domenica 10 giugno 2018

Corriere 10.6.18
Vaticano, Capella rinviato a giudizio


II Giudice Istruttore presso il Tribunale dello Stato della Città del Vaticano ha rinviato a giudizio monsignor Carlo Alberto Capella, consigliere di nunziatura. II reato che gli viene contestato è quello di pedopornografia, detenzione e scambio di materiale pedopornografico, con l’aggravante dell’ingente quantità. Il Giudice Istruttore ha ritenuta la giurisdizione dell’Autorità giudiziaria vaticana, perché il reato contestato riguarda fatti commessi da un pubblico ufficiale, anche se all’estero. Fino all’agosto scorso, infatti, Capella — di origini emiliane, ma appartenente al clero di Milano — era secondo segretario alla Nunziatura di Washington. Poi il Vaticano lo aveva fatto rientrare e, ad aprile, lo aveva arrestato. La prima udienza del processo è fissata per il 22 giugno.

Il Fatto 10.6.18
Orlando: “Ormai il Pd non esiste più in gran parte d’Italia”


“Il Pd non esiste più in gran parte del Paese, dobbiamo ricostruirlo. E dove esiste sarebbe meglio non esistesse, soprattutto in molte realtà del Mezzogiorno”. È molto dura l’analisi del deputato dem ed ex ministro della Giustizia Andrea Orlando, presentata ieri a Milano nel convegno L’Europa tra democrazia e populismo, organizzato dai parlamentari europei socialisti e democratici. Secondo Orlando “abbiamo l’esigenza di aprire una fase radicalmente nuova e dobbiamo dire cambiamo le regole e andiamo subito a congresso, perché non possiamo stare in una posizione di limbo dove non si capisce chi detta la linea. Rischiamo di perdere ancora più voti”. Poi, interpellato sulla linea del nuovo governo sulla giustizia, l’ex Guardasigilli ha dichiarato: “Ho molte preoccupazione al riguardo, ma non mi piace la marcatura a uomo. Ritengo sia utile aspettare i primi atti”. Più tardi, anche notando l’eco delle sue dichiarazioni, Orlando ha precisato: “Alcune parole estrapolate dal contesto possono apparire fuorvianti e offensive per la comunità del Pd, che è una forza fondamentale per la democrazia italiana”.

Il Fatto 10.6.18
Pride 2018 romano in tono minore. Ma si rivede il Pd
In piazza - Sfilano anche i partigiani, i carri “diplomatici” di Canada e Gran Bretagna, i leader di dem, LeU e Cgil. Tutti contro Fontana
di Giulia Marchina


“Non voglio entrare nel merito della politica, ma non possiamo fare lo sgambetto alla storia. Se il mondo sta andando in una direzione, non voglio vivere in un Paese che ci costringe a essere ‘quelli fuori dal coro’”. Racconta così la sua esperienza al Pride di Roma Sabrina Impacciatore, madrina della manifestazione. E aggiunge: “Tutti coloro con cui ho parlato oggi, che ho guardato negli occhi, mi hanno resa felice. Ho capito che solo gli stolti potrebbero pensare siano diversi da noi e che meritino di godere di meno diritti”.
Alle 16 il grande carrozzone dell’orgoglio Lgbti è partito da Piazza della Repubblica, al grido di “Brigata Arcobaleno, la Liberazione continua”. In testa al serpentone, due testimonial d’eccezione: i partigiani dell’Anpi Modesto Costa, 92 anni, e Tina, 93, che ha tuonato: “Fontana, ma che vuole, chi è? E Salvini: ma noi avevamo bisogno di un ministro come lui? Dobbiamo riprenderci in mano tutti assieme, riprendere le redini del Paese, non sarà questo governo che lo cambierà. Oggi avete dimostrato che si può, bisogna osare. Se osiamo tutti assieme saremo vincitori”.
Diciotto carri, compresi quelli delle ambasciate del Regno Unito e del Canada, hanno accompagnato due ore di corteo; sfilano anche il comitato Orgoglio Trans, la Rete dei dipendenti Lgbti del Ministero degli Affari Esteri, e quello delle Drag Queen.
Sotto il sole di Roma ci sono Anthony, 78 anni e James, 82, arrivati dall’Inghilterra come turisti, e oggi manifestanti per caso: “Ci siamo conosciuti 50 anni fa”, racconta James, “io ero un quasi medico, Anthony faceva il cameriere al bar vicino casa. È stato amore a prima vista”. Lo interrompe Anthony: “Oggi siamo qui per supportarvi, è ora che anche voi facciate un passo in più.”.
Poco più in là, mentre giocano con il loro bimbo, ci sono Giovanna e Alessia: “Per la legge solo Giovanna è madre del nostro bambino. Io sono invisibile”, dice Alessia, “siamo nel 2018, sarebbe il caso di accelerare con la ‘burocrazia’ e di placare tutto questo finto perbenismo e moralismo”.
Inglesi, russi, austriaci, americani, indiani, italiani, tutti insieme, “non tanto per sottolineare la nostra ‘diversità’, come la chiamate voi ‘gente normale’, quanto perché siamo esattamente come voi”. A parlare è Elena, una volta era Michele. Fa la badante, “immagina se con la mia laurea in lettere io sia riuscita a trovare un lavoro degno della mia qualifica. Questo è il punto”. Come per tutti i Pride, non tutti sono omo, bi, o trans: “Sono qui per incoraggiarli. Etero dalla nascita ma era giusto esserci”, ha detto sorridendo Ludovica che passeggiava al fianco dei manifestanti con il marito e i tre figli.
Non mancano gli sberleffi al neo ministro della Famiglia Lorenzo Fontana, che nelle scorse settimane è balzato alla cronache per le affermazioni sulle famiglie arcobaleno: “Ministro Fontana, lei ha avuto una mamma e un papà, eppure ha delle idee ‘deviate’”, recita il cartellone di un manifestante. A seguire, una parata di goliardate, come la ragazza che in mano tiene il cartello: “Sono gay e pure mancina: #medioevoproblems”.
Alla festa era presente anche quello che resta della sinistra italiana: il segretario del Pd Maurizio Martina e il presidente del Pd Matteo Orfini; il leader di Leu Piero Grasso che ha dichiarato: “Una società civile ed evoluta deve fondarsi sul principio di uguaglianza previsto dall’articolo 3 della Costituzione”. Manifestano anche la senatrice radicale Emma Bonino e la segretaria della Cgil Susanna Camusso. Assente il sindaco della Capitale Virginia Raggi, perché fuori città, ma al suo posto sfila il vicesindaco Luca Bergamo. Al suo fianco, il presidente della regione Lazio Nicola Zingaretti e il vicepresidente Massimiliano Smeriglio.
Secondo gli organizzatori erano 50 mila, secondo fonti di polizia circa 20.000 alla partenza e 10.000 all’arrivo, in piazza Madonna di Loreto. In ogni caso, molti meno di un anno fa.

Repubblica 10.6.18
Il corteo a Roma
Il Pride canta Bella Ciao “ Resistenza per i diritti”
La Brigata Arcobaleno: “ Siamo 500mila”. Fischi al governo dopo le parole sulle famiglie gay. Cori per l’assenza della sindaca Raggi
di Caterina Pasolini


Roma Le famiglie arcobaleno, quelle che per il neo-ministro Lorenzo Fontana non esistono, sono davvero tante. E sono venute a ricordarlo al governo gialloverde. Mamme e bambini, padri e ragazzi: sono rumorosi, allegri e colorati. Pacificamente battaglieri. «Siamo le Brigate Arcobaleno, la Liberazione continua » , gridano, cantando “ Bella Ciao” al Roma Gay Pride. « Siamo in cinquecentomila » , annunciano gli organizzatori del circolo Mario Mieli guardando il corteo di giovani e adulti, di tutti gli orientamenti, italiani e stranieri, bambini, sindacalisti e poliziotti, vigili del fuoco e persino le aziende con i loro loghi.
Un filo colorato lega la resistenza partigiana, con la staffetta Tina Costa, 93 anni, alla battaglia di oggi per i diritti. « L’articolo 3 della Costituzione dev’essere applicato per tutti, bisogna dirlo ai nuovi governanti » , avverte. E il fiume di manifestanti è una dichiarazione di resistenza quotidiana contro i razzismi, un no ai fascismi, all’intolleranza sotto tutte le declinazioni. “ Resistere resistere resistere”, da Amnesty a Greenpeace, tra Susanna Camusso della Cgil e le rappresentanze straniere, con i carri di Canada e Gran Bretagna.
Canzoni tecno e un tocco di Carrà, ritmo e la delusione, per chi ha votato M5S, di non avere in piazza la sindaca Raggi (c’è solo il vice Luca Bergamo), rea per molti di non aver ancora riconosciuto una bimba figlia di due mamme. «Virginia dove sei?», si grida, mentre qualche fischio arriva al comizio finale. Ma la maggioranza degli strali, ironici, sono per il ministro leghista della Famiglia: « L’unica Fontana che ci piace è quella di Trevi”, recita uno striscione mentre poco più in là un gruppo di “ inesistenti” famiglie arcobaleno spinge passeggini. Un altro cartello recita: “Salvini rilassati, l’Europa la cambiamo noi”, mentre Monica Cirinnà, relatrice della legge sulle unioni civili, festeggia qui con il marito il settimo anniversario di matrimonio.
E se il presidente della Regione Nicola Zingaretti dice che « oggi Roma è più bella grazie al Gay pride perché una società fondata sul valore delle differenze e sul rispetto è una società più forte e più sicura », qualche dubbio lo ha Emma Bonino: «Il clima non è propizio alle aperture verso le diversità, rimanda a realtà illiberali. Reagiamo almeno adesso».

Corriere 10.6.18
Antifascismo Svolta al centro studi sulla Resistenza. Lo sconfitto De Bernardi: scelta che guarda indietro
Pezzino alla testa dell’Istituto Parri Una presidenza più vicina all’Anpi
di Antonio Carioti


Lo storico Paolo Pezzino, già docente dell’Università di Pisa, è il nuovo presidente dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri, che coordina i vari organismi locali dediti allo studio del movimento di liberazione. Il consiglio generale, riunito a Milano presso la sede centrale (la Casa della Memoria di via Confalonieri), lo ha eletto con una netta maggioranza di 39 voti, contro i 18 del suo rivale, il vicepresidente uscente Alberto De Bernardi, professore di Storia contemporanea a Bologna. La nuova vicepresidente è Manuela Ghizzoni, ex presidente della commissione Cultura della Camera, sulla quale si è verificata una convergenza generale. Nel consiglio d’amministrazione sono entrati Mario Renosio, Marco Borghi, Gianluca Fulvetti, Paola Carucci, Marilena Adamo, Stefano Pivato e Isabella Insolvibile. È rimasto fuori invece un nome di spicco come Luciano Violante.
Alla votazione hanno partecipato 58 istituti locali (uno dei rappresentanti ha votato scheda bianca) sui 64 aventi diritto: un dato alto, dovuto anche al fatto che non era mai accaduto, nella storia di questa istituzione per lo studio della Resistenza fondata nel 1949, che si andasse a una conta su candidature contrapposte. De Bernardi, che per sei anni è stato il vice del presidente Valerio Onida, rappresentava la continuità di una gestione caratterizzata da iniziative discusse, come quella di partecipare alla creazione di un museo sul fascismo a Predappio, paese natale di Benito Mussolini. Mentre Pezzino, che dopo aver approvato quella scelta ha cambiato idea e si è schierato contro il museo di Predappio (vedi il suo dibattito con Marcello Flores su «la Lettura» del 24 dicembre scorso), rappresenta un mutamento di rotta.
«Credo che la mia candidatura abbia avuto successo perché ho sostenuto una linea di forte trasparenza e maggiore coinvolgimento degli istituti locali, anche i più piccoli e periferici, nella gestione del Parri. Il richiamo alla collegialità mi pare il dato principale, insieme alla mia insistenza sull’attualità dell’antifascismo in una fase politica che vede a rischio valori fondamentali», dichiara Pezzino al «Corriere».
De Bernardi insiste sulla differenza d’impostazione culturale: «Ha prevalso la tendenza a guardare indietro, un ritorno all’antifascismo di maniera che finisce per essere retorico e inefficace nell’agitare il pericolo di un ritorno della dittatura sempre in agguato. Così il richiamo ai valori della Resistenza diventa un appello di parte, invece di essere il lievito di uno spirito democratico condiviso».
Si va forse verso un allineamento dell’Istituto Parri sulle posizioni dell’Anpi, l’Associazione dei partigiani con cui su Predappio c’è stato uno screzio? «Il mio intento — risponde Pezzino — è superare le polemiche passate e avviare una collaborazione, pur nella netta distinzione tra i compiti dell’Istituto, che deve fare ricerca e approfondimento, e quelli di un’associazione d’impegno civile come l’Anpi».

Il Fatto 10.6.18
Storia d’Italia: ora non c’è ritorno
di Furio Colombo


Riassumiamo: c’è un presidente del Consiglio part-time. È part-time perché, costituzionalmente e politicamente, quando non è in scena, non c’è. Col dovuto preavviso si presenta in aula vestito da Quirinale, incluso il fazzoletto bianco al taschino, che sarebbe ormai in disuso. Ma i professionisti non sono alla moda, sono in divisa. Quando è il momento “il presidente” enuncia, senza la minima vibrazione o emozione o passione (non sarebbe professionale) ciò che è stato concordato sulle schede preparate dai suoi datori di lavoro.
Il suo lavoro è rappresentare un governo che non si è mai formato, nel senso che non c’è unione o condivisione su nulla, né vi sono progetti o passioni in comune. D’altra parte tutta la gente che vediamo al governo, alcuni fino a un momento fa del tutto estranei a ciò che gli sta succedendo, tutta quella gente è stata eletta da due masse diverse e contrapposte di elettori, che volevano mondi diversi. A essi hanno spiegato che, date le circostanze, solo unendosi fra estranei si può governare. A questo punto inizia lo show. Prevede che arrivi un signore sconosciuto che si presta a pronunciare il discorso. Poi lo show deve continuare, e non sarà quel bravo signore vestito da premier part-time a guastarlo. Lo sa anche lui, come lo sanno i cittadini-spettatori dell’evento unico al mondo, che lui è il presidente di nessuno. Ma questo non vuol dire che lascerà il lavoro a metà. Perciò prende l’aereo e va in Canada, in una missione anomala: presentare al mondo il nuovo governo italiano da cui non è stato eletto, per cui non ha lavorato e in cui non conosceva nessuno. E prendere, in nome dell’Italia, decisioni mai discusse da alcun Parlamento. Compito difficile, se volete imbarazzante. Ma non più che presentare il “governo del cambiamento” agli italiani, che non avevano mai sentito parlare del loro presidente del Consiglio fino al giorno del giuramento, e che del cambiamento adesso conoscono solo il nuovo amore italiano per Putin, il progetto di “rimpatriare” subito 600 mila immigrati (detti “clandestini” benché siano sempre in vista se qualcuno di razza bianca ha in mano un fucile), la “tassa piatta” rifiutata con dignità e sdegno dal presidente dei Giovani Industriali italiani “perché è un dono ai ricchi”, la contiguità del ministro della Difesa del cambiamento con una ditta che assume mercenari (contractor) per le aree a rischio del mondo (ricordate Quattrocchi e la frase per cui ci hanno chiesto celebrazione “adesso vi faccio vedere come muore un italiano”?). Era un alunno dell’università del cambiamento. Ci sono due vice primi ministri, accanto al professionista dell’apparenza di cui stiamo parlando. Per fortuna ciascuno dispone di un ministero o due per esistere. Ma il mestiere di vice primo ministro (ovvero sostituto del capo del governo) nessuno dei due lo potrebbe fare mai perché sarebbe come scendere all’improvviso da una altalena. L’altro cadrebbe. Infatti quello dei due che assumesse, anche per un istante le funzioni di governo, come vice in sostituzione del capo, romperebbe il “contratto” diventando, magari solo per poche ore, più importante dell’altro. Per la stessa ragione il premier part-time non può essere davvero e legittimamente chiamato premier, designazione che, nella Costituzione italiana, non significa primo ministro, ma primus inter pares. Il designato italiano non può perché non ha pares. Ha datori di lavoro. E non ha colleghi, perché i ministri dipendono direttamente o da Salvini o da Di Maio. Infatti non ci sono, almeno per ora, tracce di relazione anche solo di conversazione tra il presidente del Consiglio part-time e i ministri che fanno capo ai due vice.
D’altra parte il “contratto” che sembra vincolare tutta questa strana macchina organizzativa, è un oggetto, ignoto e privo di significato in politica, perché vincola individualmente i contraenti solo in quanto privati. Strano che un simile paradosso (fondare sul diritto privato il funzionamento di un governo, che è il vertice della cosa pubblica) venga messo, sia pure part-time, nelle mani di un docente di Diritto privato, che avrebbe dovuto, per prima cosa, chiarire l’equivoco. In conclusione, abbiamo un presidente del Consiglio part-time che non ha una sua idea, non appartiene a un partito, non ha un leader, non è un leader, lavora per due grandi clienti, e pare che la sua bravura sia nell’armonizzare, o almeno tollerare, due gruppi incompatibili. C’è da domandarsi se, in caso di difficoltà, che all’improvviso potrebbero dimostrarsi più gravi, non si possano avere due primi ministri, a funzione alternata. Sì, è vero, sarebbe una situazione molto strana. Ma non più. Abbiamo mandato in Canada a trattare i destini dell’Italia un signore che una settimana prima non aveva la minima idea di dover fare politica mondiale e né la minima conoscenza sul come farlo. È il cambiamento, bellezza.

il manifesto 10.6.18
Flat Tax, il nuovo che avanza fa un regalo fiscale ai ricchi
Ricette Legastellate. Dopo 10 anni di crisi aumenteranno a dismisura le diseguaglianze
di Claudio Mezzanzanica


L’analisi dell’andamento dei redditi degli ultimi cinque anni, utilizzando i dati del ministero delle finanze, apre una seria obiezione alla proposta della Flat Tax.
Tanto nelle situazioni in cui il reddito complessivo è cresciuto di poco, come nel caso delle città del sud, dove l’incremento è inferiore a quello dell’inflazione, calcolato al 3,9% dall’Istat, quanto nel caso di alcune città del nord, gli aumenti vengono assorbiti in larga parte dai redditi sopra i 55.000 euro. Andiamo da un minimo del 49% a Bari fino all’83% di Torino.
Con queste percentuali, la crescita dei redditi nella fascia più ricca si scopre che non è legata solo alle rendite che finiscono nel 730. Anche gran parte dell’aumento del reddito da lavoro finisce comunque ad appannaggio dei redditi più alti. A Milano, l’aumento del reddito da lavoro è pari al 52% dell’aumento complessivo. A Torino è il 49%. A Napoli il 37%. A Milano sono 1.137 miliardi sui 2.300 milioni complessivi. Il 78% finisce nelle tasche dei più abbienti. Dunque ricchezza complessiva e ricchezza da lavoro sono concentrate in percentuali ridottissime di cittadini.
In città come Torino , Milano, Roma, oltre il 90% dei dichiaranti si spartiscono briciole infinitesimali degli aumenti del reddito. A Milano il 92% dei dichiaranti partecipa all’aumento del 22% del reddito. A Torino il 94% beneficia del 16% dell’aumento del reddito.
La tendenza alla concentrazione, come dinamica potremmo dire intrinseca, allo stesso lavoro va analizzata con attenzione. Non si tratta solo di dichiarare che il lavoro oggi è sempre più povero. Bisogna capire perché la ricchezza prodotta attraverso il lavoro finisca in poche mani.
In questo quadro la proposta di ridurre la tassazione sui redditi medio alti diventa un gigantesco regalo a una platea di contribuenti che oggi viene già premiata dalla dinamica del sistema. La detassazione realizzabile con la Flat tax, nel settore più abbiente aumenta in modo sensibile la liquidità nelle mani di queste famiglie ma non è detto che tale liquidità si traduca in una serie di consumi che possano sostenere l’economia. Proprio perché già premiati dall’andamento economico è più probabile che quanto detassato finisca nei soliti investimenti finanziari piuttosto che nell’acquisto di beni e servizi. In questa situazione vale il discorso di Warren Buffet che invitava a detassare il reddito della sua segretaria che avrebbe senz’altro comprato qualche altro vestito mentre lui si sarebbe limitato a fare altri investimenti in borsa.
Non dobbiamo dimenticare, inoltre, che i redditi medi di questa fascia sono superiori ai 100.000 euro e che la dinamica verso l’alto all’interno di questo settore è piuttosto elevata. Nelle città del nord, ad esclusione di Genova, i percettori di oltre 120.000 euro sono cresciuti del 12% nell’ultimo quinquennio. Poche migliaia di persone, ma questa mobilità verso l’alto c’è solo in questa fascia .
Il sud esce penalizzato dalla proposta della Flat Tax. Le dichiarazioni inferiori ai 26.000 euro nelle città di Napoli, Bari, Catania, Palermo, Cagliari, sono il 73%. Percentuali diverse per il nord. A Milano, Torino Bologna il 64% dei dichiaranti è inferiore a quella soglia per cui la Flat tax è di scarsa efficacia. Con questi numeri è difficile pensare una misura fiscale più iniqua. In una fase in cui l’andamento dell’economia sta dividendo pesantemente il paese sia geograficamente che socialmente si dovrebbero operare misure di riequilibrio. Una defiscalizzazione dei redditi più bassi, se ci sono le risorse, migliorerebbe il tenore di vita di milioni di famiglie. Invece si percorre la strada contraria sventolando il reddito di cittadinanza come misura di riequilibrio.
Al di là delle obiezioni sulla copertura di queste misure sembra chiaro che così facendo si lascia inalterato il meccanismo che dilata le disuguaglianze e si lascia svilire il senso anche sociale del lavoro. Questo rischio è oggi ampiamente sottovaluato. Un lavoro che sempre meno consente di costruire un futuro, che sempre meno dà certezze inevitabilmente produce una società altamente instabile. A dieci anni dall’inizio della crisi sappiamo che questa è una delle sue conseguenze e oggi la politica , anche con il «nuovo» si limita a certificarlo.

Il Fatto 10.9.18
La scuola violenta. “Prof, non la passerai liscia”. Un lungo anno di aggressioni
L’ultima campanella - Da settembre a oggi, trenta casi di docenti picchiati da genitori e alunni. Tuttoscuola stima siano il triplo
di Virginia Della Sala


Scuole chiuse, o quasi, dopo un anno di battaglia. E non in senso figurato. Gli ultimi nove mesi sono stati scanditi da notizie di aggressioni agli insegnanti da parte di alunni e genitori. È uno dei primi problemi che dovrà affrontare il nuovo ministro dell’Istruzione, Marco Bussetti. Politici, educatori, dirigenti ed esperti concordano: la figura dell’insegnante ha perso autorevolezza. Sottopagati, considerati meri esecutori dei capricci dei genitori, vittime della disintermediazione che illude di non aver bisogno di professionisti. Viene chiamata “fine dell’alleanza educativa” tra scuola e famiglia, di cui l’istituzione non riesce più a farsi mediatore.

Il bilancio
33 violenze fisiche accertate e 81 stimate
La rivista Tuttoscuola ha perciò attivato un contatore che ha raccolto, durante l’anno scolastico, i casi di aggressione ai docenti. “Non sono poche e tendono ad aumentare – spiega la rivista –. E per ogni aggressione di cui si ha conoscenza certa, si stima che ve ne siano almeno altre tre non rese pubbliche. Per non parlare delle violenze verbali, ancora più diffuse come ci confermano diversi dirigenti scolastici”. Dal settembre 2017, si contano 33 violenze fisiche accertate e 81 violenze fisiche stimate. Una media di quattro episodi a settimana.
Paola, settembre ‘17
Primo giorno, la figlia chiama e lei attacca la prof
La madre di una ragazza di 16 anni entra in classe e strattona e spintona l’insegnante davanti agli alunni dopo essere stata chiamata dalla figlia in lacrime. La ragazza era stata rimproverata. La mamma si difenderà sostenendo che la professoressa “perseguitava” la ragazza dall’anno precedente.
Mirandola, ottobre ‘17
Lanciano il cestino contro la professoressa
C’è un video: un 15enne afferra il cestino dell’immondizia e lo scaraventa contro la docente che sta spiegando alla cattedra. Un altro, tira delle penne, un terzo riprende la scena. I tre minorenni vengono denunciati per violenza a pubblico ufficiale e interruzione di pubblico servizio.
Monserrato, Ottobre ‘17
“Via lo Smartphone” e lo prende a pugni
Un alunno, rimproverato dall’insegnante, le sferra un pugno in pieno volto. “Il ragazzo stava dando dei colpi con un pezzo di cartone ai compagni, forse un album da disegno o un quaderno, non ricordo bene – ha raccontato la docente –. A quel punto l’ho ripreso e invitato a comportarsi bene dicendogli che se non avesse smesso gli avrei preso il cellulare”. Il quattordicenne ha preso il suo telefonino e le ha sottratto la borsa. Quando lei si è avvicinata, l’ha colpita. La donna è caduta a terra e ha perso i sensi. È stata portata in ospedale.

