Repubblica 19.5.18
Le nozze di Harry e Meghan
Il fascino indiscreto dei prìncipi
di Marino Niola
Più di un terzo della popolazione mondiale oggi è di matrimonio.
Le nozze di Harry e Meghan promettono di stracciare tutti i record di popolarità.
Trecentocinquantamila
persone stanno assediando gioiosamente il Castello di Windsor. Mentre
la bellezza di 2460 invitati hanno il privilegio di calpestare la
leggendaria erba dei giardini reali.
Ma tutto questo è niente di
fronte allo share planetario dell’evento, che promette di superare il
matrimonio social di Kate e William e di surclassare quello televisivo
di Diana e Carlo. Una platea di oltre due miliardi di cittadini globali
seguirà la cerimonia con tutti i media possibili e immaginabili. Tv,
radio, streaming, siti. Senza contare le dirette Facebook e i reportage
Instagram postati dalla folla oceanica assiepata davanti ai cancelli e
lungo il percorso del corteo.
In un modo o nell’altro queste nozze che hanno YouTube e Twitter come paggetti virtuali sono da Guinness.
Ma
perché in un mondo dove il matrimonio è diventato interinale come il
lavoro, dove gli sposi comuni sembrano co.co.pro. dell’amore, dove il
numero di fiori d’arancio è in calo verticale, principi e cenerentole
fanno ancora sognare? Più di cantanti, stelle del grande schermo e
campioni di calcio che, nel quotidiano, sono più popolari degli sposi
coronati.
Il fatto è che la regalità è tutto fuorché popolare. E
per questa sua distanza siderale dai comuni mortali buca l’immaginario
di ieri come quello di oggi.
Perché regine e sovrani sono la
materia prima del potere e l’essenza stessa della fiaba. Che inizia
sempre con il fatidico “c’era una volta un re”. E perfino la satira,
come quella di Iannacci quando cantava Ho visto un re, apparentemente
sconsacra scettri e troni, ma in realtà ne riafferma la differenza, una
sorta di privilegio di natura, prima ancora che di investitura.
Lo
dicono le parole con cui ancora adesso ci si rivolge ai monarchi.
Altezza, grazia, maestà. Parole che hanno come primo significato la
grandezza, la bellezza, lo splendore. Lo stesso termine rex, da cui
viene il nostro re, nonché l’indiano raja, derivano da una medesima
radice indoeuropea che ha a che fare con il reggere, con il dominare, ma
anche con il bagliore, con la luccicanza. Come dire che il simbolo
supremo emana uno shining che ha qualcosa di soprannaturale. E lo
sposalizio con il principe azzurro rappresenta da sempre l’archetipo
dell’amore felice, il coronamento di una voglia di favola capace di una
straordinaria resilienza.
Che la fa galleggiare nell’immaginario tradizionale come in quello digitale.
È
anche vero che non tutte le corone sono uguali. Ci sono monarchie che
hanno scelto di scomparire, di vivere sottotraccia, di sciogliersi nel
sociale come quelle scandinave, olandese, belga.
Che non sembrano nemmeno dei reami.
Ma
la corona inglese tiene banco alla grande. Anche perché è capitanata
dalla iconicissima Elisabetta II, erede di una linea di regine che,
dalla mitica Elisabetta I Tudor alla indomabile Vittoria, hanno riempito
i libri di storia. Diceva Faruk, il re d’Egitto deposto dal generale
Nasser nel 1952, che un giorno al mondo sarebbero rimasti solo cinque
re. Quelli di fiori, di quadri, di cuori e di picche. E quello
d’Inghilterra, of course.
E adesso il teatro dei re accende i
riflettori sui figli di Diana, la principessa triste che aveva colpito
al cuore l’immaginario globale. Harry e Meghan, William e Kate, si sono
già guadagnati il titolo di Fab Four. Proprio come i Beatles. Così
mentre la nonna regna ancora sul popolo, i quattro già regnano sul pop.