il ruolo "romano" di garante della sicurezza globale del mondo. Fino alla svolta odierna, in cui le parole d’ordine dell’amministrazione Trump fanno parlare, invece, di "impero chiuso".
Ma proprio nel tempo della cosiddetta decadenza e caduta dell’impero romano, narrata da Gibbon, vediamo come la tendenza di un impero alla chiusura può essere non solo contrastata ma integralmente ribaltata da una parte delle sue classi dirigenti, delle sue élite intellettuali, delle sue aristocrazie. Il cosiddetto Impero romano d’occidente, dopo la grande crisi del III secolo, il collasso del sistema economico e finanziario, il calo demografico, il blocco del dinamismo sociale, l’approfondirsi del divario tra poveri e ricchi, il confluire delle classi medie nella fascia degli humiliores, uniti a una nuova ondata di movimenti migratori globali e alla pressione di nuovi soggetti etnici ai confini, si chiuse in se stesso. Tutte le energie dello Stato vennero spese in provvedimenti difensivi. L’aristocrazia romana si arroccò nelle sue ville sull’Aventino.
Ma contemporaneamente un’altra parte dell’élite politica e intellettuale reagì a questo moto di chiusura costituendo una formula alternativa dello stesso impero e traghettandola dalla Prima alla Seconda Roma: Costantinopoli. Tra il IV e il V secolo, dalla fondazione della nuova capitale da parte di Costantino alla cosiddetta "caduta silenziosa" della vecchia nel 476, un modello di impero romano ancora più aperto, se possibile, mostrò al mondo come quegli stessi soggetti etnici che a Roma si chiamavano barbari potessero partecipare dell’antica cultura grecoromana, della sua filosofia e prassi politica, integrarsi nelle classi dirigenti e nelle strutture militari, rifondare su scala più ampia il principio di dinamismo verticale, di ricambio delle élite, di mescolanza tra etnie e circolazione tra classi, che aveva fatto la forza di Roma antica. È da questo riaprirsi quasi istantaneo dell’impero romano tra il IV e V secolo, al momento cioè della sua apparente caduta, che nasce la cultura umanistica che oggi chiamiamo europea.
Bisanzio, i cui cittadini si autodenominavano Rhomaioi, "romani", e tali erano giuridicamente e politicamente, e sarebbero stati ancora lungamente, per undici, prosperi secoli, perpetuò e perfezionò la tradizione del diritto e la dottrina politica, la struttura economica e finanziaria, la rete commerciale e viaria, e in generale la funzione di tutela di quella "pace globale" che era stata propria dei discendenti di Enea — migranti anche loro, stranieri fuggiti da un’espugnata Troia alla quale anche geograficamente l’impero era tornato.
Perché un impero, per aprirsi, o riaprirsi, sembra avere bisogno anzitutto di questo: di stranieri, di barbari. Scriveva Kavafis: «Si è fatta notte, e i barbari non sono più venuti. / Alcuni sono arrivati dai confini, / hanno detto che di barbari non ce ne sono più. / E adesso cosa sarà di noi, senza più barbari?».

Il Fatto 29.9.18
La casa delle bambole sessuali
A Mirafiori Non solo baby – La sede chiusa lo scorso 12 settembre, a Torino. Tra i modelli opzionabili, anche “Alessandro”, un bambolo con due dotazioni di pene, da 13 o 18 centimetri – LaPresse
di Paolo Stefanini