Avola, gennaio 2018
In due per rompergli le costole all’uscita
Il professore di educazione fisica di sessan’anni rimprovera l’alunno di 12, irrequieto. Gli dice di chiudere la finestra e di stare composto, il ragazzino – sostiene il docente – gli tira un libro. Lui chiama i genitori che lo fermano in cortile e lo prendono a calci e pugni fino a che l’uomo non finisce all’ospedale con una costola rotta. Nella loro versione, sosterranno che sarebbe stato il professore a lanciare il libro contro il ragazzo.

Como, gennaio 2018
Insulti e bestemmie perché gli avrebbe rotto il telefono
Esiste un video: 84 secondi di insulti, bestemmie, minacce e accuse. Secondo il ragazzo, il professore sarebbe colpevole di aver danneggiato il suo smartphone, probabilmente ritirato dal docente in precedenza.

Caserta, Febbraio 2018
Maestra percossa per un consiglio
Una mamma di una bambina di quattro anni picchia la maestra, sbattuta ripetutamente con la testa contro il muro, perché non è d’accordo con il suggerimento dato. La maestra aveva solo spiegato alla bambina come fare delle “stanghette”.

Caserta, Febbraio 2018
L’interrogazione va male, lui la accoltella
Uno studente di 17 anni accoltella in classe l’insegnante di 54 anni che voleva interrogarlo per permettergli di recuperare una insufficienza. Lui si rifiuta, lei gli impedisce di uscire. È una escalation: dalle proteste alla nota disciplinare. Fino alla ferita al volto, un lungo taglio con un coltellino tascabile. La professoressa viene ricoverata.

Alessandria, Febbraio ‘18
Legato alla sedia, ripreso e insultato
Una insegnante supplente di prima superiore in un istituto tecnico, con difficoltà motorie, viene legata alla sedia della cattedra con lo scotch, presa a calci e sbeffeggiata da un gruppo di studenti mentre altri riprendono la scena con uno smartphone. Ad allertare il bidello, uno studente di un’altra classe che passava per caso.

Foggia, Febbraio 2018
Percosse al vicepreside di una scuola media
Trenta giorni di prognosi dopo essere stato picchiato con calci e pugni dal padre di uno degli alunni che frequentano la prima della scuola media dove insegna. L’uomo lo ha aggredito all’uscita. Il giorno prima aveva rimproverato il figlio di otto anni perché spingeva e rischiava di far cadere le compagne in fila.

Lucca, Aprile 2018
“Inginocchiati e mettimi la sufficienza”
Due video che mostrano violenza contro lo stesso professore in un istituto tecnico di Lucca: nel primo, uno studente prova a strappargli di mano il registro elettronico, gli intima di inginocchiarsi e di mettergli sei sul registro. “Prof non mi faccia inc…re. Metta 6”. I compagni riprendono la scena col telefono. E ancora: “Lei non ha capito nulla. Chi è che comanda? Si inginocchi”. Dopo pochi giorni, inizia a circolare un altro video in cui alcuni studenti indossano un casco integrale in classe, provando a prendere a testate il professore.
Pesaro, Aprile 2018
Accendini al volto, i ripetenti: “Ti brucio”
Uno tiene un accendino acceso davanti al volto del professore, l’altro lo spinge, i compagni li incitano a dargi fuoco e riprendono la scena. Il docente, molto scosso, non dice nulla. La preside lo scopre solo tramite il video su Whatsapp di un conoscente. Oltre ai due studenti, ripetenti, è stato identificato un terzo studente che incitava più di altri ad appiccare il fuoco.

Torino, Aprile 2018
Punizione in biblioteca, il papà gli sferra un pugno
Il padre di uno studente, mandato in biblioteca come sanzione per un ritardo, colpisce con un pugno alla mandibola il professore, che finisce al pronto soccorso.

Velletri, Aprile 2018
“Ti mando all’ospedale e ti sciolgo nell’acido”
“Te faccio scioglie in mezzo all’acido, te mando all’ospedale professore’”: il video è girato in un Istituto Tecnico di Velletri e a parlare è uno studente, rivolto alla sua professoressa. Il diverbio è del 2017, ma è diventato virale solo quest’anno. Dieci minuti di discussione, l’insegnante ha minacciato di spedirlo dal preside per l’ennesima nota. “Ma chi sei tu per dirmi che devo stare zitto. Ma voi volete proprio finire all’ospedale – dice il ragazzino –. Ti faccio squaglià in mezzo all’acido, ti faccio squaglià”. I compagni ridono e riprendono. “Mo ti alzo tutto il banco ti alzo, vuoi vede’? Non mi provocà professore che poi la macchina non te la ritrovi”. E quando lei esce per chiamare il preside, lui prende a calci la porta.

Palermo, Aprile 2018
Picchia il prof ipovedente: emorragia cerebrale
Un professore di 50 anni ipovedente viene picchiato e ferito gravemente dal padre di una studentessa di terza media di un istituto comprensivo di Palermo. Il professore avrebbe ripreso l’alunna in classe e lei, all’uscita dalla scuola, avrebbe riferito al padre che l’insegnante l’avrebbe picchiata. Salvo poi ritrattare e ammettere di essere solo stata allontanata dall’aula.

Milano, Maggio 2018
“Ha graffiato mio figlio”: malmena la maestra
Una mamma milanese quarantenne prende a “schiaffi” e a “calci” e tira i capelli alla maestra durante un’ora disupplenza nella classe del figlio di 8 anni. “La maestra ha stretto il braccio di mio figlio, che è un bambino vivace, seguito dai servizi sociali, per tenerlo fermo. Gli affondava le unghie. Lui si era agitato dopo aver saputo che non sarebbero andati in ludoteca”, ha detto la mamma. La scuola ha dato un’altra spiegazione: “Il bimbo soffre di un disturbo oppositivo-provocatorio. Quel giorno si stava azzuffando con un compagno e la maestra è intervenuta per separarli. Lo ha allontanato per proteggerlo, il bambino ha cercato di morderla e l’ha presa a calci. E nella concitazione si è ferito, graffiandosi”.
Taranto, Maggio 2018
Propone la sospensione per il bullo, lo schiaffeggiano
Il padre di un alunno di scuola secondaria di I grado aggredisce con schiaffi e pugni il professore che aveva proposto la sospensione per 5 giorni del ragazzo che, richiamato perché picchiava i compagni, si era rivolto in modo minaccioso al docente.
Padova, Giugno 2018
La figlia va male in inglese, lei picchia l’insegnante
La madre di un alunno di scuola media aggredisce l’insegnante di inglese che aveva dato un voto insufficiente al figlio. Allo scontro verbale nel cortile della scuola prima delle lezioni è seguito uno schiaffo in faccia. La professoressa è caduta a terra, si è ferita al labbro e, con un livido in volto, si è fatta medicare all’ospedale.

Il Fatto 10.6.18
Il focus: le colpe dei maestri


Maggio 2018. ”Zozzoni, cretini e asini”: erano gli epiteti usati da un’insegnante della provincia di Salerno. È stata sospesa per un anno. Nello stesso periodo schiaffi, spintoni e percosse vengono documentati dalle telecamere nascoste in un asilo in provincia di Parma: due maestre sono arrestate.

Aprile 2018. Una maestra di 45 anni viene fermata a Varedo, in provincia di Monza e Brianza: in una scuola materna costringeva i bambini a stare immobili per ore, con le braccia conserte.

Marzo 2018. Un insegnante di inglese in una scuola materna di Roma, viene arrestato: è accusato di violenza sessuale nei confronti di bambini fra i tre e i cinque anni. Sempre a Roma è arrestato anche un insegnante di karate. Ha abusato di una ragazzina di 14 anni. Una scuola materna privata, in provincia di Pordenone, viene sottoposta a sequestro: le insegnanti prendevano a schiaffi i bambini.

Dicembre 2017. Un maestro di 67 anni, che insegnava in una scuola elementare di San Donato Milanese, viene condannato a 7 anni e 4 mesi: chiamava le bambine alla cattedra e poi le palpeggiava.

Novembre 2017. Sberle, spintoni e insulti. Tirate di orecchie e altre umiliazioni. Tutto viene documentato da una videocamera nascosta in una scuola materna di Vercelli. Tre maestre sono accusate di una cinquantina di episodi di violenza.

Repubblica 10.6.18
La prof aggredita
“Picchiata per un 4 a quella madre dico non regalo voti a chi non lo merita”
intervista di Enrico Ferro


PADOVA Genitori che odiano i professori. E figli che imparano a farlo.
Nell’anno nero della scuola italiana, con 26 insegnanti aggrediti nei primi quattro mesi, la storia di Francesca Redaelli, professoressa di inglese della media Albinoni di Selvazzano, periferia ovest di Padova, è solo l’ultima in ordine di tempo. In questo caso è la media del 4 a fine anno a scatenare la furia di una madre con un figlio in classe prima che rischia la bocciatura.
Professoressa Redaelli, cos’è successo?
«Stavo per raggiungere i colleghi per gli scrutini, mi sono trovata davanti quella donna. Gridava: “Perché non ha interrogato mio figlio? Era un suo diritto”. Mi ha colpito con una manata in faccia, poi con un pugno in testa. Io sono caduta, quando ho ripreso conoscenza c’era sangue dappertutto».
Lei è stata dimessa dall’ospedale con una prognosi di 20 giorni per la frattura del setto nasale. Per quel che è accaduto indagano i carabinieri. Come sta ora?
«Sono frastornata però sto ricevendo tanti attestati di vicinanza e solidarietà, anche dai miei ragazzi. Sa qual è la cosa che più mi dispiace?».
No, quale?
«Che la figlia di quella donna, un’altra alunna dell’istituto, abbia visto tutto perché si trovava nei paraggi».
Qual è la storia scolastica di questo studente?
«A fine marzo aveva alcune materie insufficienti. Sta seguendo un percorso sportivo che lo porta spesso all’estero. È rimasto assente quasi un mese.
Quando è tornato l’ho interrogato e ha preso 4. In una verifica scritta gli ho dato 3.5».
Cosa recrimina la madre?
«Voleva che lo interrogassi ancora una volta, ma l’avevo sentito il giorno prima. Lei si presentava a scuola a ogni ora, anche fuori dall’orario di ricevimento. Pretendeva di parlare con me e i miei colleghi, ci chiedeva di portarlo alla sufficienza. A volte ci lasciava lettere scritte a mano, indicando i suoi desiderata. Ma se un ragazzo merita 4 perché gli devo dare 6?».
Un’ultima possibilità l’ha data o no a questo giovane?
«Certo, l’ho interrogato giovedì mattina. Ha preso un altro 4».
Di lei dicono che è un’insegnante molto severa.
Questo non giustifica in alcun modo chi l’ha aggredita ma, insomma, è vero?
«Posso soltanto dire che non regalo voti, non lascio il mio numero di telefonino e non faccio gruppi WhatsApp con gli studenti. Mantengo sempre la giusta distanza e non credo possa essere una colpa».
Le statistiche nazionali parlano di un prof picchiato ogni quattro giorni. Com’è fare il suo lavoro oggi?
«Le dico solo che molto spesso i genitori li riceviamo in due, per evitare fraintendimenti e per avere sempre un testimone di ciò che accade».
Come si regolerà d’ora in poi con quei genitori?
«Non li voglio più vedere».

Il Fatto 10.6.18
La Casaleggio dà il via al tour per portare i cittadini su Rousseau
di A. Giamb.


Parte da Torino il Rousseau City Lab, il tour con cui l’Associazione Rousseau di Davide Casaleggio intende ampliare i partecipanti alla piattaforma per la democrazia diretta creata dalla Casaleggio&Associati: “Vogliamo coinvolgere gli imprenditori, le persone che hanno scritto libri e che hanno innovato sul territorio”, ha detto ieri pomeriggio all’interno di una struttura gonfiabile (a forma di mouse gigante) di fronte a pochi attivisti. Alla base dell’iniziativa c’è il pensiero che le proposte formulate dagli iscritti sulla piattaforma ora possono avere più riscontri perché in parlamento ci sono più eletti del M5S. “Faremo due tappe al mese – ha spiega Max Bugani – per aumentare gli iscritti a Rousseau, ma anche per far capire che la democrazia diretta non è un sogno”. E a proposito di democrazia diretta, Casaleggio si è detto soddisfatto dell’istituzione di un ministero apposito affidato a Riccardo Fraccaro: “È un grandissimo successo non solo per il MoVimento 5 Stelle ma per l’Italia”.

Corriere 10.6.18
Quel surplus di ferocia per la donna dell’eccesso Asia linciata sul web dai nuovi inquisitori
Il pubblico assiste sbigottito a questa moderna caccia alle streghesenza limiti
di Pierluigi Battista


Gli odiatori (anonimi) senza pietà per l’attrice
Dal loro sottosuolo i linciatori del web vomitano odio contro tutto e contro tutti, ma ad Asia Argento riservano un odio ancora maggiore, un trattamento speciale, un surplus di ferocia. Perché? Augurano la morte dolorosa ai Padri della Patria sotto i ferri del chirurgo, come è accaduto a Giorgio Napolitano. Ricoprono di insulti e sputacchi qualunque personaggio pubblico, anche il più mite: uno scienziato che consiglia l’uso dei vaccini, un cantante che si fa fotografare mentre fa la spesa, una suora che canta canzoni improntate alla bontà, un immigrato appena assassinato, una presentatrice tv che si permette di indossare una gonna corta, chiunque, purché conosciuto e dunque da colpire senza pietà, coperti dalla vigliaccheria dell’anonimato, ovviamente. Ma con Asia Argento è tutto di più: più crudele, più sbracato, più livido. Si è impiccato in un hotel di Parigi l’uomo celebre che le stava accanto, Anthony Bourdain, lei ne è devastata, ma nelle latrine dei social network, con una istantaneità corale che lascia sgomenti, si decide piuttosto di devastare lei, di massacrarla con accuse assurde, come se lei (complici fotografie lette come se fossero l’arma del delitto) incarnasse diabolicamente la causa del dolore insopportabile di Bourdain. Un diavolo, anzi una strega che con il demonio ha un commercio particolare e per questo va messa al rogo, dopo adeguata tortura (morale, per il momento). Un trattamento speciale, del resto, che replica il tiro al bersaglio contro di lei dopo la deflagrazione del caso Weinstein: tutte le attrici che lo hanno denunciato non se la sono passata bene, ma nessuna come Asia Argento è stata massacrata nella sua stessa immagine. Una così, così spudorata, sfrontata, così eroticamente aggressiva, ora si mette a recitare la parte della vittima? Giù botte.
Con il linciaggio dopo la morte di Anthony Bourdain, però, ogni residua soglia è stata oltrepassata, ogni record di odio è stato stracciato. Forse perché il trattamento speciale che gli odiatori incarogniti riservano a Asia Argento è anche il frutto di un’attrazione ambigua e irresistibile per l’oggetto del loro odio. Lo stesso modo provocatorio, impudente, indisponente di Asia Argento sembra aizzare questo miscuglio di repulsione e di attrazione. Asia Argento è la donna pericolosa, spudorata, eccessiva. E il suo eccesso si riflette nell’eccesso di odio e di ferocia. La novità però non sta nell’eccesso, nei fiumi di melma che stagnano emettendo vapori di frustrazione e cupezza. Sta nel fatto che, previa copertura nell’anonimato, esiste ora uno strumento per rendere quell’odio pubblico, un palcoscenico dove esibirsi nella rappresentazione del linciaggio. E il pubblico assiste sbigottito a questo sabba di ostilità, a questa moderna caccia alle streghe che non conosce limiti e decenza. Demolire una donna piagata dal dolore della sorte dell’uomo che amava e che si è tolto la vita è un abisso tale che ci vorrebbe un nuovo Dostoevskij per averne una descrizione adeguata.
Non sarà l’ultima volta, e per Asia Argento si apre una strada che porta ulteriori dolori, e nuove reazioni, e ancora reazioni, in una spirale che non si interrompe mai. Ad Asia Argento, oggetto di attrazione e repulsione, i nuovi inquisitori, che come gli inquisitori di una volta manifestano uno speciale attaccamento per la loro vittima, non perdonano niente, persino il suo essere stata vittima di una violenza. Il nuovo tribunale del popolo ha emesso il verdetto: il linciaggio permanente.

La Stampa 10.6.18
Dai boss per affogare”
Ad Al-Hammah tra i parenti degli scomparsi nel naufragio del 3 giugno verso l’Italia: «Mio figlio doveva restare a spaccare pietre». Il dolore infinito del padre di Ammar: «Quei mafiosi sono venuti a promettergli il paradiso, il nostro governo non ha fatto nulla»
di Niccolò Zancan

qui

Il Fatto 10.6.18
I “dimenticati” nell’inferno dei lager libici
“Non lasciamoli soli” - Due giornalisti raccontano le storie dei migranti diretti in Italia
di Daniele Erler


Non è facile salire “sui barconi stracolmi di sofferenza e dolore”: provare a raccontare le vite di chi è normalmente considerato merce senza più umanità. “Per capire da dove vengono queste persone e dove vogliono andare a cercare una minima possibilità di futuro per sé e per la propria famiglia”. Francesco Viviano e Alessandra Ziniti – giornalisti di Repubblica – lo fanno ora in un libro: Non lasciamoli soli, edito da Chiarelettere.
Nei giorni scorsi il neo ministro dell’Interno Matteo Salvini ha detto che non tutto ciò che ha fatto il suo predecessore, Marco Minniti, andrà buttato. Il riferimento è all’accordo stretto con Tripoli che ha avuto l’oggettivo effetto di ridurre gli sbarchi. Ma andando a guardare quello che succede al di là del mare, Viviano e Ziniti hanno scoperto una realtà ancora poco raccontata. Migliaia di migranti intrappolati in Libia, ridotti a schiavi e torturati. Donne e bambine violentate, costrette a prostituirsi. Giovani in fuga che si devono reinventare torturatori. I due giornalisti hanno raccolto le testimonianze di chi è riuscito a fuggire dai lager libici, per raccontare le storie di chi è anima e corpo, non solo – come ha scritto, in introduzione al libro, l’ex sindaco di Lampedusa Giusi Nicolini – “una figura di cartone”.
In Non lasciamoli soli si parla anche delle ong, le organizzazioni non governative. Un capitolo è dedicato a Medici senza frontiere. Uno dei responsabili, Marco Bertotto, racconta come ha vissuto in prima persona il fuoco di fila contro di loro: “Ci hanno accusato di aver violato le leggi del mare, di complicità con il network di scafisti, di incentivare con la nostra presenza le partenze dei barconi dalla Libia e addirittura di aver contribuito ad aumentare la mortalità in mare”. All’inizio erano piccole teorie cospirative. Poi il tema è stato affrontato in un rapporto da Frontex e il capo della Dda di Catania Carmelo Zuccaro ha aperto un’indagine su un’ipotesi di associazione a delinquere fin qui non riconosciuta dai giudici.
Per le ong è sempre più difficile scrollarsi di dosso il pregiudizio di essere un incentivo per chi deve partire. La realtà – sostengono Viviano e Ziniti – è che gli sbarchi in Italia sono sì diminuiti nell’ultimo anno, ma non le partenze e le morti in mare, spesso per l’inadeguatezza della guardia costiera libica. “Nessun accordo e nessun muro – scrivono – potrà arrestare il flusso migratorio epocale di questi ultimi anni, le cui radici affondano nelle drammatiche condizioni di vita di buona parte dei paesi dell’Africa, divenuta una bomba a orologeria oltre che un nuovo campo di semina della jihad”.
Fra le storie, c’è quella di Rambo: arrivato in Libia dalla Nigeria per migrare, riconvertitosi a torturatore, nei lager stipati da chi non può partire. Rambo – vero nome John Ogais – usava la corrente elettrica per torturare. Di giorno uccideva, di notte stuprava. Ma il suo destino si deciderà in un tribunale italiano, dato che anche lui alla fine è sbarcato, ha cercato protezione internazionale, ha trovato le manette: un suo ex schiavo lo aveva denunciato. C’è la storia di Segen: trentacinque chili a 22 anni, diciannove mesi di prigionia in Libia, la morte su un barcone. E quella di Ahmed, lo schiavo scelto per fare il becchino del mare, a riempire le fosse comuni sotto le dune di sabbia del deserto. Samir e Abbas, venduti all’asta, da un padrone all’altro. Maryam che voleva fare il medico ed è stata costretta a prostituirsi.
Tutti racconti che si svolgono con lo stesso scenario: il sole della Libia, la sabbia del deserto, il nero del mare. E quella voglia disperata, spesso illusoria, di immaginarsi un futuro.

Corriere 10.6.18
Il governo si muova contro la vergogna dei nuovi schiavi nel mezzogiorno
di Ernesto Galli della Loggia


Luigi Di Maio è ministro del Lavoro oltre che uomo del Sud. Matteo Salvini è ministro degli Interni e senatore della Calabria. È lecito, allora, stupirsi che proprio in questa loro doppia qualità non abbiano detto una parola né fatto nulla, per quel che si sa, a proposito delle condizioni in cui lavorano e vivono nella baraccopoli di San Ferdinando gli immigrati compagni del sindacalista maliano Soumaila Sacko ucciso una settimana fa da un malavitoso locale? Se c’è qualcosa che un governo «del cambiamento» dovrebbe impegnarsi a cambiare subito in Italia, non è forse l’esistenza fatta di sfruttamento schiavistico e di abbrutimento umano in cui in vari luoghi del Mezzogiorno vivono migliaia di immigrati perlopiù africani?
Su tale situazione è stato detto tutto. Ma ciò non c’impedisce di continuare a provare vergogna come cittadini di questo Paese per la desolante passività di cui fin qui hanno fatto mostra a questo proposito le autorità competenti. A Vibo Valentia, a Catanzaro, a Foggia, dappertutto nel Mezzogiorno, lo Stato italiano mantiene prefetti, questori, ispettori del lavoro, procuratori della Repubblica, i quali in teoria dovrebbero far rispettare le sue leggi. A giudicare tuttavia dai risultati non si può davvero dire che finora ci siano riusciti. Perché? che cosa l’ha impedito? Perché non si riesce a stroncare la pratica del caporalato? Perché non si riesce a instaurare condizioni di lavoro legali? Perché non si riesce a impedire la formazione di enormi bidonville come quella di San Ferdinando? L’impressione è che l’azione della legge sia costantemente impedita da reti di complicità e d’interessi locali più o meno oscuri che sull’illegalità vivono e prosperano. Forti, molto probabilmente anche della complicità di Roma. Ma oggi a Roma c’è un governo nuovo e diverso, si dice. Se è vero lo dimostri coi fatti.

