lunedì 13 agosto 2018

Corriere 13.8.18
L’appello di Aquarius: la Ue ci trovi un porto
È in mare da due giorni con 141 migranti a bordo: «Cinque navi li hanno ignorati». Roma: chiedano alla Libia
di Marta Serafini


«I governi europei trovino un porto sicuro per i migranti soccorsi da Aquarius». Lancia il suo appello il personale della nave di Sos Méditerranée e Medici Senza Frontiere che venerdì ha soccorso in due operazioni 141 persone al largo della costa libica di Zuwarah mentre erano alla deriva su due barconi di piccola e media grandezza. A bordo, anche 67 minori accompagnati e due donne incinte.
Somalia, Eritrea. Sono queste nel 70% dei casi i Paesi di provenienza. Sul ponte c’è spazio per i sorrisi e gli abbracci, ma c’è anche chi si è sentito male. I migranti, nessuno in pericolo di vita ma tutti molto debilitati dopo aver subito abusi in Libia e aver trascorso alla deriva anche 35 ore, hanno raccontato di essere stati ignorati da cinque navi. Un comportamento che, per le ong, è la spia di un rischio: quello che venga meno il principio di soccorso in mare, sancito dal diritto internazionale. L’ipotesi è che le navi di passaggio decidano di non aiutare i migranti per evitare di rimanere bloccate dai veti incrociati dei vari governi e vedersi negare un porto di sbarco per giorni, come già capitato al rimorchiatore Vos Thalassa e al mercantile Alexander Maersk.
Ed è quello che Aquarius ora rischia, se dalla Francia o dalla Spagna o da un altro stato europeo non dovesse arrivare l’indicazione di un porto sicuro. Dalla nave, in un comunicato, fanno sapere di avere in entrambi gli eventi di soccorso informato tutte le autorità competenti tra cui i Centri nazionali di coordinamento del soccorso marittimo (MRCC) di Italia, Malta e Tunisia oltre al Centro di coordinamento congiunto di soccorso (JRCC) libico. Ma se dalla Libia via radio hanno dato indicazione — per lo più in arabo, come riporta la giornalista Angela Gennaro del Fatto Quotidiano che si trova a bordo — di rivolgersi a Malta e all’Italia, secondo quanto si legge sul diario di bordo della nave disponibile online sul sito onboard-aquarius.org già alle 21.45 di venerdì La Valletta ha risposto di non avere intenzione di coordinare l’assegnazione del Pos (il cosiddetto porto sicuro).
Da Malta la questione è rimbalzata in Italia. Sabato il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha spiegato ai microfoni del Giornale Radio di Rai Uno di non avere intenzione di aprire i porti italiani ad Aquarius «nave tedesca, che batte bandiera di Gibilterra e che ha bordo personale straniero». Parole cui ieri sera ha fatto seguito l’indicazione del Centro di coordinamento della Guardia Costiera italiana ad Aquarius di rivolgersi a Tripoli dato che la richiesta è arrivata mentre la nave era in acque Sar libiche.
Mentre il rimpallo continua, dunque la situazione si complica. La nave durante il suo stop a Marsiglia è stata attrezzata per traversate più lunghe. Ma con il passare delle ore è facile che la tensione a bordo salga, come già capitato in giugno quando Aquarius passò tre giorni ferma al largo di Malta, prima di ricevere il via libera dalla Spagna e partire alla volta in Valencia. E in attesa che da terra arrivi un segnale, Nick Romaniuk, coordinatore per la ricerca e il soccorso di Sos Méditerranée ribadisce: «Ciò che è di massima importanza è che i sopravvissuti siano portati senza ritardi in un luogo sicuro dove si possa rispondere ai loro bisogni di base e dove possano essere protetti dagli abusi».

Corriere 13.8.18
Mattarella: «Difendere libertà e diritti da ogni minaccia»
Stazzema, il messaggio per i 74 anni dell’eccidio nazi-fascista. Il sindaco contro il ministro Fontana
di Valeria Costantini


RomaNel giorno del 74esimo anniversario dell’eccidio nazifascista di Sant’Anna di Stazzema, il presidente della Repubblica ha lanciato il suo monito. «Tutti gli italiani e tutti gli europei considerano irrinunciabile quel patrimonio di libertà, di diritti, di solidarietà che, dopo la Liberazione, i nostri popoli sono riusciti a costruire e che siamo sempre chiamati a difendere da ogni minaccia», queste le parole di Sergio Mattarella, che ha ricordato il massacro nel paese vicino a Lucca. Una commemorazione segnata ieri dall’attacco del sindaco della cittadina toscana, Maurizio Verona, contro il ministro della Famiglia Lorenzo Fontana, che ha proposto di abolire la legge Mancino.
«Attendiamo le sue scuse, attendiamo le sue dimissioni — ha ribadito il primo cittadino nel suo intervento al sacrario di Sant’Anna — Venga qui a dire che bisogna togliere le leggi che puniscono i reati contro i sostenitori di razzismi e violenze — ha detto — Che venga a raccontarlo ad Enrico, Enio, Adele, Cesira, Mauro, Milena, Siria e a tutti gli altri superstiti della strage che hanno visto cadere padri, madri, fratelli e sorelle».
Nel suo messaggio il capo dello Stato ha ricordato che l’eccidio nazifascista (che fece 560 vittime civili), è stato uno dei «vertici di più sconvolgente disumanità» della seconda guerra mondiale. La memoria di quell’orrore, che ebbe alla base «violenza, odio e smania di dominio», consegna «alle nostre coscienze — ha sottolineato Mattarella — un monito che mai può essere cancellato».
Nei «tempi nuovi» che stiamo vivendo, ha ribadito, «sta al nostro impegno e alle nostre responsabilità, personali e collettive, rafforzare cultura della vita, pace tra uomini e popoli liberi, solidarietà per uno sviluppo davvero condiviso». Alle parole del presidente si sono aggiunte quelle delle più alte cariche della Repubblica. «Beni preziosi come la libertà e la democrazia sono un patrimonio da difendere con l’impegno quotidiano di ognuno», ha detto la presidente del Senato Elisabetta Alberti Casellati. Il presidente della Camera Roberto Fico, ricordando il valore della ricerca della verità, ha lodato «il lavoro della magistratura che ha portato alla sentenza di condanna per atto terroristico premeditato».

Corriere 13.8.18
Anni di piombo i protagonisti
L’ex Br e il figlio dell’autista di Moro Pace in chiesa davanti a mille giovani
Roma, Bonisoli e Ricci alla veglia pre-Sinodo. «La violenza ha distrutto i nostri sogni»
di Giovanni Bianconi