All’automazione in fabbrica erano abituati, a Mirafiori Sud. La Fiat è proprio lì di fronte. A quella in camera da letto, evidentemente no. E così i residenti del palazzo di via Onorato Vigliani, uno come tanti altri di questo quartiere residenziale operaio, hanno gridato allo scandalo, non appena è stato chiaro che il tanto pubblicizzato “bordello delle bambole” era nel loro cortile. “Un viavai continuo – si sono lamentate le nonne, spaventate di mandare i nipoti giù a giocare – perché chissà che tipi sono quelli che vanno con le bambole”. E dopo neanche dieci giorni di attività, il 12 settembre scorso sono arrivati i vigili a mettere tutto sotto sequestro.
Di sicuro, i condomini ora possono stare tranquilli: l’attività non riaprirà più, è stata rilevata “l’incompatibilità edilizia”. Ma presto le bambole torneranno a fare l’amore. La polizia municipale ha contestato l’esercizio abusivo di affittacamere, e la mancanza di comunicazione del registro dei clienti per via telematica. E sembrava la mossa vincente: bell’elemento di dissuasione, per chi vuole trasgredire, dover tirar fuori la carta d’identità e vedere i propri dati spediti in Questura. Ma due giorni fa, la società che gestisce la casa di appuntamenti, la LumiDolls, ha annunciato che riprenderà l’attività in un albergo: in questo modo i clienti si mescoleranno ai normali ospiti della struttura, e non saranno immediatamente individuabili come amanti del sesso con le bambole. E il Comune avrebbe già dato il “via libera”.
Del resto, come dice uno dei soci dell’attività, un geometra torinese che incontriamo in uno snack-bar di corso Unione Sovietica, “abbiamo una struttura molto organizzata, pronta a trovare le soluzioni a tutte le difficoltà che ci verranno fatte, e che in parte ci aspettavamo; con una squadra composta di ottimi avvocati, commercialisti, ingegneri, ufficio stampa e altri dipendenti”. Respinge con decisione le voci sulle carenze igieniche, che non sarebbero state riscontrate dalla Asl, e si dice molto ottimista sulla pronta ripresa delle attività. Vorrebbe dimostrare che quello dell’affittare la camera per la LumiDolls non è un business, “ma un accessorio, una mera messa a disposizione di uno spazio dove utilizzare il servizio offerto, che rientra nella categoria dello sharing: solo che non diamo in uso biciclette, motorini o automobili, che possono essere usati in strada, ma bambole sessuali”. La succursale italiana è una società a responsabilità limitata, la Kama Ld srl, specializzata in “commercio al dettaglio di articoli sulla sessualità e la sensualità”. E ha l’esclusiva per l’Italia del marchio LumiDolls (di proprietà della spagnola Privefe s.l.). Proprio in Spagna, a Barcellona, ha infatti aperto la casa madre, nel febbraio del 2017, da un’idea imprenditoriale di Sergi Prieto, offrendo poi in franchising il concept. Ad aprile scorso è stata inaugurata la sede russa, nella City di Mosca, e poco più di un mese fa quella italiana, a Torino.
Perché proprio in Piemonte e non a Roma o a Milano? “Intanto perché io sono di qui – dice il socio, che subito aggiunge con orgoglio sabaudo – e poi perché tutte le cose, in Italia, sono sempre partite da Torino”. È venuto a conoscenza della realtà catalana poco dopo l’apertura, per circa un anno ha valutato il mercato, studiato il progetto e messo a punto il business-plan. Si è persuaso che il settore abbia un futuro “molto interessante” e ha concluso l’accordo con la casa madre spagnola. Ora, a quanto sostiene, “ci sono già circa 400 persone che hanno preso contatti per aprire in franchising, da Aosta a Palermo. Io rispondo alla Spagna; gli altri italiani risponderanno a noi”.
“È importante non marchiare i clienti. Il fenomeno
va inquadrato nella complessità della sessualità atipica”
Ma davvero ci ritroveremo con una diffusione così capillare di questa casa d’appuntamenti con sex dolls? I giorni di apertura sono stati troppo pochi per avere dati statistici attendibili ma, secondo LumiDolls, le bambole (mezzora d’affitto costa 80 euro; un’ora, 100) prima del blitz dei vigili erano già tutte prenotate fino alla metà di novembre, e i clienti “appartenevano alla fascia socio culturale medio-alta” (c’è anche un bambolo, Alessandro, con due dotazioni di pene in opzione: da 13 o da 18 centimetri). E non è un mistero che i BorDolls, come spesso si chiamano all’estero questi bordelli di bambole, abbiano sempre più mercato anche in Paesi, come per esempio la Germania, dove la prostituzione è legale.
“Il fenomeno va inquadrato nello spazio molto complesso della sessualità atipica”, spiega Fabrizio Quattrini, docente di Clinica delle parafilie e della devianza all’Università de L’Aquila e presidente dell’Istituto italiano di Sessuologia scientifica di Roma. “L’importante è non marchiare queste persone. Ormai le parafilie, le perversioni erotiche, tra le quali può rientrare, per esempio, anche il Bdsm (che racchiude le diverse pratiche di Bondage, Dominazione, Sadismo, Masochismo), non sono più considerate patologie di per se stesse. È solo quando si sviluppa una dipendenza, non diversa da quella per una droga, o quando si vive queste pulsioni senza accettarle, soffrendone, che si passa nell’area del disturbo parafilico”.
Poi, se si vuole andare a cercare di capire cosa spinge una persona a fare sesso con delle bambole, si apre un mondo. “Sono probabilmente soggetti che fanno questa scelta su una base egoistica, per avere la disponibilità assoluta di un oggetto inanimato, che risponde al loro volere. C’è quasi sicuramente un tratto narcisistico. La bambola non giudica, non critica, si può gestire in pieno. Viviamo in una società in cui la donna ha, giustamente, preso potere, e nella quale molti uomini vedono distrutti gli stereotipi sul sesso maschile, e quindi alcuni di loro preferiscono rivolgersi a un qualcosa di artificiale ma controllabile, piuttosto che a qualcuno assolutamente non più controllabile”.
Quattrini è in contatto con un produttore di bambole per motivi di studio e sottolinea un altro aspetto interessante: quello delle real dolls, costruite ad hoc su richiesta dei clienti, somiglianti a un modello specifico del committente, con certe forme, determinati capelli, occhi, lentiggini… In questo caso, le moderne bambole non sono che la versione più aggiornata del mito greco di Pigmalione, che si innamorò della statua della dea Afrodite per la sua perfezione.
Ma nel richiedere la propria bambola c’è chi potrebbe volerne una con le fattezze di un bambino o una bambina. “Di questo sono preoccupato – dice Quattrini –. In Giappone c’è stato un vero boom. Alcuni ritengono che queste bambole potrebbero sostituire i bambini veri, vittime dei pedofili. Ma io sono convinto, al contrario, che potrebbero invogliare alcuni soggetti a passare dalle sole fantasie all’attivazione di comportamenti socialmente pericolosi”. La LumiDolls, da parte sua, su questi temi è estremamente rigorosa, e non solo ha scelto bambole di statura non ridotta per evitare qualsiasi accomunamento alla corporatura infantile, ma il franchising italiano, a differenza della casa madre spagnola, ha deciso “per motivi deontologici” di non vendere – oltre ad affittare, infatti, commercializza i modelli di bambole con prezzi tra gli 800 e i 2.000 euro – nemmeno bambole di donne incinte, che godono di una buona richiesta sul mercato.
“Uno schiaffetto sul culo non si nega a nessuno, né alla ragazza né alla bambola. Ma loro sono così delicate…”
In Europa è attiva una campagna internazionale contro il sesso con le bambole e i robot, lanciata dalla professoressa di Etica dei robot, Kathleen Richardson, della De Montfort University di Leicester, che chiede il bando assoluto delle sex dolls, vedendo nel fenomeno “misoginia, oggettificazione e deumanizzazione della donna”. “Se i vibratori e i dildo sono usati dalle donne solo per masturbarsi, gli uomini dicono di ‘fare sesso’ con le bambole, il che dimostra come ormai, in modo preoccupante, per molti maschi la masturbazione e la violenza (la bambola subisce passivamente) siano considerati sesso”. Il socio della LumiDolls di fronte all’equazione tra bambole e violenza scuote la testa. “Può dire queste cose solo chi non le conosce. Sono così delicate, le nostre bambole. Se con la vostra ragazza potete fare l’amore indossando anelli o braccialetti, con loro dovete togliervi tutto, perché la pelle potrebbe lacerarsi. Non potete tirarle per le mani, perché si rovinano. Abbiamo regole ferree e sanzioni. Se con una donna reale bisogna essere gentili, con le bambole ancor di più. Poi, oh, uno schiaffetto sul culo non fa male né alla ragazza né alla bambola. Comunque, noi siamo un’avanguardia del futuro. Le nostre badanti saranno dei cyborg, ne sono certo. Già oggi, bambole come quelle della LumiDolls possono essere un grande aiuto per chi ha problemi di interazione o disabilità. Per chi ha un compagno o una compagna che, per motivi di salute, non può più fare sesso, ma che non si vuole tradire”.
Sul mercato ci sono anche bambole prodigio della tecnica che arrivano a costare 60 mila euro: modelli con un sistema che accelera i battiti del “cuore” durante l’amplesso o che aumenta la temperatura corporea al crescere dell’eccitazione, o dotati di sistemi per l’emissione di finte secrezioni vaginali. Ma il vero passaggio che ci aspetta è quello dalle sex dolls ai sex robot che, grazie all’intelligenza artificiale potranno interagire, un po’ come Siri sul telefonino. E allora, come si è chiesto David Levy, autore del libro Love and Sex with Robots, dovremmo credere al nostro sex robot quando dice di amarci, se in fondo è stato programmato per dircelo? E ancora, dovrà il robot prendere l’iniziativa lui di fare sesso? Potrà in certi casi estremi rifiutarsi di avere un rapporto? Gli umani proveranno gelosia se qualcun altro avrà rapporti con il loro sex robot? Il socio della LumiDolls risponde: “Credo che quello con le bambole sia un gioco e debba rimanere tale. Vanno valutate per quello che sono. C’è una cosa che un internauta ci ha scritto nei commenti e che mi ricorderò sempre: ‘Le vostre bambole sono una sega vestita a festa’. Questa frase mi è rimasta scolpita nel cuore”.

il manifesto 29.9.18
La musica non è un lusso
Palestina. Al Conservatorio di Gaza i giovani suonano per esercitare i loro diritti: all’educazione, al gioco, all’espressione. Il racconto di Cultura è Libertà, associazione italiana che sostiene il progetto
di Alessandra Mecozzi