Repubblica 10.6.18
Il sindacalista dei migranti
“Ho studiato Di Vittorio ma io come Soumayla qui in Italia sono uno schiavo”
intervista di Paolo Griseri


Calabria, Texas. Quella che racconta Aboubakar Soumahoro, bracciante ivoriano di 38 anni, non è una semplice storia di sfruttamento. Abou la spiega con estrema semplicità, quella che in poche ore dopo un passaggio in tv lo sta trasformando in un eroe dei social. La sua denuncia è cruda: «Siamo arrivati alla razzializzazione».
Che cos’è la razzializzazione?
«Semplice: tu sei straniero, quasi sempre nero. Dunque sei ricattabile. Dunque ti pago di meno».
2018, Calabria, piana di Gioia Tauro: un Texas dell’Ottocento con le arance al posto del cotone.
Abou, conosceva Soumayla Sacko?
«Era un bracciante, un sindacalista dei braccianti come me. Certo che lo conoscevo, lo conoscevo bene».
Non aveva paura di vendette?
«Tutti noi abbiamo paura delle vendette. Ma rivendichiamo il nostro diritto di parlare. È l’unico modo che abbiamo per difenderci».
A chi date fastidio?
«A quelli che ci tengono nella gabbia costruita dalla Turco-Napolitano prima e dalla Bossi-Fini poi. Se protesti ti licenziano, se ti licenziano ti tolgono il permesso di soggiorno, senza permesso di soggiorno entri in clandestinità».
Così vi ricattano?
«Certo. Lavori 12 ore al giorno ma sul contratto ne segnano molte di meno. Così non pagano le tasse e a fine mese la tua busta paga ufficiale è di 50 euro».
Quanto guadagna lei in realtà per 12 ore di lavoro?
«Trenta euro».
A fine mese sono 900 euro?
«Assolutamente no. Arrivi a 6-700. Ma dipende se piove, se ti scelgono per lavorare. Per questo viviamo nelle baracche: come si fa ad essere sicuri dello stipendio?
La bolletta dell’affitto scatta tutti i mesi».
Lei come è arrivato in Italia?
Traversate nel deserto, scafisti?
«Diciassette anni fa ho ottenuto un visto turistico, ho preso un aereo e sono andato in Francia. Da lì sono venuto in Italia, in Campania, dove avevo degli amici che già lavoravano nei campi.
Bisogna dirlo al ministro dell’interno che arriviamo anche in aereo, non solo sui barconi».
Com’è cambiata la situazione in questi 17 anni?
«Per noi è peggiorata. Sul piano sociale le diverse leggi sull’immigrazione ci hanno tolto ogni giorno nuovi diritti. Noi oggi siamo schiavi di Stato nel senso che è lo Stato ad aver creato le condizioni della nostra schiavitù. Che poi è diventata anche una schiavitù razziale».
In Italia c’è il razzismo?
«Certo. In questi diciassette anni l’ho visto arrivare. Prima gli italiani erano timidi. Facevano le battutine, come se avessero pudore. Si capiva quel che pensavano ma si intuiva anche che non osavano dirlo».
Quando è peggiorata la situazione?
«È peggiorata con la crisi. Molti di quelli che si sono impoveriti hanno cominciato a pensare che la colpa delle loro disgrazie fossimo noi. I timidi di ieri sono diventati coraggiosi. Hanno cominciato a urlarmi per strada: “Negro, vattene nel tuo paese”.
Due volte, sull’autobus, agli insulti hanno aggiunto le botte».
Come avete reagito?
«Abbiamo deciso di studiare».
Studiare?
«Certo. Io e i miei compagni ci siamo messi a studiare sociologia. Ci piace molto il pensiero di Di Vittorio, che faceva il sindacalista nelle campagne del Sud italiano, come noi. Lui denunciava il fatto che i profitti si alzano e i salari non li seguono».
Avete cominciato a parlare di Di Vittorio agli immigrati di Gioia Tauro?
«Certo. Noi facciamo assemblee con tutti i braccianti, senza distinzione di nazionalità. Ci teniamo molto che gli italiani siano con noi. Sono loro, che hanno più diritti, a poter contrattare i salari con i contadini. E anche con lo Stato.
Vogliamo un incontro con Di Maio, il nuovo ministro del Lavoro, per raccontargli la storia della nostra schiavitù».
Chi è la vostra controparte?
«Sono i padroni della grande distribuzione. Chiunque vada al supermercato capisce che le arance e i mandarini a quei prezzi si possono avere solo pagando la gente in nero a 2,5 euro l’ora. E questo è uno scandalo. Che è possibile solo grazie al sistema che toglie diritti soprattutto a noi braccianti neri. Per questo dico che siamo oltre lo sfruttamento.
Che siamo alla razzializzazione: tu sei immigrato, hai la pelle scura, sei ai margini perché sei ricattabile. E le arance costano quattro soldi».
Parlava di queste cose con Sacko?
«Ne abbiamo parlato tante volte nelle riunioni del nostro sindacato, l’Usb».
Pensa che sia stato ucciso per la sua lotta a fianco dei braccianti?
«Questo non lo so. Dovrà deciderlo l’inchiesta. Certo non è stato ucciso per un furto, come si è cercato dire all’inizio. Adesso stiamo raccogliendo i fondi perché il suo corpo possa tornare in Mali, dalla sua famiglia».
Abou, dopo le sue apparizioni in tv, sui social hanno proposto che sia lei a indicare la strada ai partiti della sinistra italiana, oggi, diciamo, un po’ confusi. Che cosa ne pensa?
«Io sono un sindacalista. Il mio mestiere è difendere i diritti dei braccianti. Chiunque ci voglia dare una mano è benvenuto e valuteremo insieme se fare un pezzo di strada insieme. Ma per me è chiaro che fino a quando rimarrà in piedi anche solo una baracca di braccianti costretti a vivere sotto le lamiere, il mio mestiere sarà quello di rimanere lì, a lottare per poter abbattere un giorno quella baracca».

Il Sole 10.6.18
Yunos
«Siamo imprenditori per natura» parola di capitalista riluttante
A tu per tu. Il Premio Nobel per la Pace e inventore del microcredito, il bengalese Muhammad Yunus, ha una fede sconfinata nel talento umano, ma quello dei tycoon della Silicon Valley inizia  preoccuparlo
di Marco Masciaga


È un difensore del libero mercato, ma è convinto che il capitalismo sia la causa di molti dei mali che ci affliggono. È per la deregulation, ma vorrebbe che l’Onu stabilisse cosa le società tecnologiche possono e non possono fare. Ha il mito dell’imprenditore, ma guarda con sospetto alla ricerca del profitto. Se esiste un uomo contraddittorio – almeno per gli schemi ideologici in voga oggi in Occidente – è Muhammad Yunus.
Eppure il 77enne economista bengalese, vincitore del premio Nobel per la pace nel 2006 per avere fondato la Grameen Bank e con essa il microcredito, da qualche tempo trova più ascolto in questa parte di mondo che in Bangladesh, dove il primo ministro Sheikh Hasina lo ha definito «una sanguisuga dei poveri» e sembra considerare il più illustre dei suoi concittadini come una minaccia. «Lei (nel corso della nostra conversazione la premier non verrà mai citata per nome, ndr) pensa che, siccome sono molto popolare, se un giorno dessi vita a un partito diventerei un problema», spiega Yunus che, prudentemente, parla il meno possibile dei burrascosi rapporti con il suo governo.
La campagna per screditare questo “capitalista riluttante” che ha mostrato come fare credito alle donne più povere del mondo non è solo possibile, ma anche utile e finanziariamente sostenibile, è iniziata più di dieci anni fa. A scatenarla fu il suo annuncio di voler fondare un partito per traghettare il Paese dall’ennesimo military-backed government verso la democrazia. «Le leadership dei partiti – racconta – erano in carcere per corruzione e io venivo accusato di non avere a cuore l’interesse nazionale. Quando cedetti alla pressione e diedi la mia disponibilità a scendere in politica, i corrotti iniziarono a bussare alla porta. Nel giro di dieci settimane capii che stavo solo offrendo loro un nuovo indirizzo e feci un passo indietro».
Nonostante il ripensamento, la campagna contro di lui non si è mai interrotta, culminando nella sua rimozione dal vertice della Grameen Bank. Una mossa che ha consegnato l’istituto nelle mani dell’establishment di uno dei Paesi più corrotti del pianeta (143esimo dei 180 censiti da Transparency International).
Con Yunus, appena arrivato in treno da Torino, ci incontriamo in un hotel milanese per parlare del suo ultimo libro, intitolato Un mondo a tre zeri. Come eliminare definitivamente povertà, disoccupazione e inquinamento (Feltrinelli). La scelta del luogo è stata casuale, ma felice. Yunus ha contratto il travel bug da giovane – ancora oggi passa circa il 60% del suo tempo in viaggio – e l’edificio neoclassico in cui ci troviamo (inaugurato nel 1840, regnante l’imperatore Ferdinando I d’Austria) fu la prima stazione ferroviaria di Milano. A pochi metri da dove sediamo c’è l’elemento più scenografico della lobby: una specie di parete costruita con vecchie valigie, quasi a voler ricordare ai clienti dell’hotel la storia del luogo e al mio interlocutore che, nel giro di poche ore, ci sarà un altro treno da prendere, questa volta verso Roma.
In comune con l’hotel, Yunus ha il fatto di essere anche lui “figlio” di un impero. Lo testimoniano la padronanza della lingua inglese, che parla nell’espressivo staccato dell’Asia del Sud e l’infanzia passata nei boy scout, altro lascito britannico. La prima gli ha aperto le porte degli Stati Uniti dove, grazie a una Fulbright Scholarship, ha conseguito un PhD e poi insegnato. La seconda ha propiziato nientemeno che una «life-changing experience».
«Quando avevo 15 anni – racconta – fui selezionato per partecipare alla Jamboree mondiale degli scout in Canada. Volammo (a tappe, era il 1955) fino in Europa e attraversammo l’Atlantico a bordo di un transatlantico italiano. Sulla strada del ritorno, in Germania, realizzammo che se avessimo comprato tre minibus e fossimo tornati via terra avremmo speso meno che non pagando i 29 biglietti aerei di ritorno. E in più ci avremmo guadagnato tre furgoncini». Il risultato fu un viaggio picaresco, drammatico e rivelatore. «L’Europa era ancora molto malandata: la Germania era in condizioni terribili; gli abitanti dei villaggi della Jugoslavia erano dei rottami umani; c’erano povertà e distruzione ovunque e le persone avevano ancora paura le une delle altre». Dopo le rovine post-belliche dell’Europa (e un incidente notturno a Skopje), il viaggio proseguì tra quelle classiche di Grecia, Turchia, Libano e Siria fino a Bassora, in Iraq, da dove il gruppo si imbarcò per Karachi, capitale, allora, del Pakistan pre-scissione. «E da lì – prosegue Yunus – rimasti in due, abbiamo attraversato l’India – Bombay, Delhi, Calcutta… – fino a casa, in East Pakistan, l’odierno Bangladesh. Il viaggio durò più di sei mesi. Con una valuta non convertibile in tasca eravamo sempre a corto di soldi, ma fu un’esperienza che mi cambiò per sempre. In vita mia non mi sarei mai più divertito così tanto. E soprattutto compresi che l’uomo è uno. Ricco o povero, non importa». Una lezione destinata ad accompagnare Yunus a lungo, e soprattutto lontano, fino al Nobel.
Nei 12 anni trascorsi dalla sua beatificazione laica di Oslo, l’uomo seduto davanti a me è invecchiato invidiabilmente bene. Lo sguardo non ha l’opacità liquida della vecchiaia, il viso è ancora rotondo, il sorriso in agguato. Negli anni neanche l’abbigliamento è cambiato: il tradizionale sadri color corda indossato sopra una modesta kurta a quadretti, pantaloni comodi, le scarpe tozze e morbide che gli uomini del Subcontinente cresciuti con i sandali ai piedi indossano a malincuore nelle occasioni formali.
Quando gli chiedo del suo nuovo libro, Yunus parte dalla sua esperienza di “banchiere dei poveri” per spiegare che il sistema finanziario «è progettato in maniera sbagliata perché non arriva neppure alla metà della popolazione mondiale» e aggiunge di essere anche convinto che ci sia «qualcosa di fondamentalmente errato nel capitalismo». Il peccato originale sarebbe di basarsi su una «interpretazione della natura umana secondo la quale saremmo creature unidimensionali ed egoiste», prive di quell’altruismo che, secondo Yunus, «convive con il suo opposto in ognuno di noi». Cinicamente convinto che alle sue parole manchi l’inciso «in dosi omeopatiche», cerco di provocarlo. Gli ricordo il desiderio di chiusura verso il Sud del mondo che serpeggia in Europa; gli chiedo cosa pensi di un presidente americano votato a quella forma di pericoloso egoismo geopolitico che chiamiamo unilateralismo; gli faccio presente l’imbarazzante sbriciolarsi del piedistallo su cui per anni abbiamo tenuto un altro Nobel per la pace come Aung San Suu Kyi. Possibile che tutto questo non incrini le sue convinzioni sull’innato altruismo dell’animo umano? Il colpo va a vuoto. Yunus è sì «orripilato» da tutto questo, ma la sua fiducia «nell’enorme forza dell’uomo» è intatta. «Perché da che mondo è mondo – spiega – l’impossibile, presto o tardi, diventa possibile».
Siccome la regola mi sembra valere soprattutto per il progresso tecnologico, gli domando se robot e intelligenza artificiale lo preoccupino. «Quella che abbiamo tra le mani – spiega – può essere una benedizione, come il suo contrario. Ciò che non voglio è che gli uomini, con i loro limiti biologici, diventino cittadini di seconda classe in un mondo dominato da macchine la cui intelligenza potenzialmente non ha limiti. Se i farmaci vanno testati e approvati da un’autorità indipendente prima di essere messi in commercio, credo che la regola debba valere anche per le nuove tecnologie. Forse l’Onu dovrebbe scrivere delle linee guida in proposito».
In altre parole, Yunus sembra più preoccupato da ciò che l’intelligenza umana potrebbe costruire che non dalla stupidità con cui stiamo rischiando di distruggere il pianeta e quella fitta rete di relazioni politiche, militari e commerciali che lo ha mantenuto in relativa pace per oltre 70 anni. Paradosso reso ancora più interessante dal fatto che la parola più ricorrente della nostra conversazione è «entrepreneur», un evidente retaggio di quanto fatto in Bangladesh prestando minuscole somme di denaro a donne povere per aiutarle ad avviare piccole attività. «Il lavoro salariato – spiega – è la fine della creatività umana, perché gli uomini sono per natura imprenditori. Bisogna far sì che crescano come imprenditori, che il sistema scolastico sia progettato per creare degli imprenditori, che insegni ai ragazzi cosa gli imprenditori sono in grado di fare. Il microcredito ha dimostrato che si può prestare denaro ai poveri e che in questo modo li si può mettere in condizione di usare il proprio talento per creare un’impresa».
Eppure, gli faccio notare, le evidenze statistiche non sono così univoche. Il numero dei poveri raggiunti è cresciuto, ma quello dei poverissimi, in proporzione, è calato. Non solo. Alcuni paper accademici hanno ridimensionato la portata del fenomeno: non una miccia capace di trasformare magicamente gli ultimi in imprenditori, ma più modestamente una forma di credito che soccorre i poveri nei momenti di crisi, senza legarli mani e piedi agli strozzini. C’è qualcosa di vero in tutto questo? «Più di qualcosa», risponde. Poi ricorre a una parabola popolare in tutto il Subcontinente indiano: «Immagini sette ciechi che cercano di capire come è fatto un elefante. Chi gli tocca la pancia dice che è piatto, chi gli tocca la coda pensa che è molto sottile e via di questo passo... “Microcredito” è un’etichetta sotto la quale ormai convivono cose molto diverse: c’è quello che ho fatto con la Grameen Bank, ci sono società a fine di lucro che si quotano in Borsa e ci sono anche veri e propri squali. Ognuno è libero di fare come crede, ma io resto convinto di una cosa: che al centro debbano rimanere le donne più povere del mondo».

il manifesto 10.6.18
La Linke spaccata sulle frontiere aperte. C’è aria di scissione
Germania. Si chiude oggi il congresso di Lipsia. Riconfermata la segretaria Kipping, ma la fronda capeggiata dalla capogruppo Wagenknecht e da Lafontaine rema contro la linea no-borders
Per una significativa parte del partito il principio deil’apertura incondizionata vale solo per i perseguitati che chiedono asilo.
di Jacopo Rosatelli


«Nel nostro partito non ci sono né razzisti né neoliberali». Un’affermazione apparentemente ovvia, quella di Katja Kipping, dalla tribuna del congresso della Linke che si chiude oggi a Lipsia. Solo apparentemente, però. Il cuore delle assise del principale partito della sinistra tedesca di opposizione sta in una controversia che lo sta portando al limite della lacerazione. Da una parte, i seguaci dei due segretari Kipping e Bernd Riexinger (più Gregor Gysi, attualmente numero uno della Sinistra europea), e dall’altra i sostenitori della capogruppo al parlamento federale Sahra Wagenknecht. Nella rappresentazione degli ultrà dei due schieramenti, rispettivamente: i «neoliberali» contro i «razzisti». Definizioni diffamatorie figlie delle diverse posizioni sul tema-chiave dei migranti. In sintesi: per i segretari, la Linke non deve rinunciare alla parola d’ordine delle frontiere aperte per tutti, per la capogruppo l’apertura incondizionata vale solo per i perseguitati che chiedono asilo.
Una spaccatura interna frutto dell’onda lunga della crisi dei rifugiati che investì la Germania – e la cancelliera Angela Merkel – nel 2015 e, soprattutto, dell’ascesa della destra nazionalista di Alternative für Deutschland (Afd), capace di mietere consensi anche in quell’elettorato popolare dei Länder dell’Est bacino della Linke. Per la carismatica capogruppo Wagenknecht – e per l’ancora influente ex leader Oskar Lafontaine – il partito deve correggere linea: l’enfasi no-borders manda i più anziani, i poveri e i disoccupati nelle braccia dell’Afd. L’attuale Linke – questa è l’accusa – piace ai giovani alternativi e di classe media dei centri urbani, e il partito si sta trasformando in una sorta di riedizione dei Verdi. Secondo Kipping non è così: «Se osservo i nostri giovani nuovi iscritti, non vedo hipster, non vedo nuovi verdi. Io vedo persone che con meravigliosa naturalezza sanno che la solidarietà verso i profughi e la difesa dello stato sociale sono una cosa sola. La Linke del XXI secolo ha bisogno della generazione del XXI secolo».
Nel suo discorso Kipping ha teso una mano a Wagenknecht, ma ha attaccato Lafontaine (che di Wagenknecht è anche compagno di vita): «Se il partito assume democraticamente una posizione, lui non la metta costantemente in discussione sui media». Posizione che ieri i delegati hanno assunto, approvando un documento congressuale in cui è scritto: lotta alle cause delle migrazioni (guerre, export di armi, sfruttamento), «corridoi umanitari sicuri, frontiere aperte e un sistema di accoglienza e distribuzione dei profughi in Europa rispettoso della dignità umana», e «diritti sociali per tutti». Sul punto simbolico delle frontiere, la formulazione è volutamente ambigua: non si dice per chi debbano essere aperte. Tutti o no? Un’indeterminatezza che ha permesso l’adozione quasi unanime della mozione.
Il passaggio anti-Lafontaine del discorso di Kipping non è andato giù agli avversari interni. Si spiega così la percentuale bassa con la quale la co-segretaria ieri è stata confermata nel suo incarico: appena il 64,5%, dieci punti in meno che alle assise precedenti. Meglio ha fatto Riexinger, ottenendo il 73,8%. Non c’erano candidati alternativi, la rielezione di entrambi era scontata, il dato politico stava tutto nella percentuale del loro consenso: e da ieri è più evidente che il clima nel partito è ancora lontano dal rasserenarsi. Lo dimostra anche l’unica situazione in cui i delegati hanno dovuto scegliere tra due persone riconducibili ciascuna ai due diversi gruppi: l’elezione del segretario organizzativo, il numero tre nella gerarchia interna. In uno scrutinio al cardiopalma si è imposto l’uomo di Kipping e Riexinger per soli 3 voti di scarto (su 550 totali).
Molto importante sarà l’intervento che farà questa mattina Wagenknecht: l’attesa è massima per capire se prevarranno i toni concilianti o quelli da battaglia. E soprattutto per comprendere meglio cosa la capogruppo intenda quando vagheggia della creazione di un «movimento di sinistra» che accomuni militanti della Linke a delusi del Partito socialdemocratico (Spd) e dei Verdi. Nelle intenzioni della capogruppo è una strategia per costruire una maggioranza alternativa alla grande coalizione fra democristiani (Cdu/Csu) e Spd che attualmente governa il Paese. C’è chi teme, invece, possa significare né più né meno che una «classica» scissione. Se fosse così, difficile immaginare che per la sinistra tedesca, ed europea, possa essere un bene.

il manifesto 10.6.18
Ucraina, pogrom di Stato contro la comunità rom
Kiev. Un'altra azione di pulizia etnica, nel parco Goloseyevsky, della squadraccia di veterani neonazisti della Guardia Nazionale
Il pogrom dei rom nel parco Goloseyevsky di Kiev
di Yurii Colombo


MOSCA Non fanno più notizia ormai sulla stampa ucraina i pogrom contro le comunità rom. Neppure se si configurano come “pogrom di Stato” premeditati, organizzati e portati a termine da strutture facenti parte della Guardia Nazionale, come quello consumatosi giovedì scorso nei dintorni di Kiev. Alle 13.03, sulla pagina ufficiale di Facebook del Corpo Nazionale (una struttura di vigilantes inseriti ufficialmente dal ministero degli interni tra i reparti della polizia ucraina e composta da veterani del Donbass del battaglione neonazista Azov) dava 24 ore di tempo alla comunità rom residente presso il parco Goloseyevsky «per sbaraccare con tutte le loro schifezze». Ma alle 18.45 lo stesso sito dichiarava entusiasticamente di aver già portato a termine l’azione di «pulizia» nel parco e di aver eliminato ogni traccia degli «sporchi zingari». I commenti al post erano da far rizzare i capelli: «Abbattere i rifiuti biodegradabili! È un peccato non aver potuto portare a termine il lavoro negli anni ’40 contro questa società di pidocchi» erano quelli più moderati. Un’azione premeditata realizzata alla presenza dei giornalisti e della polizia. In un video fatto circolare su youtube si vedono i neofascisti in divisa portare terrore nel campo nomadi armati di asce: bambini e donne che urlano mentre le tende vengono distrutte e bruciate.
Che si tratti di un salto di qualità è confermato dal fatto che la sera stessa il Corpo Nazionale ha rivendicato ancora più apertamente l’azione diffondendo presso le stazioni della metropolitana di Kiev Goloseevskaya e Vasylkivska un volantino dal titolo inequivocabile: «Per i rom non c’è posto in Ucraina», illustrato con una foto di bambino rom con una croce sbarrata. Per questi criminali non si è trattato di un pogrom ma di una «normale azione di pulizia». Una vera e propria pulizia etnica, pensata, gestita e portata a termine da strutture riconosciute e finanziate dallo Stato ucraino.
Il giorno successivo, la notizia è stata coperta solo con qualche trafiletto dai giornali della capitale. L’azione è stata valutata al più come «una bravata» e un «episodio da censurare», ma nessuno stupore per il fatto che l’azione sia stata compiuta di fatto dalla Guardia Nazionale.
Neppure i richiami dell’Onu di qualche settimana fa dopo l’odioso pogrom anti-rom alle pendici del Monte Calvo, e la successiva deportazione in Ucraina occidentale, hanno fatto desistere i gruppi dell’estrema destra.
La società civile ucraina osserva distratta lo scivolamento del paese verso l’abisso. Minacce e violenze contro giornalisti indipendenti e attivisti dei diritti umani sono all’ordine del giorno. Il governo prima di andare al voto nel 2019, sta varando in tutta fretta le “riforme” e le privatizzazioni che il Fmi richiede da anni, mentre tra la gente cresce la paura e l’incertezza per un prossimo vociferato default dell’economia del Paese. E l’estrema destra, sempre più unita vola al 15% nei sondaggi.

il manifesto 10.6.18
Il nuovo disordine mondiale di Usa, Russia e Cina
G7 in declino. Al tavolo che conta gli europei sono i camerieri. Intanto l’economia-mondo, quella che fa veramente paura a Washington, si riunisce nella città costiera cinese di Qingdao,
di Alberto Negri


Il mondo si divide in due, magari pure in tre o quattro parti in competizione tra loro e la remota provincia italica, ambita solo da rifugiati e migranti, litiga per capire dove sta, spaventata di diventare la nuova Cuba del Mediterraneo. Ci manca solo la battuta di Tony Montana-Al Pacino in Scarface «Io un comunista lo ammazzo anche gratis» e poi le abbiamo sentite tutte in questi giorni di G-7 su Putin, la Nato e l’Italia.Sembrava, a leggere i nostri giornali dove milita una bella fetta di tremebondi ex comunisti, che fossimo in procinto di abbandonare l’Alleanza, chiudere la basi e sequestrare 120 testate nucleari agli americani: all’armi, il fantasma di Ghino di Tacco è tornato a Sigonella.
E invece a Trump il premier Conte, un devoto di padre Pio, piace così tanto da invitarlo subito alla Casa bianca: il nostro debuttante è stato l’unico ad abboccare al tweet di The Donald per far rientrare la Russia nel summit, espulsa dopo l’annessione della Crimea nel 2014. Invito che ha irritato gli altri partner europei ed è stato respinto al mittente da Mosca: «Siamo interessati ad altri formati».
Cina e Russia hanno tenuto un altro vertice, là dove si muove l’economia-mondo, quella che fa veramente paura a Washington. A Qingdao, città costiera cinese, si è riunito l’anti G-7, l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (Sco), con Cina e Russia come Paesi capofila. In un vertice di due giorni i capi degli Stati membri dell’orbita russo-cinese hanno proposto progetti di crescente integrazione per la nuova Via della Seta (One Belt One Road) mentre il G7 è alle prese con tensioni e divisioni. E tanto per gradire la Banca di sviluppo cinese fornirà una linea di credito da 65 miliardi di yuan, 10 miliardi di dollari, alla Veb Bank russa. All’incontro era presente il presidente iraniano Hassan Rohani che non fidandosi del fronte europeo anti-sanzioni guarda decisamente a Oriente.
The Donald in Canada ha invece gettato le sue esche per dividere quanto è possibile il campo europeo: vuole riscuotere i dazi come fossero u pizzu sul surplus commerciale dei tedeschi (un posto di lavoro su due in Germania dipende dall’export) e i pesciolini dell’Unione, in fibrillazione, si sono raggrumati come un branco d’acciughe. Si tratta di rapporti di forza e in Canada, nella finzione di Chalevoix, si scherza ma fino a un certo punto.
Cosa ci possiamo aspettare dal G-7 in Canada lo esemplifica molto bene l’ultima copertina dell’Economist. Donald Trump è raffigurato a cavalcioni di una palla per la demolizione degli edifici: l’obiettivo è frantumare le istituzioni internazionali, il multilateralismo e le vecchie regole per costruire al loro posto una nuova geopolitica dove l’America rimane vincitrice. L’idea del presidente americano è quella di trascinare i suoi partner in negoziati bilaterali sempre più vantaggiosi per gli Stati Uniti.
Una strategia che nei suoi intenti potrebbe dividere ancora di più l’Unione europea, da anni sempre meno incline a obbedire ai diktat americani. Agli Usa piacciono i Baltici e i Paesi dell’Est, che nella loro deriva proto-fascista sono la nuova frontiera anti-Putin. A questo serviva la rivolta dell’Ucraina e adesso, ancora di più, è utile l’Est europeo: la Russia è in Siria, manovra con l’Iran e la Turchia, membro storico della Nato sempre più riottoso, e l’America vuole far pagare a Mosca la sua intrusione infilandosi nel cortile di casa dei russi. Per questo gli strateghi della Casa Bianca trovano così irritanti gli europei dell’Ovest che vanno da Putin a San Pietroburgo come Macron e firmano con la Merkel il raddoppio del gasdotto Nordstream.
Come farglielo capire che devono stare al loro posto?
Il disordine pilotato è una teoria che gli Stati uniti – dopo averla applicata malamente con altre amministrazioni repubblicane, in particolare in Medio Oriente – sperano adesso di utilizzare per ricavare un nuovo posizionamento globale.
Non è necessariamente una dimostrazione di forza imperiale da parte della superpotenza americana come dimostra la sprezzante risposta russa alla proposta di Trump di tornare al tavolo del G-8. Tentare di abbattere le strutture multilaterali create dopo la Seconda guerra mondiale – inclusa l’Unione europea – è di fatto l’ammissione che non le governano più come vorrebbero.
Ma forse, dopo i successi iniziali, questa strategia di The Donald si potrebbe risolvere in una pericolosa illusione: alleati e avversari, nel medio e lungo termine, saranno sempre meno inclini a riconoscere la leadership Usa e la sfideranno economicamente e militarmente dove sarà loro possibile.
Si prepara il nuovo disordine mondiale, che la Russia e la Cina hanno ben compreso.
È l’ultima fase dell’età della destabilizzazione che dovranno affrontare in futuro l’Europa e l’Italia: questo è il messaggio che proviene del G-7 in Canada. Forse il prossimo sarà un G-4: Usa, Russia, Cina e Ue, posto che ci sia ancora un’Unione europea da rappresentare.