«Sognavo di fare la rivoluzione per cambiare il mondo e per questo ho sparato, ferito e ucciso, trasformando quel sogno in una tragedia», racconta l’ex terrorista. «Il mio sogno s’è infranto quando hanno ammazzato mio padre e io ero un bambino di 12 anni, ma poi ho capito che non potevo soltanto odiare e portare rancore; un assassino resta tale per sempre, ma una persona può cambiare», gli fa eco la vittima.
Non solo le persone ma tante altre cose sono cambiate dal 1978, quando l’ex brigatista rosso Franco Bonisoli partecipò alla strage di via Fani, per eliminare gli uomini della scorta e sequestrare il presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro; e l’ex bambino Giovanni Ricci capì quel che era successo a suo padre — Domenico Ricci, appuntato dei carabinieri e autista di Moro — vedendolo crivellato di proiettili nella foto pubblicata sull’edizione straordinaria di un giornale. Quarant’anni dopo, nella chiesa del Gesù dove Benigno Zaccagnini e altri politici venivano a pregare e piangere nei giorni del sequestro, Bonisoli e Ricci ne parlano a un migliaio di ragazzi di oggi, venuti e Roma per incontrare il papa e che nella veglia notturna assistono all’incontro tra un carnefice e la sua vittima. Nessuno di loro era nato quando Moro fu rapito e, 55 giorni dopo, ritrovato cadavere nel bagagliaio della Renault rossa, a trecento metri da qui, tra le sedi della Dc e del Pci, che oggi non ci sono più. Restano i palazzi antichi, resta la chiesa secolare, e resta la testimonianza di due persone che, con ruoli decisamente diversi, hanno attraversato quella stagione di sangue e ne portano ancora i segni. Davanti all’altare centrale, stimolati dalle domande di un sacerdote, raccontano le ragioni della morte e del dolore trasformati in speranza e riscatto; uno da responsabile e l’altro da innocente, ma entrambi attraverso l’incontro e il dialogo, che quasi miracolosamente cancellano ogni traccia di sacrilegio nel sentire un assassino parlare in chiesa, o un prete che porta a esempio il percorso che ha compiuto.
«Nel nome della rivoluzione feci una scelta totalizzante che trasformava le persone in cose, simboli da abbattere, nemici da eliminare — spiega l’ex brigatista rosso che ripercorre l’escalation violenta degli anni Settanta, dalle macchine bruciate agli omicidi —. E quando mi hanno arrestato ho continuato a combattere lo Stato dal carcere, finché le convinzioni non hanno cominciato a incrinarsi e io ho pensato di suicidarmi perché con la lotta armata doveva finire anche la mia vita. Ma poi un cappellano ci ha chiamato “fratelli”, ed è cominciata la risalita dall’inferno al purgatorio».
«Io inizialmente volevo restituire alle persone che hanno ucciso mio padre tutto il male che mi avevano provocato — ricorda Ricci —, ma incontrarle e scoprire che si portano addosso una croce più grande della mia, per il peso di ciò che hanno fatto, mi ha permesso di non vivere più quotidianamente la morte di mio padre, di ricordarlo quando era vivo e non più solo da morto; di conservare la memoria di una persona, e non soltanto di un omicidio».
Sono storie che possono suonare incredibili per ragazzi che non hanno vissuto il clima degli Anni di piombo e dei sogni trasformati in tragedia, e che vincendo il sonno e la stanchezza ascoltano per oltre due ore l’ex terrorista rammaricarsi per le sofferenze provocate: «L’unica cosa che potevo tentare, per rimediare, era trasformare il mio senso di colpa in senso di responsabilità, cercando le vittime e il dialogo con loro, pronto a prendermi tutto quello che mi avrebbero scaricato addosso, e adesso renderlo pubblico. Per questo tanti ex compagni mi criticano, ma non mi interessa; quello che conta è essere testimoni credibili, e io ci provo».
Anche la strada di Ricci non è stata semplice: «Mio fratello e molte altre vittime non condividono il nostro percorso, e io rispetto le loro scelte. C’è chi sceglie il diritto all’odio, ma io rivendico il mio diritto alla pace e a non morire ogni giorno, considerando chi mi ha fatto del male un uomo e non più un mostro». Al momento delle domande c’è chi chiede a Bonisoli che cosa pensi oggi di Moro, che rapì e condannò a morte quarant’anni fa. «Una persona eccezionale — risponde — che cercava di capire quello che accadeva intorno a lui, comprese le ragioni di chi aveva fatto la nostra scelta; se non l’avessimo ucciso avrebbe potuto aiutare a chiudere prima la stagione della lotta armata, con danni minori». Ilaria, testimone del cammino che Bonisoli e Ricci hanno fatto insieme ad altri ex terroristi e altre vittime, spiega la ragione di una notte così, tra gli appuntamenti preparatori al Sinodo: «La voglia di comunicare ai giovani il rifiuto della violenza, attraverso una storia del passato che guarda al futuro».

La Stampa 13.8.18
Il senatore di Brescia Simone Pillon
“Via l’aborto, anche noi prima o poi ci arriveremo come in Argentina”
di Ame. Lam.


Pillon, è stato lei a portare le posizioni del Family Day dentro la Lega o è stata la Lega che, abiurato il dio pagano del Po, si è appropriata del cattolicesimo integralista per estendere i suoi confini politici?
Il senatore di Brescia Simone Pillon sorride. Non condivide la definizione di cattolicesimo integralista. Ma sul partito per il quale è stato eletto il 4 marzo risponde così: «La Lega è rimasto l’ultimo partito che ascolta la gente. Quando sono stato eletto ho scoperto che il mondo del Family Day, le nostre battaglie in difesa della famiglia, dell’identità cristiana, a favore della libertà di educazione e contro la cultura gender, erano molto conosciute nel mondo leghista. La mia candidatura non è stata un’operazione di vertice per prende un po’ di voti in più, ma partiva dal basso, da quell’ascolto che Salvini è stato capace di fare».
Quindi un incontro naturale viste soprattutto le posizioni del ministro Lorenzo Fontana e dello stesso Salvini che gli avversari definiscono «retrogradi, troglodite, anti-moderne»?
«È invece moderno scegliere su un catalogo una donna giovane e carina, affittare il suo utero, farla mangiare come desiderano i genitori 1 e 2 e poi prendersi il figlio e portarselo a casa dall’altra parte del mondo? Roba da ricchi che fa parte di quella che io chiamo antropologia individualista, di occidentali viziati che pensano solo a se stessi...».
Lasciamo stare l’utero in affitto su cui anche laici e non cattolici possono avere perplessità, ma secondo lei una coppia di maschi o di femmine che si amano perché non dovrebbero avere un figlio ed essere in grado di crescerlo bene? Poi c’è il caso di figli nati da precedenti unioni: crede veramente che due omosessuali non siano adatti a educarli e farli vivere serenamente?
«Un bambino o un ragazzo ha il diritto di avere una madre e un padre. Potrà mai un uomo essere una brava madre e viceversa? Secondo me no, tranne se si crede al gender, al fatto che non ci sia alcuna differenza tra un uomo e una donna, non solo a livello cromosomico, ma di sensibilità, attitudine. Già quel ragazzo ha subito il trauma della separazione dei genitori e dell’abbandono, ha diritto di avere una vita serena. Non farei prove di ingegneria sociale».
Proverete a cambiare la legge 194 sull’aborto?
«Purtroppo oggi non ci sono ci sono i numeri in Parlamento, mancano le condizioni politiche, ma ci sono le condizioni per applicare la prima parte della 194, puntando all’obiettivo “aborti zero”. Occorre aiutare le donne che vogliono abortire perché si trovano in difficoltà economiche e sociali. Le politiche che il ministro Fontana intende fare, con importanti aiuti alle famiglie, vanno in questa direzione. Dobbiamo sostenere la maternità altrimenti nel 2050 ci estinguiamo come italiani. Le risorse ci sono, ma occorre spostare i soldi che vanno alle lobby, alle banche: sa quante donne avrebbero potuto mettere al mondo dei figli con i soldi che il Pd ha regalato a Monte Paschi di Siena?».
La sta buttando in politica, come se chi non la pensa come lei fosse cattivo.
«Qualche cattivo c’è davvero. Capisco la Bonino che persegue scientificamente l’individualismo anti-umano, non a caso lei è finanziata da Soros. Altri magari sono in buona fede ma non si rendono conto delle conseguenze delle loro posizioni. Comunque, oggi non ci sono le condizioni per cambiare la 194, ma vedrà che anche noi ci arriveremo, come è successo in Argentina».
Lei non contempla la libertà di scelta per una donna di interrompere la gravidanza?
«La libertà di scelta c’è l’hai prima di concepire una vita. Poi c’è il diritto di un innocente di venire al mondo».