GAZA CITY Arrivo a Gaza il 12 agosto, dopo aver passato i tre controlli: quello israeliano, quello dell’Autorità nazionale palestinese e quello di Hamas.
Sono contenta di aver raggiunto questa striscia di terra quasi inaccessibile. Il mare calmo, che evoca un’idea di libertà, ci ricorda invece che questa popolazione è imprigionata: i pescatori hanno il mare, ma non possono pescare, se non a rischio di essere colpiti dai proiettili israeliani. C’è divieto di bagnarsi, per l’inquinamento dovuto al danneggiamento del sistema idrico di riciclo delle acque reflue. Ma i ragazzini ci sguazzano allegramente. Le navi della Flotilla per Gaza, con a bordo aiuti umanitari, sono state sequestrate al largo dai militari israeliani.
Undici anni di assedio e numerosi attacchi militari hanno stremato Gaza: ospedali al collasso, mancanza di materiali per ricostruire le strutture bombardate, esportazioni ridotte al minimo e ora anche i pesanti tagli di Trump (300 milioni di dollari) all’Unrwa, in una terra in cui i profughi sono il 70% della popolazione.
PUÒ DUNQUE SEMBRARE fuori luogo una campagna di raccolta fondi per il Conservatorio musicale Edward Said, a Gaza. Ma, mi dice Sima Khoury, la vice direttrice del Conservatorio nazionale, che ho incontrato a Ramallah: «Il bisogno di musica e di cultura è stato a lungo ignorato. L’attenzione della maggior parte dei donatori locali e internazionali si è concentrata sulle risposte umanitarie all’emergenza o sulla ricostruzione politica ed economica. Ma la musica non è un lusso. I traumi subiti dai giovani a causa delle distruzioni e delle bombe possono essere in parte curati con l’educazione musicale, il gioco, l’apprendimento».
Entrando a Gaza, vado subito a incontrare i destinatari del progetto di Cultura è Libertà: «Musica per i bambini/e contro la distruzione: borse di studio e sostegno al Conservatorio Edward Said». Ne usufruiranno ragazzini e ragazzine le cui famiglie non possono pagare mille shekel all’anno (230 euro) e contribuiranno alla sopravvivenza del Conservatorio che per ognuno spende 4.500 shekel (mille euro).
GIÀ SIMA AVEVA parlato dell’amore per la musica che c’è a Gaza. A volte le famiglie pensano che questo studio potrà dare a figlie e figli una possibilità di recarsi all’estero e trovare un lavoro. Ma la musica tra i giovani, il 70% della popolazione, significa in primo luogo possibilità di esprimersi e comunicare in una terra da cui è possibile raramente uscire, spesso solo per curarsi. Questa terra, certo povera e infelice, ma ricca di voglia di vivere e di farsi sentire dal mondo.
IL CONSERVATORIO DI GAZA sorprende: per la cura con cui è tenuto, per la quantità di bambini e bambine che lo frequentano, per la passione degli insegnanti, come Alina, russa, insegnante di violino. E poi per la scelta di dedicare gli spazi non solo alle lezioni di musica, chitarra, piano, strumenti ad archi, ma anche alle attività di gioco, lettura, cartoni animati.
Il giovane direttore, Ismail Daoud, figlio di musicisti, è lui stesso affermato suonatore di oud (liuto arabo). È felice del nostro progetto. La passione di Ismail per la musica percorre i suoi racconti nella visita che facciamo al Conservatorio, dove attualmente ci sono 200 bambini/e. Inoltre alcune decine seguono i programmi esterni, dove viene individuato chi ha maggior talento e potrà usufruire della borsa di studio per frequentare il Conservatorio.
«PER CONTINUARE abbiamo sempre bisogno di aiuti, per fortuna di recente il governo norvegese ha contribuito con suoi fondi. Cerchiamo di realizzare scambi con altri paesi e ospitiamo insegnanti di musica volontari, per brevi periodi: da cinque a 15 giorni. Siamo in contatto con il Centro italiano di scambi culturali Vik e lavoriamo anche con la Scuola di musica Al Kamandjati (la raccolta fondi sosterrà le attività dei bambini nel Festival 2019 ndr). Abbiamo un piccolo laboratorio di riparazione degli strumenti musicali dove ripareremo, ci vorrà molto lavoro, anche i tre violoncelli che abbiamo ricevuto da voi».
I tre strumenti (regalatici da un liutaio francese) li avevamo portati a Gaza tre anni fa, in vista della creazione del laboratorio di Al Kamandjati «Liutai a Gaza», che non ha però potuto realizzarsi per il perdurante divieto dell’autorità israeliana di far entrare gli insegnanti da Ramallah. I soldi raccolti allora hanno così contribuito al Festival di Al Kamandjati a Gaza, nel 2017 e nel 2018.
«Anche noi – prosegue Ismail – organizziamo un festival, in ottobre e novembre: il Sea and Freedom Festival. Nato nel 2015, presenta ogni anno in diverse città artisti locali e ospiti che si esibiscono soprattutto in generi musicali arabi. Il festival contribuisce a dare la possibilità ai palestinesi di Gaza, specialmente ai giovani, di partecipare alla vita culturale e alla produzione artistica, un loro diritto, come dice la Carta dei diritti umani delle Nazioni unite».
RICORDO CHE ALL’INIZIO del governo di Hamas, molte erano le restrizioni e i divieti nei confronti di spettacoli e musica. «Adesso non più, non abbiamo problemi. Abbiamo sempre i permessi per spettacoli e feste, con qualche limite: tener separati maschi e femmine, non far cantare in pubblico ragazze da una certa età in poi. Ma come vedete cantano tutte e i gruppi sono misti».
Tre giorni dopo vado alla bella festa, lo spettacolo di fine anno scolastico, partecipata da una quantità di bambini/e e ragazzi/e. Insieme, ballano, suonano e una ragazza con una bellissima voce si esibisce anche in un assolo.
PENSO CON TRISTEZZA che il giorno in cui sono arrivata ho visto le macerie del teatro El Meshal, bombardato e distrutto da Israele solo alcuni giorni prima, come il Villaggio degli artisti. L’attacco alla cultura è uno degli strumenti di «guerra» di Israele, con cui intende distruggere socialità e identità, mentre viola costantemente anche il diritto umano alla cultura.
Ma ho anche visto che gli indomabili ragazzi di Gaza, il giorno dopo il bombardamento, hanno tenuto un concerto sulle macerie, sopra le quali hanno scritto «Free Palestine».
Lunga vita perciò al Conservatorio Edward Said. Diamogli una mano. Per contribuire alla copertura delle borse di studio, potete partecipare al crowdfunding su https://buonacausa.org/cause/musicabambini. O visitate il sito di Cultura è Libertà palestinaculturaliberta.wordpress.com, dove trovate l’Iban dell’associazione.

La Stampa TuttoLibri 29.9.18
Bugiardo, audace e violento:, sono Mussolini, figlio del ’900
Dai fasci di combattimento, agli omicidi politici, alle donne la parabola del dittatore che “fiutò” lo spirito del tempo
di Mirella Serri


La mucca è morta per una malattia infettiva. Il veterinario per evitare il contagio ne cosparge di petrolio la carcassa e la seppellisce in una profonda fossa. Ma i contadini del Polesine riesumano la bestia e la divorano. Giacomo Matteotti - chiamato dai nemici «socialista impellicciato» poiché figlio di un ricco proprietario terriero - nella campagna elettorale e nei comizi nelle sue terre fa di questa vicenda il simbolo della fame secolare e della povertà che spingono a mangiare cadaveri putrefatti. Il deputato, detto anche Tempesta, è solo uno dei tanti protagonisti dello splendido romanzo di Antonio Scurati, M. il figlio del secolo. Con questo primo tomo - e ve ne sono in cantiere altri due per ricostruire la biografia di Benito Mussolini - lo scrittore napoletano nel suo «racconto-verità», dove persino i dettagli sono storicamente verificati, ripercorre gli esordi del Duce: la narrazione inizia il 23 marzo 1919, quando a Milano nei locali dell’Associazione Commercianti ed esercenti si riunì lo scarso manipolo di reduci che diede vita ai primi Fasci di combattimento, e termina alle ore 15 del 3 gennaio 1925 con il Capo che, «accigliato e scuro in volto», dopo l’omicidio dell’onorevole Matteotti denuncia la campagna denigratoria nei suoi confronti e dà il via al regime dispotico.
Il romanzo-documento di Scurati è un antidoto nei confronti di ogni indulgenza verso la dittatura: ci porta nelle viscere del fascismo, nel cuore dell’ascesa al potere degli ex combattenti, dei folli, dei delinquenti, dei fanatici e di tutta la «schiuma» di una terra avvelenata che riuniva i piccoli artigiani, i commercianti, gli impiegati statali i quali, dopo aver abbandonato il moschetto che non aveva regalato loro alcuna gloria, non avevano più un lavoro né mezzi di sostentamento. Come del resto gli operai e i contadini aggrediti dalla violenta crisi economica. Di questo straordinario affresco in camicia nera fanno parte non solo Gabriele D’Annunzio, Italo Balbo e Filippo Tommaso Marinetti ma anche figure meno note di quel «mondo di morti» che fu al potere per oltre vent’anni, come Michele Bombacci, uno dei fondatori del Partito Comunista d’Italia divenuto fedelissimo del Duce e poi fucilato dai partigiani a Dongo; Cesare Rossi, ex militante socialista e principale consigliere del despota; Amerigo Dùmini – picchiatore e sicario che si presentava «Dùmini otto delitti». Quest’ultimo nel 1924 fu tra i membri della Čeka del Viminale a capo del manipolo che sequestrò e accoltellò Matteotti.
Il «cerchio magico» delle belle signore che idolatrarono il Mascellone fu costituito da Margherita Sarfatti, dalla giovanissima Bianca Ceccato costretta ad abortire, da Ida Dalser che chiamò suo figlio con il nome del padre, Benito, a cui aggiunse Albino, e da Angela Curti. La dolce e remissiva Angela lo aveva avvicinato nel marzo del 1921 per ottenere la liberazione del marito ed era caduta tra le sue braccia. Divenne madre di Elena a cui Lui riconobbe una grande somiglianza con la sua «mascella quadrata».
Con un linguaggio alto, forte e ricco d’immagini, Scurati tratteggia anche le molteplici identità del tiranno abile politico e capace di imprevedibili voltafaccia. Come avvenne, per esempio, nel caso degli squadristi torinesi che si scatenarono dopo la marcia su Roma nella resa dei conti con i socialisti. Nel dicembre 1922 il feroce Piero Brandimarte che prendeva gli ordini dal monarchico fascista Cesare Maria De Vecchi, dette avvio alla mattanza per vendicare due suoi accoliti uccisi da un tramviere. In piena notte gli squadristi invasero l’abitazione di un fattorino delle tramvie e prima di assassinarlo lo torturarono davanti alla moglie e alla figlia. Poi toccò a un operaio comunista e al segretario della sezione torinese del sindacato metalmeccanici che legato per i piedi al paraurti posteriore di un camion fu trascinato per le strade del capoluogo sabaudo. Negli scontri morirono 14 uomini e vi furono 26 feriti mentre venivano date alle fiamme la Camera del Lavoro, il circolo dei ferrovieri anarchici e la sede dell’Ordine Nuovo. Mussolini protestò veemente e, indignato, definì il massacro «un’onta per la razza umana». Diceva sul serio? Per nulla. Tre giorni dopo proclamava l’amnistia per i reati di sangue a sfondo politico. E non solo: il 28 dicembre veniva istituita la Milizia Volontaria per la Sicurezza nazionale e il sanguinario Brandimarte ne diventava uno dei responsabili.
Bugiardo e spergiuro, il dittatore fu anche un Giuda pronto a liberarsi degli uomini a lui più vicini, come D’Annunzio. Oppure a far manganellare i seguaci ribelli, come il fascista dissidente Cesare Forni, bastonato in pieno giorno alla stazione di Milano. Fu anche un ottimo attore e performer: al Teatro Olimpia di Firenze, Mussolini si presentò alle folle plaudenti in tuta da aviatore come se fosse appena sceso dal suo aeroplano mentre aveva trascorso la notte tra le soffici coltri dell’hotel Baglioni. Il Duce non si smentì mai nella sua proteiforme volgarità: avvertito della scomparsa di Matteotti, mentre tutto il Paese era attanagliato dalla paura, commentò: «Sarà andato a puttane!». Subito dopo Mussolini buttava alle ortiche democrazia e libertà e con celebri passaggi oratori spalancava le porte all’assolutismo: «Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere!». Come dargli torto? Affermazioni sacrosante che non si potevano certo smentire.

