giovedì 7 giugno 2018

La Stampa 7.6.18
Il parto della donna è opera d’arte: la nascita umana raccontata in cere e terracotte del 700

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il manifesto 7.6.18
Sottoscrizione per la famiglia di Sacko Sumayla


La sera di sabato, 2 giugno, a San Calogero, vicino Rosarno, è stato assassinato Sacko Soumayla. Veniva dal Mali, aveva 29 anni e un regolare permesso di soggiorno. Lavorava nei campi della piana di Gioia Tauro dieci ore al giorno per pochi euro, era un sindacalista e si batteva per i diritti, contro lo sfruttamento dei braccianti e la schiavitù del caporalato. Viveva nella tendopoli di San Ferdinando, sorta dopo la rivolta dei ghetti di Rosarno, dove a gennaio scorso un incendio aveva tolto la vita una donna.
Sacko e due suoi compagni sabato sera erano andati in capannone abbandonato, in cerca di lamiere per ricostruire le baracche, renderle un poco più sicure. Da una panda bianca, a molti metri di distanza, un uomo ha esploso contro di loro quattro colpi di lupara. I due sono stati feriti, Sacko è stato colpito alla tempia. È morto poco dopo, lasciando una giovane moglie e figlia di cinque anni.
È una storia di sfruttamento, di razzismo, forse di mafia. È la dignità di un uomo e l’assenza di uno Stato di diritto. In queste ore, abbiamo riempito le nostre bacheche del suo volto, ci siamo commossi e indignati ripensando alla sua morte, e soprattutto alla sua vita. A tutto quello che qualcuno ha chiamato «pacchia».
Vi chiediamo qui, ora, un contributo di solidarietà, da inviare ai suoi compagni di lotta, anche solo per aiutare la moglie a venire in Italia e dare l’ultimo saluto al suo Sacko.
https://www.paypal.me/sinistraannozero

il manifesto 7.6.18
Lo schiavismo 2.0 in agricoltura
Saggi. «Oro rosso. Fragole, pomodori, molestie e sfruttamento nel Mediterraneo», una inchiesta curata da Stefania Prandi sul lavoro dei braccianti nei paesi del Mediterraneo
di Gennaro Avallone


La paura controlla il lavoro agricolo, in tante aree del mondo, sempre di più. Questo accade soprattutto alle donne braccianti, nazionali e migranti, e non succede in luoghi remoti, nascosti, lontani. Accade nell’agricoltura del Mediterraneo. Nelle campagne di Palos de la Frontera nel sud della Spagna, così come a Vittoria in Sicilia; ad Andria e Foggia in Puglia, ma anche a Souss-Massa sulla costa atlantica del Marocco. Sono queste le aree in cui Stefania Prandi, giornalista e fotografa, ha incontrato e intervistato oltre 130 donne braccianti, visitando alcune delle loro case, e parlato con ricercatori, ricercatrici, sindacalisti, volontari e attivisti. Incontri, visite, interviste che hanno dato forma al libro Oro rosso. Fragole, pomodori, molestie e sfruttamento nel Mediterraneo, pubblicato da settenove (pp.112, euro 14), che nel titolo riassume la geografia, i contenuti ed i rapporti sociali di produzione e potere analizzati nel testo.
L’INCHIESTA di Stefania Prandi si è avvalsa di guide speciali, come Mohamed Bouchelka, professore di geografia rurale e sociale presso l’Università di Agadir, che ha spiegato quanto le imprese agricole cerchino manodopera docile, per cui prediligono le donne, in quanto «non sono esigenti, non si ribellano, non hanno pretese. Sono mansuete e si adattano a tutte le condizioni».
Siamo di fronte ad una forza lavoro indebolita da diversi dispositivi: dalle leggi e politiche sulle migrazioni alla riproduzione della violenza patriarcale. Lavoratrici che vivono nella trepidazione e nell’insicurezza costante, al punto di temere di parlare delle proprie condizioni occupazionali. E quando lo fanno, adottano tante precauzioni, accertandosi che il padrone ed altre persone, comprese le altre lavoratrici, non le vedano.
PARLARE DELLE CONDIZIONI di lavoro vuol dire correre un rischio, in molte «temono che salti fuori il loro nome, che la gente del posto le possa riconoscere», anche se alcune si lasciano intervistare «perché credono sia un atto dovuto: se tutti tacciono, le cose non cambieranno mai».
MA CHE COSA È LA PAURA se non l’esperienza della violenza subita direttamente o da persone vicine? Violenza fatta di molestie, pressioni, ricatti, assalti fisici e stupri che tormenta tante donne lavoratrici, costrette a confrontarsi con l’odioso scambio sesso-occupazione. A Vittoria, in Sicilia, ad esempio, «l’abuso di potere è una pratica conclamata», agita da capi e supervisori, anche per esibizionismo, favorita dall’isolamento spaziale in cui in tante si ritrovano a vivere.
La violenza fisica si accoppia con la violenza dello sfruttamento, delle giornate di lavoro pagate meno rispetto ai maschi e di quanto previsto dai contratti, degli straordinari non retribuiti, della flessibilità oraria totale richiesta dalle aziende, degli infortuni non denunciati, del controllo costante dei capi squadra, dei ritmi intensi o degli orari lunghi, dei salari dichiarati in busta paga ma in parte restituiti.
È UNA COMBINAZIONE di violenza di genere ed economica quella che tante donne si trovano a vivere nell’agricoltura di una serie di enclave del Mediterraneo. Una violenza difficile da denunciare, che incontra, però, tante forme di opposizione.
La resistenza, infatti, è sempre attiva, continua, incessante, anche se non si manifesta nelle forme dell’organizzazione e del conflitto collettivo. Resistenze da riconoscere, per non cadere nella trappola secondo cui le imprese, i capi e i caporali avrebbero tutto il potere. Resistenze che ci fanno ricordare che il capitale è un rapporto di produzione oltre che di potere, che si esercita, spesso, attraverso la violenza, in una relazione tra forze.
FORZE CHE CONTRAPPONGONO i profitti al lavoro grigio, ma anche il dominio alla dignità, al coraggio di quante, ad esempio a Sammichele di Puglia, anche con le parolacce, si difendono attaccando, nel corpo a corpo con i singoli capi, indisponibili a perdere la propria dignità. Ricordando che la strada per la giustizia di genere, e, quindi, per la giustizia sociale, è ancora lunga.

La Stampa 7.6.18
Lega e ultradestra
A Fiumicino nasce il patto nero-verde
di Maria Corbi Inviata A Fiumicino Inviata A Fiumicino