Il  Fatto 13.8.18
Cent’anni fa le stimmate di Padre Pio: irriducibile all’élite, populista in Cielo
Nella sua cella a San Giovanni Rotondo il frate ingaggiò una battaglia contro il diavolo che voleva strapparlo al suo popolo
di Pietrangelo Buttafuoco


Cent’anni fa le stimmate di Padre Pio. L’ha ricordata, questa ricorrenza, Marino Niola – un grande antropologo, oltre che un attento studioso dei sentimenti popolari – senza indugiare nel pregiudizio laicista, anzi, svelando il tratto sciamanico di questo santo: “Oscuramente arcaico” – ha scritto Niola su Repubblica – “imbozzolato in quel saio marrone che a stento riusciva a contenere i suoi lampi carismatici, a disciplinare le sue intemperanze liturgiche, a smorzare le sue eccedenze profetiche”.
Cent’anni fa sgorgava la santità di questo frate profondamente italiano, sanamente fascista, cocciutamente contadino la cui fronte sfidava i termometri con febbri oltre i quarantotto gradi. Lame arroventate, questi febbroni, con cui fendere i rigori dell’inverno nel Gargano; spade perfette, queste vampe, per contrastare le nevi, l’umidità e il gelo chiamato dal Diavolo intorno a se stesso cent’anni fa quando – giunto a San Giovanni Rotondo per domiciliarsi nella cella di San Pio – ogni notte ingaggiava la battaglia immane contro il santo per strapparlo al suo popolo. Satanasso tentava il frate rinfacciandogli – di volta in volta – poppe, sottane e natiche ma quello, ogni volta, gli mostrava le stimmate. San Pio attestava la sacra carne martirizzata di Gesù, il figlio di Maria, e quell’altro, il Negatore – all’imbrunire, per tutte le notti – scatenava mazzate tra le mura del convento. La soave fragranza dei gelsomini, delle violette, delle rose e della lavanda muoveva in difesa contro l’avanzata di merda, zolfo e fogna e quel tanfo, allora – nel chiarore, per tutte le albe – al solo apparire delle garze zuppe di Sangue del Santo si dileguava. Avvolgeva di furore e visione, San Pio, qualunque orizzonte. Già dai vetri dei torpedoni dei pellegrini, il profilo rasposo del paesaggio, porgeva il suo carisma.
Si faceva forte della sapienza segreta e riconosceva la profonda verità di ognuno: se usuraio, se assassino, se porco, se ladro, se probo, se ingenuo, di ognuno – in fila per la comunione – il frate sacerdote sapeva vita, morte e miserie. E di quel popolo sapeva tutto senza tirare a indovinare ma, appunto, afferrando l’anima di chiunque arrivasse al suo cospetto, fino all’estremo disvelamento: quella coda del Diavolo intinta nel moralismo dei saputi, irritati rispetto a siffatto caos medievale in pieno boom economico che lui, solo lui – fosse pure contro un altro santo, padre Agostino Gemelli – sapeva smutandare.
Presente più dei Sette nani in tutti i giardini, dislocato in effigie nei cortili, davanti ai supermercati, nei retro delle macellerie e nei portafogli di più di metà della popolazione italiana, Padre Pio – di cui è devoto Giuseppe Conte, compaesano del Santo – è da cent’anni irriducibile all’élite, è un populista in Cielo.

Il  Fatto 13.8.18
Sulle periferie il governo ha scelto, ma si nasconde dietro la Consulta
Numeri - Il bando era il solito “bonus a pioggia”, ma la sentenza del 2018 non lo vincolava a spostare i fondi
Sulle periferie il governo ha scelto, ma si nasconde dietro la Consulta
di Marco Palombi


Cosa accade attorno all’ormai famoso bando per le periferie di Matteo Renzi? La classica tempesta in un bicchier d’acqua o, se qualcuno ricorda il classico di Tom Wolfe, un Falò delle vanità in cui tutti riescono ad aver torto. Intanto, il fatto: un emendamento presentato dalla Lega in Senato – e votato all’unanimità, Pd e Renzi compresi – ha sospeso per due anni (non eliminato) 96 dei 120 progetti approvati da Palazzo Chigi ai tempi di Renzi&Gentiloni per la riqualificazione delle periferie, nessuno di questi è in fase di gara; in soldi significa bloccare investimenti per 1,6 miliardi circa su 2,1 stanziati in totale (ma finora finanziati solo parzialmente).
I soldi “liberati” – 140 milioni quest’anno, 320 il prossimo, 350 nel 2020 e 220 milioni nel 2021 – vengono destinati a sbloccare gli avanzi di amministrazione dei Comuni “virtuosi”: quelli che hanno soldi in cassa, ma non possono spenderli per via delle regole sull’equilibrio di bilancio degli enti locali che gli assegna rigidi obiettivi annuali. Ovviamente i sindaci che si sono visti rinviare di due anni i progetti non l’hanno presa bene: temono, soprattutto, che alla fine quei soldi spariranno per sempre. Tra i 24 progetti “salvati” (già esecutivi) ci sono quelli di Roma, Torino, Modena, Bologna e della città metropolitana di Bari; tra i “sommersi” Firenze, Milano, Livorno, Treviso e le (ex) province di Roma e di Torino.
Perché? L’emendamento “incriminato” è una legittima operazione politica della Lega e della maggioranza, peraltro inizialmente avallata dal Pd, che ha almeno un paio di motivi: uno, volendo, più nobile; l’altro meno. Il bando delle periferie, infatti, è una classica operazione “alla Renzi”: una sorta di “bonus sindaci” affidato direttamente da Palazzo Chigi per gentile concessione dell’ex sovrano. Le scelte sono state un po’ così: riqualificare le periferie è una bella cosa, ma forse – con tutto il rispetto per i problemi di Viterbo, Cuneo e Biella – ci si poteva concentrare sulle grandi aree urbane degrate (la sola Ostia ha 100mila abitanti) e circoscrivere meglio i campi d’intervento (a scorrere i progetti si passa dalle riqualificazioni di immobili alle piste ciclabili, dal “welfare urbano” al social food).
Anche la ripartizione dei fondi lascia qualche perplessità: la Toscana, per non fare che un esempio, è destinataria del 15% circa dei fondi (300 milioni) con meno del 7% della popolazione e senza avere una metropoli sul suo territorio. Si può certo, dunque, sostenere che i progetti vanno rivisti, ma l’uso che si è poi scelto di fare dei soldi denuncia l’intento “politico”: i Comuni virtuosi infatti, quelli che hanno consistenti avanzi di cassa da spendere, si trovano soprattutto al Nord, bacino di riferimento della Lega; i 96 capofila dei progetti bloccati sono invece in gran parte a guida centrosinistra. È poco corretto dire, come ha fatto Giancarlo Giorgetti sul Fatto del 9 agosto, “equità e giustizia per tutti i Comuni: 90 sindaci arrabbiati, 8.000 festeggiano”.
La sentenza. I sindaci coinvolti, come detto, sono in rivolta: Antonio Decaro, presidente dell’Anci, ha parlato di “furto con destrezza”; il 5 Stelle Filippo Nogarin, primo cittadino di Livorno, di “toppa peggiore del buco”; il leghista Mario Conte chiede che “i fondi siano reinseriti nella finanziaria”. La maggioranza “gialloverde”, insomma, si ritrova di fronte a una reazione – cavalcata anche dal Pd, che ora sostiene di aver votato a favore perché non aveva capito – che pare non aver messo in conto. Per uscirne la sottosegretaria all’Economia Laura Castelli ha, tra le altre cose, sostenuto che l’intervento era necessario dopo la sentenza della Corte costituzionale (74/2018) che ha bocciato il “Fondo investimenti” di Palazzo Chigi – in cui c’è anche il Bando per le periferie – nella parte in cui non prevedeva il passaggio in conferenza Stato-Regioni (un vizietto tipico degli anni renziani). Motivazione debole. Ha buon gioco, nello smontarla, il deputato del Pd Luigi Marattin: “Si tratta di una semplice questione procedurale e non di sostanza. Che non giustifica certo tenere bloccati per due anni i Comuni che sono ad un passo dalla gara per l’affidamento dei lavori”. Di fatto si poteva portare la cosa in conferenza e cavarsela con una settimana: questo tipo di intervento non è imposto dalla sentenza della Consulta.
I conti dei Comuni. Dice ancora Castelli: “Ci lascia esterrefatti che il Pd, responsabile delle politiche di tagli e del crollo degli investimenti pubblici, accusi l’attuale governo che ha invece sbloccato risorse altrimenti ferme”. Il governo, in realtà, non ha sbloccato alcunché, ma solo spostato risorse: va dimostrato a consuntivo, poi, che quei soldi saranno spesi più in fretta dai primi cittadini “virtuosi” piuttosto che col bando renziano.
Altro tema è la situazione finanziaria dei Comuni: sono stati loro (con le ex province) a sostenere infatti il carico maggiore delle politiche di austerità fatte in Italia, scaricando l’onere ovviamente in minori servizi o maggiori costi per i residenti.
La quasi totalità dei tagli ai Comuni furono decisi dai governi Berlusconi (2010-2011) e Monti (2011-2012), mentre gli esecutivi successivi – tutti quelli a guida Pd – si sono in sostanza limitati a confermare quelle scelte pluriennali. La situazione è stata poi resa più difficile dalle varie regole sul “pareggio di bilancio” per gli enti locali: è quell’equilibrio rigido fra entrate e spese che blocca gli investimenti persino quando i sindaci hanno i soldi in cassa e necessita di regolari provvedimenti “sblocca fondi” da parte del Parlamento (anche sulla scorta di una sentenza della Consulta). Su questo, ovviamente, 5 Stelle e Lega non hanno responsabilità: le avranno dal prossimo 1° gennaio però.