La Stampa TuttoLibri 29.9.18
Sudtirolo, quando la guerra fredda esplodeva fra i monti
1961, inizia la stagione del «terrorismo» in Alto Adige Tre ragazzi vivono confusi tra idealità e sensi di colpa
di Lorenzo Mondo


Dopo avere esercitato la professione di giornalista, come inviata della Rai, in varie parti del mondo, Lilli Gruber ha ubbidito al forte richiamo della sua piccola terra natale: quella fetta montagnosa incuneata tra Austria e Italia chiamata Alto Adige o Sudtirolo, che ha avuto un singolare destino, senza uguali in Europa. L’autrice le ha dedicato una trilogia, che si è appena conclusa con un libro intitolato Inganno, difficilmente inquadrabile tra i consueti generi letterari. Diciamo intanto che i primi due volumi, Eredità e Tempesta, coprivano un arco di tempo che va dal crollo dell’impero austrungarico e dal trattato di Saint-Germain, fino al termine della seconda guerra mondiale, con la sconfitta del fascismo e del nazismo. Un periodo cruciale nella storia del Novecento, per l’Europa ma anche per il Sudtirolo che il trattato di pace del 1946 ha assegnato ancora una volta all’Italia, contro l’aspirazione degli abitanti al ricongiungimento con l’Austria o all’indipendenza. Di qui prende avvio Inganno, che pur occupandosi di un tempo minore, avulso da immani tragedie, desta un forte interesse. Anche perché si tratta di un periodo meno indagato e capace di riservare sorprese.
Bisogna risalire al giugno del 1961, una data emblematica: quando nella Notte dei Fuochi vengono fatti saltare in Sudtirolo decine di tralicci dell’elettricità. E’ lo scontro aperto tra gli attentatori che si definiscono «combattenti della libertà» e le istituzioni italiane che li considerano terroristi. Migliaia di soldati e forze dell’ordine occuperanno il territorio, di fronte al crescere di una violenza che non ha esitato a uccidere. L’estensione del fenomeno e la sua radicalizzazione lasciano tuttavia presumere che sia sfuggito di mano al numero ristretto di montanari ingenui e idealisti che ne sono all’origine. Perché, al di là dell’inquinamento provocato da gruppi neonazisti, il Sudtirolo è diventato un campo di battaglia in cui si confrontano nella guerra fredda Est ed Ovest, e rappresenta una barriera contro la temuta invasione da parte dell’Unione Sovietica. Non a caso si apprenderà che tra quelle montagne gli americani hanno installato un consistente deposito di armi nucleari. E’ uno scenario dove entrano in gioco, oltre ai terroristi, servizi segreti e agenti provocatori, funzionali a una strategia dell’emergenza che giustifichi la militarizzazione del Sudtirolo. Con deviazioni che potrebbero perfino insidiare la tenuta democratica dell’Italia. Soltanto nel 1969, con l’approvazione del pacchetto di misure per l’autonomia, il clima nella regione si è rasserenato. Questa terra di confine ha saputo trasformarsi, «con il tempo e grazie alla determinazione di molte persone di buona volontà, in un laboratorio di convivenza civile tra etnie e culture diverse, di successo economico ed equilibrio politico».
Lilli Gruber affronta queste vicende con l’approccio originale già sperimentato nei precedenti volumi della trilogia. Racconta, in prima persona e nelle vesti di giornalista, i risultati delle sue ricerche tra archivi e carte private, gli incontri, particolarmente avvincenti, con i superstiti testimoni. Ma queste pagine riescono a figliare altre storie, inventate per quanto verosimili: di alcuni ragazzi che agiscono in modo confuso nel contesto di idealità e sensi di colpa, di sacrifici e tradimenti, che si accampa sullo sfondo d’un incontaminato paesaggio montano. Come se l’autrice volesse rendere al vivo, calata in personaggi comuni, la difficoltà di non perdersi nei grovigli della Storia. Ed intendesse esaudire, per parte sua, un inappagato desiderio di raccontare.

La Stampa TuttoLibri 29.9.18
Egiziani smettiamo di ribellarci, non siamo fatti per la rivoluzione
Il fallimento della primavera araba visto da un palazzo affacciato su piazza Tahrir: tra amori contrastati, manifestanti torturati e uccisi, donne che rifiutano il velo
di Gabriele Romagnoli


Quando la censura impedisce il racconto della realtà attraverso i mezzi di comunicazione, tradizionali o da poco creati, non resta che la letteratura. Esistono sistemi di potere prossimi all’analfabetismo di ritorno, brutali nell’espressione quanto nel controllo. La forma del romanzo ne elude la sorveglianza. D’altronde, penseranno, che male può fare se riguarda un Paese come l’Egitto dove un terzo dei maschi e oltre la metà delle donne non sa leggere? Eppure gli egiziani leggono, secondo un rapporto del 2013 due ore a settimana più degli italiani. Ma a farlo è una minoranza, il resto si informa soltanto attraverso canali televisivi saldamente controllati da un governo eletto tramite un plebiscito più che sospetto. Non a caso, sei anni fa il dottor Ala Al-Aswani propose di limitare il diritto di voto a chi era in grado di leggere e scrivere. Sconfitto, è tornato alla narrativa per rivolgersi a chi, in patria e fuori, vuole sapere e capire.
Era il 2002 quando pubblicò Palazzo Yacoubian, divenuto in breve il libro in lingua araba più venduto dopo il Corano. Al Cairo governava Mubarak e le primavere arabe erano, più che lontane, inimmaginabili. Nel microcosmo dell’edificio narrato da Aswani si muovevano le maschere tragicomiche della società egiziana, dominata dal Grande Uomo. Per evitare la censura, che agisce come un computer (cerca parola), era bastato non nominare il presidente.
Sedici anni dopo, molte cose sono accadute, quasi nulla è cambiato. Ala Al-Aswani , seppur alternandola con una docenza a New York dove si sente più sicuro, esercita ancora la professione di dentista in Egitto. Mi disse che non l’avrebbe mai abbandonata per due motivi: dà maggiori garanzie economiche della letteratura e fornisce spunti perché «la gente è autentica quando sperimenta il dolore». Per una ritorsione della storia è toccato a lui sperimentarlo, e alla sua gente. Di qui la materia per Sono corso verso il Nilo. Del primo libro riprende la forma, quella di un romanzo corale intorno a un microcosmo, in questo caso piazza Tahrir, su cui le vite si affacciano, verso cui convergono e da cui dipartono dopo aver trovato l’amore o la morte, la speranza o la disillusione.
Se il giornalista americano Thanassis Cambanis in Once upon a revolution, C’era una volta la rivoluzione, era stato il più lucido a spiegare il fallimento dell’insurrezione, perché osservava la foresta da fuori e dall’alto, Aswani è il più spietato e definitivo nel raccontarla, perché lo fa dall’interno, senza sconti neppure per se stesso. Compone un mosaico di storie e non importa sapere quali e quanto aderiscano alla realtà: se tutte le vicende sono verosimili, il romanzo è vero. Procede per capitoli alternati, con la tecnica del cliffhanger, interrompendoli sul picco. C’è qualcosa di già visto, come la vicenda degli innamorati impossibili, lei figlia del capo dei Servizi, lui di un umile autista. E qualcosa di più sorprendente, come la passione, poi amore vero, che lega un gentiluomo copto, attore emarginato, e la sua domestica musulmana. Ci sono verbali di testimonianza delle torture subite e ci sono gli interessi economici italiani così diffusi e protetti in quella terra. C’è Mubarak, che essendo caduto in disgrazia può essere infine nominato. E ci sono quelli che, in quel remoto 2011, si preparavano a succedergli.
E c’è, più di ogni altra cosa, il senso di un fallimento incombente. Aswani fa dire a uno dei protagonisti che «gli piacerebbe scrivere un articolo in cui dire: Cari egiziani, prima di mandare i vostri ragazzi a morire inutilmente leggetevi la storia del vostro Paese... non siete fatti per la rivoluzione né lei è fatta per voi... Ogni volta che vi siete ribellati contro l’autorità avete fallito e le condizioni di vita sono peggiorate».
Pagina dopo pagina si affonda nel ventre dell’incoscienza popolare che è la vera causa della disfatta. Ipocrisia, corruzione, ignavia non appartengono soltanto al potere, sono le armi del suicidio di massa chiamato sottomissione, in forma religiosa e laica.
Straziante la lettera d’addio di una giovane insegnante che, dopo essere stata umiliata, ripara all’estero: «Questo popolo, per la cui libertà e dignità sono morti i migliori di noi, non sa che farsene di libertà e dignità...alla maggior parte degli egiziani sta bene la repressione, accettano la corruzione e ne sono diventati parte integrante».
Alla fine, posata la cenere, rappreso il sangue che cosa resta? Un uomo del popolo, di quel popolo apparentemente prostrato, che non si vende, conserva la memoria e si fa giustizia. E da lui può partire la rivincita.