«Quello che attende Fiumicino nelle urne domenica è un momento storico molto importante. La politica dei dinosauri ha ormai le ore contate: è stato così al governo, con Matteo Salvini ministro dell’Interno, e sarà così anche a Fiumicino». Parla William De Vecchis, senatore leghista da questa legislatura e candidato sindaco alle elezioni comunali del prossimo 10 giugno a Fiumicino. Parallelismi tra il governo del Paese e di questo centro del litorale romano che conta 80mila abitanti. Solo che una differenza c’è e non proprio piccola, non solo «cromatica»: qui l’alleanza non è giallo-verde, ma nero-verde visto che il candidato di Salvini ha stretto un patto con forze neofasciste come Forza nuova e Fiamma tricolore. Roberto Fiore, il leader di Fn dà l’appoggio a una lista civica che ha nel nome il programma e anche chiare referenze ideologiche: «Legittima difesa». E a convincere Fiore e i suoi simpatizzanti (o nostalgici) ad appoggiare De Vecchis è stato proprio il tema della legittima difesa. D’altronde le parole dell’aspirante primo cittadino sono state chiare: «La legittima difesa è un diritto che vogliamo tutelare. Ecco perché abbiamo creato una lista che porta questo nome, convinti che, in un’Italia dove troppo spesso ad avere la meglio sui rapinati sono i rapinatori, sia fondamentale restaurare un ordine. Oltre perciò a batterci nelle sedi istituzionali per garantire la difesa per ogni cittadino che venga aggredito nella propria abitazione, come amministrazione, sosterremo economicamente le vittime, e garantiremo dei corsi di “aggiornamento”, realizzati con poligoni di tiro locali, per tutti quelli che hanno un porto d’armi, perché non tutti coloro che detengono legalmente un’arma la utilizzano costantemente o si esercitano».
Con l’aiuto degli animali
Non solo «armi» nei proclami che legano le forze di estrema destra alla compagine elettorale di De Vecchis, ma la lotta all’immigrazione. Anche se il 46enne De Vecchis, forse,per ammortizzare queste dichiarazioni, insiste sulla pet therapy per curare la disabilità. E certo evocare un cagnolino che scodinzola è più rassicurante di immaginare la popolazione al poligono di tiro.
Ma De Vecchis precisa che con l’ultra destra «non c’è alcuna alleanza». «Tanto è vero che a Fiumicino la Lega sostiene la mia candidatura con Fratelli d’Italia e due liste civiche (Legittima Difesa e Passione Comune) delle quali posso senza problemi darle tutti i nominativi, uno ad uno, essendo formata da miei concittadini, il cui unico impegno è nella società civile. Non ho rapporti personali con Roberto Fiore, e se i 5 Stelle hanno formato un governo in coalizione con la Lega è proprio in ragione del fatto che non ci sono estremismi in casa nostra, ma solo proposte di buon senso e di novità».
«Lo spettro del fascismo»
Alleati in Parlamento, avversari a Fiumicino, dunque, Lega e grillini. Quando dici una «strana coppia». E certo la decisione di Salvini di allearsi con forze di estrema destra, o comunque di accettarne il deciso appoggio, solleva qualche interrogativo visto che contraddice il Salvini moderato ed ecumenico al governo. E certamente preoccupa in molti, visto che lo sponsor di questa sacra alleanza in nome della sicurezza e del diritto alle armi, oltre che della lotta all’immigrazione, non è solo un leader politico, ma il ministro dell’Interno. Ma De Vecchis difende la sua scelta e il suo leader: «Al braccio di Matteo Salvini ho visto solo maniche di camicia arrotolate per il gran lavoro che lo aspetta e che sta già facendo. Tutta la campagna elettorale delle ultime politiche si è incentrata sullo spettro del fascismo, siamo nel 2018 ed è ora che a sinistra se ne facciano una ragione e si concentri sulle cose da fare e non sul passato».
Nel programma della coalizione di destra (anche se De Vecchis insiste a definirla di centro-destra) c’è anche Alitalia, un tema caro al neo senatore non solo per ragioni logistiche evidenti, visto che nel territorio domina l’aeroporto, ma anche per la sua vecchia vita da dipendente della compagnia di bandiera. E adesso dice: «Vogliamo Alitalia pienamente funzionante». Meno chiaro sul «come fare». Ma questa è un’altra storia, ancora tutta da raccontare.

La Stampa 7.6.18
Insulti e minacce a Liliana Segre
L’ultima vergogna negazionista
di Francesca Paci


Non sono solo quelle braccia incrociate sul petto dei deputati leghisti quando, annunciando la sua astensione al governo Conte, la senatrice a vita Liliana Segre ricorda l’infanzia nel campo di sterminio nazista e chiosa: «Mi rifiuto di pensare che oggi la nostra civiltà democratica stia pensando a leggi speciali contro le popolazioni nomadi, se accadrà mi opporrò con tutte le mie forze». Sarebbe già enorme in un Parlamento in cui siede una delle ultime sopravvissute ad Auschwitz. Ma purtroppo non finisce qui. Perché dopo, a seduta conclusa, l’osceno e irresponsabile j’accuse alla memoria del genocidio si trasferisce sui social network, chiassoso, tracotante, incosciente come l’odio che intasa la piazza virtuale.
Il bersaglio, per quanto sia incredibile, è lei, Liliana Segre, una brava donna per carità, ma a giudizio dei suoi censori incapace di comprende il dolore delle vittime dell’immigrazione clandestina e dei rom.
«Quando ti ritroverai una porta sfondata, cassetti ribaltati per aria e derubata di tutto, soprattutto dei ricordi, cambierai idea», scrive uno che poi magari domani ci spiegherà mesto di essersi fatto prendere la mano. Un altro, anche lui fiero dietro la tastiera, rivendicativo, nome e cognome altro che troll: «L’unica persecuzione etnica in atto, cara Liliana Segre, è quella contro gli italiani». Seguono cuori, «I like», applausi virtuali. È uno sfogatoio che si auto-alimenta: «Venire rapinati, quello sì che ti cambia la vita, mica come finire in un campo di concentramento».
La matricola numero 75190, l’ex tredicenne deportata con il padre che non rivedrà mai più, tace. Non risponde a nessuno e giustamente. Gli altri però devono farlo, devono, puntellare gli argini per quando domani qualcuno minimizzerà definendo la polemica esagerata, permalosa, trito retaggio dell’ormai obsoleto politicamente corretto.

il manifesto 7.6.18
Pinotti compra altri 8 caccia F35 all’insaputa delle nuove Camere
La denuncia dell'Osservatorio Milex sulle spese militari. 150 milioni di euro l’uno: è il costo medio reale calcolato per gli F35 dall’ultima relazione della Corte dei Conti. Ma da 22 jet entro il 2021, ora si passa a 30 velivoli
di Rachele Gonnelli


«Imbarazzante» e «patetico», è così che il Times di Londra ha definito il volo inaugurale dei primi caccia supersonici F35 modello Lightning II consegnati dalla casa produttrice Lockheed Martin alla Raf, la Royal Air Force. È bastato un po’ di pioggia e il volo dalla Carolina del Sud alla base di Marham nel Norfolk è stato annullato. I modernissmi aererei multiruolo con tecnologia stealth per teatri di guerra lontani che i generali britannici si preparavano a festeggiare in pompa magna, sono rimasti a terra.
Da notare che si tratta degli stessi, identici, modelli di jet – progettati, sulla carta, per resistere ai cyberattacchi, a decollo verticale, non intercettabili e così via – che l’Italia ha recentemente comprato in blocco – in numero di otto – aumentando in un sol colpo e in modo considerevole il già costosissimo (730 milioni di dollari nelle ultime previsioni della Corte dei conti) programma di ammodernamento della flotta di cacciabombardieri tricolori.
A scoprire questo nuovo e ancora non pattuito acquisto dei lotti 13 e 14 è stato, proprio pochi giorni fa, l’Osservatorio sulle spese militari italiane Milex, attraverso una nota diffusa direttamente dal Pentagono. Costo in più per l’Italia: 10 milioni di dollari, che ora la nuova ministra della Difesa Elisabetta Trenta sarà impegnata a sborsare anche di controvoglia.
L’incertezza politica sul nuovo esecutivo italiano – si capisce dal rapporto Milex – ha indotto i partner statunitensi a premere sull’ex ministra della Difesa Roberta Pinotti perché firmasse di corsa l’acquisto degli altri otto aerei, nonostante la titolare del dicastero fosse in prorogatio di mandato, con gli scatononi già pronti. La firma porta la data del 25 aprile, cioè proprio mentre l’Italia, con un po’ di apprensione per i possibili ricorsi storici, festeggiava la Liberazione.
Con quel semplice tratto di penna è così andato in fumo gran parte del risparmio sul programma di acquisizioni di F35: dagli iniziali 131 previsti si era passati a 90 aerei in tutto, grazie a una battaglia parlamentare che aveva visto l’appoggio anche degli eletti della passata legislatura del Movimento Cinque Stelle, partito che oggi esprime la titolare della Difesa.
La Corte dei conti, nella relazione sulla spesa per gli F35 dell’anno scorso, metteva per altro in guardia da vari inconvenienti, tra cui ad esempio lo scarso impatto occupazionale (solo 6.300 posti di lavoro come picco nel 2019). Altro problema segnalato dalla Corte riguarda il continuo aumento dei costi di sviluppo del progetto, lievitati di oltre il 50% nella fase di sviluppo, nella quale si sono riscontrati «errori e carenze di progettazione» pesanti. Soprattutto per il tanto decantato e mai garantito « decollo verticale», come si è visto nei cieli del Norfolk.
Questa fase, che prevedeva gli aggravi di costo a carico del partner statunitense, è finita a maggio. Da adesso i costi di «retrofit» sono in testa ai partner europei, Italia in testa visto che la base di Cameri sarà l’unica ad assemblare i pezzi fuori dagli Usa.
E Pinotti invece di «sottrarsi a ulteriori acquisti» ha preferito comprare il pacchetto a prezzo calmierato. Senza neanche discuterne con il nuovo Parlamento.