Corriere 13.8.18
Miti e realtà
Gli Stati non sono interamente sovrani
di Sabino Cassese


Perché Erdogan è messo in difficoltà dalla crisi che ha quasi dimezzato il valore di scambio della lira turca? A quale titolo l’Unione Europea ha stabilito nel 2014, e successivamente ampliato, sanzioni contro la Russia? Perché Polonia e Ungheria debbono dar conto all’Unione Europea delle loro leggi sull’ordinamento giudiziario? Perché l’Italia deve sottostare ai criteri dell’Unione Europea sul deficit e sul debito pubblico?
Questi vincoli hanno origini e ragioni diverse e discendono da fonti diverse, da regole del diritto internazionale, da accordi tra Stati, dai mercati.
L’Unione Europea ha un accordo di associazione e uno di libero scambio con l’Ucraina e ha introdotto sanzioni (restrizioni economiche e individuali) contro la Russia, colpevole di aver annesso illegalmente la Crimea e di aver destabilizzato l’Ucraina. Vuole, quindi, punire una evidente violazione del diritto internazionale.
I mercati (risparmiatori e investitori, possessori di lire turche) hanno scarsa fiducia sia nei programmi politici ed economici del governo turco, sia nella qualità dell’«équipe» che li gestisce. Chi possiede una valuta vuole aver assicurazioni sull’affidamento che dà l’emittente.
I Paesi membri dell’Unione hanno sottoscritto trattati in cui si impegnano a rispettare alcuni principi giuridici (indipendenza dei giudici) ed economici (equilibrio di finanza pubblica).
Essi debbono quindi dar conto all’Unione del rispetto di tali principi, se limitano l’indipendenza dei giudici o hanno un alto debito pubblico con bassa crescita economica (lo spread sale e la borsa scende).
Pur provenendo da fonti diverse, questi vincoli hanno un tratto in comune. Discendono dalla interdipendenza che lega gli Stati nel mondo. Essi non sono più isole separate. Si influenzano reciprocamente. Le sorti dell’uno sono legate alle sorti dell’altro. Un vicino aggressivo può domani essere un pericolo. La politica economica allegra di un «partner» deve preoccupare gli Stati che sono associati ad esso.
A dispetto dei «sovranisti», quindi, gli Stati non sono interamente sovrani, devono godere anche della fiducia dei propri vicini e dei mercati. Quelli che chiamiamo mercati sono anche loro, in ultima istanza, composti di risparmiatori-investitori, quindi di «popolo». Se, per un verso, gli Stati controllano i mercati, per altro verso sono i mercati a controllare gli Stati.
Tra gli studiosi della globalizzazione, questa viene chiamata « horizontal accountability », per dire che i governi non debbono rispondere solo ai propri elettorati, ma anche, orizzontalmente, ad altri governi e ad altri popoli. Non basta godere della fiducia dei propri elettorati, bisogna anche rassicurare i mercati e dare affidamento ai propri vicini.
È bene che questo accada? Se le sorti sono comuni, se la crisi di un Paese può trascinare altri nella caduta, è certamente utile che tutti vengano richiamati al rispetto delle regole condivise. I «sovranisti» lamenteranno l’invasione di altri protagonisti nella vita degli Stati, una diminuzione dei poteri del popolo. Ma questo perché hanno un concetto troppo elementare della democrazia, intesa come un rapporto esclusivo, stretto soltanto tra un popolo e il suo governo.

Repubblica 13.8.18
Le decisioni di Trump
Il boomerang dei dazi
di Vittorio Zucconi

Sotto le ceneri dell’immenso braciere che da settimane consuma la California, cova un nemico imprevisto: la guerra tariffaria di Trump che ha caricato di dazi le importazioni dei materiali edili e che renderà proibitivo il costo della ricostruzione ai proprietari. Soltanto uno degli esempi dei danni che la follia protezionistica di questa presidenza sta provocando all’America che finge di proteggere. Due anni dopo la promessa di riportare fabbriche e lavoro in America, fatta in uno stabilimento di condizionatori d’aria che poi se ne sarebbe comunque andato oltre confine, il sogno del "ruggente ritorno" delle manifatture e delle ciminiere spente che riprendono a fumare resta illusorio, come illusorio è l’aumento del potere d’acquisto dei salari nonostante l’alta occupazione, inferiore all’inflazione in salita. L’aumento dei lavori manifatturieri è in linea con quello già segnato negli ultimi anni della ripresa sotto Barack Obama.
Dai coltivatori di soia, destinata alla Cina, del Midwest che Washington ha promesso di sovvenzionare con 30 miliardi di dollari per compensarli delle perdite, alla straziante decisione della Harley- Davidson che sposterà parte della produzione della più americana delle moto facendo infuriare i "bikers" aggrappati alle selle del loro mito Usa, le conseguenze negative della guerra commerciale sono già visibili. I vantaggi restano una promessa.
Il principio ispiratore centrale dell’operazione dazi si è dimostrato, finora, fallace. L’idea che i partner, o competitor, principali degli Stati Uniti avrebbero rapidamente piegato le ginocchia davanti ai dazi imposti a prodotti d’importazione e ceduto alla prepotenza trumpiana non si è materializzata. La blanda, marginale apertura fatta dal presidente della Commissione europa Juncker per rabbonire Trump e importare più soia — come se mai l’Ue potesse assorbirne la stessa quantità della Cina — è stata l’unica concessione apparente. Ma la decisione di imporre altri dazi punitivi alla Turchia, dunque negando al governo di Ankara il vantaggio momentaneo della svalutazione della lira, ha scosso come non accadeva dal collasso greco la stabilità finanziaria europea, come avverte Paul Krugman sul New York Times.
L’elenco dei settori produttivi, delle associazioni industriali, delle piccole e grandi aziende agricole, che stanno disperatamente cercando di dissuadere Trump dall’escalation, si allunga ogni giorno, ma senza grande successo, perché nella storia delle fortune private del miliardario del Queens, nella sua resistibile ascesa alla fama e al potere politico manca la " cultura del commercio", quella formazione al rischio di scambio che ha fatto la fortuna di nazioni, repubbliche e degli stessi Stati Uniti. Trump, come lo ha più volte descritto l’ex sindaco di New York Bloomberg, non è un " trader", un mercante, ma uno speculatore, abile nelle spericolate operazioni immobiliari a credito. La sua fortuna sta nel comperare terreni, sponsorizzarli, farsi pagare sontuose royalties e, alla peggio, lasciare i finanziatori col sacco vuoto, aspettando qualche generoso investitore o acquirente straniero, spesso, come accaduto nella sua torre di Manhattan, venuto dal freddo. Spaventa, nel suo agire, l’assenza di un progetto di lungo respiro, di una strategia che vada oltre il gioco delle ripicche e dei dispetti o dei pigolii mattutini via tweet.
Per restare aggrappato al consenso di quei 78 mila voti sparpagliati nei collegi elettorali del Midwest deindustrializzato che hanno fatto la differenza nella sua vittoria contro Hillary Clinton, Trump sta scuotendo le fondamenta di un mondo interconnesso, che ha fatto la fortuna commerciale, finanziaria e politica di quell’America che vuole "rendere grande di nuovo", come se fino al 2016 fosse stata lillipuziana. Nella sua visione del mondo, ancorata a una cultura popolare americana da anni ’60, la altre potenze dovranno inesorabilmente accettare le condizioni che lui impone, ignorando che, se il cuore americano avesse un infarto nello spasmo trumpiano, altre forme di circolazione di beni, servizi e prodotti potrebbero bypassarlo. Già lo scoprono i petrolieri del Texas che vedono la domanda del loro greggio da parte della Cina scendere rapidamente. Mentre il governo a Washington ha dovuto assumere 200 nuovi funzionari in due settimane per smaltire la valanga di domande di esenzione tariffaria venute da industrie minacciate.
Le migliaia di proprietari di case bruciate nel cratere californiano scopriranno che il prezzo della ricostruzione imposto da Trump supera del 20 per cento il costo previsto dalle assicurazioni, perché il 60 per cento del legname usato viene dal Canada e la gran parte delle ferramenta ordinarie è di fabbricazione messicana, ed è gravata da nuove imposte. E la pletora di piccoli commercianti o di grandi catene che vendono a prezzi scontati e con margini di profitto sottilissimi la merce importata alla clientela meno abbiente dovrà lottare per non perdere vendite e assorbire i rialzi. I meno abbienti pagheranno tutto più caro.
Con la guerra dei dazi, Trump sta cercando di dimostrare, nel suo irresponsabile, arcaico provincialismo, che l’America non ha bisogno del mondo. Alla fine dell’avventura, potrebbe scoprire il contrario: che ormai neppure il mondo ha più bisogno dell’America.