La Stampa TuttoLibri 29.9.18
Il terrorista mette in scena i cattivi pensieri della democrazia
di Angelo Guglielmi


La Terra esiste da quando l’uomo (comunque la presenza di una «coscienza») l’ha riconosciuta. Dunque la Terra già esisteva prima di esistere. Il terrorista nasce con la modernità. Nell’Odissea Ulisse che stermina l’intera genia dei Proci non è un terrorista ma un combattente che compie una azione giusta. Sono costretto a una assoluta semplificazione perché un articolo di giornale (stretto in spazi contenuti) mi costringe di andare per le spicce (oltre il ripetere - l’ho fatto altre volte – che Daniele Giglioli, autore di All’ordine del giorno è il terrore, è un straordinario analista).
Perché nasce con la modernità? Perché (devo correre, che disgrazia!) scaduta la classicità (testimone Benjamin) dove gli uomini vivevano coralmente (che non significa senza inimicizie) all’interno di un ordine universale è intervenuto il tempo in cui l’uomo si è ritrovato individuo scoprendosi solo e separato dal suo vicino senza modelli cui ispirarsi e una tradizione cui appoggiarsi. Questa rottura avvenne tra ‘700 e ‘800 con l’illuminismo e la rivoluzione francese accadimenti in cui si fece chiaro il fondamento di ingiustizia di cui si nutriva il governo del popolo di Parigi (come di tutti quelli retti da monarchie assolute) spingendolo alla rivolta (anzi alla rivoluzione).
La rivoluzione (si direbbe oggi) è la forma asimmetrica della rivolta in cui è difficile (anzi impossibile) distinguere tra combattenti e terroristi e in quale delle due figure collocare Robespierre. È in questo brodo che cresce il terrorista moderno, in cui la nobiltà denunciata del fine della sua azione di morte, ha la verità di un losco opportunismo di comodo. Ma la violenza caratteristica di ogni parto lo è anche di quello (del parto) della democrazia (la quale garantisce la sua crescita con l’ingordigia del «capitale» e la varietà delle sue performance). Dimenticata la sua origine non gli è (alla democrazia) difficile scoprirsi virtuosa e vestire di verità la bugia iniziale. Non sa che quanto più lungo (in tempo e distanza) è quell’oblio più rapido(e ineluttabile) è il momento del rendiconto. Più distesamente Giglioli annota che «la democrazia.. ha con la morte un debito d’origine che non si riduce alla sua genesi violenta. La democrazia non è cura d’ anime. Si rivolge a dei corpi che si sanno finiti, non può fare ricorso al trascendente, promettendo premi e castighi oltremondani. Ci si gioca tutto qui e ora».
Così da oltre due secoli il terrorista è la sciagura dell’Europa e del mondo intero. Il fatto, insiste Giglioli, «è che il terrorista ci rappresenta perché mette in scena la delusione delle nostre speranze. Poca importa che in realtà è un utile idiota al servizio del contrario di ciò che rivendica: leggi di polizia, abolizione della primacy..Ciò che crede di fare è l’esplosione nell’assurdo di ciò che tutti noi abbiamo pensato di fare». Divenuto protagonista il terrorista sente l’aria del tempo e si adatta alle modalità con cui la cultura( creativa e del pensiero ) affronta le difficoltà cui è chiamata. Si affermano le avanguardie con simbolismo surrealismo e ermetismo Mallarmé celebra la pagina bianca e Marinetti adora la guerra e i terroristi ne approfittano adattandosi a quelle modalità senza rendersi conto che a quelle modalità la cultura(l’immaginario artistico) ha fatto ricorso per salvare l’arte la realtà e la vita. Loro (i terroristi) solo per ucciderle.
Conclude Giglioli: «A differenza di ciò che corrivamente si crede, il terrorismo non è il contrario della democrazia ma il suo rovescio. È la sua disperazione, il suo lato oscuro, lo spettro incombente del suo fallimento». Che (il fallimento) la democrazia non sa e non vuole (quasi fosse la condizione della sua sopravvivenza) contrastare ( con l’energia necessaria ) come oggi vediamo con l’affermazione - e non solo in Italia certo in buona parte del mondo - di nazionalismi populismi e sovranismi.

La Stampa TttoLibri 29.8.18
Se Stalin telefona di notte Pasternak rinnega l’amico
La vita da romanzo (non sempre eroico) dell’autore del “Dottor Zivago” dai poeti che non osò salvare, al dramma di Olga che per amore finisce ai lavori forzati
di Mattia Feltri