il manifesto 10.6.18
La Palestina all’Onu: indagate e proteggete i civili da Israele
Dopo il «Venerdì di Gerusalemme». Ieri i funerali delle ultime quattro vittime
di Michele Giorgio


La Palestina mercoledì sarà al centro della seduta dell’Assemblea generale dell’Onu dopo l’uccisione da parte di Israele di altri quattro manifestanti di Gaza durante il «Venerdì di Gerusalemme» della Grande Marcia del Ritorno. «Abbiamo chiesto una riunione d’emergenza dell’Assemblea per condannare Israele, il suo uso della forza e l’uccisione di civili palestinesi», ha spiegato l’ambasciatore palestinese all’Onu Riyad Mansour.
Circola già una bozza di risoluzione in cui si chiede di indagare sulle violenze avvenute nell’area e di garantire protezione alla popolazione palestinese.
IL RICORSO ALL’ASSEMBLEA è stato deciso dopo il veto posto dagli Usa, il primo giugno, a una bozza di risoluzione contro Israele presentata al Consiglio di Sicurezza dal Kuwait che chiedeva al segretario generale Guterres di individuare modalità per proteggere i civili palestinesi. Gli Usa guardano alle uccisioni a Gaza di 127 civili palestinesi e al ferimento di altri 14mila (tra intossicati dai lacrimogeni e colpiti da proiettili) dal 30 marzo a venerdì scorso, come una «autodifesa» di Israele contro presunti piani di Hamas per compiere attentati. Israele avrebbe fatto uso di «moderazione» nell’affrontare la Marcia del Ritorno, ha sostenuto qualche settimana fa l’ambasciatrice Usa all’Onu Haley, minimizzando il tiro al bersaglio dei cecchini israeliani e sorvolando su Gaza soggetta da 11 anni a un rigido blocco.
IERI LA CITTÀ DI KHAN YUNIS ha partecipato ai funerali di un altro suo giovanissimo abitante, Haitham al Jamal, 15 anni, colpito a morte due giorni fa dai soldati israeliani, una settimana dopo l’uccisione della paramedica 21enne Razan al Najjar. Il governo Netanyahu parla di «terrorismo» e ribadisce la linea dura.
Ieri un aereo ha sparato «colpi di avvertimento» contro un gruppo di giovani di Gaza che preparavano palloncini e aquiloni da inviare verso Israele durante le manifestazioni. Trasportano bottiglie molotov, dice l’esercito, che stanno provocando incendi in territorio israeliano.

La Stampa 10.6.18
Le radici ebraiche del fumetto made in Usa
di Stefano Priarone


E’un dato di fatto che gli ebrei americani hanno creato gli albi a fumetti: Siegel & Shuster, i creatori di Superman, ne sono stati i fratelli Lumière, Jack Kirby il Cecil B. DeMille e Will Eisner il D.W. Griffith››.
A parlare è lo studioso americano di comics Adam McGovern egli stesso ebreo. Quando esce il numero 1 di Action Comics, con data di copertina giugno 1938, dove debutta Superman, il comic book, l’albo a fumetti, è un medium nuovo: per anni i fumetti venivano pubblicati solo sui quotidiani, in strisce in bianco e nero nei giorni feriali, e in pagine a colori nell’inserto domenicale, se i cartoonist che lavoravano sui quotidiani erano considerati giornalisti, quelli all’opera sugli albi a fumetti erano visti come mezzi falliti che non erano riusciti ad approdare alla grande stampa.
‹‹All’epoca negli Stati Uniti gli ebrei erano esclusi da varie occupazioni a causa dei pregiudizi nei loro confronti – continua infatti McGovern. Ma quello dei fumetti era un campo nel quale potevano entrare: gli albi erano rivolti solo ai ragazzini, nessuno vi prestava attenzione. E così il medium diede agli ebrei (ma anche a non pochi italiani, anch’essi vittime di pregiudizi) un’opportunità, come avrebbe fatto in seguito il rock ’n’ roll per gli afroamericani e per i bianchi delle zone rurali››.
Erano ebrei gli autori: Siegel e Shuster, Bob Kane e Bill Finger creatori di Batman nel 1939, Will Eisner creatore nel 1941 dell’eroe noir Spirit e dagli anni Settanta autore di fondamentali romanzi a fumetti, Stan Lee e Jack Kirby che nel 1961, con altri autori «gentili» come Steve Ditko e John Romita avrebbero dato vita al cosiddetto Universo Marvel (Fantastici Quattro, Spider-Man, Hulk).
E anche gli editori: come Harry Donenfeld della National Periodical Publications (adesso DC Comics) o Martin Goodman della futura Marvel Comics. Stan Lee (vero nome Stanley Lieber) viene infatti assunto, giovanissimo, da Goodman perché suo parente acquisito.E l’origine ebraica si riflette nelle storie: molti supereroi sono ebrei con nome anglicizzato, come i loro autori (Jack Kirby in realtà si chiamava Jacob Kurtzberg),Superman è una sorta di nuovo Sansone (non c’entra nulla con l’Übermensch di Nietzsche e dei nazisti), la zia May di Peter Parker alias Spider-Man è la classica, oppressiva mamma ebrea, il potentissimo essere alieno Galactus affrontato dai Fantastici Quattro è una sorta di versione a fumetti del Dio dell’Antico Testamento.
‹‹Immigrati o figli di immigrati nel Nuovo Mondo, gli ebrei hanno costruito i mondi fantastici del fumetto››, conclude McGovern.

Corriere La Lettura 10.6.18
Socrate tradito da Platone
La sconfitta. Il destino del pensatore condannato a morte dimostra che gli uomini rifiutano gli argomenti razionali
L'allievo, impressionato dalla sorte del maestro teorizzò l’uso delle emozioni e dei miti in campo politico
Inefficacia. Un discorso costruito su concetti ben meditati di solito non funziona quando bisogna otterere il consenso delle masse
Polemica. Karl Popper condannò l’autore  dei Dialoghi perché coglieva i gravi rischi insiti nell’appello alle passioni umane
di Mauro Bonazzi


Socrate: il filosofo, l’unico e irripetibile esempio di quello che è e deve essere un filosofo. Fu anche l’uomo più giusto; addirittura l’unico vero uomo politico che Atene abbia mai avuto. Così scrive Platone, sempre pronto a esaltare la memoria del maestro. Quasi a mo’ di contrappunto, però, i suoi dialoghi sono attraversati anche da un altro motivo, più discreto ma assillante, e probabilmente più interessante, almeno di questi tempi.
Socrate è stato un maestro del pensiero; e non meno importante è stato il suo impegno politico nella vita di Atene. Fu il migliore. Ma il risultato fu un fallimento clamoroso, culminato nella condanna a morte. Solo colpa del popolo? O non è forse arrivato il momento di riconoscere che anche lui ha avuto la sua parte di responsabilità? È la domanda che non smise di tormentare Platone. Socrate aveva ragione: su questo non si discute. La sua verità, però, è rimasta sterile: e anche questo è un fatto. Quale è il valore di una parola che nessuno ascolta? E soprattutto, perché la sua parola è rimasta muta? Domande inquietanti, e non meno inquietante è la risposta che alla fine si diede Platone, dopo molti tormenti. Non poteva che essere così, i problemi erano troppo importanti.
Che cosa sia la filosofia per Socrate, e a che cosa serva, è raccontato ora da Pietro Del Soldà nel libro Non solo di cose d’amore (Marsilio): è un invito a usare la propria intelligenza per costruire una vita buona, per sé e per gli altri — una vita felice cioè, che valga la pena di essere vissuta insieme, in una città giusta. Non è facile, certo, ma la sfida è appassionante, e il premio vale l’impegno. La filosofia è un esercizio razionale, un dialogo in cui ognuno deve rendere conto delle opinioni su cui fonda la propria vita. È un confronto serrato, ma con regole chiare, a partire dalla convinzione che siamo esseri razionali capaci di affrontare razionalmente i problemi della nostra vita. Davvero?
Tutti sono convinti di fondare le proprie scelte su motivazioni razionali. Che non sia così, però, non c’è quasi bisogno di ricordarlo, come ben sanno i pubblicitari. Un dialogo socratico può funzionare tra due persone, prendendosi il tempo e la pazienza necessari. Ma è un modello destinato a soccombere quando la discussione si allarga al gruppo e altri fattori — le abitudini, i pregiudizi, e soprattutto le passioni — intervengono ad agitare le acque. Così successe il giorno del processo. Ancora una volta, per l’ultima volta, Socrate scelse di rimanere coerente con sé stesso, rispondendo ordinatamente alle accuse. Decise di mantenere il discorso su un piano esclusivamente razionale, rinunciando alle pratiche consuete dei tribunali — la ricerca di un’intesa con i giurati o l’appello alle emozioni. Tenne un discorso grandioso, che lo ha proiettato nei secoli: Socrate, l’eroe pronto a sfidare la morte nella sua battaglia per la giustizia e la verità. Così facendo, però, perse l’occasione — l’ultima occasione — di parlare con i suoi concittadini, e magari di aiutarli. E quindi?
Quel giorno, al processo, era presente anche Platone. Si racconta che salì sulla pedana degli oratori e cercò di prendere la parola nel tentativo disperato di difendere il maestro — un maestro che da solo non sapeva difendersi. Sommerso dai fischi, fu subito fatto scendere. Difficile che l’aneddoto sia vero. Ma è vero che quell’evento lo segnò profondamente, mettendolo di fronte alla potenza delle passioni irrazionali. La sua filosofia politica nasce qui, nel clima infuocato dei tribunali e delle assemblee, come ha spiegato magistralmente Mario Vegetti in tanti lavori. Il suo ultimo libro s’intitola Il potere della verità (Carocci): quale è il potere della verità, quando la verità è muta? In politica non basta stare dalla parte giusta; bisogna anche risultare efficaci se si vuole davvero essere utili. E allora, se la filosofia vuole farsi politica, se vuole conseguire dei risultati concreti, deve avere il coraggio di immergersi anche nel mondo delle passioni, un mondo ben diverso dai cieli puri del discorso razionale. Nella caverna platonica le cose vanno diversamente. Gli uomini sono più contorti di quello che pensava Socrate.
Platone e l’irrazionale: mentre in Europa infuriava la barbarie nazista, esule nella lontanissima Nuova Zelanda, Karl Popper scagliò parole di fuoco contro Platone, reo di aver tradito il suo maestro. Al netto di alcune forzature, c’è del vero in queste accuse. Quando teorizzava l’opportunità della menzogna o insisteva sulla necessità, per una comunità politica, di ritrovarsi intorno ad alcuni miti fondatori, Platone si allontanava consapevolmente dal sentiero tutto razionale che aveva percorso Socrate. Lo sapeva lui per primo, come testimoniano le continue giustificazioni che lascia cadere nei suoi scritti. «Non vorrei che il discorso rimanesse solo uno pio desiderio»; è amaro combattere da soli «in nome della giustizia», morendo «prima di aver giovato a sé e agli amici, risultando inutile a sé e agli altri».
Platone non teorizzava la necessità dell’inganno, si poneva il problema di come realizzare concretamente quelle idee che Socrate non era stato capace di spiegare alla città. La storia del suo maestro insegnava che i ragionamenti ben condotti non bastano a difendere la giustizia. Come affrontare, educare, la nostra parte irrazionale? Platone sapeva meglio di tanti altri che si corrono rischi gravi quando la verità inizia a essere nascosta, anche se il fine è la giustizia. Ma quali erano, e sono, le alternative? Che valore ha un’idea che rimane solo sulla carta, che non è capace di incidere sulla realtà?
O il fallimento di Socrate o il tradimento di Platone, insomma. Da una parte c’è la rivendicazione del valore della testimonianza; il coraggio di tenere accesa la fiammella mentre il buio sembra avvolgere tutto; e la convinzione che i tempi oscuri non sono destinati a durare per sempre, la fiducia nella capacità degli uomini di parlarsi e ascoltare. Dall’altra la presa d’atto che una testimonianza, da sola, per quanto nobile, non può cambiare la realtà delle cose, perché troppo grande è il disordine nel mondo degli uomini; e la decisione di immergersi in questo disordine per cercare di controllarlo, anche a costo di sbagliare.
«Chi cavalca la tigre non può smontare», recita un proverbio cinese: meglio rinunciare fin da subito, rimanendo coerenti con i propri princìpi, o rischiare? Difficile dire quale delle due posizioni sia la migliore — o la meno peggio. Ma altre non ce ne sono, e ognuno di noi si trova davanti a quello stesso bivio che Platone fu il primo a vedere. Oggi non meno di ieri.

Il Sole Domenica 10.6.18
Italiani sull’orlo della guerra civile
Prove tecniche di rivoluzione. L'attentato a Togliatti, luglio 1948
Fuori dalla leggenda. A 70 anni dall’attentato a Togliatti, documenti inediti dei servizi segreti dell’epoca fanno luce sulla reale consistenza dell’apparato paramilitare clandestino del Partito comunista
L’esame critico delle “forze” comuniste rivelò una consistenza inferiore alle attese
di Giuseppe Pardini


Il 14 luglio 1948 un giovane di destra sparò contro Palmiro Togliatti, segretario generale del Partito comunista italiano; il Migliore cadde gravemente ferito, a rischio della vita per alcune ore. Nel Paese si scatenò una violenta ondata di scioperi, manifestazioni, proteste, violenze che in alcune province presero sembianze di moti prettamente insurrezionali, con l’occupazione di stazioni ferroviarie, assalti a carceri, sedi di partiti avversari, uffici istituzionali, con un drammatico bilancio di 31 morti e oltre 500 feriti. Per fare luce su queste complesse vicende, ho effettuato una lunga e meticolosa ricerca, basata sul ritrovamento di una vasta documentazione inedita, che affronta molti nodi storici ancora irrisolti. I risultati di questa indagine sono raccolti nel volume Prove tecniche di rivoluzione. L’attentato a Togliatti, luglio 1948 (Luni editrice, in uscita il 13 giugno), di cui qui anticipo le tesi in esclusiva per la Domenica del Sole 24 Ore.
Si tratta di materiale prodotto dal servizio segreto militare dell’epoca, chiamato Ufficio Informazioni “I” e posto sotto l’egida dello Stato maggiore dell’esercito. Erede del Servizio informazioni militare (Sim) e precursore del più noto Servizio informazioni forze armate (Sifar), l’Ufficio operò nel cruciale periodo 1945-1949, con 11 Centri di Controspionaggio nelle zone geopolitiche e strategiche più importanti. Aveva infiltrati in ogni partito e numerosi erano pure i confidenti reclutati all’interno del Pci, attraverso i quali l’Ufficio monitorava con acume l’evoluzione politica in atto e i potenziali pericoli eversivi. Al vertice della struttura militare stavano uomini di provata capacità e fedeltà alle istituzioni repubblicane, tanto che avrebbero raggiunto poi i maggiori gradi di comando delle forze dell’ordine del Paese. Del resto i temi di cui si doveva occupare l’Ufficio “I” erano delicati e per questo le operazioni di intelligence venivano svolte senza badare troppo a spese e risorse (un fiduciario all’interno del Pci poteva intascare anche 30mila lire, oltre ai passaporti per gli Usa per sé e famiglia...). Per queste ragioni la documentazione prodotta da quei servizi appare oggi molto attendibile e in grado di illustrare la vera percezione del Pci, del suo apparato paramilitare clandestino, dell’ipotesi insurrezionale (il leggendario “Piano K”), e di tutto quanto veniva definito, insomma, “pericolo rosso”. Si tratta della documentazione che probabilmente avevano cercato Viktor Zaslavsky e la Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia, nel tentativo appunto di fare anche luce sull’apparato paramilitare del Pci.
Altre carte inedite, poi, che hanno permesso di disegnare un quadro diverso da quello tradizionale, sono state rintracciate nel fondo Ordine Pubblico, una sezione della Direzione generale di Pubblica sicurezza adibita al controllo dei movimenti e dei partiti nonché delle manifestazioni di carattere politico, e altre ancora nel Gabinetto del Ministero dell’Interno, tra cui la rilevante cronologia degli avvenimenti redatta dal Comando generale dell’Arma dei carabinieri sulla base dei vari rapporti dei comandi provinciali, nonché una serie di relazioni ispettive di alti funzionari, spesso “compromessi” col regime fascista ma impiegati proficuamente in funzione anticomunista.
Purtroppo continuano a essere escluse dalla consultazione, invece, altre significative carte che avrebbero potuto precisare interrogativi ancora aperti, e cioè i fascicoli conservati nell’Archivio Riservato del Gabinetto della Presidenza del Consiglio dei Ministri (per tacere di quelli dell’Archivio Segreto): sebbene siano passati 70 anni da quei difficili giorni e da quelle vicende politiche, tali interessanti fascicoli giacciono purtroppo ancora “secretati” all'interno di armadi ministeriali. La documentazione reperita appare per certi aspetti di grande rilevanza, non soltanto perché fornisce una nuova interpretazione degli episodi connessi allo sciopero generale e alle proteste per l’attentato a Togliatti (queste le forme ufficiali che il Fronte popolare e la Confederazione generale del lavoro vollero utilizzare contro il governo De Gasperi), ma anche per comprendere la prassi politica insurrezionale ipotizzata dal Pci e il ruolo del suo braccio armato, l’Apparato per l’intelligence militare. Fuori dalla leggenda, l’apparato clandestino non era un complesso unitario, organico e ben definito, ma aveva un senso soltanto se inteso come sommatoria di varie strutture paramilitari (ex partigiane) di alcune regioni, in particolare di quelle di Liguria, Piemonte e Lombardia, con le strutture emiliane e toscane cui si attribuiva peso minore, e con poco altro a livello locale da concorrere a definire l'intero apparato. Al riguardo uno dei documenti più interessanti (a pag. 186):
«L’esame critico portato sulle posizioni-chiave dell’Apparato comunista (perché è di questi che specialmente si discorre) ha posto in luce che la sua consistenza è nettamente inferiore a quella che generalmente gli viene attribuita. Le due grandi masse di manovra di cui si compone l’Apparato sono: a) quella della regione Emilia/Toscana, b) quella del triangolo Milano/Genova/Torino. Senza riportare i dati sulla scorta dei quali si è proceduto, basterà tenere presente che le forze reali di cui dispongono i comunisti nella prima sono state valutate con sufficiente approssimazione fra i 25mila e i 30mila uomini inquadrati, armati e dotati di munizionamento sufficiente. Il computo riesce assai più difficile per la seconda, ma essa non può essere di molto superiore, in maniera che le forze sufficientemente organiche dislocate nell'Italia settentrionale non dovrebbero distaccarsi molto dai 60mila uomini. Questa massa notevole si completa di diverse formazioni partigiane (Anpi) efficienti in altre regioni, fino a raggiungere un totale di 100mila uomini circa. Vale la pena di notare che le informazioni più recenti e più attendibili vengono a confermare indirettamente la valutazione sintetica che venne già fatta in passato. Senza sottovalutare il valore di queste forze, si può però affermare che esse possono essere controllate con sufficiente sicurezza dalle formazioni O[rdine] p[ubblico] della polizia e da quelle mobili dei carabinieri, il cui inquadramento, armamento e efficienze tecnica e morale cono in costante miglioramento. Le forze di cui dispongono le sinistre appaiono bensì in grado di creare delle situazioni locali tali da dare ai rispettivi partiti il controllo di determinati centri, se non addirittura di determinate regioni (per esempio l’Emilia e la Liguria), ma tale controllo sarebbe certamente di breve durata e l’isolamento dei centri di resistenza relativamente agevole. Le sinistre hanno perduto l’occasione favorevole nell’estate/autunno 1945. Dopo di allora la conquista del potere con la forza è diventata in Italia praticamente impossibile. Questa impossibilità deriva in via primaria dagli sviluppi della situazione internazionale (passata gradualmente sotto il controllo Usa), ma anche in via secondaria dalla ovvia considerazione che l’Apparato ha un valore politico fintantoché non viene adoperato, perché una volta messo allo sbaraglio ed esauritane le possibilità, sarebbe un elemento negativo. Un movimento insurrezionale che terminasse con un insuccesso liquiderebbe praticamente le sinistre sul terreno politico e ricondurrebbe il comunismo italiano sulle posizioni di partenza che esso aveva vent’anni fa».
Considerando che almeno il 90% degli agenti di polizia si era detto pronto, inoltre, a sparare contro i comunisti in caso di insurrezione, il quadro appariva fosco per le ipotesi di abbattere il governo di De Gasperi e della Dc con la forza. Anche per questa ragione uno dei maggiori esponenti del Pci avrebbe confidato che «il potere non lo conquisteremo mai con le elezioni e in questo momento fare un atto di forza sarebbe una pazzia», ma la situazione era comunque incerta e in continua evoluzione, e a detta di molti attenti osservatori sarebbe bastato un qualsivoglia “pretesto” per poter dare il via all’insurrezione, come invocavano i settori più rivoluzionari del comunismo italiano. Il 14 luglio quel pretesto, col grave ferimento del Migliore, a molti apparve arrivato...
Docente di storia contemporanea, Università degli Studi del Molise

Il Sole Domenica 10.6.18
Controcorrente. I dialoghi filosofici di Mauro Ceruti con Walter Mariotti
Il destino dell’uomo tra identità e diversità
di Michele Ciliberto


Il tempo della complessità
Mauro Ceruti, Raffaele Cortina, Milano, pagg. 200, € 14