il manifesto 7.6.18
Sanità privata in crescita e pubblico sempre più fragile
Rapporto Censis. Quaranta miliardi di spesa annuale, i più colpiti sono i redditi bassi. Per gli operai va via un’intera tredicesima: 1100 euro di cure familiari. Cittadini arrabbiati per le lunghe lista di attesa e le raccomandazioni
di Mirco Viola


Dai farmaci alle ecografie, dagli occhiali da vista alle sedute dal dentista, fino alla visita dallo specialista: quest’anno, per curarsi, gli italiani spenderanno complessivamente 40 miliardi di euro di tasca propria. Una voce, quella relativa alla sanità privata, in crescita rispetto ai 37,3 miliardi dell’anno scorso. I dati emergono dal rapporto Censis-Rbm Assicurazione Salute, presentato ieri a Roma in occasione del Welfare Day: il sistema sanitario nazionale, il grado di soddisfazione e insoddisfazione, le aspettative, spiega il Censis, hanno pesato parecchio sulle ultime elezioni politiche, tanto che l’81% dei cittadini ha dichiarato che si tratta di una questione decisiva nella scelta del partito per cui votare.
IL TREND DI AUMENTO È costante negli ultimi anni: la spesa sanitaria privata è aumentata di ben il 9,6% nel periodo 2013-2017, praticamente il doppio rispetto a quella dei consumi (5,3%). L’aumento colpisce soprattutto le fasce più deboli della popolazione: tra il 2014 e il 2016 i consumi delle famiglie operaie sono rimasti quasi fermi (+0,1%), ma le loro spese sanitarie sono aumentate del 6,4%; nell’ultimo anno, l’aumento è stato di 86 euro in più a famiglia. Per gli imprenditori, al contrario, c’è stato invece un forte incremento dei consumi (+6%) e una crescita inferiore della spesa sanitaria privata (+4,5%: in media 80 euro in più nell’ultimo anno).
Nell’ultimo anno 7 milioni di persone si sono dovute indebitare per pagare le cure, e 2,8 milioni per far fronte alle spese sono state costrette a svincolare i propri investimenti o addirittura a utilizzare il ricavato della vendita di una casa.
Per gli operai l’intera tredicesima se ne va per pagare cure sanitarie familiari: quasi 1.100 euro all’anno, calcola il rapporto. Per 7 famiglie a basso reddito su 10 la spesa privata per la salute incide pesantemente sulle risorse familiari.
IL FENOMENO DELLA SPESA sanitaria out of pocket, ovvero pagata di tasca propria dai cittadini, ha riguardato oltre 44 milioni di persone, più di 2 italiani su 3, con un esborso medio di circa 655 euro ciascuno. In particolare 7 cittadini su 10 hanno acquistato farmaci di tasca propria, per una spesa di 17 miliardi; 6 cittadini su 10 visite specialistiche (per circa 7,5 miliardi); 4 cittadini su 10 prestazioni odontoiatriche (oltre 8 miliardi). E ancora, oltre 5 cittadini su 10 prestazioni diagnostiche e analisi (3,8 miliardi); oltre 1,5 cittadini su 10 occhiali e lenti (2 miliardi).
In questo contesto monta il rancore verso il servizio sanitario, anche perché le ingiustizie sono evidenti: secondo il rapporto, 12 milioni di italiani hanno saltato le lunghe liste d’attesa nel pubblico grazie a conoscenze e raccomandazioni. Se a questo fenomeno sommiamo i casi di malasanità, si capisce come mai a provare sentimenti di rabbia sia il 38% degli italiani, quasi 4 su 10.
A DIRSI ARRABBIATI SONO soprattutto cittadini con redditi bassi (43,3%) e residenti al Sud (45,5%). Il 54,7% degli italiani – stimando il campione – è convinto che le opportunità di diagnosi e cura non siano uguali per tutti. Il 26,8% si dichiara critico perché, oltre alle tasse, bisogna pagare di tasca propria troppe prestazioni e perché le strutture non sempre funzionano come dovrebbero.
Infine il rapporto con gli attuali partiti: per un miglioramento della sanità il 63% degli italiani non si attende nulla dalla politica; secondo il 47% i politici hanno fatto troppe promesse e lanciato poche idee. La sanità – spiega il Censis – sarà il cantiere in cui gli italiani metteranno alla prova il nuovo governo gialloverde. I più rancorosi verso il servizio sanitario sono proprio gli elettori di M5S (41,1%) e Lega (39,2%), meno quelli di Forza Italia (32,9%) e Pd (30%). Ma gli elettori M5S e Lega sono anche i più fiduciosi nel cambiamento.
«LA SPESA SANITARIA privata – commenta Marco Vecchietti, ad di Rbm Salute – rappresenta la più grande forma di disuguaglianza, perché pone il cittadino di fronte alla scelta tra pagare o non curarsi. Se non si interviene continuerà ad aumentare». «Invertiremo questa tendenza», promette la neoministra della Salute Giulia Grillo – garantendo in tutta Italia adeguati livelli di assistenza».

La Stampa 7.6.18
L’ex ministra senza trono
“Sono abituata alle montagne russe”
intervista di Francesca Schianchi


Erano più di quattro anni che Maria Elena Boschi non attraversava per il lungo tutto il Transatlantico. Che non solcava quella manciata di metri accanto all’Aula in cui i giornalisti sono autorizzati a muoversi, allungare un microfono, fare domande. È da quando divenne la potentissima ministra delle Riforme, nel 2014, di fatto il numero due del governo Renzi, che la dirigente del Pd evitava il più possibile le imboscate di taccuini e telecamere. Fino a ieri, alla fiducia alla Camera del governo del professor Conte, quando - tailleur pantalone nero e sorriso smagliante - di nuovo semplice deputata senza più i galloni del governo, ha attraversato la folla delle grandi occasioni, ha salutato parlamentari di vari schieramenti, si è fermata alla buvette. Lei passa indisturbata, mentre a pochi metri sono i nuovi ministri a essere interrogati. Traslocate le sue cose da Palazzo Chigi, dove ha avuto per l’anno e mezzo di governo Gentiloni il cruciale compito di sottosegretaria alla presidenza del Consiglio, ora siede in Aula accanto a Luca Lotti e Lorenzo Guerini.
Com’è questo cambio di vita? Lei è passata da essere la donna più potente d’Italia a deputata semplice…
«Non credo di essere mai stata la donna più potente d’Italia».
Come no?...
«Nel caso non lo sono più da un pezzo… Sono abituata alle montagne russe. E fare il deputato è un grandissimo onore».
Si sente libera da responsabilità?
«Fino a un certo punto. Quando finalmente inizieranno le Commissioni ci daremo da fare. Penso ci faccia bene fare un po’ di opposizione».
In quale Commissione vuole lavorare?
«In Commissione Bilancio: dopo quattro anni di lavoro sulle leggi di bilancio qualche competenza l’ho acquisita…».
Che impressione le ha fatto il discorso del premier Conte?
«Ho capito che non faremo guerra a nessuno e che vogliono fare leggi costituzionali… (ride sarcastica). Sono molto curiosa di leggere domani (oggi, ndr.) gli editoriali dei commentatori politici. Il bilancio del nostro governo è positivo per i tanti risultati ottenuti: spero che non verranno smontati».
Lei tra l’altro il professor Conte lo conosce da tempo, vero?
«Sì, ma non sono mai stata sua assistente, come qualcuno ha scritto».
Come mai lo conosce?
«Perché abbiamo fatto entrambi parte della commissione esaminatrice di diritto civile della Scuola di specializzazione per le professioni legali dell’Università di Firenze».
Come lo trova?
«L’ho conosciuto in tutt’altra veste, come docente universitario».
E in quella veste com’è?
«Come professore so che è apprezzato dai suoi studenti, ma io non saprei, non ho mai seguito una sua lezione».
Come l’hanno accolta qui i grillini, che con lei nelle dichiarazioni pubbliche sono sempre stati molto duri?
«I rapporti sono buoni».
Poi, come un riflesso pavloviano dei tempi in cui la Boschi tutto sapeva e i suoi compagni di partito di fede renziana la aiutavano a schivare i tentativi dei cronisti di strapparle dichiarazioni, interviene Guerini, «sono la sua scorta, la porto via», scherza. Lei sorride, avviandosi verso l’Aula. Ormai indisturbata: al massimo, qualche occhiata truce dei grillini.