Il  Fatto 13.8.18
Il presidente che trascina le folle degli onesti
Bucarest in piazza - Parla Iohannis Klaus, l’uomo di Stato in trincea per la “Mani pulite” romena
di Michela A. G. Iaccarino


“La lotta alla corruzione è dolorosa: porta alla luce la faccia più brutta della nostra società”. Ma non vuol dire che bisogna smettere di farla. Le spalle sono larghe, come gli occhi chiari e quasi trasparenti, l’aggettivo che pronuncia più spesso quando parla di politica. Il presidente Iohannis Klaus sa che lottare contro il sistema di tangenti in Romania “crea molti nemici tra i politici, ma è quello che io e i rumeni vogliamo”.
Parlava così nel febbraio 2017 alle telecamere dell’Afp, con mezzo milione di ragazzi in piazza a protestare. Klaus allora aveva solo un desiderio: che il popolo tornasse a credere nello Stato. Sono parole che non si è portate via il vento: sono ancora a Bucarest, come quei giovani, più di un anno dopo. “Credi nella notte e nei weekend”, era il detto di piazza Viktorei. E di nuovo di notte, di nuovo nel fine settimana, decine di migliaia di romeni sono scesi in piazza. Lavoro e corruzione: il primo lo vogliono nel loro paese, soprattutto la diaspora romaneasca che torna in patria per l’estate. La corruzione la vogliono fuori dai palazzi del potere.
Quando Klaus nacque in Transilvania nel 1959, all’anagrafe si rifiutarono di scrivere il suo nome con la J, come faceva da cinquecento anni la sua famiglia tedesca. La tradizione sassone fu scissa, finì la storia di un figlio dell’enclave germanica, iniziò quella di un ragazzo rumeno. Insegnante di fisica, poi ispettore scolastico, il tedesco diventò sindaco di Sibiu nel 2000. Fu rieletto nel 2004, nel 2008 e nel 2012 , di nuovo. Il suo segreto contro le tangenti in città erano le donne: i ruoli chiave in municipio li destinava a loro, perché meno corruttibili rispetto ai colleghi maschi. Il germanico che i rumeni amano nel 2014 è diventato presidente, sconfiggendo Viktor Ponta, delfino di Liviu Dragnea. Se Klaus è simbolo della giustizia Dragnea, il leader del partito Psd, è l’esatto, simmetrico, opposto: pluricondannato e autore di depenalizzazioni ad personam.
Klaus è un politico contro i politici: “voi distruggete la giustizia”, ha detto a deputati e senatori che ora vogliono distruggere lui. Alla maggioranza che ora lo minaccia con un’accusa di alto tradimento, ha appena risposto che si ricandiderà anche l’anno prossimo.
Il futuro è l’Unione, ma “non credo che De Gasperi, Schumann, Adenauer, Spinelli avrebbero amato un’Europa a più velocità o cerchi concentrici”. Il tris di drappi che ha alle spalle nel suo ufficio colorano gli aforismi secchi che pronuncia spesso: sono la bandiera della Nato, quella europea e poi il tricolore del paese di cui è capo. Dopo che Laura Kovesi, a capo della Dna, Direttorato anticorruzione nazionale, è stata licenziata, il sindaco, come ancora qualcuno lo chiama, è rimasto l’unico simbolo politico di un’intera nazione che lo guarda.
La Romania che non ha niente di cui vergognarsi e che lo ama rimane per strada. Lui ricambia il suo popolo: “siamo una democrazia giovane rispetto ad altri paesi europei, ma da noi la gente è scesa in piazza per difendere diritto, giustizia, equità”.

Il  Fatto 13.8.18
Il ballo del Sud Sudan in bilico sul petrolio
I due “elefanti” al potere alternano una feroce guerra fra le loro etnie a temporanei accordi per spartirsi risorse e ricchezze, ma il Paese è allo stremo
di Michela A. G. Iaccarino