Questo volume si distingue per due elementi principali: presenta, come in una sorta di summula, le linee principali della riflessione di Mauro Ceruti; è costruito attraverso una serie di dialoghi con Walter Mariotti. Ed è una scelta che si rivela felice perché consente di affrontare molti temi in modo agile e accattivante. E come in genere accade quando si sceglie il genere letterario del dialogo, le posizioni sostenute appaiono come il risultato di una riflessione che si svolge sotto gli occhi del lettore.
La domanda intorno al quale gira il dialogo riguarda direttamente la condizione umana: quale è il destino dell’uomo oggi? Quali sono le sue prospettive? Sta nascendo una nuova umanità? E se così fosse, è una tappa prevedibile del lungo cammino dell’uomo, oppure può essere solo il frutto di un processo aperto a varie possibilità, in cui nulla è scontato, e che può anzi vedere la fine della nostra civiltà? Uno dei tratti più interessanti del libro è proprio il rifiuto di ogni teleologismo: nella storia umana, ed anche in quella dell’Europa, gioca un ruolo decisivo, scrive Ceruti, l’improbabile, cioè il non previsto - in positivo ma anche in negativo.
La dimensione dell’uomo è la libertà, la possibilità di scegliere il proprio destino, come proclama Giovanni Pico nella Oratio de hominis dignitate, citato a mo’ di programma all’inizio del libro; ma a differenza dei tempi del Conte della Concordia, oggi non esiste più un ordine definito rispetto al quale definire la propria identità. Nel nostro mondo “non si danno armonie prestabilite: il quadro del mondo è cambiato, è in piena fluttuazione”.
Sono parole di Ernesto Balducci, e risalgono a ventisei anni fa; ma la situazione non è cambiata, anzi si è ulteriormente acuita, e la sua meditazione non ha perso di attualità. Viviamo un’epoca di trasformazioni profonde, che sconvolgono le vite degli individui e le strutture politiche e civili che il mondo - e l’Europa - si sono date lungo alcuni secoli. È mutato il rapporto tra nazione e stato, si è trasformata la composizione demografica delle società, bussano alle nostre porte moltitudini di uomini spinti dalla forza inesorabile e incontenibile della necessità. Tutto è effettivamente cambiato, e continua a cambiare, sottoponendo tutte le culture a prove assai dure, che possono decidere della loro vita o della loro morte, anche se non si ha in genere consapevolezza del vulcano su cui siamo seduti.
Tutto ciò - ed è questo il centro del libro di Ceruti - pone l’uomo di fronte a scelte radicali sul proprio destino: dove andare, come, e con chi, se si vuole evitare la fine della nostra civiltà, senza farsi illusioni, ma guardando la realtà per quello che è, misurandosi con le trasformazioni che la stanno sconvolgendo?
Sono questi gli interrogativi che percorrono il libro e ai quali Ceruti, sulla base della impostazione filosofica sua - e di Edgar Morin che introduce il libro - cerca di dare una risposta, andando per molti aspetti controcorrente; e questo è un bene. Bisogna, scrive, lavorare per costruire una «cittadinanza planetaria» all’altezza dello stato attuale del mondo ed occorre impegnarsi per un nuovo umanesimo, anzi per un umanesimo planetario. Ma questo, non è un destino scontato, e «se sarà, sarà prodotto dalla coscienza della comunità di destino che lega ormai tutti gli individui e tutti i popoli del pianeta, nonché l’umanità intera all’ecosistema globale e alla Terra».
È una proposta filosofica e politica che, si è detto, va controcorrente, perché oggi si stanno fortemente diffondendo posizioni che insistono invece sulla necessità di stabilire barriere sia sul piano culturale che su quello politico, anche riproponendo il modello statuale moderno, che sembrava ormai in crisi anche per l’imporsi dopo la tragedia della seconda guerra mondiale - e la nuova, lunga guerra dei trent’anni - dell’ideale europeo ad opera di grandi statisti come De Gasperi, Adenauer, Schumann. Un ideale, anzi un vero e proprio progetto politico che però oggi attraversa un momento di crisi profonda che ne mette in discussione lo stesso futuro.
È per ridare credibilità a questo ideale, collocandolo in una prospettiva planetaria, che Ceruti scrive il libro: una sorta di vero è proprio manifesto per una nuova Europa e una nuova umanità - processo sempre incompiuto e in divenire. Questo progetto, e qui arriviamo al centro del libro, ha però possibilità di svilupparsi solo se è basato su un intreccio organico di unità e molteplicità, di identità e diversità: su una unitas multiplex, come dice Ceruti riprendendo una formula famosa. È un intreccio che riguarda tutta l’esperienza umana, e può realizzarsi solo se si riesce ad agire su entrambi i tasti-identità e diversità - costituendo una società, e prima ancora, una umanità intessuta da una pluralità di differenze, da riconoscere, elaborare e potenziare nella nuova prospettiva di un cosmopolitismo planetario. Ed è un approccio che deve essere applicato anche alla costruzione dell’Europa, se si vuol metterla su basi solide. È, a mio giudizio, una prospettiva giusta: l’Europa, se vuole avere un futuro, deve essere capace di valorizzare e accogliere le differenze nazionali, inserendole in una nuova identità comune che dalle differenze viene potenziata, non diminuita.
Ceruti si collega, con la sua proposta, alla grande tradizione di Pico di cui discute l’Oratio de hominis dignitate edi Kant di cui cita l’Idea per una storia universale in prospettiva cosmopolitica. E ad essi congiunge testi e motivi della grande tradizione cristiana, fino a Papa Francesco. Il riferimento all’ umanesimo, nella pluralità dei suoi aspetti, è naturale, e comprensibile, in un’epoca come la nostra. Tutte le volte che è entrato in discussione il destino dell’uomo, i grandi umanisti sono infatti diventati attuali: basta pensare alla fortuna di Pico negli anni Trenta del secolo scorso.
Il colloquio con i grandi esponenti dell’umanesimo, dell’Illuminismo e con i più alti temi del cristianesimo è, in effetti uno dei motivi principali di originalità della riflessione di Ceruti e della sua visione della condizione umana. Visione, appunto - uso volutamente il termine perché questo propone Ceruti - una visione della «comunità di destino» che lega, a suo giudizio, oggi tutti gli uomini, e che oggi deve essere imperniata su un nuovo intreccio di diversità e identità, di unità e molteplicità nella prospettiva di una nuova universalità.
Aver proposto questa visione in un tempo come il nostro è, a mio giudizio, il maggior merito del libro. Naturalmente, una visione per non diventare esercizio retorico, deve poter appoggiarsi su forze storiche effettive sia politiche che spirituali, in grado di darle consistenza e sostanza. Individuarle, non era il problema di Ceruti, ma l’interrogativo resta aperto: su quali energie spirituali e politiche può contare oggi il progetto di cittadinanza planetaria che egli mette a fondamento della sua visione? E quali sono oggi le forze che possono impegnarsi nel rilancio della costruzione europea che egli auspica? È un cammino assai difficile. Può darsi che mi sbagli: ma oggi il vento della storia - in Europa e nel mondo - sembra soffiare in altre direzioni.

Il Sole Domenica 10.6.18
Il vero Robespierre
Rivoluzione francese. È lui che si processa per lo spargimento di sangue, è nel suo nome
che si vuole combattere contro le ingiustizie: la biografia di Martin gli restituisce autenticità
di Luigi Mascilli Migliorini


«Se soltanto aveste visto quei suoi occhi verdi…». Non sembra saper trovare altri argomenti Merlin de Thionville, uno dei protagonisti di Termidoro, quando prova a raccontare quella terribile giornata. Nel colore morbido e freddo allo stesso tempo degli occhi di Robespierre egli ritrova il sogno di assoluto che aveva ad un tratto preso quella che era stata anche la propria Rivoluzione e la vertigine nella quale essa era, inseguendo quel sogno, precipitata. L’immagine, che piacque molto anche a un grande storico come Johann Huizinga, riusciva a esprimere quello che era accaduto (compresa l’inattesa caduta dell’idolo, al vertice del suo potere) assai più di un minuzioso resoconto dei giorni che erano trascorsi fino alla fine. Quel verde, che si dice essere il colore della speranza, era diventato quello che pure esso può essere, il colore della paura, una paura che aveva reso vili uomini prima coraggiosi, feroci uomini prima miti.
Non era stato sempre così, non era, soprattutto, cominciato così. Lo scrive molto bene Jean-Clement Martin, uno tra i più originali e sensibili storici della Rivoluzione francese, in questa sua biografia di Robespierre, così attenta, così paziente nel voler restituire alla autenticità della vicenda storica, e dunque anche della vicenda biografica, una figura che il mito ha impietosamente sovrapposto alla idea stessa della Rivoluzione. Per Robespierre, scrive Martin, la Rivoluzione non è ancora, non è mai terminata, perché ogni volta che su di essa si torna a discutere (e questo accade praticamente ogni giorno, persino in tempi così poco “rivoluzionari” come i nostri) è sempre a lui che ci si rivolge. È lui che si processa quando si sostiene che la Rivoluzione è solo un inutile spargimento di sangue, l’avventura solitaria di pochi allucinati. A lui si chiede, al contrario, di rivivere sotto le bandiere di chi è pronto, in un mondo che non ha mai smesso di conoscere ingiustizie e sopraffazione, a tornare a combattere, ma questa volta fino alla fine, fino a che l’ultima ingiustizia e l’ultima sopraffazione non siano state definitivamente sradicate alla storia.
Peso affaticante, deformante, per un uomo che, come e più della Rivoluzione nella quale si incarna, cominciò a muoversi nel mondo in maniera assai discreta, praticamente invisibile. Avvocato di una melanconica provincia nel nord della Francia, Arras, egli conquista un brandello di periferica celebrità vincendo una causa a proposito dell’uso del parafulmine nella quale trova il modo di valorizzare la recente scoperta dello scienziato e filosofo americano Benjamin Franklin. Indizio sicuro di un destino nel segno delle novità più eclatanti del suo tempo, racconta qualche biografo troppo zelante. Normale routine di un uomo di legge di tardo Settecento che, come tanti altri, allora cercava di rovesciare nelle sue arringhe quotidiane qualche frammento delle idee o degli avvenimenti che si producevano intorno, replica Martin. Che insiste, poi, a spiegare come tante altre “premonizioni” del destino dell’Incorruttibile, come la durezza della sua vita infantile, in un Collegio al quale lo aveva costretto la perdita precoce della morte della madre, altro non fossero che le diffuse condizioni nelle quali poteva capitare di trovarsi in un’epoca nella quale perdere un genitore, o altre disavventure del genere, erano piuttosto la norma che l’eccezione.
Anche i primi passi della sua vita politica, l’elezione agli Stati generali, la partecipazione alle battaglie parlamentari nell’Assemblea Costituente, la tribuna del circolo giacobino, non hanno niente di particolarmente diverso da quello che si può dire e scrivere di tanti uomini della Rivoluzione, la maggior parte dei quali, anzi, da Mirabeau a Danton, da Roland a Pétion raggiungono e mantengono assai prima di lui la notorietà. Non è violento (come si vede bene nei giorni della Bastiglia e poi della marcia delle donne di Parigi su Versailles) quando molti cominciano già ad esserlo, non è repubblicano quando molti hanno già perso ogni fiducia nella lealtà di Luigi XVI. Eppure arriva un momento nel quale, se ci si guarda intorno, Robespierre è l’uomo che racchiude in sé la forza politica del processo rivoluzionario.
Sul filo delle pagine del libro si potrebbero anche indicare le date in cui questo accade: già nel maggio del 1791, forse, o più probabilmente nel 1792, tra l’agosto e il settembre, ma questo non è molto importante. Martin ci spiega, in maniera splendida, che Robespierre diventa Robespierre perché poco alla volta, ma con puntualità egli appare l’uomo che sa meglio comprendere quali siano le attese del popolo, quello di Parigi certo, ma poi anche di Francia. Robespierre diventa colui che rappresenta meglio i principi democratici della Rivoluzione nel momento in cui la Rivoluzione, nata essenzialmente su un principio di libertà, scopre la democrazia.
La democrazia, si badi bene, non il socialismo, perché – a dispetto di qualche forzatura novecentesca di storici pronti ad assimilarlo a un precursore di Lenin - Robespierre non ha come orizzonte il superamento della proprietà privata, della cui fondatezza egli rimane sempre convinto. Capisce, però, prima di ogni altro, che quel gran movimento che si chiama Rivoluzione ha oltrepassato i limiti ideali e le aspettative concrete dalle quali e per le quali era nato. Se il popolo è sceso in piazza combattendo per la libertà, vi rimane, in piazza, per continuare a contare, a decidere, a governare, per non ritornare negli armadi della storia, come si farebbe con qualche buon fucile usato al momento giusto e poi riposto perché non serve più. Come governa un popolo, con quali regole, limiti, forme che non siano una mascheratura di élites politiche, ma non siano nemmeno l’ubriacatura della folla in strada? La domanda – così attuale - non era all’origine della Rivoluzione francese, ma lo diventa nel suo farsi. Robespierre lo comprende, ha il coraggio di non arretrare di fronte ad essa, ne viene alla fine travolto.
«Volevate una Rivoluzione senza rivoluzione?» lancia ai suoi avversari in una Convenzione ruggente, quando è in gioco la sorte di Luigi XVI. Come non vedere che le incisive, educate rimostranze che uomini vestiti in neri abiti di buoni borghesi rivolgevano al loro sovrano nei giorni degli Stati generali erano diventate, in meno di tre anni, pagine ingiallite? Occorreva ascoltare le parole d’ordine che nascevano da un mondo nuovo, come avrebbe detto Majakovskij nei giorni della sua Rivoluzione. Robespierre lo sapeva e provava a forgiarle, ma non era un poeta, non aveva neppure l’audacia di Danton o l’intelligenza di Condorcet. La paura, il Terrore, di cui diventa arbitro è, forse, la paura che si portava dentro via via che capiva la verità di quello che lui per primo, lui probabilmente solo, aveva intuito. Per una parola assoluta come democrazia, non c’era una risposta assoluta. Le risposte parziali erano, ai suoi verdi occhi di Incorruttibile, falsificazioni che la storia sbriciolava una dopo l’altra.

Il Sole Domenica 10.6.18
Marrani. L'altro dell’altro, di Donatella Di Cesare
Marrani. Nel 1492 in Spagna si decretò l’espulsione o la conversione forzata degli ebrei. Costretti a ripudiare la fede, vissero scissi in un sé duale rappresentando «l’altro dell’altro»
Quelle anime in esilio
di Remo Bodei


Nel 1096, in occasione dell’imminente partenza dei cristiani per le Crociate, gli ebrei renani, in particolare quelli di Magonza, furono uccisi «come animali da macello» per aver rifiutato di convertirsi. Anche in altri luoghi e occasioni, accettando il martirio, molti, morendo, «santificarono il Nome». Non così, sostanzialmente, accadde nella Spagna e nei suoi domini (compresa l’Italia meridionale, la Sicilia e la Sardegna). Infatti, dopo che nel gennaio del 1492 venne decretata la cacciata degli ebrei o, in alternativa, la loro conversione forzata, piuttosto che essere costretti all’emigrazione o al martirio, una parte consistente di loro preferì la conservazione della vita, insinuando così il dubbio sul valore di una verità testimoniata dalla morte. Per necessità molti accettarono, dunque, formalmente il cristianesimo, pur conservando in segreto la loro fede. Avendo perso nel tempo ogni rapporto con l’ebraismo militante, i suoi insegnamenti e i suoi rituali, la religiosità di coloro che venivano popolarmente chiamati marrani (o, nel linguaggio ufficiale, «nuovi cristiani» o «conversi») finì per diventare sempre più «atrofizzata» e legata a una memoria che si assottigliava e si frammentava di generazione in generazione. Il loro si trasformò in un «ebraismo per sottrazione», che conservava la speranza del ritorno alla religione dei padri e aveva il suo punto di riferimento in Ester, «simbolo umile e insieme potente del ritorno»che aveva persuaso Assuero a desistere dall’annientamento del popolo ebraico.
La condizione di questi ebrei rinnegati, che vivevano nella «cripta» di un esilio interiore, era precaria ed esposta al pericolo di rivelare la loro condizione. Per questo esercitarono il virtuosismo dell’autocontrollo, aiutati nelle loro tribolazioni dalla speranza di un ritorno alla fede degli avi, qualora le circostanze diventassero favorevoli (cosa che accadrà in città come Ferrara, Venezia, Ancona, Livorno, Amsterdam o Anversa). Come sostiene Donatella Di Cesare, la loro era «una identità lacerata, tragicamente scissa fra due apparenze inconciliabili: una esteriore e ufficiale, l’altra intima e nascosta». Non erano più ebrei, ma nemmeno cristiani. Per i primi, rappresentavano dei traditori, per i secondi, individui essenzialmente inaffidabili. Non erano però «né eroi né martiri».
Traditori di due fedi, diventarono con il tempo inassimilabili rispetto a ogni rigido sistema di credenze, a ogni fondamentalismo. In questo senso, essi rappresentano gli esponenti di una modernità dissonante, scissa, non conciliata o armoniosa: «I marrani portano con sé il seme del dubbio, il fermento dell’opposizione. Dissidenti per necessità, danno avvio a un pensiero radicale». In essi «si frantuma il mito dell’identità», sono scissi in se stessi, provvisti di un «sé duale». Se l’ebreo è l’altro, il marrano è, appunto, «l’altro dell’altro». Inutilmente gli spagnoli tentarono di assimilarlo con la forza, ponendolo di fronte all’alternativa di essere inglobato nello Stato nazione o di esserne espulso, dichiarato nemico. Non riuscendo a penetrare nel suo intimo, inventarono la prima forma di razzismo, quella che chiedeva ai propri cittadini la limpieza de sangre, poiché sospettavano che l’acqua del battesimo non avesse cancellato nei marrani la loro alterità.
Tra i conversos e i loro discendenti s’incontrano per noi gli opposti: Tomás de Torquemada, il primo Grande Inquisitore dell’Inquisizione spagnola è accanto a Teresa d’Avila, proclamata da Paolo VI dottore della Chiesa nel 1970. Della granitica fede cattolica di Torquemada è difficile dubitare, mentre nella mistica di Teresa e, soprattutto, nel suo Castello interiore, è ben presente la tradizione marrana del sottrarre l’io a ogni unità monolitica, del considerarlo ignoto e inaccessibile anche a se stesso, del custodire il segreto: «l’altro abita nel sé, il sé nell’altro. Nessuna identità integrale. Tu sei altro da te stesso [...] è grazie alla separazione che l’anima può ospitare, può far posto all’infinito. Questa è la scoperta delle Indie di Dio». Pur nel suo geometrico razionalismo, anche Baruch Spinoza, di famiglia marrana portoghese, sottoposto all’herem, alla scomunica da parte della comunità ebraica, rivendica nel Trattato teologico-politico il diritto al segreto quando formula l’idea di una libertà per cui non si può prescrivere a nessuno cosa sia vero.
Il marranismo non è finito, segue un percorso carsico che non si può cancellare e che sottende un segreto così profondo da sfuggire agli stessi interessati. Derrida, scherzando, ma non troppo, ha dichiarato negli ultimi anni della sua vita di essersi sempre più spesso sentito come un marrano a causa della «ricerca clandestina di un segreto più grande e più vecchio di me». In situazioni più angosciose, il marranismo riaffiora nel Novecento, specie all’avvento del Terzo Reich, quando diversi ebrei, al pari di Husserl o Edith Stein, si convertirono al cristianesimo: «Certo è sconcertante che, dopo aver in tutti i modi costretto gli ebrei a integrarsi nella cristianità, a fondersi con il corpo politico della nazione, una volta che siano assimilati, simili al punto da non essere più riconoscibili, si proceda a una rinnovata discriminazione basata sul sangue e consacrata dalle leggi statali».
Il volume di Donatella Di Cesare, con il suo terso e incalzante stile, scopre e illustra con acume una storia ritenuta erroneamente minore o esaurita, ma che ha, invece, una considerevole incidenza sulla genesi della coscienza moderna: «Nella notte della clandestinità, in assenza di ogni testimone storico, i marrani testimoniano il segreto in una esasperata anacronia, una disperata resistenza al tempo del calendario dominante, lottando nell’attesa per una controstoria che, da quel segreto, avrebbe potuto riprendere”.
Eppure i marrani, sebbene più numerosi e sottoposti a condizionamenti più drammatici, non sono i soli nella modernità a essere obbligati a fingere per sopravvivere. A prescindere dai libertini, per i quali vale il motto Intus ut libet, foris ut mos est, qualcosa di simile accadde a quanti, per sfuggire all’assolutismo e all’Inquisizione, furono indotti alla «dissimulazione onesta», di cui parla Torquato Accetto nel 1641 (è significativo il fatto che Benedetto Croce facesse ristampare nel 1928, in pieno fascismo, il Della dissimulazione onesta per lasciare una via d’uscita al dilemma tra l’acquiescenza completa al regime e il suo frontale ripudio). Se, come dice Accetto, «non è permesso di sospirare quando il tiranno non lascia respirare», allora non resta altra possibilità che far mostra di un’esteriore obbedienza per resistere alle vessazioni dell’«ingiusta potenzia». Sarebbe riduttivo (e riporterebbe a un arcaico cliché ermeneutico) considerare il fenomeno della dissimulazione sotto il profilo puramente moralistico. Presupponendo, infatti, un ideale metastorico di autenticità nelle relazioni tra gli uomini, si finirebbe per infliggere ai soggetti agenti un’esplicita censura, quasi avessero arbitrariamente deciso di complicarsi la vita. Si dimentica così non solo che la «dissimulazione onesta» viene concepita quale ombra che mette in risalto la luce e dà «riposo al vero», ma anche quale forma di resistenza razionale e creativa all’oppressione di un potere che cominciava allora a infiltrarsi direttamente nelle coscienze (anche per colmare il vuoto di egemonia interiore lasciato dagli scismi teologici e dalle guerre di religione che allora dissanguavano l’Europa).
Marrani. L'altro dell’altro di Donatella Di Cesare
Einaudi, Torino, pagg. 120, € 12

Corriere La Lettura 10.6.18
Pericoli Un’antologia di testi di George Orwell sembra parlare profeticamente dell’era della rete
Disprezzare l’autorità senza credere alla libertà
di Giulio Giorello


«Le bombe atomiche si ammassano nelle fabbriche, le polizie si aggirano minacciose nelle città, le menzogne piovono dagli altoparlanti, ma la Terra continua a girare intorno al Sole, e né i dittatori né i burocrati, per quanto profondamente ostili alla cosa, sono in grado di impedirglielo». Così scriveva nel 1946 Eric Arthur Blair (1903-1950), noto al pubblico come George Orwell. Eppure, ci sono voluti secoli per capire e far accettare il moto del piccolo globo che noi abitiamo. Ciò significava, per Orwell, che è necessaria «una vigilanza costante» per vedere «ciò che abbiamo sotto il naso». Ma non è solo passione per la verità; è amore per la libertà. Perché l’assenza di tale incessante attenzione consegna la vittoria a vecchi e nuovi despoti. Costoro incarnano quella che si potrebbe chiamare la perversione della politica, la quale, da invenzione per favorire la sopravvivenza degli esseri umani in un ambiente ostile, si è tramutata in rischio subdolo, che ci minaccia di estinzione più di quanto facciano catastrofi o disastri naturali.
Orwell avrebbe voluto tenersene lontano per dedicarsi alla letteratura; ma, forse fin dai banchi di scuola, si era reso conto che la fuga dagli onnipresenti rapporti di potere era impossibile. Si era sentito come «un pesciolino rosso in una vasca di lucci»; e ora Vittorio Giacopini intitola così una bella antologia di scritti orwelliani per la casa editrice Elèuthera (Milano). Nato nell’India britannica ma formatosi in Inghilterra, Orwell, non ancora ventenne, si era trasferito in Birmania e si era arruolato nell’Indian Imperial Police. Ma non doveva trattarsi di un incarico troppo congeniale, visto che gli insegnò «a odiare l’imperialismo».
Dimessosi nel 1927, cominciò a scrivere «racconti e romanzi che nessuno voleva pubblicare», e gli ci vollero quasi dieci anni per riuscire a campare dei suoi libri. L’orrore per lo sfruttamento coloniale e per le discriminazioni sociali nella «progredita» Inghilterra lo portarono tra le file del socialismo. Con lo scoppio della guerra civile in Spagna, Orwell si recò in Catalogna con la moglie a difendere la Repubblica. Ma l’entusiasmo iniziale era destinato a spegnersi man mano che emergevano i contrasti interni alle forze che avrebbero dovuto battersi contro il fascismo di Franco. Quelle vicende sono state poi raccontate in Omaggio alla Catalogna (1938). I comunisti staliniani si misero a braccare sia anarchici sia seguaci di Trotzky: «Questa caccia all’uomo in Spagna avveniva in simultanea con le Grandi Purghe in Urss e ne costituiva il complemento». E ciò, commenta Orwell, «mi insegnò con quanta facilità la propaganda totalitaria può influenzare l’opinione pubblica nei Paesi democratici», ove le accuse staliniane erano accettate persino negli ambienti «progressisti».
Orwell avrebbe poi dedicato parecchi sforzi a mostrare come Stalin avesse finito per capovolgere il sogno di Lenin nel suo opposto: una società gerarchica, autoritaria e repressiva, non molto diversa dai regimi di Hitler e di Mussolini. Contro i totalitarismi di ogni sorta, che mirano a cancellare le differenze individuali, Orwell si guardava bene dall’abbandonare la difesa delle leggi. C’è infatti anche una «tendenza totalitaria inerente alla visione anarchica o pacifista della società», ove «l’unico possibile arbitro del comportamento» resta l’opinione pubblica. Solo che «quando si presume che gli individui siano governati dall’Amore (...) il singolo è sottoposto a una pressione costante per comportarsi e pensare in modo esattamente identico a tutti gli altri».
Oggi, nell’epoca nella rete che Orwell non fece in tempo a conoscere, chi «disprezza l’autorità senza credere alla libertà» ha i mezzi per imporre un conformismo così generalizzato da rendere superflua ogni forza di polizia. D’altra parte, chi ancora crede alla propria libertà dev’essere disposto a resistere e contrattaccare anche in difesa di quella altrui.