Repubblica 7.6.18
L’Authority nel mirino
Il pm anticorrotti in bilico paga la nomina del Pd
di Liana Milella


ROMA Conte contro Cantone. Il neo premier con simpatie grilline attacca l’ex pm che la camorra voleva uccidere e che Renzi, da capo del governo, nel 2014 ha messo ai vertici dell’Anac, l’Autorità contro la corruzione. Lo stesso Renzi che, due anni dopo, ha portato Cantone con sé dal presidente Obama presentandolo nel team degli italiani illustri. Ma d’improvviso la situazione cambia. Prima al Senato, durante la replica al dibattito, e poi ieri alla Camera, Giuseppe Conte pronuncia parole critiche verso l’Anac che, come tutti sanno, è una creatura di Raffaele Cantone. Lievitata in 4 anni fino a diventare un vero e proprio ministero nella lotta agli appalti truccati. Un «modello» che lo stesso Cantone ha tante volte portato all’estero, rivelando che più di uno Stato straniero ha chiesto quale fosse la sua formula di successo.
Ma ora Conte butta Cantone giù dalla torre. Spoil system? Un magistrato troppo potente e quindi ingombrante per il neo governo? Forse ritenuto troppo in simbiosi con Renzi prima e Gentiloni poi, una sorta di “agente nemico” in quota Pd?
Stiamo ai fatti. Rileggiamo cos’ha detto Conte di Cantone.
Al Senato martedì tutti sono stanchi quando il premier dice testualmente: «Stiamo studiando un’iniziativa che riguarda il ruolo dell’Anac. Se riusciremo a potenziare la sua fase di precontenzioso avremo una sorta di certificazione autorevole per gli amministratori». E ancora: «Se non riusciamo a superare la stasi generata dall’approvazione del codice degli appalti pubblici non andiamo da nessuna parte».
È noto quanto Cantone sia stato un fautore del nuovo codice, anche se non nega la necessità di migliorie. E sul codice Cantone s’è trovato sul fronte opposto rispetto a Piercamillo Davigo, l’ex pm di Mani pulite, la cui visione della giustizia è condivisa dal neo Guardasigilli Alfonso Bonafede. Per Davigo quel codice «è solo un ostacolo per le persone per bene, mentre chi vuole delinquere continua a farlo». C’è stato del freddo tra Davigo e Cantone, il primo a ripetere che «la corruzione non si combatte con l’Anac perché non ha poteri di repressione».
Ma sull’ultimo libro di Davigo (“In Italia violare la legge conviene. Vero!”, Laterza) Cantone ha avuto parole di apprezzamento del tipo «l’ho letto e in molti punti mi sono trovato d’accordo, vedo che non parla più dell’agente infiltrato, ma di quello sotto copertura...».
E dunque, solo un buffetto quello di Conte? O c’è di più?
L’incarico dell’ex pm, di sei anni, scade nell’aprile 2020, e non è rinnovabile. Ma nelle parole del premier alla Camera c’è un giudizio negativo. Testualmente Conte dice dell’Anac: «Cercheremo di valutare bene il suo ruolo che non va depotenziato, ma non abbiamo in questo momento i risultati che ci attendevamo. Forse avevamo investito troppo.
Possiamo valorizzare l’Anac, ma in una funzione e in una prospettiva diverse, di prevenzione. Per quanto riguarda il precontenzioso che oggi è davanti all’Anac possiamo rafforzare questa fase, per avere una sorta di certificazione anticipata per i funzionari, per gli amministratori pubblici e poter procedere alle gare più speditamente». Le frasi di Conte sono una doccia gelata per l’Anac. Le considerazioni del giorno prima erano passate del tutto inosservate. Ma ieri quando le agenzie battono quelle parole – «Non abbiamo dall’Anac i risultati che ci attendevamo» – e Cantone ha modo di leggerle il suo «stupore» è immediato. Lo consegna ai suoi collaboratori, poi si chiude nel più totale riserbo. Dall’Anac non filtra più nulla, tranne la volontà di «non fare polemiche» e la garbata notazione che, forse, «il presidente del Consiglio non conosce tutto ciò che l’Anac fa per prevenire la corruzione». Da qui l’invito a essere presente il 14 giugno alla relazione 2018 sul lavoro dell’Authority. Chissà...
“Stupore” di Cantone: “Forse il premier non conosce ciò che l’Anac fa”. Il nodo del codice sugli appalti pubblici e i dissidi con Davigo

il manifesto 7.6.18
Unidos Podemos, il dialogo è aperto. Con prudenza
Sinistra. Pablo Iglesias ha dimostrato sia nel dibattito parlamentare che ha cacciato Rajoy, sia in questi primi giorni di definizione del nuovo governo, di muoversi con molta prudenza, pur di far avanzare l’unità con i socialisti
di Massimo Serafini


L’entusiasmo per essere riusciti a cacciare il partito popolare e Mariano Rajoy dal governo della Spagna, sta affievolendosi rapidamente e comincia a lasciare il passo alla paura. Serpeggia il timore che Sánchez e questo Psoe diviso non riescano a cogliere l’opportunità che la cacciata delle destre gli ha offerto di poter mettere in moto politiche sociali, ambientali in grado di raccogliere la domanda di cambiamento che sale dalla società spagnola, in poche parole di modificare i rapporti di forza e costruire le condizioni per una alternativa di sinistra. Non sono paure infondate. Emergono con nettezza persino nella squadra, resa nota ieri, con cui Sánchez intende governare. Ciò che più turba sono le resistenze al cambiamento che provengono dall’interno del Psoe.
È certamente un segnale positivo avere assegnato undici ministeri a donne, contro i solo sei dati ad uomini, se non altro fa capire che i socialisti spagnoli si sono accorti delle grande mobilitazione femminista che ha percorso la Spagna in questo ultimo anno. Non altrettanto si può dire per quanto riguarda la nomina come ministro degli esteri di Borrell, che per le sue posizioni molto chiuse nei confronti degli indipendentisti catalani, non suona certamente come una conferma di quel dialogo con il nuovo governo catalano, che Sanchez aveva promesso nel dibattito parlamentare sulla sfiducia a Rajoy.
Al di là della composizione del nuovo esecutivo ciò che realmente sta alimentando scetticismo e paura che l’opportunità che si è aperta venga dispersa è la scelta di Sánchez di dar vita ad un governo di minoranza socialista che gode di soli 84 seggi in parlamento. In poche parole non è stata nemmeno presa in considerazione la proposta che Pablo Iglesias, a nome di Unidos Podemos gli aveva rivolto, nel dibattito sulla sfiducia a Rajoy, di dare vita ad un governo di coalizione, in cui Unidos Podemos fosse pienamente coinvolto. Un governo di coalizione fra le due principali forze della sinistra se non altro disporrebbe di una base parlamentare di 155 seggi, non sufficienti a garantire la maggioranza assoluta del parlamento, ma comunque lo scarto per raggiungerla dipenderebbe solo dal voto delle forze nazionaliste, assai più conquistabile da un governo di coalizione in cui le sinistre operano unite. È del tutto evidente che solo ricostruendo l’unità fra Psoe e Unidos Podemos è possibile dare la credibilità necessaria, non solo alla volontà di dialogo sulla questione territoriale, ma soprattutto alla annunciata discontinuità nelle politiche sociali e ambientali rispetto a quelle fin qui praticate. Senza questa discontinuità non è possibile modificare i rapporti di forza a favore delle sinistre. L’idea stessa di un partito socialista autosufficiente, non bisognoso per costruire un progetto di nuovo paese di chi ha dato rappresentanza alle nuove generazioni spagnole e allo straordinario movimento del 2011 degli indignados, cioè Unidos Podemos, rafforzerebbe la sensazione di un governo non solo paralizzato dalla forza delle destre, ma che volontariamente sceglie il piccolo cabotaggio e politiche che non scontentano nessuno.
Unidos Podemos ha dimostrato sia nel dibattito parlamentare che ha cacciato Rajoy, sia in questi primi giorni di definizione del nuovo governo, di muoversi con molta prudenza, pur di far avanzare l’unità a sinistra. Non ha posto condizioni nel dare il proprio voto alla mozione socialista e non ha polemizzato più di tanto per l’annuncio di Sánchez di non volere modificare il bilancio per il 2018 approvato dalle destre. Nemmeno la scelta di dar vita a un governo di minoranza di soli socialisti ha per ora dato vita a scontri fra Psoe e Unidos Posdemos. È una scelta però che non può durare a lungo e continuare con le chiusure chiuderebbe il dialogo. Lo si vedrà nelle prime decisioni del nuovo governo. Se la coalizione non è stata possibile, la si può realizzare sulle scelte programmatiche. Ad esempio cominciando a dare risposte ai milioni di pensionati/e che da mesi protestano nelle città spagnole in difesa del sistema pubblico e di pensioni degne. Sarebbe un ottimo segnale di inversione di tendenza che dissiperebbe molte paure.