Un vecchio proverbio africano dice che “quando combattono gli elefanti, è sempre l’erba a rimanere schiacciata”. E quando combattevano gli elefanti in Sud Sudan era sempre l’ultima ora di qualcuno. Ora i due pachidermi, il presidente in carica Salva Kiir e il suo ex vice, poi nemico mortale, Riek Machar, si sono seduti di nuovo allo stesso tavolo per trovare un accordo di pace nello Stato più giovane del mondo. Ha solo sette anni, il Sud Sudan, e da cinque è dissanguato dalla guerra civile, esattamente quando i due signori della guerra hanno smesso di essere amici. Adesso Stato Radio Juba dice: “Il presidente Salva Kiir, con decreto presidenziale, ha concesso l’amnistia a Riek Machar e i gruppi in armi contro il governo”. È accaduto sei giorni fa, grazie al cessate il fuoco raggiunto tra i soldati ribelli di Machar e l’esercito di Kiir lo scorso giugno. Fino ad oggi le zone di controllo e confine tra le due fazioni etniche erano a geometria variabile, definite ogni giorno nel deserto africano a colpi di kalashnikov, stupri etnici e devastazione. In uno Stato più africano degli altri adesso all’orizzonte non ci sono solo le donne con ceste in equilibrio sulla testa, ma anche una tregua.
Dopo fosse comuni, scontri tribali, cannibalismo forzato da Jongelei fino a Unity, undici prove di cessate il fuoco susseguitesi in questi anni, questo è il secondo accordo di divisione dei poteri firmato da Kiir, di etnia Dinka, e Machar, di etnia Nuer. Da quando nel 2013 sono scesi in guerra, le loro truppe li hanno seguiti, lasciando sotto gli stivali dei soldati decine di migliaia di morti, cinque milioni di sfollati, il Paese sull’orlo della carestia. La firma di questo accordo è un’argine che può fermare la violenza, mettere fine alla guerra, alla fuga degli sfollati, a stupri di massa, violenze etniche, in un Paese dove gli aiuti alimentari evitano la morte a 5 milioni di persone, che vivono grazie alle donazioni delle organizzazioni internazionali. Inghiottiti dalla polvere della cronaca e ora liberati, sono migliaia i bambini soldato che erano stati costretti a stringere il fucile e combattere per i gruppi armati del territorio che ora potranno tornare a casa.
Ma già molte volte nella terra dei neri – questo vuol dire Sud Sudan – i rintocchi della Storia hanno suonato con campane di festa e poi di nuovo a morto: dopo il conflitto con il Sudan e l’indipendenza raggiunta nel 2011, la guerra civile è scoppiata nel 2013. I primi negoziati tra Kiir e Machar sono falliti nel 2014, il primo accordo di pace invece nel 2015, ma il presidente Kiir è convinto che questo sarà l’ultimo, il definitivo, il migliore: l’accordo della regolarizzazione perpetua delle tensioni. È stato siglato a Khartoum, capitale del Sudan (del nord), dopo un mese di discussioni: la soluzione condivisa prevede la formazione di un governo di transizione. Tornerà in patria Machar, in carica come vicepresidente, stesso incarico che aveva quando nel 2016 è dovuto scappare dalla capitale Giuba. Al potere rimarrà per tre anni, con mandato nel governo d’unità fino al 2021, anno delle prossime elezioni.
Con decine di migliaia di morti alle spalle, un terzo della popolazione lontana da casa, negli Stati confinanti o rifugiata nelle zone franche, la guerra potrebbe finalmente finire adesso perché interessa ad entrambi gli “elefanti”. Ma in Sud Sudan la giustizia è nera come il continente. E dello stesso colore pece è questa pace, che galleggia tutta sul petrolio: sia Kiir che Machar possiedono proprietà multimilionarie nelle risorse del Paese, da far fruttare. La tregua ora conviene. Nessuno di loro due pagherà per le violazioni dei diritti umani o per lo stillicidio economico compiuto ai danni delle risorse dei loro cittadini. Insieme alle potenze regionali, l’Uganda su tutti, e agli Usa, anche il Sudan ha insistito per tenere incollati alle trattative il primo uomo dei Dinka e il primo dei Nuer: per il petrolio che è a sud, e per gli impianti di raffinazione dell’oro nero che sono invece a nord, bisogna andare tutti d’accordo.
La storia del Paese è stata un montaggio alternato di catastrofi che si ripetevano simili sotto titoli e date diverse negli anni. A volte al rallentatore, a volte accelerata da risvegli improvvisi, dopo il lungo sonno africano. Quando si sparava, laggiù nel bush, al tramonto, il deserto di cespugli avanzava e ululavano quelli che erano forse cani. Come in una sinfonia nel buio, rispondevano col pianto i bambini. Seguiva quello delle madri, se uno di loro moriva. Poche luci accese, molte le scintille dei falò.
Il ritmo era quello del rumore del generatore dell’elettricità, il metronomo della vita che scandisce l’ordine del giorno in Africa. La colla di suoni della radio poi si diffondeva nella provincia di Lui: erano le voci che trasmettevano da Giuba notizie che tutti corrono ad ascoltare per sentire se tra i nomi dei morti ci sono quelli di nemici o amici, feriti nella loro tribù o fra gli altri. Se c’è progresso nella pace o nella guerra. Poi il silenzio faceva avanzare di nuovo il buio. Se ce n’erano, il lutto per il bollettino durava pochi secondi, quelli che puoi permetterti nella terra dei neri, perché c’è spazio per tutto in Africa, ma tempo per niente.
Le ore non le puoi usare se non per provvedere alla sopravvivenza: la tua, di tuo figlio, della famiglia. Quando ritornava il buio, avanzava il silenzio. Poi si ritornava in capanna. Di fame, di guerra: moriamo. Lo ripeteva chi era scampato ai combattimenti dei soldati delle due fazioni opposte, in lotta: “Sono nato in guerra, invecchierò in guerra, se mi va bene”. I proiettili hanno bersagli, non nemici: colpivano i civili che si ritrovano intrappolati in mezzo al fuoco delle due etnie, nei giorni più furiosi della guerra etnica. Quasi mai resistono o esistono altri dettagli quando questo succede in Africa, dove tutto è luce o buio, sì o no, vita o morte, bianco o nero. La pace o la guerra.
Molta parte dell’enorme Africa si regge sull’equilibrio di questi due contrasti, una metà che tiene in piedi l’altra. Nel distretto di Lui, Equatoria Ovest, ti ripetevano soprattutto una parola, kawaja: la prima parola che l’Africa ti insegna per ricordarti a che tribù appartieni tu, uomo bianco.

Corriere 13.8.18
Un flop la marcia dei neonazisti Usa Washington li isola: «No ai razzisti»
di Marilisa Palumbo


All’atteso raduno dei suprematisti poche decine di partecipanti
Migliaia invece ai contro cortei. Ma l’estrema destra è sdoganata e in autunno correrà al Congresso
La domenica della capitale è interrotta ogni tanto dalle sirene e dal rombo degli elicotteri, mentre i jogger continuano la loro corsa mattutina. È passato un anno dai cortei dei suprematisti bianchi a Charlottesville, e dalla morte di Heather Heyer, investita da un’auto lanciata deliberatamente in direzione di un gruppo di contromanifestanti. E oggi ci si ritrova qui, a Washington, dove Jason Kessler, la mente di quel «Unite the right rally», ha deciso di far confluire i suoi sostenitori dopo che gli sono stati negati i permessi per un macabro bis «sul posto». Attraverso il sito aveva dato poche istruzioni: portare acqua, una bodycam, una bandiera americana o confederata. Niente armi, mazze o coltelli. Del resto la polizia li controlla a uno a uno: l’appuntamento è alle due alla stazione della metro Vienna, appena fuori il District of Columbia. Il pavimento è pieno di volantini con la scritta «L’odio non ha casa qui»: Hate free zone. Per tutto il giorno, in diversi punti della capitale, vanno in scena affollate manifestazioni anti razziste, da Black lives matter agli anarchici di Antifa, ma soprattutto tanta gente comune. Pochissimi, molti meno dei quattrocento attesi, invece i «kessleriani» che le forze dell’ordine scortano fino a Foggy Bottom e poi a Lafayette square, davanti alla Casa Bianca. I due mondi vengono tenuti dala polizia a decine di metri di distanza.
Il movimento
È stato un anno difficile per l’estrema destra: le sue tante sigle si sono divise, scontrate, rimescolate. Molti dei leader sono spariti dalla scena, Richard Spencer, il «padre» della alt+right, ha dovuto cancellare il suo tour nei campus e di lui quasi non si sente più parlare. «Per molti attivisti Charlottesville era il debutto in una manifestazione pubblica, non erano preparati a tanta attenzione e si sono ritirati online», spiega Vegas Tenold, autore di Everything You Love Will Burn: Inside the Rebirth of White Nationalism in America. Del resto, spiega, «È quella la loro sottocultura: questa nuova ondata di suprematisti è nata su Reddit, 4chan, Twitter».
La rete
Questo non significa affatto che non siano ancora un movimento influente, anzi. «Hanno un network incredibile di podcast di enorme successo», dice Tenold. Come Alex Jones, l’estremista che ha visto esplodere i download del suo programma bannato da Facebook. «L’amara verità è che sono riusciti a introdurre le loro idee nel mainstream: per la prima volta quest’anno stiamo vedendo un gruppetto di candidati politici che espongono liberamente questo tipo di posizioni di estrema destra».
I candidati
Come Arthur Jones, che considera l’Olocausto «la bugia più grande e la più nera della Storia» e che corre per i repubblicani in un distretto solidamente democratico dell’Illinois. O come Paul Nehlen, un leader della alt+right che domani parteciperà alle primarie Gop in Wisconsin, nel seggio lasciato libero dal ritiro dello speaker della Camera Paul Ryan. O come Rick Tyler, in corsa per il Congresso in Tennessee: ha realizzato dei cartelloni pubblicitari con la scritta «Make America White Again». Tyler è un grande sostenitore di Trump, sul suo sito una bandiera confederata sventola sulla Casa Bianca. In Virginia il candidato repubblicano al Senato è Corey Stewart, uno che in passato si è fatto vedere in compagnia di Kessler. «Molti non saranno eletti — spiega Tenold — ma il punto è che vanno avanti dicendo quello che dicono. E sono parte della continua esplorazione del razzismo da parte del partito repubblicano».
I confederati di Donald
Il regista Spike Lee, che ha voluto far uscire il suo film sul Ku Klux Klan proprio nell’anniversario di Charlottesville, dice che Donald Trump è un megafono per razzisti e nazionalisti. Tenold elabora: «Io credo che Trump abbia visto una opportunità nella rabbia e nel razzismo, e abbia deciso di sfruttare le divisioni razziali in questo Paese. La sua elezione è diventata la prova che l’America è pronta a votare dividendosi per razza e genere, e questo ha incoraggiato questo tipo di candidati». Alla vigilia del raduno il presidente ha twittato contro «ogni tipo di razzismo e atto di violenza». Non abbastanza per i suoi critici, che hanno sentito l’eco dell’equivalenza tracciata l’anno scorso quando condannò «entrambi i gruppi». Una uscita considerata anche dai sostenitori il momento più basso della sua presidenza. La first daughter Ivanka non ha lasciato spazio ad alcuna ambiguità: «Gli americani hanno la benedizione di vivere in una nazione che protegge la libertà di parola e la diversità di opinioni, non c’è posto per il suprematismo bianco, il razzismo e il neonazismo nel nostro grande Paese».

