La Stampa 25.6.18
La Turchia profonda incorona Erdogan
Al presidente un potere senza limiti
di Giordano Stabile
Dalle
mura della cittadella di Ankara, a quasi mille metri di altitudine,
l’occhio abbraccia all’infinito l’altopiano anatolico. Se c’è un posto
da dove Recep Tayyip Erdogan potrà contemplare il suo nuovo potere quasi
assoluto è qui, più ancora che sulle sponde del Bosforo. La Turchia
profonda, con le sua antiche fortezze e capitali dei primi turchi
selgiuchidi, si è confermata ancora una volta la sua sicurezza, compatta
dietro il «sultano repubblicano», come cominciano a chiamarlo fra le
file dell’opposizione sconfitta e delusa. Le folle di Smirne e Istanbul a
favore del grande rivale Muharrem Ince, staccato di quasi venti punti,
non sono bastate.
Al quartier generale dell’Akp, il partito del
presidente, nei centri stampa gestiti dal governo, però, la suspence si è
prolungata fin quasi alla mezzanotte. Come già nel referendum
costituzionale dello scorso anno, il vantaggio abissale all’inizio dello
spoglio, con Erdogan quasi al 60%, si è man mano ridotto, fino al
finale 52,7. Una vittoria, certo, e al primo turno, ma non il plebiscito
che forse si aspettava, sperava in cuor suo il reiss. E la stessa
parziale delusione è arrivata dalle elezioni parlamentari abbinate, dove
l’Akp è rimasto sotto la soglia della maggioranza assoluta e ora dovrà
appoggiarsi all’alleato nazionalista Mhp, all’11%, in una coalizione
forzata che erode un minimo lo strapotere del leader. Anche così, però,
la scommessa del voto anticipato è un successo. «Abbiamo vinto la nostra
rivoluzione democratica, è una lezione di democrazia, spero che nessuno
metta in dubbio la legittimità della vittoria», è stato il primo
commento del vincitore in tv.
Il regime presidenziale entra in
vigore un anno e mezzo prima del previsto. Ora Erdogan è presidente e
capo del governo. Il premier Binali Yildirim, come aveva già
preannunciato lui stesso, sarà l’ultimo della storia della Turchia
moderna. Il presidente nominerà e rimuoverà i ministri a suo piacimento,
farà e disfarà i governi, scioglierà il Parlamento quando lo riterrà
opportuno. Il leader ha già annunciato una riforma che ridurrà il numero
dei dicasteri a 16 e i giornali hanno pubblicato il nuovo schema
istituzionale: nei grafici sembra il sistema Tolemaico, con il
presidente al centro, poi gli altri poteri, compreso quello giudiziario,
che ruotano attorno, e infine i ministeri, in un cerchio più esterno.
Dai tempi dell’ultimo sultano Mehmed VI, deposto da Ataturk nel 1922,
non si vedeva un potere così accentrato.
Piazze piene, urne vuote
Nonostante
i comizi oceanici di Ince il risultato finale era nell’aria. Nei seggi
allestiti nei vecchi licei all’ombra della Cittadella, nel quartiere di
Ulus che era il cuore della capitale appena fondata negli Anni Venti, il
clima era depresso. Poco prima delle cinque del pomeriggio, quasi alla
chiusura, le urna trasparenti erano mezze vuote, le buste color senape
facevano quasi tristezza, anche se alla fine il dato ufficiale
dell’affluenza sarà dell’87%. Anche i pochi elettori che alla fine
confessavano di aver votato per l’opposizione erano rassegnati: «Alla
fine vincerà lui, o lo faranno vincere». Le voci di brogli rimbalzavano
sui social e sui telefoni e subito dopo la chiusura dei seggi un cordone
impressionate di poliziotti, recinzioni e persino camion inviati dal
comune di Ankara circondavano l’isolato nel quartiere centrale di
Kizilay dove ha sede il Supremo consiglio elettorale, l’organo deputato
ad annunciare i risultati ufficiali. È notte quando Ince accusa: «I dati
sono stati manipolati».
Il governo temeva un assalto, dopo le
denunce del partito di Ince, il Chp, e quelle dei curdi, furiosi per lo
spostamento di molti seggi nel Sud-Est, da zone con maggioranze a favore
del partito curdo Hdp ad altre dominate dall’Akp. Un modo per
intimidire gli elettori d’opposizione, o poter maneggiare le urne
lontani da occhi indiscreti, anche se poi comunque l’Hdp ha superato la
soglia di sbarramento del 10 per cento. Ad alimentare la tensione
arrivava anche la notizia dell’arresto di “dieci stranieri”, compresi
quattro italiani, accusati di voler “manipolare il voto”.
Lo stato d’emergenza
Il
trauma del dopo golpe del 15 luglio 2016 è ancora forte. Con 50 mila
persone in prigione, 140 mila licenziate, il “sultanato repubblicano” si
annuncia avaro di spazi per opposizione e dissidenti. Erdogan ha
ribadito ieri notte, parlando dal bus della campagna elettorale, che con
la fine della transizione costituzionale «le libertà e i diritti civili
saranno migliorati», finirà lo stato di emergenza e, si spera, la
repressione a tutto campo. Ora nessuno può contestare il suo potere,
almeno fino al 2023, quando la repubblica turca compirà cento anni.
Dalle mosse dei prossimi giorni si capirà che eredità vuole lasciare il
reiss. Un Paese stretto nella paura e chiuso in se stesso. O la nazione
guida di un mondo musulmano conciliato con la modernità, come sogna nei
suoi sogni migliori.