Repubblica 7.6.18
La svolta Sánchez dopo Rajoy
Così la Spagna socialista sarà governata dalle donne
Dall’Economia alla Difesa, 11 ministre di peso e solo sei uomini. In squadra due gay
di Omero Ciai


È nato il governo rosa di Pedro Sánchez. Maggioranza schiacciante al femminile con undici ministeri affidati a donne e, soltanto sei, a uomini. Sette con il premier. Per la Spagna, e non solo, è la prima volta che le donne sono quasi il doppio degli uomini in un Consiglio dei ministri. Ed è un segnale di discontinuità molto forte per un governo monocolore socialista che può contare con appena 85 deputati (su 350) in Parlamento. Alle donne vanno molti dicasteri chiave, dall’unica vicepresidenza che sarà affidata a Carmen Calvo, una costituzionalista di 61 anni, fino a Dolores Delgado, procuratrice dell’Audiencia Naciónal, esperta di terrorismo jihadista, diritti umani e giustizia universale, molto vicina all’ex giudice Baltasar Garzón, che guiderà la Giustizia. Ma anche altri ministeri importanti come l’Economia - Nadia Calviño - o la Difesa - Margarita Robles. E poi Sanità, Lavoro, Istruzione. I dicasteri sono in tutto diciassette, quattro in più dell’ultimo governo Rajoy. Ma ieri sera, nella conferenza stampa, Pedro Sánchez, ha voluto sottolineare che ha resuscitato il ministero per la Cultura - abolito da Rajoy -, e aggiunto un ministero per la scienza affidato a un ex astronauta, Pedro Duque, 55 anni, che venne selezionato dall’Agenzia spaziale europea per far parte del primo team di astronauti e che viaggiò nello spazio nel 1998.
«Vogliamo essere un governo aperto - ha aggiunto Sánchez -, un governo proposto dal partito socialista che però aspira a rappresentare tutti i progressisti». Nuovo è anche il dicastero per “medio ambiente e clima” affidato a Teresa Ribera perché, ha detto il premier, «negli ultimi anni il problema del cambiamento climatico è stato molto sottovalutato ». E nuovo, infine, è il ministero di industria e turismo. Infine un altro segnale di svolta, Sánchez ha voluto inserire nella squadra di governo due gay dichiarati: il giornalista e scrittore Maxim Huerta (alla Cultura) e il giudice Fernando Grande-Marlaska (agli Interni), da anni sposato con il suo compagno.
Molta polemica invece ha creato la nomina del ministro degli Esteri. É Josep Borrell, politico socialista catalano, 71 anni, già presidente del Parlamento europeo a Bruxelles, e più volte ministro negli anni di Felipe González. Il presidente catalano Torra ha detto che la nomina di Borrell « non è una brutta notizia, è una pessima notizia ». Borrell infatti è stato in Catalogna un anti-nazionalista per eccellenza che ha speso molto del suo prestigio politico contro il governo secessionista di Carles Puigdemont nella stagione più critica appena trascorsa. Così Borrell, anche se fondamentalmente si occuperà di politica estera, sembra un messaggio di fermezza verso i catalani e il nuovo governo nazionalista di Barcellona che potrebbe mettere in difficoltà Sánchez in Parlamento. La sua mozione di sfiducia contro Rajoy è passata anche grazie ai nove voti di Esquerra republicana e agli otto del PDeCat - le due formazioni nazionaliste catalane -, e senza di loro quella maggioranza non c’è più. Grandi manovre infine a destra dove, con l’annuncio dell’uscita di scena di Mariano Rajoy, è ricomparso il suo vecchio mèntore, divenuto poi un acerrimo nemico, José Maria Aznar, due volte presidente del governo negli anni Novanta. Aznar ha lanciato la sua candidatura affermando di essere disponibile « a ricostruire il centrodestra» spagnolo.

il manifesto 7.6.18
L’Albiceleste mostra il cartellino rosso a Israele
Calcio. Lio Messi e le altre stelle della nazionale argentina rinunciano alla partita a Gerusalemme con Israele. Proteste rabbiose del governo Netanyahu. I palestinesi applaudono: ‎«Israele deve organizzare e giocare a calcio solo ‎all'interno di frontiere riconosciute».
Un cartellone a Hebron invita l’Argentina di Messi a boicottare il match con Israele: «Attenzione, stai entrando in un territorio occupato»
di Michele Giorgio


Doveva essere la ciliegina sulla torta delle celebrazioni a Gerusalemme dei 70 anni ‎di Israele. E invece si è rivelata un terribile boomerang per il governo Netanyahu ‎la decisione, anzi l’imposizione, della ministra dello sport Miri Regev di spostare ‎da Haifa a Gerusalemme la sede dell’incontro di calcio amichevole tra Argentina e ‎Israele. L’intento di Regev era quello di affermare il controllo israeliano su tutta ‎Gerusalemme, usando come veicolo lo sport e la presenza del calciatore più grande ‎del mondo, Leo Messi, e delle altre stelle argentine del pallone. Un po’ come era ‎accaduto un mese fa con la partenza da Gerusalemme del Giro d’Italia e del ‎fuoriclasse della bici Chris Froome. Ma la federcalcio argentina e l’Albiceleste non ‎sono gli organizzatori italiani del Giro, che pur di intascare un bel po’ di milioni di ‎dollari hanno ignorato le risoluzioni internazionali, le proteste dei palestinesi (e ‎non solo) e hanno celebrato Gerusalemme capitale di Israele sulla scia delle ‎dichiarazioni di Donald Trump, peraltro in anticipo di qualche giorno sul ‎trasferimento dell’ambasciata Usa da Tel Aviv nella città santa. Gli argentini le ‎ragioni dei palestinesi le hanno ascoltate e per Israele è stata una doccia fredda, ‎anzi gelata. Niente più amichevole, la partita è stata annullata per decisione di ‎Buenos Aires.
 Non è servita a nulla la telefonata fatta martedì notte dal premier Netanyahu al ‎presidente argentino Macrì per sollecitarne l’intervento sulla federazione calcio ‎argentina. Dovranno perciò chiedere il rimborso del biglietto i circa 30mila ‎israeliani che già sognavano di assistere alle prodezze di Messi e compagni nello ‎stadio della squadra del Betar Yerushalaim, criticata in patria e all’estero per ‎razzismo e violenze e che si vanta di non aver mai messo sotto contratto un ‎giocatore “arabo”, ossia un palestinese con passaporto israeliano. La reazione di ‎alcuni esponenti governativi israeliani è stata rabbiosa contro argentini e ‎palestinesi con l’uso di toni apocalittici e di riferimenti a “terrorismo” e ‎‎”antisemitismo”. ‎«L’annullamento (della partita) è assurdo, legittima il terrorismo ‎e la campagna (di boicottaggio di Israele) del Bds. Purtroppo abbiamo cavalli di ‎Troia alla Knesset che sostengono il terrorismo», ha detto Regev riferendosi al ‎deputato della Lista unita araba, Yusef Jabarin, che aveva chiesto alle autorità ‎diplomatiche e alla federazione dell’Argentina di rinunciare alla partita a ‎Gerusalemme, in ragione del suo status di città internazionale occupata. ‎«È un ‎peccato che l’elite calcistica argentina non sia stata in grado di resistere alla ‎pressione di coloro che predicano l’odio verso Israele e il cui unico scopo è quello ‎di distruggere Israele e violare il nostro diritto fondamentale di difenderci‎», ha ‎scritto su twitter il ministro della difesa Avigdor Lieberman descrivendo una ‎partita di calcio in una guerra per l’esistenza stessa dello Stato di Israele. Duri i ‎commenti di altri esponenti della destra israeliana e del capo dello Stato Rivlin ‎mentre l’opposizione laburista ha accusato la ministra dello sport di ‎«incapacità» e ‎di provocare con le sue decisioni ‎«tusnami» diplomatici.‎
 E infatti tutto è nato dalla decisione di Miri Regev di spostare la partita ‎Gerusalemme. ‎«Se la nazionale argentina avesse giocato ad Haifa non avremmo ‎protestato – ha spiegato al manifesto un assistente di Jibril Rajoub, il presidente ‎della federazione palestinese, raggiunto telefonicamente a Ramallah – gli israeliani ‎hanno voluto politicizzare l’arrivo dei campioni argentini allo scopo di sostenere ‎l’annessione di Gerusalemme a Israele sulla scia di quanto ha fatto Donald Trump‎, ‎Noi non potevano accettarlo». Rajoub era intervenuto con forza. Qualche giorno ‎fa aveva avvertito che ‎‎«Milioni di appassionati palestinesi e arabi bruceranno la ‎maglietta di Lionel Messi‎» in segno di protesta. Inoltre, scriveva ieri il quotidiano ‎argentino Clarin, attivisti pro-Palestina, radunati all’esterno del campo di ‎Barcellona, dove si stavano allenando i calciatori dell’Albiceleste, hanno chiesto a ‎Messi di non giocare la partita in Israele e hanno mostrato magliette con il numero ‎‎10 macchiate con di sangue. ‎«Non lavate l’immagine di Israele, non andate a ‎giocare la partita!», hanno scandito. A Messi e altri giocatori argentini, sarebbero ‎arrivate anche minacce. Alla fine è giunta la rinuncia argentina, accolta con grande ‎favore da tutti i palestinesi. ‎«Valori, morale e sport oggi si sono assicurati una ‎vittoria – ha commentato Rajoub – mentre Israele ha ottenuto un cartellino rosso, ‎affinché capisca che non ha il diritto di organizzare e giocare a calcio se non ‎all’interno di frontiere riconosciute a livello internazionale».‎