La Stampa 13.8.18
Israele Stato Nazione, la legge che divide
Abraham B. Yehoshua: “Ferisce la convivenza tra noi e gli altri popoli”  


La Knesset israeliana ha approvato a maggioranza il mese scorso una controversa legge che definisce Israele come «Stato nazionale del popolo ebraico, nel quale esso esercita il suo diritto naturale, culturale, religioso e storico all’autodeterminazione». In questa pagina riportiamo le opinioni opposte di due grandi intellettuali israeliani sul tema. La legge, tra le altre cose, dichiara Gerusalemme «intera ed unita» capitale di Israele e adotta l’ebraico come lingua dello Stato, retrocedendo la lingua araba da «ufficiale» a «speciale». 
Un’altra norma controversa sancisce che «lo Stato vede nello sviluppo dell’insediamento ebraico un valore nazionale e opererà allo scopo di sostenerlo e promuovere il suo consolidamento». Il calendario ebraico è quello ufficiale. «Il Sabato e le Festività Ebraiche sono giorni di riposo stabiliti nello Stato; ai non Ebrei, il diritto di esercitare i giorni di riposo nei loro giorni di riposo e nelle loro feste».

Qual è, a mio parere, il motivo dell’approvazione della nuova legge che sancisce il carattere ebraico dello Stato di Israele, l’ebraico come unica lingua ufficiale e incoraggia lo sviluppo futuro degli insediamenti, sottolineandone il valore nazionale? Perché questo provvedimento suscita l’indignazione dell’ala liberale di Israele, dell’opposizione in Parlamento e di molti accademici, che la vedono come un ulteriore avvicinamento a uno stato di apartheid non solo nei territori palestinesi della Cisgiordania ma anche entro i confini della Linea Verde? 
Anche il presidente Reuven Rivlin, per anni membro del Likud (il partito di maggioranza al governo), ha criticato apertamente il premier Netanyahu e i suoi ministri chiedendo il rinvio dell’approvazione del recente decreto, o almeno alcuni suoi significativi emendamenti.
La legge ha suscitato le forti proteste della comunità drusa, profondamente legata all’identità israeliana. Una comunità che ha rappresentanti in Parlamento (per lo più, ironicamente, nei partiti di destra) e i cui figli si arruolano nell’esercito e prestano servizio in unità di combattimento e di élite. Una comunità che parla l’arabo, retrocesso dalla nuova legge da lingua ufficiale - a fianco dell’ebraico - a «speciale»: una definizione poco chiara e non ben definita. 
Anche la minoranza palestinese è giustamente insorta contro questo decreto in cui non compaiono i termini «democrazia» e «uguaglianza», presenti invece nella Dichiarazione di Indipendenza redatta alla fondazione dello Stato, nel 1948, in cui si specifica che Israele assicurerà completa uguaglianza di diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti, senza distinzione di religione, razza o sesso.
Nemmeno agli ebrei della diaspora è chiaro l’onnicomprensivo concetto di «nazionalità ebraica» che li vede inclusi. Un ebreo, giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti, il cui compito è di interpretare la costituzione di quello stato, può ritenersi parte della nazione ebraica? E in che modo la sua nazionalità americana si integrerà con quella ebraica? C’è una sovrapposizione fra le due o sono in contraddizione? Se l’ebraismo è per lui solo una componente culturale o religiosa della sua identità americana, Netanyahu ha il diritto di imporgli una nazionalità chiaramente connessa allo Stato di Israele che lui forse non desidera?
Malgrado sia essenzialmente dichiarativa, la nuova legge è comunque superflua e colpisce gravemente l’identità israeliana, un’identità nella quale si accomunano tutti i cittadini dello Stato. Il nome della nazione in cui viviamo è Israele e tutti i suoi cittadini posseggono una carta d’identità israeliana, non ebraica. Che bisogno c’è quindi di un provvedimento simile? Dopotutto, già nel 1947, subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale durante la quale un terzo del popolo ebraico è stato sterminato, le Nazioni Unite riconobbero il suo diritto a uno Stato.
Se volessimo chiarire il motivo profondo di questa norma giuridica provocatoria e inutile, ho l’impressione che lo si debba cercare non nel passato ma nel futuro. Ovvero nel dibattito sull’avvenire della Cisgiordania, dove circa due milioni e mezzo di palestinesi vivono sotto occupazione militare. L’auspicata soluzione di due Stati per due popoli appare sempre più inattuabile col passare del tempo, soprattutto a causa della presenza di quattrocentomila israeliani negli insediamenti in Cisgiordania, che sarà impossibile sradicare con la forza se non a prezzo di una sanguinosa guerra civile.
Lo schieramento per la pace sostiene che il proseguimento della costruzione di insediamenti e il deliberato e continuo rinvio del processo di pace trasformeranno profondamente l’identità ebraica di Israele, la cui popolazione, in futuro, sarà costituita dal quaranta per cento di palestinesi e dal sessanta per cento di ebrei. Per difendersi da questa asserzione, considerata dalla maggior parte degli israeliani più teorica che politica, il governo Netanyahu, convinto che le parole possano cambiare la realtà dei fatti, ha varato in maniera affrettata e irresponsabile una legge nazionalista che definisce Israele come Stato del popolo ebraico, rendendo così nebulosi i diritti democratici delle minoranze presenti nel Paese. 
Che lo si voglia o no Israele sta scivolando lentamente verso una realtà di doppia nazionalità, costituita dal sessanta per cento di cittadini ebrei e dal quaranta per cento di palestinesi, fra cui due milioni con cittadinanza israeliana e altri due milioni e mezzo privi di diritti civili in Cisgiordania. Due milioni e mezzo di palestinesi che, prima o poi, chiederanno i loro diritti e noi, a dispetto delle parole vuote della recente legge, non potremo negarglieli.