Corriere La Lettura 10.6.18
La razza è solo un inganno. Ma troppi ancora ci credono
di Paolo Valentino


Le razze umane non esistono. Non ha alcuna seria base scientifica la divisione del genere umano in diversi tipi razziali, a partire dagli aspetti esteriori come il colore della pelle, la struttura corporea, la lingua. In realtà l’idea razziale è un costrutto, un’ideologia emersa nell’età dell’Illuminismo, che per due secoli è servita a giustificare schiavismo, sottomissione e saccheggio, usando a lungo gli strumenti della scienza. Ma oltre a essere un’ideologia del passato, rifiutata e disprezzata nella narrazione maggioritaria delle moderne società, il razzismo è anche una pratica quotidiana, che vede milioni di persone discriminate o oggetto di violenze.
Parte da questa premessa, sollevando discussioni, polemiche e anche reazioni scomposte, la mostra Razzismo, l’invenzione delle razze umane, aperta fino al prossimo 6 gennaio al Deutsches Hygiene-Museum di Dresda. Curato da Susanne Wernsing, forte di oltre 400 tra strumenti, calchi di gesso, filmati, fotografie, disegni, documenti pseudo-scientifici come le tavole di Cesare Lombroso, l’allestimento non è solo il racconto puntuale di metodi, protagonisti e passaggi storici attraverso i quali la grande bugia razzista ha acquistato vita propria, esercitando un potere funesto e diffuso. Ma anche una sofferta riflessione sull’attualità, che solleva quesiti ancora senza risposta: che cosa ci separa? Che cosa ci unisce? Come vogliamo vivere insieme?
Quella di Dresda è una mostra difficile. Per la città dove si tiene e per l’edificio che la ospita, prima di tutto. La capitale della Sassonia è infatti il luogo di nascita di Pegida, il movimento anti-islamico e anti-immigrazione che ogni lunedì raccoglie grandi folle sulla Theaterplatz ed è diventato riferimento culturale e prepolitico obbligato di quanti in Germania rifiutano la società aperta. Di più, il Land è la roccaforte riconosciuta di AfD (Alternative für Deutschland), il partito dell’estrema destra xenofoba che alle ultime elezioni federali qui ha raccolto oltre il 27 per cento dei voti, seconda forza politica dopo la Cdu della cancelliera Angela Merkel. Ma terreno sdrucciolevole alla mostra offre lo stesso Deutsches Hygiene-Museum, aperto nel 1912 in epoca imperiale per educare il popolo sui temi della salute e in realtà sin dall’inizio votato al perseguimento dell’igiene razziale. Al punto che, quando i nazisti andarono al potere nel 1933, divenne immediatamente e senza grandi traumi strumento privilegiato dell’insegnamento razzista e antisemita del regime hitleriano, teatro di mostre come Sangue e razza o Il popolo eterno. In questo senso, quella sul razzismo è anche una riflessione critica sul proprio passato.
Quanto il clima sia pesante è apparso chiaro fin dall’inizio. Quando nello scorso dicembre il direttore del Museo, Klaus Vogel, presentò in televisione il progetto pronunciando la frase «le razze umane non esistono», venne investito da un’ondata di insulti e minacce sui social network. Eppure, insiste Vogel, la mostra non è una sfida a chi protesta in piazza con Pegida o a chi vota AfD, ma «il tentativo di rendere chiaro ai visitatori che il razzismo è qualcosa di profondo ancora oggi nella nostra società e di farli riflettere sulle ragioni del proprio rifiuto degli altri». Divisa in quattro parti, l’esposizione parte dagli esordi della ricerca sulle razze nel XVIII secolo. Ci sono le tavole sulle «varietà umane» di Johann Friedrich Blumenbach, che si inventò la divisione tra caucasici, mongolici, etiopici e via continuando. In cima alla scala ovviamente gli europei bianchi, il tipo caucasico, una definizione ancora oggi usata negli uffici dell’immigrazione americani. Anche la triade libertà, eguaglianza, fratellanza della Rivoluzione francese valeva solo per una porzione limitata del genere umano, quella bianca del Nord: così il ritratto a olio dell’unico nero che partecipò alla Convenzione del 1793, l’ex schiavo del Senegal Jean-Baptiste Belley, lo raffigura in abiti eleganti da deputato, appoggiato al busto di uno scrittore, ma con la mano destra sulla patta, dove si vede un grosso gonfiore, segno inequivocabile della sua inciviltà.
Dedicato al Museo e alla sua storia non gloriosa, il secondo spazio è un’autocritica spietata sul ruolo avuto nel diffondere il mito della superiorità razziale. Fu da Dresda che nel 1933 partì la prima mostra itinerante sull’«arte degenerata», di cui qui si può ammirare lo splendido ritratto a olio di Oskar Schlemmer, dipinto nel 1914 da Ernst Ludwig Kirchner. E fu in queste sale che nel 1939 venne organizzata la Deutsche Kolonial-Ausstellung, impressionante sintesi delle ambizioni colonialiste e suprematiste della Germania. Proprio l’età coloniale è il focus della terza parte della mostra. Non solo quella tedesca, naturalmente, visto che nella seconda metà del XIX secolo l’ideologia razzista acquistò dimensione geopolitica, diventando uno dei tratti fondamentali dell’ordine mondiale. C’è l’intero armamentario delle teorie pseudo-scientifiche, delle rappresentazioni, delle classificazioni etnologiche, delle ricerche, che accompagnarono e giustificarono il dominio del mondo da parte dell’Occidente bianco, in nome della sua superiorità. Perfino le carte geografiche venivano redatte al servizio dell’imperialismo, con l’Europa disegnata più grande delle sue dimensioni reali e le terre vicine all’equatore quasi miniaturizzate.
Infine, l’attualità o se si vuole la banalità del razzismo quotidiano, dove video e filmati raccontano esperienze di vita vissuta. Come l’intervista di John e Joshua Kantara a Theodor Wonja Michael, 93 anni, afro-tedesco, che ripercorre un secolo di razzismo in Germania dalla sua originalissima prospettiva. O come la video-installazione di Barbara Lubich, artista italiana di Dresda, che mette i visitatori a confronto con i propri cliché. Lubich mostra le foto (in tre pose diverse) di cinque persone di diversa provenienza e separatamente offre tre ipotesi di biografia per ognuna di queste. Solo una è esatta. Quale biografia appartiene a quale persona, è la domanda. Il mistero è risolto alla fine. Quasi tutti sbagliano. «Voglio che si misurino con le proprie attese e i propri pregiudizi».
Ambizione della mostra è naturalmente contrastare il razzismo, non esporlo. Ma non è mai facile mostrare gli stereotipi (e le sale del Deutsches Hygiene-Museum ne sono zeppe) in modo critico, evitando di riprodurli. A Dresda il rischio era presente, tanto più che nessuno del gruppo iniziale degli organizzatori aveva avuto esperienze personali di discriminazione o era originario di Paesi africani. Così, nella fase finale della preparazione è stato creato un comitato scientifico fatto di attivisti, ricercatori e artisti extracomunitari, che hanno rivisto criticamente l’allestimento, decidendo modifiche e commenti aggiunti in varie forme a molti degli oggetti esposti o perfino eliminandone alcuni come i resti di ossa umane. Ma soprattutto suggerendo tutta la parte dedicata all’attualità. Anche il titolo hanno cambiato: quello originario era Razzismo. Un fantasma. Razzismo e basta, hanno suggerito. «Per loro — dice Susanne Wernsing — non è uno spettro, quando la mattina prendono l’autobus e sentono i commenti o gli insulti alle loro spalle».

Corriere La Lettura 10.6.18
Eracle è una donna «È la mia rivincita»
Emma Dante porta in scena al Teatro Greco di Siracusa la tragedia di Euripide, il drammaturgo forse più misogino tra gli autori classici
intervista di Emilia Costantini


La monumentale scena di marmo evoca un cimitero. L’eroe, Eracle, in preda a un delirio di follia orchestrato da Era, sua nemica giurata, al suo ritorno dagli inferi uccide la moglie e i tre figli senza rendersene conto. Quando riprende coscienza, rinsavisce e capisce di essere un mostro assassino per l’atroce misfatto compiuto, cade in depressione e medita il suicidio. Lo salva l’amico Teseo che, per scuoterlo dalla sua costernazione, gli grida: «Se qualcuno ti vedesse ora, riderebbe di te! Ti comporti come una donna!».
Sono tutte donne le attrici scelte da Emma Dante per il suo debutto assoluto al Festival del Teatro Greco di Siracusa con Eracle di Euripide, in scena fino al 23 giugno. Protagonista nel ruolo del titolo Mariagiulia Colace. Tra le altre attrici, Carlotta Viscovo (Teseo), Naike Anna Silipo (Megara), Patricia Zanco (Lico), Arianna Pozzoli (Lyssa), Serena Barone (Anfitrione), Francesca Laviosa (Iris).
«Sì, ma non è semplicemente un Eracle femmina — puntualizza la regista —. Mi diverte sovvertire le regole. Le mie attrici interpretano ruoli maschili così come per secoli gli attori si sono divertiti a interpretare ruoli femminili. È un modo per confrontarsi con un mondo di uomini da parte di noi donne. Ho voluto soprattutto mostrare il volto fragile, l’umanità dell’eroe tragico, ma anche la determinazione di cui le donne sono capaci. Non faccio una questione di genere, è un dato di fatto».
La fragilità, l’umanità, la determinazione e anche la sensualità?
«In palcoscenico si muovono corpi statuari di donne belle e seducenti, chiusi in corazze e armature: una contraddizione che crea fascino, stupore e anche fastidio. Una reazione che mi ha divertito».
In che senso?
«Durante le repliche ho avvertito il disappunto nei commenti di alcuni spettatori nel veder rappresentati alcuni super eroi, semidei, da una schiera di corpi femminili dalle forme morbide, direi erotiche. Disturba vedere donne combattenti, che impersonano personaggi mitologici e mi chiedo perché».
E quale risposta si è data?
«Non ho trovato una risposta. Quello che posso dire è che Euripide è forse il più misogino degli autori classici: la sua visione della donna è di solito quella di una barbara, per esempio Medea che uccide i figli, oppure una donna che subisce, prendendo su di sé le colpe di padri o mariti. Nelle tragedie euripidee non c’è scampo: le donne sono o delle carnefici o delle martiri, mentre gli uomini sono esempi di virtù e, anche se compiono gesti orribili, vengono sempre giustificati. Medea è assolutamente lucida mentre uccide i figli, mentre Eracle lo fa in preda alla follia, dunque inconsapevole, dunque incolpevole. Non è questa una giustificazione? Così stavolta ho voluto ribaltare la situazione giocando sull’equivoco».
Quale?
«La donna, intesa come un essere debole, prende qui fisicamente il sopravvento sul dio. D’altronde stiamo parlando di un eroe che cade in depressione: Eracle si dispera, piange per aver sterminato la sua famiglia e vuole togliersi la vita. È la negazione di un vero eroe, tanto che Teseo, sorta di deus ex machina, lo scuote richiamandolo ai suoi doveri di maschio, che però nel mio spettacolo è femmina. Mentre ai maschi ho lasciato solo il ruolo del coro: sono tutti vecchi, quindi asessuati, vestiti come delle suorine».
Una rivincita?
«Assolutamente sì. Mi chiedo perché tutti i protagonisti della storia, da Odisseo a Pinocchio, siano uomini. Perché non esiste una Pinocchia? Occorre rompere questa consuetudine, farla finita con questa tradizione: attori e attrici possono fare l’uno e l’altro, e soprattutto occorre dare la possibilità alle attrici di misurarsi con il grande repertorio e non solo con personaggi negativi o martirizzati. Di donne vittime, purtroppo, ne abbiamo esempi quasi quotidianamente nella realtà».
Allude ai femminicidi?
«Non solo i femminicidi, che assurgono agli “onori” della cronaca, ma mi preoccupa soprattutto quella strisciante violenza segreta, nascosta tra le pareti domestiche di cui spesso non si sa nulla. Mi fa tremare l’idea di violenze non solo fisiche, ma ancora di più quelle psicologiche che non sono da sottovalutare, serpeggiano nel silenzio e le vittime non hanno il coraggio di denunciarle, di uscire allo scoperto. Mi sorprendo quando penso che non è stato ancora trovato un antidoto a queste vessazioni, che possono distruggere la vita di una persona, di una madre e dei suoi figli che assistono».
Per lei, palermitana, è la prima volta a Siracusa.
«Eh già... e mi capita di farlo con una tragedia che non è tra le più riuscite di Euripide, per questo ho raccolto ancora più volentieri la sfida. Oltretutto farla al Teatro Greco è per me un corto circuito: concepire uno spettacolo per seimila spettatori non mi era ancora capitato».
Andrea Camilleri, accettando di recitare per la prima volta su questo palcoscenico il suo Tiresia, ha affermato che era contento di essere cieco, proprio per non vedere il pubblico.
«E ha ragione. È un luogo folgorante e mi ha fatto capire molte cose: un tempo il teatro era una riunione politica tra il popolo e l’artista, il drammaturgo che esprimeva le proprie idee attraverso le sue opere rappresentate, assumendosene la responsabilità, alle Feste Dionisiache ci andava il mondo intero! Poi nel corso dei secoli, chiudendoci dentro i nostri teatri borghesi, ci siamo a mano a mano allontanati dal pubblico, si è perso il concetto di agorà».
Il prossimo suo impegno, però, non sarà in teatro ma al cinema...
«Sto scrivendo una sceneggiatura tratta dal mio spettacolo Sorelle Macaluso, storia di cinque sorelle; la sorellanza mi interessa perché rappresenta la solidarietà tra donne che agli uomini, guarda caso, non piace... anzi, direi che l’hanno sempre contrastata, aizzando invece la rivalità. In questo momento di profondi cambiamenti e rivolgimenti la solidarietà tra donne è molto importante».

Corriere La Lettura 10.6.18
Riformatore o corruttore? Giolitti ancora sotto inchiesta
Sergio Bucchi: era pronto a ogni compromesso per restare al potere
Fulvio Cammarano: fu il difensore delle istituzioni rappresentative


Saggio riformatore o «ministro della mala vita»? Novant’anni fa, il 17 luglio 1928, moriva Giovanni Giolitti, lo statista liberale che aveva dominato la scena politica nei primi anni del Novecento. Nato nel 1842, già primo ministro per un anno tra il 1892 e il 1893, si era affermato come protagonista a partire dal 1901, tanto che il periodo successivo è noto sotto il nome di era giolittiana. Dominatore indiscusso del Parlamento, innovatore cauto e misurato, aperto al confronto con il socialismo riformista, Giolitti fu però violentemente avversato non solo dai rivoluzionari di sinistra e dai nazionalisti di destra, ma anche da chi riteneva che la sua visione compromissoria e la sua spregiudicatezza nel procurarsi il consenso dei deputati avessero un effetto corruttore sulla vita pubblica.
La disputa si è poi trasferita a livello storiografico: il giudizio sull’epoca giolittiana resta un punto controverso nella vicenda italiana unitaria. Per approfondirlo, «la Lettura» si è rivolta a due studiosi di opinioni diverse. Fulvio Cammarano rappresenta un punto di vista favorevole a Giolitti. Sergio Bucchi ha curato l’edizione più recente del libro Il ministro della mala vita (Bollati Boringhieri, 2000), nel quale il meridionalista Gaetano Salvemini polemizzava duramente contro Giolitti. Proprio da quell’atto di accusa parte la discussione
SERGIO BUCCHI — Sconfitta la reazione di fine secolo, che nel 1898 aveva visto l’esercito sparare sulla folla a Milano, Salvemini, allora socialista, chiede al Psi, protagonista della battaglia contro la fallita svolta autoritaria, di impiegare la forza del proletariato organizzato per trasformare il Paese in senso democratico. Mette le riforme politiche davanti a quelle sociali, invoca il diritto di voto anche per gli analfabeti, il suffragio universale. Ma il Psi non lo ascolta: tutela gli interessi dei lavoratori del Nord già organizzati e trascura i diritti negati alle popolazioni del Sud. Così le avanguardie proletarie diventano oligarchie, si chiudono in sé stesse. Giolitti, ai primi del Novecento, apre il dialogo con i socialisti per integrarli nel sistema, ma la sua responsabilità sta nell’aver condotto tale operazione avvalendosi di una maggioranza parlamentare ottenuta manipolando le elezioni nel Sud. Mentre al Nord il voto si svolge regolarmente, nel Mezzogiorno il leader liberale mantiene i metodi spregiudicati e truffaldini adottati dai governi nel XIX secolo, in modo da assicurare l’elezione di deputati a lui fedeli. Perciò l’Italia dell’epoca si presenta come una democrazia in cammino, ma al tempo stesso porta in sé pericolosi germi di corruzione, perché calpesta il diritto di voto e l’autonomia del Parlamento. Quindi Giolitti, con la connivenza dei socialisti riformisti come Filippo Turati, tradisce la democrazia proprio mentre sembra favorirne il progresso. Contro questo sistema Salvemini reclama il suffragio universale, per spezzare il dominio dei grandi latifondisti e della piccola borghesia intellettuale, che nel Sud costituisce la base clientelare delle forze di governo.
FULVIO CAMMARANO — Queste critiche sono fondate sul piano teorico. Ma nella realtà storica dubito che le elezioni meridionali, se Giolitti non le avesse governate, si sarebbero svolte in modo ineccepibile con un conflitto virtuoso tra alternative di programma, dato il tessuto sociale dell’epoca. Le condizioni politiche per una riforma agraria che nel Sud spezzasse il potere dei latifondisti non c’erano: Giolitti tenta di abbozzarla, ma senza convinzione. La sua scelta è puntare su un cambiamento in tempi lunghi, sperando che il Nord, progredendo, traini anche il resto d’Italia. La maggioranza che si procura al Sud con metodi discutibili gli serve proprio per proseguire nell’apertura a sinistra, volta a integrare nello Stato liberale le masse popolari, anche sulla scorta di una crescita economica impetuosa favorita dalla situazione internazionale. Però Giolitti non abbandona il Mezzogiorno: nel 1904, in accordo con il meridionalista Francesco Saverio Nitti, fa approvare la legge speciale per Napoli. Introduce anche il suffragio universale maschile, i cui effetti positivi richiedono anch’essi tempi lunghi, che purtroppo non ci saranno per via della guerra.
SERGIO BUCCHI — Nel 1912 Giolitti, però, concede il suffragio universale maschile dall’alto, con una manovra di palazzo, senza che la riforma sia stata preparata né da lui né dai socialisti, come osserva Salvemini. E infatti nel 1913 le prime elezioni con le nuove regole registrano nel Sud un netto peggioramento della situazione: non bastano più i semplici brogli e si ricorre alle violenze. Poi nel 1919, dopo il trauma della Grande guerra, il Parlamento diventerà ingovernabile, anche perché tutti i combattenti acquisiscono il diritto di voto, che era riservato anche agli analfabeti che avessero assolto agli obblighi militari.
FULVIO CAMMARANO — Comunque il suffragio universale contribuisce a rafforzare il sistema parlamentare, come denuncia nel 1912 Benito Mussolini, che allora era un socialista rivoluzionario, esortando il Psi a non farsi coinvolgere nel regime borghese. Quanto alla situazione del 1919, bisogna anche tener conto che allora si vota per la prima volta con un sistema proporzionale, non più con il maggioritario uninominale. E poi è l’esplodere della violenza politica dopo la Prima guerra mondiale, una guerra a cui Giolitti si era opposto, che fa dell’Italia un Paese ingovernabile.
SERGIO BUCCHI — Ma che cos’è che rende le organizzazioni socialiste così vulnerabili alla violenza fascista, tanto che molte cambiano bandiera e passano con le camicie nere? Proprio la scarsa capacità di condurre una lotta politica aperta, l’abitudine a contare sulla benevolenza del governo che i socialisti avevano contratto in epoca giolittiana. Nel 1928, quando esce la Storia d’Italia dal 1871 al 1915 di Benedetto Croce, Salvemini la elogia. Costretto all’esilio dal fascismo, apprezza la difesa del sistema liberale contro la propaganda falsificatrice della dittatura. Però rimprovera a Croce di aver sottolineato il progresso economico del periodo tra il 1901 e il 1915 trascurando il contemporaneo regresso della vita politica, per via del discredito attirato sulle istituzioni rappresentative dalla condotta di Giolitti. Un discredito che prepara il terreno alla dittatura. La democrazia è già malata, quando viene abbattuta da Mussolini. E lo è soprattutto per responsabilità di Giolitti, che considerava la Camera un semplice strumento passivo per condurre la sua politica.
FULVIO CAMMARANO — I mali del sistema rappresentativo esistevano ben prima dell’avvento di Giolitti, che segna invece un’apertura di orizzonti. Per esempio il leader liberale, già da ministro dell’Interno, ordina di non reprimere più gli scioperi e sostituisce alcuni prefetti che da quell’orecchio non ci sentono. D’altronde qual era l’alternativa alla sua politica? Sidney Sonnino critica il trasformismo giolittiano e invoca una lotta aperta fra partiti contrapposti. Ma fallisce sempre, perché il suo disegno presuppone la creazione di un vero e proprio partito liberale, che invece non nasce mai perché la classe dirigente dell’epoca non ha la mentalità necessaria per dare vita a una forza politica organizzata: si sente rappresentante della comunità nazionale nel suo complesso e considera deleteria la divisione del Paese in fazioni opposte. A quella visione, profondamente radicata nella cultura politica liberale, si adatta molto di più la linea giolittiana, che prevede la formazione di una vasta maggioranza dai tratti politici meno definiti e disposta a scendere a patti con le opposizioni.
SERGIO BUCCHI — Però a sinistra un partito esisteva, quello socialista. E avrebbe dovuto assumersi una responsabilità nazionale, svolgendo un’opposizione più netta e decisa alla politica giolittiana, che sacrificava il Sud e sviliva il Parlamento.
FULVIO CAMMARANO — In realtà l’inizio e la fine dell’età giolittiana coincidono con l’affermazione e con la cancellazione della centralità parlamentare. L’egemonia politica di Giolitti comincia con la sconfitta della reazione di fine Ottocento e finisce nel maggio 1915, con l’intimidazione della piazza interventista contro la maggioranza neutralista della Camera. In quella fase Giolitti, che valuta con realismo il rischio enorme dell’entrata in guerra e si oppone quindi alle scelte del governo, è il più importante difensore delle istituzioni parlamentari, perciò diventa il bersaglio di una violentissima campagna d’odio.
SERGIO BUCCHI — Nel 1915 c’è una sorta di colpo di Stato contro la Camera. Ma proprio questo dimostra che il Parlamento non funziona più, non è in grado di controllare il governo. Il presidente del Consiglio Antonio Salandra e Sonnino, ministro degli Esteri, concludono in segreto il patto di Londra per portare il Paese in guerra e, quando mettono il Parlamento davanti al fatto compiuto, la maggioranza giolittiana approva il loro operato senza fiatare.
FULVIO CAMMARANO — Certo, ma di mezzo c’è il colloquio di Giolitti con il re, che è decisivo. Vittorio Emanuele III blocca ogni iniziativa neutralista, che pure avrebbe avuto la maggioranza in Parlamento, prospettando la propria abdicazione, cioè una crisi istituzionale. E Giolitti ovviamente si ritrae. Solo a quel punto il Parlamento, rimasto senza guida e aggredito dalla piazza, accetta l’entrata in guerra.
SERGIO BUCCHI — Bisogna ricordare, però, che l’interventismo del 1915 ha un precedente nel 1911, quando Giolitti dichiara guerra alla Turchia per occupare la Libia, dando spazio alle tendenze nazionaliste che poi si rivolgeranno contro di lui nel 1915.
FULVIO CAMMARANO — Giolitti non è affatto entusiasta dell’impresa di Tripoli, ma deve tener conto del contesto internazionale. Le altre potenze permettono all’Italia di conquistare la colonia africana, ma sono pronte a impadronirsi della Libia nel caso in cui Roma rimanesse inerte. Se fossero stati i francesi a sbarcare a Tripoli, la leadership di Giolitti avrebbe subito un colpo durissimo.
SERGIO BUCCHI — Proprio qui, però, emerge il grande difetto della sua politica. Giolitti non è un dittatore, la sua prassi è democratica, ma pur di mantenere il potere è disposto a qualsiasi compromesso. Infatti quando torna al governo, nel 1920, consente alle forze dell’ordine e all’esercito di appoggiare la violenza fascista. Certo, dimostra anche grandi capacità nel risolvere la crisi di Fiume e la vertenza che aveva portato all’occupazione delle fabbriche. Ma concede troppo al complesso delle forze reazionarie (gli ambienti di corte, gli alti gradi militari, la grande industria) che cercano una rivincita storica approfittando degli errori compiuti dai socialisti massimalisti, che predicano la rivoluzione a parole senza essere in grado di farla. Per contrastare il Psi, Giolitti nel 1921 apre all’ingresso di Mussolini e dei suoi nelle file della maggioranza governativa. Spera di controllarli e non capisce che finiranno per prendergli la mano.
FULVIO CAMMARANO — Giolitti vorrebbe integrare i fascisti nel sistema costituzionale, come aveva cercato di fare in precedenza con i socialisti in sintonia con Turati. Ma nel 1922 si rende conto del pericolo. E quando la situazione diventa critica, rimane lui, benché sia ormai anziano, l’unico punto di riferimento possibile di chi intende salvare le libertà costituzionali. Se i cattolici del Partito popolare avessero accettato di appoggiarlo, forse Giolitti avrebbe potuto fermare Mussolini. In fondo aveva dimostrato di saper essere anche duro, come lo era stato nel 1920 sulla questione di Fiume, quando aveva sloggiato con la forza Gabriele d’Annunzio e i suoi legionari dalla città adriatica.

il manifesto 10.6.18
Jörg Rüpke sulla religione romana, cautele e distanza
Storia antica. Dall’età del ferro al cristianesimo, lo studioso tedesco scrive una «nuova» storia della religione a Roma e nel Mediterraneo: densa, «correct», talvolta opaca
Piccolo altare (arula) votivo, IV-II secolo a.C., da Roselle, Grosseto, Museo archeologico e d'arte della Maremma
di Carlo Franco