Corriere 7.6.18
Salta l’amichevole con Israele Messi & C: no a Gerusalemme
di Davide Frattini


I campioni della nazionale argentina hanno deciso di annullare la partita amichevole contro gli israeliani prevista per sabato sera. L’incontro, fissato a Haifa e poi spostato a Gerusalemme, aveva scatenato le proteste palestinesi. Inutile la telefonata di Netanyahu al presidente argentino Macri.
Abel Balbo, tre Mondiali con l’Argentina all’attivo, vicecampione del mondo a Italia ’90: sabato a Gerusalemme si doveva giocare l’amichevole tra Israele e Argentina, partita annullata per le pressioni e le minacce palestinesi a Messi e compagni. Un commento?
«È la sconfitta dello sport, la vittoria della politica sul calcio. Credo comunque che di errori ne siano stati commessi almeno un paio, e grossolani, da parte della Afa, la Federcalcio argentina».
Si spieghi.
«L’Afa ha sbagliato prima a organizzare questa amichevole e poi a cancellarla. Le turbolenze in Israele sono note da tempo, il fatto di avere in squadra uno come Messi poi è uno straordinario veicolo di popolarità ma espone anche a rischi. Diciamo che l’amichevole premondiale tra Israele e Argentina era in passato una bella consuetudine: io ne ho giocate due e il nostro Messi allora si chiamava Diego Maradona. Ricordo ancora l’emozione davanti al Muro del Pianto, più che la partita. In questo caso però, è stato un grave errore cambiare, rispetto ai miei tempi, la sede dell’evento».
Cioè?
«Un conto a mio avviso è giocare, come è capitato a noi, a Tel Aviv. Un altro — con tutto il valore simbolico e la querelle politico-religiosa che ne deriva — a Gerusalemme. In questo caso, forse, c’è stata anche un po’ di provocazione da parte delle autorità israeliane. So che il premier di Israele Netanyahu e il presidente argentino Mauricio Macri si sono parlati. Ma evidentemente era troppo tardi, non c’erano più margini per trovare una soluzione».
Ai suoi tempi però in Israele l’Argentina giocò senza problemi…
«Evidentemente Tel Aviv è un’altra cosa rispetto a Gerusalemme. La storia di questa partita ha radici antiche: la nazionale di Bilardo ci giocò poco prima del Mondiale messicano, vinto poi dall’Argentina. E da allora era diventata quasi un appuntamento fisso. Anche se dopo il 1986 la cabala, diciamo così, non ha più funzionato…».
Per chiudere con una battuta, possiamo dire che Maradona sia stato più coraggioso di Messi?
«Ripeto, hanno sbagliato in tanti: la Federcalcio argentina in primis e poi le autorità israeliane. Ed è un peccato perché in Argentina esiste una numerosa comunità ebraica, la più numerosa dell’America Latina, che ama il calcio e la Seleccion e che in passato ha sofferto sulla sua pelle episodi gravissimi come l’attentato a Buenos Aires al Centro ebraico Amia che nel luglio ’94 causò un centinaio di morti. Noi eravamo appena rientrati dal Mondiale negli Stati Uniti e ricordo lo sgomento di un Paese intero, al di là del credo religioso e politico».

La Stampa 7.6.18
Nel villaggio indiano dove il sanscrito
è tornato a essere la lingua del popolo
di Carlo Pizzati


Forse senza saperlo, tanti di noi hanno sentito pronunciare o cantare qualche parola in sanscrito. Basta ricordare, ad esempio, la canzone che l’anno scorso vinse il festival di San Remo, «Occidentali’s Karma». Già trent’anni fa, la cantante Madonna vinse il premio Emmy cantando il famoso mantra pacifista «Om shanti» nella sua «Shanti/Ashtangi». E pochi sanno che qualche parola in sanscrito s’è infilata in uno dei film della serie di «Guerre Stellari» e di «Indiana Jones», oltre che nell’opera del compositore Philip Glass, «Satyagraha».
Le origini
Il sanscrito è una delle lingue più vetuste del mondo, la prima delle lingue indoeuropee. Nata come dialetto dell’antichissimo indo-ariano, nel secondo millennio prima di Cristo, il sanscrito vedico dopo il 600 a.C. si sviluppò come lingua franca e letteraria nell’India antica e medievale, ma piano piano scomparve dall’uso comune, sopravvivendo solamente come lingua parlata nei templi delle varie religioni orientali e nella casta più alta dell’induismo, quella dei bramini, a conferma del significato della parola «sanscrito», cioè «elaborato, raffinato».
Ma il sanscrito è soprattutto noto per essere la lingua di filosofie orientali come induismo, sikkhismo, jainismo e buddismo. Quest’idioma è una divinità in sé e ripetere un mantra in sanscrito, come alcuni fanno meditando o prima e dopo lo yoga, anche nelle sale gremite di tappetini, in Occidente, ha delle proprietà benefiche che rasentano il magico, poiché i famosi mantra nascono proprio in questa antica lingua indoeuropea, considerata come la lingua degli Dei indiani.
Si dice che il sanscrito, pur essendo una delle 22 lingue riconosciute ufficialmente dal governo indiano, sia scomparso come linguaggio parlato, ma esiste un paesino lungo il fiume Tunga, nel cuore dello Stato del Karnataka nel Sud dell’India, dove cinquemila abitanti si salutano ogni mattina in sanscrito dicendo: «Kaatham Ashti?» ovvero, «come stai?» Oppure augurano a se stessi «Shubham Bhavatu», «speriamo mi succeda tutto il bene del mondo».
Immaginate un villaggio negli Appennini italiani dove i ragazzini che vi salutano in latino o ripetono un frase di Seneca o di Cicerone, questo è l’effetto che può provare chi arriva nel villaggio di Mattur.
L’iniziativa
Non è che qui il sanscrito non sia mai scomparso, in realtà dei religiosi induisti hanno fondato una scuola, la Sanskar Bharati, per insegnare a tutti la lingua e incoraggiare chi abita nel villaggio a parlarla. Così, grazie a quest’ondata di revival, è normale trovare una ragazzina con le treccine che, su invito del maestro, si mette a cantare uno stotram in sanscrito fuori da un negozio di dolciumi. O leggere graffiti scritti in sanscrito sui muri delle case a un piano.
In questo villaggio a pianta quadrata, proprio come quella dei templi induisti, si vive secondo i dettami delle scritture vediche. Tra palme, pozzanghere, rickshaw e piantagioni di noci di cocco e di betel, oltre il tempio di Rama e le acque del Tunga, è tutto un cicaleccio in sanscrito, lingua dalle vocali aperte, con suoni molto simili all’italiano, anch’esso idioma di discendenza indoeuropea.
La scuola
«Qui da noi gli studenti iniziano a studiare i testi sacri dei Veda, in sanscrito, all’età di dieci anni, e tutti i ragazzini del villaggio devono impararli a memoria», dice Subraha, un residente di Muttur, descrivendo il corso quinquennale che inculca questa cosiddetta «lingua morta» nelle menti dei matturiani.
Il revival del sanscrito sta attecchendo anche altrove, visto che il governo centrale di Delhi ora offre agli studenti indiani l’opzione di impararlo in alternativa al tedesco, come terza lingua da studiare obbligatoriamente nelle scuole pubbliche. E stanno spuntando altri villaggi, anche al Nord nel subcontinente, dove la lingua sacra risorge nel parlato. Così ora si comincia a sentir parlare il sanscrito anche per le strade dei paesini di Jhiri, Ganoda e Syamsundarpur.
In India, all’ultimo censimento linguistico, più di 17 anni fa, si arrivò a quasi 15 mila persone che lo parlano come lingua madre, mentre in Nepal nel 2011 erano circa 1700. Cifre che potrebbero aumentare.
La lingua morta della letteratura e della filosofia indiana rinasce quindi dalle ceneri e torna a fiorire per le strade, evocando forse un senso di antichissima unitarietà linguistica, che risorge da un passato remoto, ma che in realtà, tramite i testi sacri, i mantra, le canzoni religiose e le preghiere, era sopravvissuto nella liturgia dei templi per millenni. E nelle canzonette-yoga di Madonna.