Nella Mosca di Stalin un grande pianista sta suonando Chopin. Si blocca, scoppia in lacrime, sbatte il coperchio della tastiera e lascia il palco fra la meraviglia e il clamore del pubblico. Il pianista si chiama Genrikh Neigaus. Sua moglie, Zinajda, lo ha appena lasciato per mettersi col suo migliore amico, il sommo poeta Boris Pasternak. Potrebbe essere la trama classica di una commedia di Hollywood, è invece la superficie dello sprofondo. Pasternak, per avere la donna, ha ingoiato un tubetto di medicinali. Lei lo salva e si strazia. Lui lascia la prima moglie e il figlio e va a vivere con lei. Finché non incontrerà la giovane Olga, le darà appuntamento sotto una statua di Puškin, le parlerà a lungo, la congederà per poi raggiungerla a casa: Olga, mi sono scordato la cosa più importante, io ti amo.
Le cose belle costano care. L’amore di Pasternak costerà a Olga la fortuna inestimabile. Pasternak è l’intoccabile – lasciatemi stare questo abitante delle nuvole, diceva Stalin agli aguzzini con gli artigli affilati. Pasternak sa incatenare le parole, le sa far suonare, e ha paura, controlla che non una sillaba stoni con le aspettative di regime. Attorno a lui camminano uomini morenti, poeti che temono la tirannia, e la affrontano. Marina Cvetaeva gli scrive lettere crepitanti – quanto saremmo stati felici insieme, avremmo cantato in questo e quell’altro mondo. Lui abbandona la lirica – quanto ti amo! Sono separati da chilometri, da storie in cui sono entrati a capofitto, dal disastro dei tempi, e dall’indole imbelle di Pasternak. Lei, sempre in disgrazia, senza lavoro, senza soldi, senza una mano tesa («sono sola, sono un deserto umano»), troverà un chiodo a cui impiccarsi. Anna Achmatova per la polizia culturale non è una poetessa, è metà suora e metà sgualdrina. Suo marito, il poeta Nikolaj Gumilev, era stato arrestato e fucilato per cospirazione monarchica, e Anna imparò a memoria le sue poesie perché non lasciassero traccia ma avessero un futuro. Sarà arrestato anche il secondo marito, e pure Lev, il figlio di Anna; lei trascorre l’esistenza dentro una tana di terrore e di irriducibile resistenza, coltivando ammirazione e affetto per Pasternak, il maestro che non ha mai un problema. E poi Osip Mandelstam, forse il più grande, schiena drittissima, convoca gli amici e recita un epigramma in cui Stalin è il montanaro del Cremlino, ha dita grasse come larve, baffi di scarafaggio, un antropofago per cui ogni omicidio è un banchetto. Non può durare tanta sfrontatezza. Lo arrestano, lo condannano al gulag, muore durante il trasferimento. Stalin chiama Pasternak nel cuore della notte, gli chiede di Mandelstam, Pasternak balbetta, si scansa di lato, cerca di cambiare discorso, Stalin prova ribrezzo – non hai nemmeno saputo difendere un compagno, io per un amico mi sarei fatto in quattro.
Questo non è un libro, è uno strepitoso, desolante ed esaltante balletto di fantasmi che volteggiano nella più allucinata e inafferrabile dittatura del Novecento. Esaltante perché poi la soluzione è nel titolo – Il senso di colpa del dottor Zivago. Pierluigi Battista ci porta dritti verso l’unica cosa che conta delle nostre vite: non possiamo essere migliori degli altri, possiamo soltanto cercare di essere migliori di noi stessi. E dunque si deve tornare a Olga, la giovane Olga che si innamora di Pasternak sotto la statua di Puškin, e che di notte viene presa, portata alla Lubjanka, condannata ai lavori forzati. Ogni cedimento, ogni piccolo sbandamento del poeta non può che dipendere da quest’anima nera di donna. Anche Olga diventa un fantasma che danza attorno a Pasternak. Non ha saputo proteggerla, come non ha saputo proteggere la prima e la seconda moglie, ha allungato giusto qualche rublo a Mandelstam e a Cvetaeva, ha dimenticato Achmatova, ha assistito al loro tracollo e quello di tanti altri col dolore attutito dal muro di protezione che si era costruito attorno. E lì che mette mano alla sua unica opera in prosa, il romanzo progettato per decenni – Il dottor Zivago. Olga è Lara, lui è Jurij, i loro indici sono puntati dritti contro il male sovietico, e il domani non avrà pace, ma Pasternak saluterà finalmente la folla dei fantasmi guardandoli negli occhi.

La Stampa TuttoLibri 29.9.18
“C’è un vento che spaventa nella mia Svezia della libertà”
La scrittrice nata in Iran racconta la storia dell’esule Nahid, gravemente malata Rabbia e voglia di lottare la riportano alle manifestazioni giovanili contro lo scià
di Elena Masuelli


Quando gli studenti scendevano in piazza contro l’ultimo scià di Persia, Golnaz Hashemzadeh Bonde non era ancora nata. Ma è in quella voglia di libertà e contestazione, nella determinazione a mettere la propria vita in gioco per un ideale, senza mai pentirsi di averlo fatto, che affonda (e ricerca) le radici Un popolo di roccia e vento, primo romanzo pubblicato in Italia dell’autrice iraniana arrivata in Svezia bambina, nel 1986, insieme ai genitori esuli: la scrittura è diventata il filo che la tiene legata alle sue origini. Così racconta di Nahid, cinquantenne nata a Teheran e rifugiata nel Paese scandinavo, cui viene diagnosticata una malattia senza speranza. L’ostinazione la spinge a riguardare alla se stessa diciottenne, talentuosa e volitiva, e a Masood, affascinante rivoltoso conosciuto alla facoltà di Medicina e seguito nelle manifestazioni del 1977 piene di speranze finite nel sangue. Alle notti rubate allo studio passate a discutere di democrazia, con quel senso di immortalità di chi si sente dalla parte della ragione, all’ultimo corteo costato la vita alla minore delle sue sei sorelle. Dopo il matrimonio e la nascita di una bambina, la fuga e il divorzio, la solitudine: «Non avremmo dovuto vivere così a lungo. Avremmo dovuto morire durante la rivoluzione- pensa-. O sotto le sue macerie».
In Svezia crescono gli estremismi e un pericoloso vento razzista. Cosa è cambiato?
«Quando ero piccola c’era poca dimestichezza con lo straniero, ho provato sulla pelle la diffidenza. Ma adesso i flussi migratori senza un piano, spaventano le persone. La Svezia deve ripensare la sua politica umanitaria, renderla più sostenibile. Libertà, tolleranza e uguaglianza restano per me i valori fondanti del popolo svedese. Le derive cui stiamo assistendo sono ostinate e preoccupanti, fanno paura, ma ho scelto di considerarle come qualcosa di temporaneo».
Quanta vita vissuta in questo romanzo?
«È ispirato alla generazione dei miei genitori, scomparsi entrambi giovani, non avevano ancora 50 anni. La mia sensazione è che il loro destino sia stato determinato dal trauma della rivoluzione, dalla fatica spesa nel ricostruirsi esistenza e identità in un paese straniero. Di questo volevo raccontare».
Scrive che la fuga «contamina il sangue». Cosa significa scappare?
«La prima frase che ho scritto di questo libro è: “Uno non se ne va perché ha rinunciato. Parte per costruire qualcosa di nuovo”. È stato molto importante nella mia esperienza di figlia di rifugiati: te ne vai perché vuoi sopravvivere, ma anche perché hai un forte desiderio di lottare. Un cambio di pelle agrodolce, fondamentale ma anche molto doloroso».
È una storia di relazioni ed eredità femminili, di solidarietà e orgoglio. Cosa lega donne così diverse?
«Le unisce è l’inevitabilità del patrimonio sociale. Credo sia un concetto interessante, perché non ha bisogno di essere lineare. Quando la protagonista scopre di essere malata, sta per nascere una nipote che sarà libera grazie alle sue lotte, ma erediterà anche la sofferenza di sua madre, che rimane orfana. Nel 2014, in pochi mesi, ho avuto la mia prima figlia e sono morte prima mia nonna e poi mia madre. Mi sono ritrovato a tenere il futuro tra le braccia, ma allo stesso tempo a salutare le mie origini. Quel senso di perdita così lacerante mi ha fatto pensare a come il dolore e i sacrifici di chi ci ha preceduto ci abbiano permesso di essere chi siamo».
Perché la protagonista è una donna profondamente arrabbiata?
«Sente che la vita l’ha maltrattata nonostante abbia lavorato duramente. In cambio di grandi sogni e grandi speranze ha avuto enormi perdite. E invece di essere triste, è in collera. È un aspetto importante di questo romanzo: la rabbia di un personaggio femminile è spesso vista come qualcosa di negativo. Ma Nahid è cruda e onesta, può non essere simpatica, ma si finisce con amarla, perché condividendo la sua storia, si capisce e si apprezza persino la sua rabbia».
Questo stato d’animo le rende difficile essere madre?
«Si porta dentro un vuoto da riempire: vuole qualcuno che la ami, che la accudisca. Ma ciò non accade, mentre lei si sente in dovere di dare affetto incondizionato a sua figlia e fare sacrifici per lei . Non riesce a venire a patti con questo. Il suo bisogno è troppo profondo».
Una donna «di sabbia», è così che si sente dopo avere lasciato la sua terra. Ma sa che la nipote sarà una «creatura di radici», è questa la sua salvezza?
« È stata costretta ad abbandonare la sua storia e ricercherà per sempre quello a cui ha dovuto rinunciare, non si rassegna. La piccola che sta per nascere le regala un senso di vittoria e riscatto, perché sa che è grazie a lei se potrà vivere in libertà nello stesso luogo in cui è nata».
Come guarda oggi al Paese dei suoi genitori, alla condizione femminile?
«Ammiro le donne iraniane. Seguo la loro lotta per una maggiore indipendenza e spero che la raggiungeranno molto presto».
Dall’Iran Nahid e suo marito arrivano in Svezia portando con loro solo con un tappeto. Molto più che un semplice oggetto.
«Ha un ruolo centrale nella quotidianità iraniana. La maggior parte delle persone trascorre il tempo dedicato alle relazioni sociali lì seduta, mangiando insieme, dormendoci sopra. Molto oltre un semplice esempio di bell’artigianato, in qualche caso una vera opere d’arte: il tappeto regala senso di sicurezza, è un simbolo di appartenenza, significa casa».
Il rapporto fra le protagoniste è segnato dalla musica della cantante Googoosh, iraniana ed esule. Cosa rappresenta, anche per lei?
«È la chiave per accedere a ciò che hai di più intimo. Ricordi, emozioni, persino la sensazione di essere nel posto cui appartieni. Io la sento ancora fortemente, anche se sono passati trentadue anni da quando la mia famiglia è fuggita dall’Iran e io avevo solo tre anni. La musica è il mio legame con la cultura persiana. Io non parlo il farsi con i miei figli, ma canto loro queste vecchie canzoni e loro ne imparano il profondo significato. E ogni volta che canto in farsi, mia figlia mi guarda e mi chiede: “Ti mancano la mamma e il papà?”».