Scegliere le copertine è un’arte. Nell’edizione italiana di Jörg Rüpke, Pantheon Una nuova storia della religione romana (Einaudi «La Biblioteca», traduzione di Roberto Alciati e Maria Dell’Isola, pp. XVI-496, € 34,00), la cupola del Pantheon che campeggiava nell’edizione inglese è stata sostituita da un’immagine della cosiddetta Tomba delle danzatrici da Ruvo di Puglia. Un reperto riferibile alla Magna Grecia dei Peucezi, più che a Roma, ma che evoca un rito e un contesto di culture in dialogo, e come partenza va bene. Di Rüpke, Einaudi pubblicò nel 2004 una introduzione abbastanza sistematica a La religione dei romani, uscita in Germania nel 2001: che cosa è dunque «nuovo» nel volume ora uscito? Anzitutto un lavoro di ricerca ininterrotto: nelle oltre cinquanta pagine fittissime di bibliografia sono citati oltre novanta contributi scritti dall’autore tra il 1987 e oggi. Il rapporto con il libro del 2001 non viene esplicitato. L’attuale cerca un chiarimento teorico dei fondamenti, più che una descrizione dei fenomeni. Non ci sono quindi trattazioni analitiche sulle singole divinità (anche perché, si osserva, esse erano «segni religiosi » in larga misura «intercambiabili», forme parziali di un’idea generale). Da un materiale di analisi ricchissimo è derivata una sintesi assai densa, che molto comprime e molto lascia inespresso. Inevitabile il tono un po’ apodittico: si sarebbe preferita una più ampia articolazione, piuttosto che il rinvio alla bibliografia (non tutti leggono stando in biblioteca).
L’analisi segue un filo cronologico, dall’età del ferro all’affermazione del cristianesimo (IX a.C.-IV d.C.), per spiegare come la religione passò da un «agire» a una identità. Si parte dai depositi votivi, si passa alla strutturazione di luoghi privilegiati per il dialogo con le potenze superiori, con attenzione alle dinamiche sociali, ai segni di status degli uomini. Quindi si ragiona delle pratiche religiose, per quanto ricostruibili: e si sottolinea quanto esse valessero anzitutto per l’autodefinizione degli individui (ad esempio dei «sacerdoti» romani e del loro ruolo sociale). La comunicazione è la chiave di lettura più stimolante, cui sono ricondotti aspetti dell’azione religiosa «tra umani» come i ludi, ma anche i prodigi e gli auspici (segni divini «non richiesti», oppure sollecitati e interpretati da esperti). Molto giustamente si rimarca la differenza tra la percezione di quanti sono formati entro le religioni «del libro» e l’esperienza degli antichi, alle prese con un sapere orale, fluido, precario, irregolare. Un sapere sistematizzato solo tardi e in parte, senza divenire davvero stabile, attraverso strumenti (i libri) destinati a pochi. L’età augustea fu un passaggio importante, anche per l’efficace (ri)creazione di rituali e la suggestiva disseminazione di edifici di culto in Roma. Più in generale, al principio dell’età imperiale divenne visibile (e urgente) la questione relativa a esperienze, concezioni, pratiche «di ogni singolo individuo». Si entrò nell’età della «religione vissuta», che conosciamo meglio, ma i cui fenomeni restano sfuggenti.
Variegata mobilità sociale
Come venivano compresi da parte degli attori gli spazi o gli utensili religiosi? Quale apparato di segni marcava la «situazione eccezionale» della morte? L’esperienza degli antichi aveva aspetti a noi del tutto estranei. E intanto, la variegata mobilità sociale propria dell’età imperiale importava nuovi dèi nel già affollato panorama del politeismo. La fortuna di Iside, Mitra, Gesù, Apollonio di Tiana o altri santoni dipese dalla tendenza a innalzare il «livello emotivo» dei fedeli. Soprattutto nella «cultura popolare» guadagnarono spazio (o si fecero piú visibili) credenze «irrazionali», culti che implicavano esperienze «intense e fisiche», mediati da vari «fornitori» di esperienza religiosa, di varia qualità. In quello stesso periodo, anche gli imperatori romani «divennero dèi», per dirla con Arnaldo Momigliano, e non fu passaggio facile. Una sostanziale opacità dei meccanismi rese possibile, forse, onorare e riconoscere lo status speciale dell’Augusto anche senza «credervi» appieno, poi il tempo comportò una progressiva sistematizzazione, e rese piú «plausibile» la qualità divina dell’imperatore. Ma per quest’epoca imperiale, forse, contava un fatto nuovo: «la lettura o l’ascolto furono di gran lunga le pratiche religiose più importanti». I libri determinarono esiti di grande importanza, perché da essi, prima che dalle comunità, venne anche l’«invenzione» del cristianesimo. E così, alla fine, «da un mondo in cui si agiva religiosamente se ne è generato un altro in cui si possedeva una conoscenza religiosa e si poteva aderire a una fra le molte religioni possibili», con identità e pratiche riconoscibili.
Evidente nel libro di Rüpke è l’impegno a evitare concetti acquisiti e teleologismi impropri: si nota che «non ci si deve concentrare sul sistema ideologico che è stato costruito dagli osservatori, interni ed esterni, e che gli individui possono solamente fare proprio in maniera parziale e imperfetta, bensì si deve partire dalla religione antica vissuta, nelle sue varianti». Importa studiare la «competenza» religiosa (chi detiene il sapere, e in quale forma), l’«agire», le forme della comunicazione (preghiera, offerta, sacrificio). La prudenza metodica porta a sottolineare piú volte le lacune della nostra conoscenza e comprensione, le molte difficoltà interpretative, i pericoli del lessico anacronistico: per questo, invece di dèi o fedeli o credenti, nella prima parte del libro si parla di «attori» coinvolti in una situazione: attori superiori «invisibili, muti, inattivi o semplicemente assenti, persino non esistenti» e attori umani. Si evitano asserzioni «essenzialiste», si preferisce lo studio dei modi in cui i gruppi definirono (o furono definiti) nella propria identità religiosa.
Atteggiamento tacitiano
La cautela cresce nell’ultima parte del libro, dedicata al cristianesimo. Ci si sforza di «prendere le distanze» dalla materia, perseguendo una sorta di anthropologically correct. Il risultato è, nei casi migliori, tacitiano: «attorno all’anno 30 d.C., in Palestina, entrò in scena un uomo chiamato Gesú, caratterizzato da un atteggiamento profetico-apocalittico e che infine venne giustiziato» (da confrontare con Tacito, Annales, 15.44). In altri casi è provocatorio (gli «atti dei màrtiri … furono come i romanzetti d’appendice»), in altri ancora opaco. Dire che il celebre «artigiano» Paolo di Tarso fu spinto a viaggiare soprattutto «dalla necessità di trovare continuamente nuovi clienti per i suoi prodotti senza dubbio di alta qualità» sembra un sogghigno laicista, ma è un richiamo al legame tra Paolo e i tessitori di Tarso. Gli effetti sulla leggibilità non sono positivi, per effetto della forte sintesi e delle scelte traduttive. Il libro deriva da un testo inglese (Princeton UP 2018), a sua volta tradotto dal tedesco (Beck 2016). Artifex (male) additus artifici, si direbbe. La mimesi di secondo grado ha lasciato segni non lievi sul testo, con passaggi decisamente ardui. A parte errori conclamati («la soppressione … delle rivolte … distrussero»), espressioni ambigue («sulle» (?) bocche degli antenati «c’era l’abitudine di porre rivendicazioni attuali»: in quale lingua s’intende «attuali»?), e momenti oscuri (nella «strategia del testo invisibile, spesso in forma pseudoepigrafica …l’anonimato dello scrittore ha autorizzato i riceventi»), alcuni passaggi sfiorano il sesto grado. «Anche qui la religione sembra aver fatto la sua parte nel permettere e nel definire una territorialità con un livello di sistematizzazione relativamente elevato: difficilmente chiunque era titolato a portare in questo luogo la sua statuetta» (si parla, come ciascun vede, di nuraghi). «L’attività religiosa, anche nelle forme istituzionalizzate, ammontava a piú dell’uso razionale della risorsa che era interamente calcolabile, poiché gli attori non innegabilmente plausibili difficilmente intervenivano di proprio accordo, e le regole dall’azione rituale rimasero solide». «Quando la comunicazione religiosa si riferiva ad attori che, mentre si collocavano oltre la disposizione degli individui e della loro società specifica, comunque allo stesso tempo vi facevano riferimento, le pratiche religiose furono costrette a reagire alle conseguenti, piú complesse stratificazioni delle identità sociali e politiche». Astrazioni, concettualizzazioni e periodare non concinno non aiutano. Difficile sfuggire alla conclusione che questo modo di esprimersi, per concorrente responsabilità dell’autore e dei traduttori, non trasmette la grande ricchezza che il volume certamente contiene.

La Stampa TuttoLibri 9.6.18
Mettiti nudo davanti a Omero: solo così puoi capire gli eroi greci
di Andrea Marcolongo


Mi sono immerso nell’Iliade e nell’Odissea come nelle acque impetuose di una cascata. Ho respirato per mesi al ritmo dei versi omerici, nelle mie orecchie ne risuonava la musica, battaglie e navi in procinto di levare le ancore affollavano i miei sogni». È con una prosa che sembra poesia che inizia il racconto dell’Estate con Omero di Sylvain Tesson. Da sempre lo scrittore parigino non riesce a scrivere se prima non ha vissuto: abbandonate le foreste siberiane che l’hanno reso celebre, per questo libro Tesson si è segregato un mese nelle Cicladi abitando in una piccionaia sferzata dal vento sull’isola di Tinos. Accanto Iliade e Odissea, con l’intento di «abbattere la distanza tra la carne del lettore e l’astrazione del testo».
Ho studiato a lungo la letteratura e la lingua greca, ne ho scritto anche dei libri -da Virgilio a Marcel Conche, da Racine a Shelley e Nietzsche, non sono stata certo la prima né sarò l’ultima. Tuttavia, mai avevo visto un uomo nudo come Tesson di fronte a Omero: nel suo spogliarsi completamente da ogni sovrastruttura, pregiudizio, polvere accademica o dibattito, Tesson risulta eroico, dunque umano, nel suo libro tanto quanto Achille, Ettore, Ulisse e gli altri eroi di cui scrive. Non ha alcuna paura «dell’Himalaya di glosse» che da millenni sembrano assediare l’antico fino a farlo sembrare un prodotto di nicchia (oggi stranamente molto trendy, ma funzionale solo a fare italici processi al liceo classico). Lo scrittore è, semplicemente, un essere umano che osa mandare al diavolo (espressioni gustose non mancano, a partire da «sciocchezze, Dei dell’Olimpo!») i canti delle Sirene 2.0 che predicano scienza, progresso e perfezione, convinto che i poemi omerici siano immarcescibili perché l’uomo è sempre lo stesso: «ugualmente miserabile o grandioso, mediocre o sublime, sia che indossi l’elmo sulla piana di Troia o che aspetti il bus sul marciapiede di una città del Ventunesimo secolo».
Nella sua Estate con Omero, Tesson non si fa mancare nulla, a partire dal chiedersi chi fosse in realtà Omero. E non può fare a meno di notare come risulti perfettamente consona alla nostra epoca di rivendicazione dell’ego e di scrittori di storie su Instagram la tentazione di accanirsi per scoprire chi sia stato l’ideatore del più grande bestseller della storia (dopo la Bibbia). Le risposte alla secolare «questione omerica» sono sempre le stesse: sorride divertito, Tesson, e con l’Iliade tra le mani se ne disinteressa subito. E ancora di più ride di chi si è ostinato a ricostruire la geografia di Omero, atemporale perché topos per definizione. È davvero necessario, come è accaduto di recente, avventurarsi con un’imbarcazione costruita come quelle di epoca greca utilizzando solo le tecniche di navigazione antiche per bearsi dell’universo geo-poetico del viaggio di Ulisse? Il Vangelo ha raggiunto gli inuit come i Palestinesi, commenta, e non servono le coordinate GPS della foresta di Shakespeare per affezionarsi a Puck.
La luce, quella sì che è necessaria. «Iliade e Odissea sfavillano di fotoni», scrive Tesson, proprio come Jacqueline de Romilly sosteneva che la bellezza della lingua greca si celi nella luminosità del paesaggio. I Greci hanno sempre venerato la luce e la sciagura più funesta era diventare un’ombra, nebbia che cala sulla gloria e soprattutto l’oblio da se stessi. Il tradimento della propria misura. In quel soffio della vita compreso tra nascita e morte, l’eroismo più grande era dato dal fare qualcosa che lasciasse il segno, soprattutto dentro di sé. Anche Hanna Arendt scrisse di questa concezione tutta greca in cui il futuro non importava -«ma se un eroe greco giungesse sul proprio carro in una delle nostre città, oggi verrebbe immediatamente arrestato», commenta ironico Tesson.
No, non insegna nulla Un’estate con Omero -e per fortuna, visto che in Italia ogni testo che parli di classico viene accusato di non essere un manuale che ci rende tutti grecisti ad honorem e non come letteratura che stimola la curiosità per la vita, la prima dote dell’eroe. Ci libera, invece, nella convinzione che non servano chissà quali studi specialistici per «lustrarci lo spirito» con la melodia di questi antichi canti. E aggiunge, Tesson, un consiglio dadaista: rimandiamo i piatti da lavare, spegniamo il cellulare e apriamo Iliade e Odissea sotto l’ombrellone, in un’estate con i Greci come è stata la sua, per lasciare entrare in noi versi immortali, scintillanti come una calanca, capaci di svelarci l’enigma del domani e di chi ancora non siamo diventati.

il manifesto 10.6.18
Quel che li divise fu il ruolo dell’Altro
Lettere. Maestro e allievo si incontrano sulla compenetrazione di vita e filosofia, contro la distaccata scientificità di Husserl: Il «Carteggio 1919-1973», da Ets
La biblioteca di Friburgo
di Stefano Petrucciani


In filosofia, e più in generale nell’accademia, i rapporti tra maestro e discepolo sono sempre complicati. Tanto più quando il maestro, come nel caso di Heidegger, finisce per aderire convintamente al nazismo, mentre l’allievo (l’ebreo Löwith) è costretto all’esilio. Il Carteggio 1919-1973 (Ets, pp. 264, euro 24, 00) tra i due filosofi che ora viene pubblicato in italiano a cura di Alfred Denker e Giovanni Tidona, autore anche di una ben documentata introduzione, consente di ripercorrere nelle sue diverse fasi la relazione tra questi due intellettuali certamente diversi per statura ma fondamentali entrambi per chi voglia riflettere sul paesaggio filosofico del Novecento, sui suoi luoghi cruciali e le sue contraddizioni.
Non molti anni dividono Löwith e Heidegger: il primo nacque a Monaco nel 1897; il secondo a Messkirch nel 1889. Si incontrano a Friburgo, l’ateneo dove brillava, all’inizio degli anni Venti, la stella filosofica di Edmund Husserl, il maestro della fenomenologia del quale Heidegger fu allievo ma da cui, già all’inizio degli anni Venti, prendeva decisamente le distanze, come si legge per esempio nel suo corso del 1923-24 appena tradotto in italiano, intitolato Introduzione all’indagine fenomenologica (a cura di Matteo Pietropaoli, Bompiani, pp. 704, 35,00).
La fascinazione degli anni Venti
Anche Karl Löwith aveva raggiunto Friburgo per seguire l’insegnamento di Husserl, e anche lui ne fu presto deluso e si accostò al molto più affascinante verbo heideggeriano. Questa fase della formazione di Löwith è ampiamente documentata nella lettere che egli indirizza a Heidegger all’inizio degli anni Venti, la parte più ricca e cospicua del carteggio. Leggiamo per esempio quello che il giovane scrive in una missiva del 26 febbraio 1921: «Oggi mi è del tutto chiaro che Husserl nel profondo non è un grande filosofo, che metterlo sullo stesso piano di Kant non può che essere un enorme errore e che la sua intera impostazione è infinitamente lontana della realtà, tutt’altro che vitale e al contrario irrigidita nella sua dotta logica. (…) Preferisco un netto e unilaterale rifiuto, piuttosto che portarmi appresso questa fatale zavorra. Non ho bisogno di dirle, invece, cosa percepisco in Lei di estremamente positivo».
In sostanza, quella di Husserl appare a Löwith come un filosofia sterile, lontana dalle brucianti problematiche dell’esistenza e della storia; proprio ciò che, invece, il giovane trova nell’oscuro, affascinante e profondo Heidegger. Nella sua autobiografia scritta molti anni dopo, nel 1940, e titolata La mia vita in Germania prima e dopo il 1933 (Il Saggiatore, 1988) Löwith ricorderà, con accenti assai critici, questo suo giovanile incontro con l’autore di Essere e tempo: pur riconoscendo in Heidegger il suo vero maestro, e colui al quale è debitore di tutto il suo sviluppo spirituale, Löwith ne traccia un ritratto al vetriolo. Come Fichte, scrive, anche Heidegger era «solo per metà un uomo di scienza; per l’altra metà, forse la maggiore, aveva la natura dell’oppositore e del predicatore, che sapeva affascinare per quel suo mettersi in urto col mondo, spinto dall’indignazione verso il proprio tempo e verso se stesso».
In Heidegger, insomma, la filosofia, colorandosi anche di forti accenti teologici, si sposava con il rifiuto del tempo presente e del pensare accademico; entrava nel vivo dell’esistenza e della soggettività, esercitando già una notevole attrazione sui giovani, che sarebbe divenuta vera e propria moda dopo la pubblicazione nel 1927 del capolavoro del primo Heidegger, Essere e tempo. Come sottolinea giustamente Tidona nell’introduzione, la compenetrazione di vita e filosofia è proprio il terreno sul quale Löwith e Heidegger si intendono e si incontrano nei primi anni Venti. Contro la distaccata scientificità husserliana questo è il pathos che li accomuna. Come si legge in una lettera heideggeriana del febbraio 1921, «la filosofia non è un passatempo; per essa si può andare in rovina, chi non si assume questo rischio non arriverà mai a lambirla».
Proprio nella interpretazione dell’esistenza, però, il trentenne Löwith comincia a prendere le distanze dal maestro. Sotto la guida di Heidegger, infatti, egli lavora alla sua tesi per la libera docenza, che viene completata nel 1927 e pubblicata nel 1928 col titolo L’individuo nel ruolo dell’altro. Un contributo alla fondazione antropologica dei problemi etici. L’altro di cui Löwith si occupa nel suo libro è indicato in tedesco con la parola Mit-Mensch, che si potrebbe tradurre letteralmente come Con-Uomo. Il tema insomma è quello del rapporto tra io e tu, tra l’individuo e l’altro con cui si è sempre in relazione. Pubblicata proprio a ridosso dell’uscita di Essere e tempo, la tesi di Löwith costituisce in realtà un attacco piuttosto deciso alla prospettiva che il maestro aveva sistematizzato nell’opera del 1927. In buona sostanza, infatti, l’analisi heideggeriana dell’esistere era incentrata sulla ricerca di una autenticità che si definiva soprattutto attraverso il rapporto con se stessi, e dove dunque la relazione con l’altro (e le dimensioni etiche in essa contenute) risultavano alla fine marginali. Löwith invece le metteva al centro.
La presa di distanza avveniva in forme estremamente moderate ma era, cionondimeno, assai radicale. Per essere obiettivamente aderenti allo svolgimento dei fatti, va detto a onore di Heidegger che in questa occasione si mostrò molto liberale, esortando l’allievo a non preoccuparsi se si andava allontanando teoricamente da lui (forse perché si sentiva così in alto che la cosa lo lasciava piuttosto freddino). «Mi è del tutto indifferente se si segua o no Essere e tempo», scriveva. All’epoca, una simile liberalità era piuttosto rara nell’accademia. Continuava infatti il maestro: «trovi uno solo tra i bonzi regnanti che avrebbe accettato di abilitare un allievo con un tale lavoro criticamente avverso! Non me lo attribuisco come merito…».
Tutto precipita nel ’33
Sta di fatto comunque che, dopo il conseguimento della libera docenza, quando Löwith cominciò a insegnare, i rapporti tra i due si allentarono, anche se non mancarono, da parte di Heidegger, espressioni di apprezzamento, come quelle riferite nel 1932 al saggio di Löwith, effettivamente molto bello, dedicato al confronto tra Marx e Weber. Ma nel 1933 tutto precipitò: Heidegger aderì al nazismo e assunse, pronunciando un famoso discorso, la carica di rettore dell’Università di Friburgo. L’ebreo Löwith fu costretto all’esilio: prima, dal 1934, a Roma; e successivamente in Giappone e negli Stati Uniti.
Nel 1936, quando Heidegger venne a Roma per tenere una famosa conferenza su Hölderlin all’Istituto di studi germanici di Villa Sciarra, i due si incontrarono in modo ancora formalmente amichevole, ma la storia finì lì. Dopo la guerra, nel 1953, Löwith chiuse i conti con Heidegger in un libro assai severo, dal quale il maestro si sentì molto ferito; anche se poi, negli anni Sessanta, vi fu tra i due qualche timido segno di riavvicinamento. Il carteggio si conclude con la lettera sinceramente addolorata che Heidegger scrive nel 1973 alla vedova Löwith dopo la morte del suo antico allievo.

il manifesto 10.6.18
Savinio, naufragio e apparizioni a Soho
"Alberto Savinio" al Cima di New York, mostra a cura di Laura Mattioli . Al contrario del fratello, De Chirico, Alberto Savinio ha avuto scarsa fortuna oltreoceano. A rimediare, 25 opere selezionatissime, fra ritratti e paesaggi. Disseminate giocosamente fra le tele (1927-primi anni ’30) le tracce di numerosi maestri
di Eloisa Morra


NEW YORK «Lo stesso nume – la Memoria – li agitava», scrisse Sciascia a proposito dei Dioscuri in un saggio che riconosceva i giusti meriti al poliedrico fratello minore, spesso sfavorito nel confronto col più famoso, ombroso De Chirico. Ma mentre in Italia la figura di Alberto Savinio (1891-1952) ha acquisito spessore e forma nella mente di tanti lettori e appassionati di pittura, purtroppo così non è stato negli Stati Uniti, dove il suo lavoro era patrimonio di una cerchia di fortunati happy few. Poco tradotto, assente dalle collezioni, l’unica retrospettiva americana (Alberto Savinio: musician, writer and painter) gli era stata dedicata da Paolo Baldacci nel 1995. A colmare questa lacuna culturale contribuisce in modo decisivo Alberto Savinio (a cura di Laura Mattioli, fino al 23 giugno), presentata al Centre for Italian Modern Art di New York.
Come le isole-giocattolo in mostra, il CIMA veleggia libero da mode e condizionamenti dell’art world: a orientarne la selezione degli artisti è unicamente la qualità delle opere e l’arditezza delle sfide poste al team di esperti storici dell’arte-curatori. Negli ultimi anni si sono avvicendati sulla scena Medardo Rosso, Morandi e Paolini, mentre per il 2019 Savinio cederà il passo alle policromie di Marino Marini; alle mostre è affiancato un programma di approfondimento e ricerca – giornate di studio, proiezioni, visite guidate – organizzato dai fellows, giovani studiosi selezionati per sviluppare il tema di ricerca dell’anno. Non sorprende che in un lustro quest’île des charmes incastonata nelle vie di Soho sia divenuta un punto di riferimento per chiunque, oltreoceano, desideri avvicinarsi all’arte moderna italiana.
Se gli eventi della stagione hanno contribuito a far luce sulle molteplici sfaccettature della personalità artistica di Savinio, la mostra si concentra sull’attività in cui il suo talento è emerso già formato alla nascita, la pittura. «Mio fratello iniziò a dipingere nel ’27. Faceva dei ritratti molto somiglianti», rivelò De Chirico a Sciascia. Inanellati tra il secondo soggiorno parigino del ’28 e i primi anni trenta, i dipinti in mostra non fanno che sconfessare questa riduttiva affermazione; Mattioli ha trascelto i migliori, dislocandoli nelle due ariose gallerie che segnano le principali linee tematiche: la più piccola e intima include una serie dedicata ai ritratti familiari, la più ampia invece ospita paesaggi.
L’osservatore non esiterà a riconoscere le tracce di numerosi maestri giocosamente disseminate tra le tele: la muscolosa Cumana affiora dalle membra dell’altrimenti caravaggesco Risveglio del Carpoforo, le cromie e la composizione di alcuni paesaggi strizzano l’occhio a un certo romanticismo tedesco, i virtuosismi delle scene familiari lasciano presagire il brillio sinistro degli Ernst ammirati in casa Rosenberg… Eppure, i venticinque dipinti sembrano testimonianze di un naufragio che porti alla luce un mondo nato da se stesso. Savinio riesce nell’impresa propria di pochi grandi maestri: dar vita a un mondo fatto di pochi elementi riconoscibili per far spazio all’apparizione – che, si sa, ha luogo solo quando l’artista, svicolato l’obbligo della rappresentazione, può abbandonarsi al puro ritmo e gesto formale.
La bellezza dei dipinti di Savinio nasce sovente dal contrappunto ironico, come nello splendido Senza titolo (1929) della Collezione Prada, dove il modulo romantico delle oscure, turbinose pennellate della selva viene messo tra parentesi da una jazzistica teoria di forme-colori squillanti (Haring ne sarebbe rimasto stregato). Ne nasce un dipinto dal suono intenso, rotondo, avventuroso nella sua ritmicità da rag-time. Della stessa divertita ironia brillano dipinti ben più noti: il mito si fa aneddoto, la memoria è il Mito. L’isola di Achille (1928) svela un antieroe dai fianchi femminei e una testina da donna perso in una reverie costellata di gonfiabili, il Prometeo del dipinto omonimo contempla stregato un gigantesco Zeus-Giocattolo svelatogli da un tendaggio, mentre i flutti del Chevauchée marine si solidificano in pennacchi di un elmo abbandonato da qualche antico cavaliere. Più proteiformi e ardite dei suoi soggetti in Savinio sono solo le pennellate: rarefatte nel cielo dell’Abbandonnée, dissacrante omaggio al fratello; spumanti nei merletti della madre Gemma, nell’Atlas che illumina la copertina della Nuova Enciclopedia; ricamate nelle grottesche serpentinate di La vedova, unico caso in cui Gemma non porta in grembo il suo totem, un bouquet ripreso da una sua vecchia fotografia.
La composizione di questo dipinto ci porta a lambire l’altra componente decisiva nella pittura di Savinio, l’amore per il teatro. Abbandonata la bidimensionalità della mappa e gli pseudo-collages di fine anni venti, l’attenzione è tutta per la scena; è solo attraverso la presenza di una parete-schermo (o di una finestra) che sarà possibile affrontare i demoni che faranno capolino nell’Alcesti di Samuele e nei drammi degli ultimi anni. «Tutto è teatro, anche quando non sembra», sembra sussurrarci la luce innaturale irradiata dall’angolo destro – non, come prevedibile, dal cielo che emerge da dietro le ali dei pennuti ospiti – di Jour de Réception (1930). Chiude l’esposizione la litografia del 1947 I miei genitori, unico sconfinamento rispetto alla cronologia (la ammiriamo in dialogo con una serie altrettanto notevole di Louis Bourgeois; tra i punti cardine del CIMA vi è infatti la volontà di creare accostamenti inediti tra arte italiana e internazionale). Arabescata in una scritta che costeggia la figura del poltro-genitore, ecco la poetica d’un autore che ha saputo guardare all’antico scavalcando il moderno: «Egli era davanti a me come una montagna. Di là da me, valle, io guardavo di là da lui, perché un mio segreto da ma imperioso sentimento mi diceva che solo di là da lui c’era tutto che per me era importante, così il figlio guarda di là dal padre».