Corriere 7.6.18
L’evento In mostra da domani al 12 settembre 175 opere
Alberto Giacometti si riprende il Guggenheim
L’omaggio di New York allo scultore svizzero
dal nostro inviato Stefano Bucci


NEW YORK Per capire tutto il senso e tutto il fascino della mostra su Alberto Giacometti che si apre domani al pubblico, dopo la preview per addetti ai lavori di oggi, al Guggenheim di New York (fino al 12 settembre) bisogna guardare le ombre. Quelle ombre che, complice la luce di un’illuminazione discreta ma efficace, scaturiscono dalla Grande Femme IV (1960-1961), dai Trois hommes qui marchent (1948) o dalla drammatica Tête sur tige (1947). Ombre che in qualche modo certificano come quelle non siano semplici figure, quanto vere e proprie creature, dotate di vita e sentimenti propri, anche se si tratta di sculture, di dipinti, di disegni. D’altra parte il fascino, e la forza, che Giacometti è ancora oggi capace di suscitare non sono certo un mistero. Lo dicono, venalmente, le quotazioni del mercato (e delle aste): L’Homme au doigt, incredibile e inquietante bronzo del 1947, è la scultura fino ad oggi più pagata al mondo con i 141,3 milioni di dollari che un anonimo collezionista ha sborsato nel 2015, da Christie’s a New York, per accaparrarsela. Non un caso isolato, comunque: nella lista delle Top 20 di tutti i tempi ci sono ben altre sei sculture di Giacometti, a cominciare dalla numero 2 della classifica, L’Homme qui marche del 1961 con «solo» 104,3 milioni di dollari (da Sotheby’s Londra nel 2010).
Maestro di una modernità classica e tormentata, ossessionato per tutta la vita, spiegano i curatori della mostra, «dal superamento dei limiti oggettivi dei sensi», Giacometti non è però solo un grande genio dell’arte: in qualche modo è il prototipo dell’artista-personaggio suo malgrado (lo conferma anche il fitto elenco delle mostre che gli sono state di recente dedicate, da Parigi al Québec, dalla Corea al Qatar). E di un’idea molto pop della creatività, una creatività a 360 gradi, insondabile e spesso inaspettata. La mostra del Guggenheim, la prima di queste dimensioni che un museo statunitense dedica all’artista svizzero (1901-1966) da più di 15 anni, celebra proprio l’estrema contemporaneità di Giacometti. E la sua incredibile capacità di cogliere il mistero di persone, forme geometriche, animali sia che si tratti del ritratto in nero di Annette (1962), con cui inizia una relazione a Ginevra nel 1943 e che sposerà a Parigi nel 1949, che apre il percorso espositivo, di Le Cube (1934) o di Le Chien (1951), il cane in bronzo prestato per l’occasione dallo Smithsonian di Washington, che conclude il viaggio all’interno della Rotonda progettata da Frank Lloyd Wright, e che si scopre, con sorpresa, Giacometti aveva pensato come una sorta di autoritratto.
Giacometti, tormento e estasi, proprio come per Michelangelo. Solo che per Giacometti è il tormento di un mondo che non è uscito indenne dalla Seconda guerra mondiale, un mondo costellato di uomini e donne sottili come fantasmi (impossibile non vedere le similitudini con l’etrusca Ombra della sera oggi a Volterra o con la lezione delle sculture africane). Uomini e donne non certo dalla bellezza classica (arti e piedi enormi, teste piccolissime, gesti talvolta assolutamente innaturali), ma che, dietro quella loro apparente mostruosità, celano una (forse) inconsapevole fiducia. Uomini e donne capaci di mantenersi in piedi, di stare seduti e, spesso, persino di camminare nonostante quelle loro forme fisicamente improbabili. Simboli, nemmeno tanto nascosti, di una fiducia nel futuro.
La mostra (curata da Megan Fontanella del Guggenheim e Catherine Grenier, direttore della Fondation Giacometti di Parigi con Mathilde Lecuyer-Maillé e Samanta Small) copre di fatto l’intera carriera dell’artista, con 175 sculture, dipinti e disegni, alcuni dei quali non sono mai stati mostrati negli Stati Uniti, oltre a documenti e immagini d’archivio. Un modo, oltretutto, per sottolineare la relazione storica tra lo stesso Museo Guggenheim e Giacometti. Nel 1955, in una sede temporanea, il Guggenheim aveva infatti organizzato la prima presentazione museale dell’opera di Giacometti, che fu anche la prima mostra significativa che il Guggenheim dedicò alla scultura moderna (sotto la guida dell’allora direttore James Johnson Sweeney). Nel 1974, nella nuova sede, ancora il Guggenheim avrebbe messo poi in cantiere una retrospettiva postuma dedicata ancora una volta a Giacometti. Mentre a partire dagli anni Quaranta Peggy Guggenheim, nipote di Solomon, avrebbe a sua volta iniziato ad ammassare opere di Giacometti, insieme a esempi di arte surrealista e astratta, opere che avrebbero poi viaggiato con lei da New York all’Europa e che ancora oggi formano il «nocciolo duro» della Collezione Peggy Guggenheim a Venezia (oggi inserita nella Salomon Guggenheim Foundation).
Nel vortice di emozioni e pensieri che Giacometti sembra ogni volta capace di suscitare convergono, e la mostra di New York lo dimostra chiaramente, le suggestioni e le lezioni del cubismo, del surrealismo, dell’arte primitiva (africana, oceanica, cicladica) e dell’antico Egitto (sorprendente, ad esempio, l’Autoritratto del 1937 in cui Giacometti riesce addirittura a mettere insieme il Faraone Sesostris III e Cézanne). Intrecciando frequentemente forme e dimensioni: le grandi teste del fratello Diego (da quella in gesso del 1934 a quella in bronzo del 1954) e di Simone de Beauvoir (1946), simbolo efficacissimo di legami d’affetto e di testa (strettissimi furono i legami di Giacometti con Jean-Paul Sartre e Samuel Beckett) che Giacometti intrattenne con il suo tempo (un altro esempio di queste sue connessioni? L’esposizione Bacon-Giacometti alla Fondation Beyeker di Basilea fino al 2 settembre). In un costante tentativo, messo in atto proprio da Giacometti, di catturare l’essenza stessa dell’umanità, qui ancora di più sottolineato da un allestimento giocato sulle prospettive e i confronti fra le varie opere (reso possibile dalla spirale architettonica progettata da Frank Lloyd Wright) e un «non-allineamento» di piedistalli e pareti.
Tra i pezzi forti della mostra (oltre a vere e proprie icone come Spoon Woman del 1926 e The Nose del 1949 già nella collezione del Guggenheim) il gruppo di tre sculture della fine degli anni Cinquanta concepite per un progetto di Giacometti (rimasto poi irrealizzato) per la Chase Manhattan Bank Plaza a New York, un grande monumento progettato per uno spazio pubblico urbano, ora installate nella High Gallery del museo. La sezione finale della mostra, sulla rampa superiore, riserva poi un’ultima, ulteriore sorpresa: un docu-film girato nel 1966 da Ernst Scheidegger, amico di vecchia data dell’artista, che mostra Giacometti al lavoro nel suo studio: proprio come il recente biopic, uscito quest’anno, che Stanley Tucci ha realizzato per raccontare 18 giorni nella vita dell’artista (nel 1964), quelli necessari a realizzare il ritratto dello scrittore James Lord: 375 mila dollari incassati nelle prime cinque settimane di programmazione. Ennesima dimostrazione che la contemporaneità di Alberto Giacometti colpisce ancora.