Il Fatto 29.9.18
“Così ho inventato Internet e la porterò su altri pianeti”
Il vicepresidente di Google racconta come nel 1973 ebbe l’intuizione alla base di una rete di reti. Oggi lavora a progetti per la connessione nello spazio
Fin dal 1969. Negli anni Sessanta Internet era un progetto del governo per la Difesa
di Piergiorgio Odifreddi


Dopo una conversazione Vint Cerf, sempre impeccabile in un completo a tre pezzi, con il fazzoletto nel taschino e la spilla sulla cravatta, porge al suo interlocutore il proprio biglietto da visita: “Vicepresidente di Google e Sommo Evangelista di Internet”.
La comunità informatica definisce Cerf il “padre di Internet”, l’ha premiato con il premio Turing nel 2004 e gli ha conferito una trentina di lauree honoris causa in tutto il mondo. Al meeting dei premi Turing di Heildelberg, da dove Cerf si trasferirà direttamente al Wired Festival di Firenze, ci siamo fatti raccontare il passato e il futuro della sua creatura.
Com’è diventato il “padre di Internet”?
Dietro alle cose complesse non c’è mai solo una persona. Nel 1969 era già stata costruita la rete di computer del Dipartimento della Difesa americano chiamata Arpanet. Nel 1972 Bob Kahn entrò nel loro gruppo e notò che per essere usata militarmente, la rete avrebbe dovuto collegare non soltanto le comunicazioni via cavo dei computer, ma anche quelle via radio delle navi e via satellite degli aerei.
Alle origini c’era dunque un problema tecnico?
Esattamente. Esistevano tre diversi protocolli di comunicazione, ciascuno con le proprie caratteristiche, la propria velocità di trasmissione e la propria frequenza di errori. E sorse il problema di farli parlare tutti fra loro, in maniera intercambiabile, mantenendo le varie reti di comunicazione intatte. La soluzione fu di scrivere un programma che dicesse ai computer quando e come collegarsi all’uno o all’altro sistema, e permettesse di passare in maniera indolore dall’una all’altra rete.
E qui lei entrò in scena?
Sì. Nel 1973 Kahn e io decidemmo di usare una specie di sistema postale, in cui le lettere contenevano le comunicazioni dei vari sistemi, e sulle buste stavano gli indirizzi delle varie reti a cui esse erano destinate. Nessuna di queste reti sapeva di essere stata connessa a una rete globale interconnessa, che divenne appunto Internet.
In che anno il sistema iniziò a funzionare?
Il nostro Protocollo per il Controllo delle Trasmissioni (tcp/ip) fu pubblicato nel 1974 e standardizzato nel 1978. Il 1º gennaio 1983 nacque ufficialmente Internet. Agli inizi connetteva solo gli Stati Uniti e alcuni Stati europei (Inghilterra, Germania, Italia), ed era limitato all’uso governativo.
Poco dopo iniziammo a usarlo in università.
La National Science Foundation capì subito che si potevano collegare fra loro migliaia di istituzioni accademiche. Poi entrarono in gioco altre istituzioni, dal Dipartimento per l’Energia alla Nasa. Agli inizi il governo non permetteva di trasmettere comunicazioni commerciali, ma nel 1989 io riuscii a ottenere il permesso di connettere a Internet il primo sistema privato di posta elettronica. E la rete si aprì al mercato e al mondo.
Ma l’email non era ancora il World Wide Web.
No, quello lo fece Tim Berners-Lee nel 1991, quando lavorava al Cern in Svizzera. Ma agli inizi nessuno se ne accorse, a parte due persone al Centro nazionale per le applicazioni dei supercomputer di Urbana-Champaign, che costruirono il primo browser: si chiamava Mosaic, mutò Internet in un rotocalco, e stimolò la diffusione della rete. Poi, quando la quantità di informazioni divenne difficile da gestire, arrivarono i motori di ricerca. Insomma, Internet non ha avuto un solo padre…
Ma grazie agli smart phone ha molti figli degeneri, che spesso sembrano solo dumb phonies.
Però gli smart phone sono stati un’idea geniale! È stato Steve Jobs a pensare di integrare i cellulari con le macchine fotografiche e con la rete. Il tutto è diventato maggiore della somma delle parti. Sono passati solo undici anni dall’arrivo degli smart phone nel 2007, ma sembra un’era geologica.
Ma l’integrazione delle funzioni era già stata prevista nel 1995 da Bill Gates, nel libro La strada che porta al domani. E risaliva comunque ad Alan Turing, più di mezzo secolo prima.
Ma c’è una bella differenza tra il dire e il fare. E Jobs non solo l’ha fatto, ma ha prodotto qualcosa che nessuno sapeva di volere. La Nokia aveva già ampliato il concetto di cellulare, ma Jobs ne ha prodotto una versione integrata e facile da usare, con schermi tattili e le icone.
Dove sta andando Internet?
Verso l’“Internet delle cose”: cioè, la connessione non solo fra i computer, ma fra gli oggetti più disparati, dagli elettrodomestici alle auto. E verso un “Internet planetario”: l’estensione delle connessioni dalla Terra ai pianeti del sistema solare.
Si tratta soltanto di dire, per ora, o già di fare?
Molto è già stato fatto. A partire dal 2004 abbiamo messo i prototipi dei protocolli interplanetari sui Rover che esplorano Marte. Nel 2005 abbiamo connesso la sonda Deep Impact che ha visitato la cometa Tempel 1. E nel 2010 abbiamo installato l’ultima versione sulla Stazione spaziale internazionale, addestrando gli astronauti a usarla.
Quali sono gli ostacoli tecnici da superare?
Uno è il ritardo nelle comunicazioni, che diventa significativo a distanze cosmiche. Stiamo sperimentando trasmissioni laser ad alta velocità, e abbiamo fatto test consonde che orbitano attorno alla Luna e a Marte. Purtroppo non possiamo usare i Voyager, arrivati a una ventina di ore luce dalla Terra, perché la loro tecnologia è obsoleta per queste cose. Un altro problema è il fatto che i pianeti si muovono attorno al Sole, e le loro distanze relative cambiano continuamente. Il ritardo nelle comunicazioni è dunque variabile: tra la Terra e Marte va da tre minuti e mezzo alla minima distanza a venti minuti alla massima. I pianeti ruotano attorno a sé stessi, e questo provoca problemi se si trasmettono segnali da postazioni poste sulla loro superficie.
Succedeva anche nelle prime missioni lunari, quando la navicella passava dietro alla Luna.
Esatto. Sulla Terra abbiamo tre grandi ricevitori, in Spagna, in California e in Australia. Su Marte abbiamo invece riprogrammato i due satelliti in orbita, che in origine mappavano il terreno, per ricevere le comunicazioni dai Rover e ritrasmetterle al momento opportuno. Faremo lo stesso anche su altri pianeti.
Vedo che lei non è solo un evangelista di Internet, ma anche il suo profeta. Ha mai sentito parlare del gesuita Teilhard de Chardin, e della sua nozione di “noosfera”?
No. Ma il prefisso mi suona pericolosamente simile a quello della “noetica”, pseudoscienza propagandata da Edgar Mitchell, uno degli astronauti che misero piede sulla Luna. Io però preferisco rimanere con i piedi ben saldi nella scienza.