Corriere 13..18
Gitai: con un viaggio in tram svelo le contraddizioni di Israele
Nel film, fuori concorso a Venezia, gli attori interagiscono con i passeggeri
di Giuseppina Manin


È il tram più affollato di Gerusalemme. Circa duecento mila i passeggeri, arabi e ebrei, che ogni giorno salgono e scendono dalle 23 fermate della Linea rossa, 14 chilometri da est a ovest della Città Santa attraversandone varietà e differenze. «Dai quartieri palestinesi di Shuafat e Beit Hanina fino al cimitero di Mount Herzl dove sono sepolti Golda Meir, Rabin, Peres» spiega Amos Gitai, voce scomoda e autorevole del cinema israeliano, da 40 anni impegnato a raccontare la tormentata saga del suo Paese con film quali Kadosh, Kippur, Free Zone fino al recente Rabin, the Last Day. E se la storia tira dritto nelle sue follie e orrori, lui la insegue senza tregua. Stavolta aggrappandosi in corsa a un tram che si chiama desiderio. Di una pace troppo a lungo rinviata.
A Tramway in Jerusalem, fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, è una commedia utopica e un reportage inedito. «Quel microcosmo di persone stipate come sardine nella stessa vettura che si sopportano l’un l’altro accettando attriti e controversie senza scannarsi, è la metafora ironica e ottimistica di una città divisa che, almeno per lo spazio di un tragitto, mette da parte conflitti e violenze e cerca di simulare una convivenza possibile».
La vita potrebbe essere così, persino a Gerusalemme. «L’esistenza di uomini e donne è la stessa che altrove. Gerusalemme è il centro spirituale delle tre grandi religioni monoteistiche, giudaismo, cristianesimo, Islam. Che una volta al giorno si ritrovano fianco a fianco su questo tram, diventato simbolo di normalizzazione».
Tra fiction e non fiction, Gitai registra l’ordinario via vai di gente di origini e culture diverse, e fa salire sul tram anche alcuni attori, palestinesi, israeliani, europei. Volti noti come Noa, Pippo Del Bono, Mathieu Amalric, si mescolano con i passeggeri. «Noa è un’amica di lunga data, è lei che apre la storia in modo molto delicato. Pippo è un prete cattolico lacerato dal dramma della Passione di Cristo. Quanto ad Almaric, legge a suo figlio Elias un testo di Flaubert, contrappunto laico sulla religione che impregna da sempre questa terra». Piccoli momenti di vita normale che sembrano vincere la demagogia dell’odio. Ma basta scendere alla propria fermata e tutto ricomincia.
Eppure lo sguardo di Gitai è sorridente. Il paradosso della speranza corre sui binari del suo tram. «Saül Tchernikovski, un poeta, scrive che l’uomo è “l’impronta del paesaggio dove nasce”. Io sono cittadino di uno Stato che spero estenderà le sue regole democratiche a tutti e manterrà le istituzioni che permettono di continuare il dialogo. Israele è stato il rifugio degli ebrei in un certo momento della storia, la domanda è che tipo di società diventerà».
I tempi sono oscuri. «Viviamo in uno tsunami xenofobo e razzista. Ovunque vengono eletti politici che diffondono odio verso l’altro. In questo contesto è essenziale che le arti tengano aperte le frontiere del dialogo, della cultura della convivenza. Picasso l’ha fatto dipingendo Guernica. Noi stiamo cercando di dirlo con un film».
A Venezia ne porterà un altro, A Letter to a Friend in Gaza. Due titoli complementari? «Se il primo è quasi una fantasia su questa città la cui bellezza da secoli è speciale proprio perché mosaico di contraddizioni, il secondo cerca di rispondere all’attuale crisi tra Israele e Gaza. Con due attori palestinesi e due israeliani evochiamo le ragioni del conflitto attraverso testi di Mahamood Darwish, Izhar Smilansky, Emile Habibi, Amira Hass. In assenza di soluzioni politiche, diamo la parola ai poeti, agli scrittori, ai giornalisti. La mia Lettera rende omaggio a quella scritta da Albert Camus a un immaginario amico tedesco nel ‘43. Ma è anche un gesto civile che a volte il cinema deve osare per cercare di stabilire un dialogo diretto con la realtà».

Repubblica 13.8.18
Pietre miliari
Jared Diamond
Scolpita nella roccia la fine dell’Isola di Pasqua
di Maria Francesca Fortunato


È tempo forse di riscrivere la storia dell’isola di Pasqua e del destino misterioso dei suoi abitanti. I polinesiani la chiamano Rapa Nui e al primo occidentale che vi sbarcò nel 1722 – l’esploratore olandese Jacob Roggeveen – apparve come brulla e inospitale, dominata da centinaia di statue giganti in pietra. Chiamati Moai, dovevano essere il simbolo di una civiltà fiorente, ma stridevano con la desolazione del paesaggio circostante.
Nell’immaginario collettivo quell’isola sperduta nel Pacifico è diventata così simbolo e monito: una popolazione che, spinta da un’intensa competizione tra gruppi, sfrutta oltre misura le risorse del proprio territorio, fin quasi a disboscarlo, per issare Moai sempre più imponenti e si condanna all’estinzione.
Andò davvero così? Nuovi elementi raccontano oggi una storia diversa rispetto alla tesi dell’ecocidio, resa famosa da Jared Diamond in Collasso. «È una ricostruzione probabilmente esagerata», spiega l’archeologo Dale Simpson jr. «La presenza di una vera e propria industria dell’intaglio della pietra rappresenta per me una prova solida del clima collaborativo che esisteva tra famiglie e gruppi di artigiani».
Simpson firma infatti – con Laure Dussubieux del Field Museum e Jo Anne Van Tilburg, direttrice dell’Easter Island Statue Project – un nuovo studio pubblicato sul Journal of Pacific Archaeology che ribalta la narrazione corrente. I ricercatori hanno analizzato la composizione chimica degli strumenti utilizzati per scolpire i Moai ricavati dal basalto. «È una roccia vulcanica grigiastra che a prima vista non sembra nulla di speciale. L’analisi chimica di campioni provenienti da fonti diverse rivela però differenze molto sottili nella concentrazione dei diversi elementi, che variano in base alla geologia del sito di provenienza» spiega Laure Dussubieux.
Ebbene, dei 21 attrezzi analizzati dai ricercatori 17 arrivavano dallo stesso giacimento. Un’incidenza che lo studio considera significativa, perché dimostrerebbe che gli abitanti dell’Isola di Pasqua, pur divisi in diversi clan insediati in specifici territori, condividevano la stessa risorsa e che l’intaglio dei Moai era una impresa collaborativa e non competitiva.
«La ricerca si inscrive in una recente tendenza a studiare e valorizzare il ruolo dell’azione collettiva in società antiche che troppo spesso immaginiamo come conflittuali e autoritarie», commenta Davide Domenici, antropologo e ricercatore dell’Università di Bologna, che ha partecipato a spedizioni sull’isola di Pasqua. «La conclusione a mio parere è un po’ debole perché si basa su un numero molto ristretto di campioni, visto che nel solo scavo che ha dato origine allo studio sono state rinvenute più di 1600 asce».
Anche Jo Anne Van Tilburg, che dello scavo è stata direttrice, dice che i risultati dello studio vanno interpretati con cautela: la condivisione c’era – spiega – ma non si può stabilire ancora se fosse genuina collaborazione. «Van Tilburg riconosce che l’uso diffuso di una stessa risorsa potrebbe essere stato determinato da altri fattori, inclusa la coercizione», conferma Domenici. «Ma è anche vero che la teoria del collasso, resa celebre dalla versione estrema di Diamond, è stata da tempo superata da ricerche come quelle di Terry Hunt e Carl Lipo. Questi studiosi hanno infatti dimostrato che se mai un collasso ha colpito la civiltà pasquense, le sue ragioni vanno rintracciate non in una parossistica competizione interna ma nell’arrivo di esploratori, schiavisti e allevatori europei a partire dal XVIII secolo. Conflittuali o meno che fossero, e per quanto ne sappiamo le antiche società polinesiane come quella pasquense lo erano non poco, agli abitanti dell’Isola di Pasqua toccò vivere una tragedia la cui dinamica ci è purtroppo ben nota, perché motivo ricorrente della storia coloniale europea».