Repubblica 7.6.18
La casa Russia del sergente Rigoni Stern
di Paolo Cognetti


Non solo Dante o Hemingway. Nella biblioteca dello scrittore (di cui ricorre il decennale della morte) campeggiavano gli autori che amò dopo aver combattuto nella steppa. E che gli ricordavano le sue montagne
Il sergente maggiore Rigoni tornò a baita dalla guerra il 9 maggio 1945. Ci tornò a piedi, attraversando le montagne per raggiungere il suo Altipiano.
Con sé non aveva più armi ma una divisa logora, una cintura di molti buchi più stretta di quando era partito e il cappello con la penna nera che portava dal primo dicembre 1938, data del suo arruolamento volontario come «aspirante specializzato sciatore rocciatore». In sei anni e mezzo da alpino aveva partecipato agli attacchi contro la Francia, la Grecia, la Russia, era sopravvissuto alla ritirata nella steppa in cui erano morti tanti suoi compagni, dopo l’armistizio aveva rifiutato di aderire alla Repubblica di Mussolini e per questo era stato internato nei campi di prigionia tedeschi, dove dall’autunno del ’43 aveva combattuto la sua personale Resistenza. Diventato soldato a diciassette anni, spinto dalla voglia di avventura e dal patriottismo di un adolescente, smetteva di esserlo a ventitré con l’aspetto e lo spirito di un reduce: non volendo più saperne di esercito, rinunciò alla carriera militare e andò in congedo definitivo. Dunque il sergente maggiore Rigoni tornò a essere Mario Stern, figlio di Giobatta, montanaro dell’Altipiano, al momento senza lavoro. (…) Dunque Mario, disoccupato, aspettava. L’uscio è il punto della casa da cui si può scegliere se partire o restare, e in un’indecisione simile si trovava anche lui. Veniva l’estate, ma erano troppo presenti i ricordi per lasciarseli alle spalle e andare avanti. Aveva sofferto la fame e il freddo, la privazione della libertà, la violenza dei carcerieri.
Questo era niente, aveva ucciso e visto morire: morti, tanti morti.
Chissà se lo torturavano di più i nemici che aveva ammazzato o gli amici che non era riuscito a salvare? Di notte si svegliava gridando al pensiero dei morti.
Quanto aveva camminato e quanta neve! A volte provava a raccontare, ma aveva già capito che nessuno voleva ascoltare le sue storie: tutti avevano avuto la propria parte di guerra e non ne potevano più della guerra degli altri. Così aveva messo via il manoscritto del lager, le pagine in cui furiosamente, quell’inverno, aveva trascritto i ricordi della ritirata di due anni prima. Era stata la neve a farglieli tornare in mente. Forse c’era davvero un libro, dentro quelle memorie sgualcite che si era portato a lungo in tasca, ma adesso non era ancora pronto a rimetterci mano.
Pensò che per il momento, dato che tra la gente non gli andava di stare, poteva andare a far legna per sua madre. A cavar ceppi, cioè sradicare i resti degli alberi abbattuti, legna utile e gratuita, però un lavoraccio: si dà di piccone tutt’intorno al ceppo e si tira finché la terra non lo lascia andare. Ad avercelo si fa prima con un mulo, e ancora prima, ad avercela, con un po’ di dinamite.
Ma lavorare era una cosa buona, aiutava a non pensare troppo e a rimettersi in forma, e poi stare in bosco da solo gli era sempre piaciuto. Così Mario si alzò dalla soglia, spense la sigaretta, buttò qualcosa nello zaino e andò in montagna.
Ecco i giorni ricordati in questo Bosco degli urogalli. Il libro fa parte, in un modo tutto suo, di una letteratura sul ritorno del soldato di cui altri grandi ci hanno lasciato testimonianza, e con alcuni di loro dialoga come gli scrittori dialogano con i propri maestri. Mario era sempre stato un buon lettore, però negli anni Trenta la sua biblioteca era limitata: dalla disponibilità economica innanzitutto, ma anche da ciò che si pubblicava in Italia sotto il fascismo. Era passato da Stevenson e Conrad, tanto amati in adolescenza da aver tentato, lui montanaro, di arruolarsi in marina, alla Divina Commedia e all’Orlando furioso che si era portato in Russia, insieme a un’antologia di poesia del Trecento intitolata Primavera e fiore della lirica italiana. Troppo poco per imparare a scrivere. Niente per respirare lo spirito tumultuoso dei tempi. La sua vera formazione da scrittore cominciò dopo la guerra, quando divenne tra l’altro bibliotecario: come responsabile della biblioteca degli ex combattenti di Asiago, poteva ordinare e leggere i libri che voleva. Nel frattempo la Liberazione liberava anche la letteratura, in particolare quella americana contemporanea, e un’intera generazione di italiani si innamorava di Hemingway con vent’anni di ritardo. Mario lesse Addio alle armi, lesse I quarantanove racconti e scoprì come si poteva scrivere di guerra nel Novecento. E di bosco, anche. Trovò giusta quella lingua limpida e spoglia. Si rispecchiò in quel ragazzo che, partito a diciott’anni per la guerra, tornava ferito nel corpo e nello spirito e cercava una cura nei boschi della propria infanzia. Era anche Hemingway un erede: la letteratura americana aveva già fondato con Thoreau, con Melville, con London il mito della foresta e del suo richiamo, l’oceano-foresta che accoglie, guarisce, fortifica chi vi si immerge, ciò che per Mario erano la montagna e il bosco.
Ma non era a occidente il paese da cui si sentiva attratto come da una patria elettiva. Strano a dirsi, visto che ci aveva perso una guerra, si era innamorato della Russia. Forse per tutto quel camminarle dentro, tutta quella neve: la Russia gli era sembrata un paese che sarebbe potuto essere il suo. A un certo punto della ritirata aveva addirittura pensato: io mi fermo qui. Forse nell’isba di Nikolaevka, in quella casa in cui, invece di sparargli addosso, i russi gli avevano offerto una scodella di zuppa, era stata sancita una pace separata tra l’alpino dell’Altipiano e il popolo della steppa, e inaugurata un’amicizia. Mario avrebbe sempre considerato la betulla il suo albero insieme al larice: la Russia e le Alpi. E alla letteratura russa si dedicò con fervore nel dopoguerra. Più Tolstoj che Dostoevskij. E poi Turgenev, ?echov. Di Tolstoj amò I cosacchi, storia di un ufficiale moscovita che, stanco di guerra, trova una felicità inaspettata tra i montanari del Caucaso. Di Turgenev le Memorie di un cacciatore, un duro ritratto delle condizioni di povertà dei contadini ma anche un’ode alla vita nei boschi. Di ?echov le lettere dalla Crimea: «Qui ogni albero l’ho piantato io e mi sono cari. Tra tre, quattrocento anni, tutta la terra si trasformerà in un bosco fiorito e la vita sarà meravigliosamente leggera e facile…» Questo legame degli scrittori russi con il paesaggio, con lo scorrere delle stagioni, con le campagne e la loro gente, Mario lo capiva e lo sentiva suo, non c’era differenza tra quella patria immensa e la sua patria piccola, il suo Altipiano. Anche dell’Altipiano si poteva fare letteratura. Prima uscì il Sergente, nel 1953. Fu un libro letto e amato da molti, ma da molti anche frainteso: in parte la provenienza dell’autore, in parte il proliferare di memorie di guerra potevano far pensare alla mano fortunata di un reduce, più che alla nascita di un grande scrittore. Altri in quegli anni avevano scritto di guerra e si erano fermati lì. Mario non ne aveva nessuna intenzione: al premio Viareggio, che vinse per l’opera prima, incontrò Adriano Olivetti e gli chiese se non potesse avere uno sconto su una macchina da scrivere, magari un modello usato. In risposta, Olivetti gli spedì ad Asiago una Lettera 22 nuova fiammante e un biglietto di stima. Così con i soldi del premio Mario si comprò un fucile da caccia, l’altra sua passione: la doppietta Bayard e la Lettera 22 sarebbero state le sue armi per gli anni a venire.