Corriere 29.9.18
L’appuntamento
L’invisibile rivelato
Una mostra a Rovigo illustra la (sottile) influenza che le pratiche arcane hanno avuto su molti pittori e scultori tra Otto e Novecento. Aprendo la strada all’astratto
di Melisa Garzonio


Streghe, formule e segreti l’arte sedotta dalla magia
Silenzio. Voce all’occulto. La ragazza bruna fasciata di blu di Giorgio Kienerk (pannello centrale di L’enigma umano , 1900) le mani strette sulla bocca, mette sull’avviso, non dite parola, lasciate che siano i demoni, i vampiri e i fantasmi a parlare per voi, guidandovi nel percorso della mostra ad alta suggestione misterica, che apre a Rovigo, a Palazzo Roverella: «Arte e magia. Il fascino dell’esoterismo in Europa».
«Osare, volere, sapere, tacere. Per accedere al segreto iniziatico», non scherza il curatore Francesco Parisi, che per mesi ha dovuto affrontare un’impressionante folla di creature notturne partorite dal lato oscuro di artisti, qualcuno insospettabile, presi dal desiderio di indagare l’occulto, il sogno, l’inconscio. «Tra il 1880 e il 1925 in Europa l’interesse per l’occulto e le dottrine esoteriche s’impenna con prepotenza. Nasce la psicoanalisi, e nuove correnti artistiche che elaborano in linguaggio figurativo il concetto di inconscio, come il Simbolismo» spiega Parisi. La mostra parte da qui, dall’invito al silenzio imposto con grazia da Odilon Redon e Carlos Schwabe, pittori di donne angelicate e contornate di fiori, fino alla sfinge severa in marmo di Leonardo Bistolfi, al busto di donna in gres di Jean Dampt che intimorisce il visitatore col ditino alzato.
L’apparato iconografico è inquietante. Demoni e streghe in un percorso di fuoco e sguardi saettanti. La strega nuda e il gatto di Paul–Elie Ranson guata chi le passa a tiro sdraiata tra fuochi e rospi; se vi spostate a rimirare impietositi la Donna dannata di Georges De Feure, spalmata su gouache, rischiate di trovarvi nel cul de sac del Vicolo delle streghe di Paul Bürck, vis-à-vis con il drammatico Streghe nella burrasca di James Ensor. Il viaggio negli orrori – ma attenti, alcune streghe sono bellissime, come la rossa roteante verso il cielo sulla scopa magica di Luis Ricardo Faléro — propone vampiri e animali mostruosi. C’è anche Satana, ma è poco credibile, pur se dotato di maschera nera e cornini, come nella versione pettoruta e con la pelle color brace che ne dà George Frederick Watts. Vuoi mettere l’ansia che trasmettono Gli occhi degli angeli dipinti in azzurro e oro da Raoul Dal Molin Ferenzona, uno degli artisti più coinvolti dalla simbologia dei significati arcani degli anni Venti? Dopo i «mostri» il percorso conduce nei luoghi deputati al mistero, i templi sacri dei segreti iniziatici. Benvenuto Benvenuti ci accoglie nella sua Casa delle armonie celesti o Palazzo per musica, Hermann Obrist è rappresentato da due sculture in gesso: Movimento e Progetto per un monumento. Ma non è facile staccare gli occhi dal dipinto del pittore nabis Paul Sérusier L’incantesimo o il Bosco sacro dove si rappresenta un rito iniziatico all’aperto, perché «la natura è un tempio» come diceva Baudelaire, guru dei simbolisti. Le sezioni sono dodici, gli artisti più di 30, tutti sedotti dalle correnti esoteriche in voga tra il 1880 e gli anni successivi alla prima guerra mondiale, e non ci si ferma all’area simbolista. A partire dalla Francia e dal Belgio la cultura riservata ai discepoli, o agli iniziati, fece proseliti coinvolgendo arti figurative, letteratura e architettura del Vecchio Continente, convertendo alla moda dello spiritismo — nato in Usa con le sorelle Fox e confermato in Francia con i Salon de la Rose+Croix — un po’ tutti, dai protagonisti del simbolismo internazionale alle prime avanguardie del Novecento e poi Futurismo e Astrattismo.
Piet Mondrian, per esempio, che prima della svolta astratta ci regala una sfilata di undici pioppi in rosso, giallo, verde e blu; Vassily Kandinsky che invita all’astrazione spirituale con uno sgargiante Rosso in forma appuntita, e il delicatissimo Primaveriris firmato FuturBalla, alias Giacomo Balla. E poi Klee, Itten e tanti altri appassionati dell’invisibile.

Corriere 29.9.18
Il dito sulle labbra e altri segni
Piccolo vocabolario esoterico
di Francesca Bonazzoli


Numerosi i simboli dell’occulto nell’arte. Dal Medio Evo a Duchamp
Nelle loro botteghe, a contatto con pietre esotiche da macinare per trarne polvere colorata come il prezioso blu di lapislazzuli, oppure chini sui vapori velenosi delle «acque forti» per trasformare i graffi su una lastra di rame in immagini, gli artisti hanno sempre frequentato la mitologia dell’oscuro dove le fantasie prendevano forme simboliche ed esoteriche. Chi le creava, le sapeva interpretare o le collezionava, possedeva i più importanti strumenti di conoscenza all’interno del sistema del sapere. Gli artisti erano dunque fra gli iniziati e ai migliori di loro, filosofi, teologi e scienziati affidavano formule e schemi da riportare in mappe, disegni, grandi cicli di affreschi come nel Palazzo della Ragione, a Padova, o nel Salone dei Mesi del ferrarese Palazzo Schifanoia.
Anche dopo il Medio Evo, con l’Umanesimo, la creazione artistica continuò a produrre una grande quantità di immagini di matrice ermetica, alchemica e cabalistica. Basti pensare a Botticelli, Piero di Cosimo, Leonardo, Dürer, Michelangelo, Parmigianino e Beccafumi, in un elenco che arriva al Manierismo, stile per eccellenza degli enigmi. Nei secoli successivi il fascino dell’iconografia esoterica riemerge continuamente nelle vanitas fiamminghe; nei sabba di Callot, Magnasco o Goya; nelle opere visionarie di pittori come Füssli e Blake; in correnti artistiche come il Surrealismo, il Simbolismo o l’Astrattismo. Si può dunque affermare che il sapere esoterico si sia tramandato proprio grazie all’arte e pochi artisti hanno saputo sfuggire all’orgogliosa consapevolezza di far parte di una casta custode di un antico repertorio iconografico.
Nemmeno il dissacratore dadaista Marcel Duchamp, autore, nel 1915, di una delle opere più misteriose del Novecento, il «Grande vetro (La sposa messa a nudo dai suoi scapoli, anche)» di cui in mostra è esposta la versione ad acquaforte. La sua interpretazione è un rebus che porta a pensare si tratti di un’illustrazione delle «Nozze chimiche», motivo allegorico che esprime l’unione armonica dei principi all’origine dell’equilibrio del cosmo, ossia la riconciliazione tra la parte maschile e femminile della nostra psiche.
Un’altra delle immagini più antiche è quella del dito sulle labbra, il «signum arpocraticum», dal nome di Horus, o Arpocrate, il piccolo figlio di Iside: è contemporaneamente gesto del silenzio e dell’ascolto che allude all’Altro per ottenere, come lo spiegò Dumézil, «la concentrazione di un’efficacia magica che la parola pronunciata non possiede». Ma ogni risveglio esoterico ha trovato le sue iconografie più congeniali: fra quelle amate dal Simbolismo c’è senz’altro l’erotismo illustrato da una galleria di donne fatali, da Giuditta, Salomé, a Meduse, Sfingi, Sirene, Chimere: tutti esseri che trasmettono il mal d’amore, o morte magica, paragonabile all’estasi mistica e al raptus che discende dal contatto con la divinità, pericoloso fino alla morte.
Il paesaggio, invece, è un tema limitato soprattutto alla foresta misteriosa;al contrario, fra gli animali si trova una grande ricchezza che spazia dal caprone che presiede ai rituali sabbatici come simbolo del diavolo associato alla lussuria, alla civetta, simbolo della Sapienza, personificazione della Notte e attributo del Regno del Sonno, fratello di Tanato, la Morte. Altra immagine molto frequentata è la scala per indicare la conquista dell’elevazione filosofica, mistica ed esoterica, anello di congiunzione fra la vita quotidiana e la Grande Opera.
Allo stesso modo la comparsa di monti, rocce e città turrite, luoghi iniziatici cui solo il sapiente ha accesso, allude all’ascesi spirituale verso i mondi superiori del cosmo e al viaggio iniziatico per conquistare la sapienza e purificare la materia dell’essere umano con lo scopo di far emergere la sua parte divina. Anche le lampade, richiamo al fuoco alchemico insieme generatore e distruttore, sono l’agente che accelera il processo verso la perfezione.
I simboli sono dunque numerosi e diversi, ma il filo rosso che unisce la mano di tutti gli artisti-alchimisti è l’idea che lo spirito prevale sulla materia, l’invisibile sul visibile. Un percorso dello «spirituale nell’arte» attraverso cui Kandinsky giunse a inventare un’ulteriore nuova forma artistica: quella dell’astrazione.