il manifesto 10.6.18
Delacroix imprigionato dall’analisi del colore
Al Louvre "Delacroix", a cura di Sébastien Allard e a Côme Fabre. Una mostra aperta, che lascia a ciascuno di cercare il suo Eugène Delacroix. Più che il mito romantico celebrato da Baudelaire, è stimolante l’«archetipo» della pittura a venire, nei pregi ma anche nei limiti
di Federico De Melis


PARIGI L’ardore di Eugène Delacroix si misura sugli ideali napoleonici di adolescenza, radicati per quanto dissimulati, e il suo credo nella soggettività che si fa Storia produsse, sappiamo, nell’Ottocento, le pagine pittoriche più vibranti dell’orgoglio dei popoli, fosse quello greco nelle Rovine di Missolungi o quello francese nella Libertà sulle barricate del 28 luglio 1830. Grandi macchine dello Spirito del tempo, sostenute dall’azione-colore e da un’architettura basculante che mette in questione, alla radice, gli ordini del verbo neoclassico. Così è anche per la Barca di Dante, per il Massacro di Scio, tutte opere di grande formato intorno a cui viene a inscenarsi, dopo un breve introìbo, l’avvio della mostra Delacroix al Musée du Louvre, che l’ha prodotta insieme al Metropolitan di New York (dove si sposterà dal 17 settembre) affidandone le cure a Sébastien Allard e Côme Fabre (fino al 23 luglio, catalogo Louvre éditions).
I monconi dell’amico Géricault
All’amico Géricault, di sette anni più anziano, incontrato la prima volta nello studio di Guérin, comune maestro, i contemporanei rimproverarono di non aver realizzato la grande opera, di averci lasciato appena monconi di un’idea, monconi che solo il Novecento, attraverso il gusto del frammento, e della pittura come aggiunta rapinosa di materia e bellezza, avrebbe fino in fondo apprezzato. Nel 1991 ho avuto la fortuna di assistere, nella storica mostra del Grand Palais, all’apoteosi di Géricault, dettata da un allestimento che curava di evidenziare in certi passaggi, attraverso l’illuminazione direzionale, il suo frammentismo tenebroso e sanguinolento. Delacroix, a cui Géricault, reduce dall’Italia, tributò i suoi complimenti dinanzi alla Barca di Dante, 1822, inaugurava al contrario, con questa tela, un cammino costellato di occasioni epiche, spesso ufficiali, compresi i cicli in affresco di commissione reale, governativa o municipale, dove è pieno il rispetto dei generi. Alberto Martini, nel 1964, ha spiegato come Delacroix rappresentasse una terribile turbativa per l’opinione accademica proprio in virtù della sua internità a un sistema delle arti che non ebbe mai intenzione di rovesciare. Lo minava dall’interno suo malgrado. Nel Salon del 1846 Baudelaire racconta come Sosthènes de la Rochefoucauld, direttore delle belle arti, avesse un giorno mandato a chiamare Délacroix per chiedere se «un uomo di così ricca immaginazione e di così bell’ingegno, e così ben voluto poi dal governo, non volesse versare un po’ d’acqua nel suo vino»… Le istituzioni lo blandivano, ma Délacroix era romantico, non poteva derogare da quel che aveva stabilito il suo sogno, e dovette aspettare il 1857, cinque anni dalla morte, per la nomina a membro dell’Institut nella classe delle belle arti.
Oggi non possiamo più amare come Baudelaire le grandi macchine di Délacroix, e dinanzi alla Libertà, 1830, succede all’occhio di distrarsi dal modo in cui, in un afflato, il disegno-colore si fa idea, manifesto storico, e di vagare alla ricerca del moncone di pittura, il calzino verde attorcigliato del cadavere del barricadero. Del resto, nella coscienza stessa di Delacroix, spirito complesso, poteva annidarsi un modo di sentire più nostro, se nel Diario gli viene da annotare che «non sempre la pittura ha bisogno d’un soggetto», riferendosi, proprio, alla «pittura di braccia e di gambe di Géricault». Non c’è dubbio, il soggetto, pur irrorato dall’‘immaginazione’, trattenne Delacroix in una sfera precedente, e gli sviluppi dell’arte moderna che a lui fanno capo riguardano solo una porzione del suo operare. Non si vuole dire che il suo frequente ricorso alle fonti letterarie – dal canone europeo, Dante o Shakesperare, alle opere romantiche, i novels neri inglesi o lord Byron – costituisse necessariamente un freno: ‘soggetto’ non corrisponde d’obbligo a ‘letteratura’ ma è, semplicemente, l’immagine precostituita, non libera dai condizionamenti storici e culturali. In Delacroix la letteratura, è vero, a volte blocca, ma altre si pone, al contrario, quale «punto di partenza», lievito, come giudicava Lamberto Vitali, curatore in Italia del Diario, Einaudi 1954, che solo in questo senso poteva interpretare l’entusiasmo di Baudelaire per l’«ingegno… completamente letterario» del pittore.
Nella mostra del Louvre, la grandeur istituzionale dell’avvio viene presto dimenticata in favore del libero sfoggio dei valori pittorici, che si gustano soprattutto nel medio e piccolo formato: dimentiche dell’angelo della Storia, esse rapprendono in modo più diretto le turbe dell’immaginazione, sia dal lato della frenesia, della belva, sia da quello della malinconia. Malinconia: Baudelaire vi ha fissato la dominante della pittura di Delacroix. Bisogna leggere o rileggere il capitolo del Salon 1859 dove stabilisce che egli, non credente, è, nell’Ottocento, il colosso della pittura religiosa, l’interprete più alto della tristezza del cristianesimo (cita Tiziano). Il Calvario, l’Uliveto, il sepolcro cedono il passo a un certo punto, in questa pagina non troppo celebre, al «lungo e malinconico fiume dei Tristia», menzionato a proposito di Ovidio presso gli Sciti, opera d’impegno presentata proprio al Salon del 1859. Cristianesimo e paganesimo si danno la mano sotto un sentimento che schiaccia, ma è il primo a dare il tono, a prolungare il suo strazio strutturale sull’altro, come succede in mostra, dove il passaggio dedicato ai dipinti sacri si proietta sul seguito immediato del percorso, su quel gioiello di nichilismo arancione che è Amleto e Orazio al cimitero, versione di Francoforte, 1835.
All’andamento cronologico si sovrappone ogni tanto, studiatamente, quello tematico; all’infilata di dipinti uno via l’altro, in orizzontale, subentra un diapason, che fa da cerniera: la sala dedicata alla folgorazione dell’Oriente con il viaggio in Marocco della prima metà del 1832, perno Le donne in Algeri, 1836; quella che vede affiancati la Medea di Lille, 1838, e, raro a vedersi, tradizionale nel relativo rispetto del tono locale, il solenne San Sebastiano soccorso dalle pie donne, 1836, dalla chiesa parrocchiale di Nantua, Ain. L’allestimento è aperto, non obbliga ma lascia a ognuno la sua chiave di accesso. Si può puntare sulla funzione archetipica dell’arte di Delacroix: ecco, nel settore nature morte, i modelli per Fantin-Latour, per Courbet, nel Naufragio di Don Giovanni, 1840, le disperazioni grafiche di Daumier.
Una svolta la lettura di Signac
Più discriminante resta il problema cromatico, che, come letteratura critica, trovò un punto di svolta nel saggio di Paul Signac D’Eugène Delacroix au néo-impressionisme (1899, «Revue Blanche»). Per Signac Delacroix è il grande precorritore della divisione, colui che per primo intende la possibilità di rendere lucenti i colori rinunciando alla fusione in tavolozza e alla stesura piatta per una giustapposizione di piccoli tocchi che si compongono nella retina, facendo acquistare alla tela «unità, atmosfera, luce». Giunge a questo risultato presto, nel 1824, quando a Parigi, già un anno prima del viaggio in Inghilterra, fa esperienza di alcuni dipinti di Constable. Avendo bene in chiaro la posizione di Signac, si può provare a verificarla quadro per quadro, e ci si renderà conto che in Delacroix non solo la scienza del colore è ancora trattenuta da pregiudizi di scuola (l’uso pur sempre eccessivo di tinte terrose), ma anche che, quando viene compiutamente a realizzarsi, può trattenere, persino più del ‘soggetto’, gli slanci sperimentali – lo vide Lionello Venturi nella pagine a lui dedicate in Pittori moderni, 1946.
Il Diario ne testimonia: Delacroix, insegnato come maestro dell’empito, era un analista del colore, quasi un chimico al pari di Chevreul, il teorico del «contrasto simultaneo», alle cui formule, poi decisive per Seurat e Signac, fu sommamente interessato. Venturi, critico dell’impressionismo, non amava il pointillisme, vi vedeva un eccesso di sistema, un ingabbiamento, e il suo Delacroix sente forse un po’ troppo di questa riserva teorica, ma dinanzi alla casistica dei quadri ci si convince che aveva per gran parte ragione. Egli cita una frase di Frédéric Villot, conservatore del Louvre amico intimo di Delacroix, dove si dice che questi, piuttosto che «porre il colore al posto giusto, brillante e puro», «cerca di formare un tessuto, i cui fili multicolore si incrociano e si interrompono a ogni istante»: flochetage, così, testimonia Villot, Delacroix definiva questa operazione, che risulta una specie di prima approssimazione del pointillisme. Non poteva piacere a Venturi, il quale nota come gli impressionisti, al contrario, «non si fossero dimenticati di porre la couleur juste à sa place». Non è il tessuto cromatico, continua Venturi, a dare unità all’opera in Delacroix, ma, requisito fin da subito a lui negato, la qualità del suo disegnare: impetuosa, gettata, vibrante, la sua grafia è un continuo deformare, e raggiunge il vero scopo solo quando il colore smette di trattenerla con le sue riserve sistematiche e si libera nell’amalgama.
Qui Venturi fa riferimento ad alcuni «piccoli quadri» della stagione finale, «colloqui con se stesso», come Cavalli che escono dal mare e Rissa di cavalli arabi in una scuderia, tutti e due del 1860, tre anni prima della morte. Si possono aggiungere meraviglie verdi come alcuni felini, alcune cacce, stupendamente smorzati e quasi sciolti nel tappeto erboso. A questo Delacroix «impressionista» era dedicata, nel 1998, la mostra sui suoi «anni ultimi» al Grand Palais. Articolata in sezioni tematiche, tutto si mescolava in un onirico unisono, effetto del maggiore accordo forma-colore, lo stesso che presiede alla magia, abbastanza incompresa, degli affreschi della Cappella dei Santi Angeli a Saint-Sulpice – portati a termine nel 1861 –, a cui, collateralmente alla mostra maggiore, dedica, fino al 23 luglio, un piccolo focus il Musée Delacroix, la casa-atelier in rue de Fürstenberg dove l’artista risiedette negli ultimi sei anni di vita.
Al Louvre la difformità dei richiami provenienti dalla poetica contrastata di un pittore che deve spingere la sua timidezza oltre l’ostacolo, che sforzò volontaristicamente, rende difficile la concentrazione e l’adesione sentimentale. Sembra di essere in balia. Solo nella grande stanza in chiusura, con le opere della stagione finale, la modernità sognata si compatta effettivamente in una nuova realtà pittorica: Il mare dalle alture di Dieppe, 1852, sembra già Monet; i ‘ritorni’ in Maghreb, realizzati a partire dagli antichi taccuini di viaggio, sono una specie di eco atmosferica degli urti cromatici di un tempo. Subentra un senso irrimediabile di tramonto, nel campo arabo ci si riposa intorno al fuoco prima del calare della notte: è la tela firmata Eug. Delacroix 1863, anno di morte. Possiamo abbandonarci, come il Cristo dormiente sul lago di Genesaret, capolavoro di misura, tono, senso religioso di nuovo segnato dallo spasmo malinconico (1854, Zurigo, collezione Bührle).

Corriere 10.6.18
Archivi Acquisito per 125 mila euro dalla Biblioteca Nazionale di Roma un fondo di appunti e corrispondenze messo all’asta dagli eredi
Grazie Ungaretti, fratello maggiore
Un corpus di 630 carte autografe e 170 lettere. Così i giovani autori scrivevano al poeta
di Paolo Di Stefano


Pochi poeti e letterati sono riusciti ad avere l’energia vitale di Giuseppe Ungaretti nel tessere rapporti con intellettuali e artisti di ogni generazione, uomini e (ovvio) donne, italiani e stranieri. Il risultato è una impensabile mole di corrispondenza con scrittori, editori, pittori, registi, compositori, amici famosi e no. Centinaia e centinaia di carte in verde, perché l’inchiostro verde, almeno dal 1949, è il suo segno distintivo. E in verde sono, in buona parte, i manoscritti di Ungaretti detenuti dall’erede, il genero Mario Lafragòla, e messi all’asta da Minerva-Finarte (il 12 giugno) per le cure del responsabile Fabio Massimo Bertolo: 630 carte raccolte in cartelline bianche e circa 170 lettere firmate da corrispondenti spesso illustri. Un archivio che la Biblioteca Nazionale di Roma, grazie alla lungimiranza del suo direttore Andrea De Pasquale, ha acquistato per 125 mila euro.
Dunque, autografi delle opere poetiche, di conferenze, saggi, articoli, abbozzi e bozze, appunti, pane abbondante per i denti dei filologi: con varianti d’autore e molteplici sorprese sulla genesi dei libri e sul laboratorio del poeta. E le lettere, si diceva, che documentano l’impressionante varietà delle amicizie. Dalle primissime (Enrico Pea) a quelle acquisite negli anni via via che Ungaretti diventa il punto di riferimento (morale oltre che poetico) delle generazioni che verranno, dagli ermetici alla neoavanguardia. Sempre in bilico tra scambio culturale e confidenza privata. Il che appare chiarissimo, per esempio, nelle belle lettere di Attilio Bertolucci. Il poeta di Parma, trentasei anni, l’11 novembre 1947, da Baccanelli, confida a Ungaretti di aver lavorato a Roma malvolentieri per i documentari di Antonio Marchi: «L’unica consolazione era muoversi in quella benedetta aria pulita, dopo le nostre nebbie, camminare nel sole verso l’una diretti alla solita trattoria, svegliarsi per la luce mattutina entrata dalla finestra socchiusa». Bertolucci, che si dichiara «un famoso falso malato di cuore», si sofferma poi sulla crisi di angina pectoris da cui Ungaretti è stato colpito in giugno: «e mi pareva che anche noi avessimo abusato della sua generosità, che tutti si avesse un po’ di colpa». È l’anno dell’uscita de Il dolore e Attilio rivolge al «fratello maggiore» un omaggio tutt’altro che convenzionale: «Si può dire che la mia vita potrei ormai segnarla con l’apparizione dei suoi tre libri». Lo stesso «entusiasmo» che traspare dalle parole con cui Mario Luzi, il 2 novembre dello stesso anno, definisce il libro opera «d’una fatalità inesorabile».
L’interlocuzione con i colleghi più giovani è una costante ed emerge ancora dalle epistole del «devotissimo» Edoardo Sanguineti, non ancora giunto all’esordio ma le cui opinioni su Gozzano, Pascoli, Montale, nell’ottobre 1955, sono già ascoltate dal quasi settantenne Ungaretti. E in una breve lettera del 23 dicembre con l’augurio di un felice Natale Sanguineti comunica una notizia che l’ha reso «quasi delirante»: «il 19 ho avuto un figlio, e maschio; si chiamerà Federico. Non Le parlo delle molte, delle troppe emozioni (ho assistito con tanta angoscia e tanta gioia al parto di mia moglie)».
Tra i primi patrocinatori di Andrea Zanzotto c’è sempre Ungaretti, che nel 1954, al convegno letterario di San Pellegrino, pronuncerà un lusinghiero discorso sulla prima raccolta del poeta veneto, Dietro il paesaggio. Il 9 aprile 1955 Zanzotto esprime all’«Ill.mo maestro» la sua gratitudine per il «costante interessamento» nei suoi riguardi e per l’invio del bando del Premio Versilia. Il 2 luglio, deluso dall’esito dei suoi versi presso la critica, il giovane poeta ci tiene ad aggiungere: «E devo dirLe che la fiducia concessami da Lei mi aiuta immensamente a credere, e a fare quel poco che faccio (…). Davvero, mentre i critici oggi non sembrano vedere che romanzi e romanzetti, se non ci fossero i poeti, nostri fratelli maggiori, che si accorgono di noi giovani (ma, ormai, non tanto…) ci si dovrebbe disperare».
Devozione e riconoscenza anche quando viene chiamato a intervenire contro le censure dell’Italia bacchettona. Nel 1956 Ungaretti sarà sollecitato dall’amico Pasolini a testimoniare, con il linguista Alfredo Schiaffini, con il filologo Gianfranco Contini e con il critico Carlo Bo, a proposito di Ragazzi di vita, il romanzo che finì sotto processo, segnalato dal governo alla Procura di Milano per oscenità (sulla vicenda e sul lavoro di autocensura imposto da Garzanti a Pasolini sulle bozze del romanzo, una ricca e rigorosa ricostruzione di Silvia De Laude, I due Pasolini, è appena uscita per Carocci). Consapevole della stima di Ungaretti, che lo aveva invano promosso allo Strega e al Viareggio, Pasolini il 16 settembre ’55 scrive per ringraziare di un «tale impeto di simpatia». Ma è nell’estate dell’anno successivo che l’Sos pasoliniano si fa pressante in vista del processo del 4 luglio a Milano. La richiesta è di essere presente in tribunale: «Questo processo mi ha così umiliato e depresso in questi mesi che non sono più riuscito a lavorare al nuovo libro; e ha gettato l’orgasmo e l’inquietudine in mio padre e mia madre (…)». Non gli resta dunque che confidare «nell’entusiasmo e nella generosità» del vecchio amico. A causa della malattia della moglie, Ungaretti non potrà presenziare al processo, che si risolverà con l’assoluzione, anche grazie alla lunga dichiarazione ai giudici, in cui Ungaretti definisce Ragazzi di vita «uno dei migliori libri di prosa narrativa apparsi in questi anni in Italia» e Pasolini «lo scrittore più dotato che noi possediamo».
Una vita da «fratello maggiore» e nume tutelare. Alla cui «solidarietà umana e buon cuore» fece ricorso anche l’editore Vanni Scheiwiller nel 1955 quando con Diego Valeri promosse l’Appello in favore di Ezra Pound recluso senza processo nel manicomio criminale di Washington: e ovviamente Ungaretti non si tirò indietro intervenendo anche su «Epoca».
È alla generosità di Ungaretti che fa ricorso anche Mario Schifano quando finisce in carcere per una vicenda di droga. E in quattro paginette dell’autunno 1966 vergate a caratteri maiuscoli quasi infantili chiede al poeta di testimoniare a suo favore: «Io spero proprio che per il 10 non si trovi lontano da Roma, lei potrà aiutarmi a uscire da questa storia (lei sa tutto dal mio avvocato?). Comunque in prigione ho molto pensato e se uscirò farò molte cose nuove». L’artista si crogiola nel suo conclamato «maledettismo», annuncia la personale che presto si aprirà a Milano da Marconi: «tutto il mio lavoro da gennaio a luglio (bello, tutto coperto di plastica). Sarò molto triste il giorno 8… ma, in fondo, anche felice». Illustra i suoi progetti futuri, confessa di essere «innamoratissimo di una donna che si chiama Anna Carini, lei ancora non la conosce». Si interessa: «Lei sta bene? Viaggia sempre, sempre», prima di concedersi qualche confidenza più malinconica: «Il tempo è molto brutto, è proprio autunno, qui dentro non si è avvertito il passaggio dall’estate a ora (era sempre fresco!). Mariaccio Diacono [il suo segretario]? Io (le dirò) sono molto imbarazzato di dovermi trovare il prossimo giovedì in un tribunale, e così socialmente dover rispondere di qualcosa così poco asociale (ecco io non capisco ancora bene, ma cosa ho fatto contro chi, contro cosa…! Boh!). Però è chiaro che per questo dovrei uscire… Uff! Che noia una prigione, quanto tempo per niente. Sa? Sono 109 giorni che sono qui dentro, pensi io amo così tanto il sole il mare la luce. Grazie (e non così per dire) di tutto. Sono molto commosso». Era appena uscito, Ungaretti, dall’affaire Milena Milani, l’ex «comandante delle donne futuriste» il cui romanzo La ragazza di nome Giulio, uscito da Longanesi nel 1964, era stato accusato (e condannato) per oltraggio «al comune senso del pudore»: anche a lei, in sede di appello, il poeta aveva offerto «con tanto fervore e tanto accanimento» i suoi buoni uffici, lettere, recensioni, testimonianze a difesa. Gli arrivano ovvie parole di gratitudine: «Non so come ringraziarla di quanto ha già fatto. E di quanto farà». E naturalmente Ungaretti farà, come sempre.
Il 21 dicembre 1958, tre mesi dopo la morte della moglie, Jeanne Dupoix, Ungaretti conosce a Cervia, dove ha ricevuto la cittadinanza onoraria, una insegnante di francese romagnola di trentun anni, Jone Graziani. Ne nasce un carteggio amoroso che dura sei anni: 376 lettere quasi tutte inedite, 49 delle quali, «decisamente oscene» secondo la destinataria, furono da lei distrutte. 74 sono in francese. Il carteggio comprende cinque versioni di un componimento poetico dell’ultimo Ungaretti, inizialmente dedicato a lei e noto come Canto a due voci. Le lettere alla Graziani sono depositate a Parigi, Bibliothèque Littéraire Jacques Doucet. Nell’archivio messo all’asta se ne trovano due firmate da lei: sono lettere di attesa, in cui Jone lamenta la lontananza dell’amato, settantaduenne ancora attivissimo. Il 24 marzo 1960 sente «il grigiore di queste giornate senza le tue parole d’amore», confessa che «la tua voce mi dà una carica di forza che dura almeno qualche giorno, poi ricado nella malinconia e nella depressione». E il primo luglio scrive: «Mio carissimo amore, (…) sono molto sola e infinitamente triste. Quando ti allontani dall’Italia sento ancora più la mia solitudine (…). Vorrei tanto essere con te. Non mi hai voluta e ne sento amarezza». E ancora: «Chissà quante cose preziose hai nei tuoi cassetti. Io ho le tue lettere bellissime che rileggo spesso. E riguardo anche le nostre foto. Vorrei ancora le belle giornate con te. Sono tutta tua, mio tesoro. Ti bacia con amore la tua Jone». Tra qualche anno, come si sa, in Brasile arriverà un altro amore, molto molto più giovane, altre poesie, altre lettere.