Il Fatto 17.9.18
Appia scordata e senza fondi. La Grande Bellezza è perduta
Le
meraviglie abbandonate - Per la Regina Viarum si è passati dall’idea
(sbagliata) Benetton al totale nulla. Però c’è chi combatte
di Tomaso Montanari
“O
via Appia, consacrata da Cesare venerato sotto l’effigie di Ercole, tu
che superi in celebrità tutte le italiche vie …”: l’invocazione di
Marziale risuona oggi come una disperata richiesta di aiuto. Sembra
quasi che all’Appia Antica si voglia far pagare il no di quattro anni fa
alla Società Autostrade. Pochi oggi lo ricordano, ma nell’estate del
2014 divampò furiosa una battaglia di opinione intorno al tentativo di
aggiungere la Regina Viarum al vasto regno dei Benetton.
Lo scopo
di Autostrade era evidente: ripulire la propria immagine associandola
alla Grande Bellezza. Lo stesso perseguito dalla Fondazione Benetton,
che promuove da anni un progetto dedicato all’articolo 9 della
Costituzione (i signori dell’asfalto paladini del paesaggio!), e che
anche dopo Genova continua a proporre con ammirevole disinvoltura la
“cittadinanza attiva attraverso la cultura e il patrimonio artistico”.
Ma in quel 2014 la campagna di Autostrade dovette fare i conti con la
sollevazione delle associazioni e dei cittadini che hanno a cuore il
bene comune. Se mi è permesso, ricordo che io stesso mi chiesi, su
questo giornale: “Siamo proprio sicuri che sia opportuno permettere ad
Autostrade di sommare al monopolio sulle scelte infrastrutturali
strategiche del Paese anche il governo dell’Appia? Ed è giusto che chi
mangia (per esempio) il prezioso territorio del Parco Agricolo di Milano
Sud con la costruzione della Tangenziale Esterna, voluta da Maurizio
Lupi e legata all’Expo, possa poi presentarsi ai cittadini come il
generoso paladino del verde dell’Appia?”. Alla fine l’operazione Grand
Tour si fermò: ma il prezzo da pagare fu alto, e la vendetta dei vertici
del ministero di Dario Franceschini prese le forme più tipiche del non
governo democristiano: la più totale inerzia.
Oggi è Rita Paris,
l’esemplare archeologa che dirige il Parco dell’Appia Antica, a fare i
conti con i danni provocati da questo abbandono politico e da una
stagione di riforme concepite in odio alla tutela del patrimonio
culturale. Lungo vent’anni Rita Paris ha proseguito le battaglie del
grande apostolo dell’Appia, Antonio Cederna: che denunciò con forza i
gangsters (parola sua) che avevano ridotto la strada più bella del mondo
a “canale di scolo dei nuovi quartieri: tagliata, sminuzzata,
sventrata”, e sognò che essa potesse diventare, attraverso un
collegamento pedonale continuo con il Colosseo e i Fori Imperiali, un
unico grande polmone verde e archeologico per Roma. Ebbene, Paris ha
riportato l’Appia alla condizione di monumento, liberandola dall’asfalto
su cui sfrecciavano le auto di lusso dei gangsters, scavando,
restaurando e acquisendo pezzi di patrimonio, aprendo al pubblico
monumenti e siti che prima erano il simbolo del degrado e dello sfregio
al patrimonio. E non basta: con un’opera instancabile di comunicazione e
di accoglienza, sotto la sua direzione si è messa al centro la
creazione e la redistribuzione della conoscenza attraverso un
laboratorio continuo indirizzato alla conservazione del patrimonio
all’aperto e allo studio del paesaggio, che qui è davvero straordinario.
Insomma, un lavoro eccellente: che dimostra che lo Stato può anche
funzionare alla grande, pur con mezzi risicatissimi. Ma ora anche quei
mezzi sono esauriti: manca il personale, e (a causa del dissennato
spezzatino a cui la riforma Franceschini ha ridotto le soprintendenze
romane) mancano drammaticamente gli spazi, le sedi e gli strumenti di
lavoro, così che anche i nuovi archeologi rimangono inutilizzati.
Soprattutto
mancano i finanziamenti: e le conseguenze potrebbero essere
drammatiche. Ricordate la scena della Grande Bellezza in cui Anita
Kravos prende a testate l’Acquedotto Claudio, uno dei monumenti più
celebri dell’Appia? Ebbene, oggi potrebbe essere rischioso anche solo
passeggiarci sotto: il collasso dei grandi blocchi che coprono il canale
delle acque potrebbe determinare la caduta di frammenti di pietra dalle
arcate. E dunque o si interviene subito, o si sarà presto costretti a
transennare l’acquedotto: un’immagine devastante, che farebbe il giro
del mondo.
Oltre a tamponare le urgenze, e a mettere in sicurezza
molti altri luoghi cruciali del Parco, i soldi servirebbero a rendere
visibili parti immense del parco: come la straordinaria Villa di Sette
Bassi, con un’area archeologica estesa quanto Pompei e oggi del tutto
inaccessibile. E poi la ricerca: un lusso che nel patrimonio culturale
nessuno può più permettersi. Non si possono catalogare e studiare i
nuovi reperti né si riesce a far funzionare l’archivio di Cederna che
proprio lì è conservato.
E la divulgazione: le condizioni del
bilancio dell’Appia sono tali che non si possono più nemmeno ristampare
le guide e l’eccellente materiale didattico. L’aspetto paradossale della
vicenda è che i soldi ci sarebbero: a partire dai venti milioni di euro
(pari a oltre quindici anni di bilancio dell’Appia!) stanziati (ma mai
erogati) dal Ministero per il progetto Appia Regina Viarum nato
dall’ispirato libro di Paolo Rumiz: un’esperienza, importante e
celebratissima, cui però nulla è seguito. Se il ministro Alberto
Bonisoli vuole davvero dare quel segnale di inversione di rotta che
stenta a farsi sentire, può cominciare dall’Appia: ascoltando Rita
Paris, e dandole gli strumenti per continuare il suo straordinario
lavoro.
Quando Cederna fu eletto deputato della Repubblica, la
Società Autostrade gli fece recapitare una delle prime mountain bike.
Cederna la donò a don Guanella, rispedendone la ricevuta di consegna ad
Autostrade: perché non voleva essere in debito con i suoi avversari. Per
la sua coerenza Cederna fu sempre un isolato: oggi non vorremmo che
fosse l’Appia a dover pagare il prezzo della propria libertà. Che è la
nostra.