La Stampa 11.4.18
L’epopea delle “Exodus” italiane, pescherecci verso la terra promessa
Mostra al Memoriale della Shoah di Milano: tra il ’45 e il ’48 34 navi partirono dai nostri porti per raggiungere la Palestina
di Marco Sodano
Nahariya,
Nord della costa palestinese, 25 dicembre 1945. La nave Hannah Szenes,
agli ordini del capitano (italiano) Ansaldo, sbarca 250 ebrei scampati
alla Shoah su una spiaggia che due anni e mezzo più tardi diventerà
territorio di Israele. Bambini, donne e uomini sfuggiti ai nazisti, che
hanno peregrinato per mezza Europa trovando una prima e provvisoria
salvezza in Italia e hanno fronteggiato un nuovo nemico: le navi della
Marina militare britannica che cercano di impedire l’immigrazione
illegale degli ex deportati nella futura Israele.
La Hannah Szenes
è la prima di 34 navi che partiranno dall’Italia tra il ’45 e il ’48
facendo traversare il Mediterraneo a oltre 20 mila ebrei sotto la regia
dell’Aliya Bet, l’agenzia per l’immigrazione clandestina che aiutava gli
scampati ebrei in tutta Europa. Carrette del mare: pescherecci
riattrezzati per trasportare persone ma che dovevano fingere di fare il
loro lavoro, barche adatte a navigazioni molto più brevi. Navi cui era
stato cambiato il nome, i cui documenti di bordo non esistevano, che
spesso furono affrontate con durezza dalle unità britanniche, che non
esitavano a rispedire indietro i profughi a costo di speronare le
imbarcazioni, abbordarle, usare la violenza.
L’epopea italiana
dell’Aliya Bet ha dimensioni importanti. Le 34 navi italiane sono più di
metà delle 65 partite complessivamente dall’Europa, i 20 mila profughi
sono quasi un terzo dei 70 mila che raggiunsero la Palestina in quegli
anni. Numeri impressionanti per un’operazione condotta sotto copertura.
Enrico Levi, capitano di lungo corso italiano (radiato dalla Marina
militare italiana dopo le leggi razziali) l’ha raccontata così: «Non ero
sionista ma mi piaceva questa sfida da condurre in mare. Le condizioni
erano impossibili, non c’erano navi da trasporto, il Mediterraneo era
infestato dalle mine, gli inglesi sorvegliavano le coste italiane e
quelle palestinesi».
Eppure l’impresa riuscì. Grazie a Levi e
grazie a persone come Mario Pavia e Gualtiero Morpurgo, ingegneri,
incaricati di trasformare pescherecci acquistati in porti secondari in
navi adatte a trasportare persone sotto la supervisione di Levi. I tre,
insieme, inventarono un sistema di teli, traverse e barre di metallo che
nella stiva si trasformavano in cuccette ma potevano essere trasportate
senza che se ne intuisse lo scopo. Inventarono anche il modo di
montarlo senza farsi notare in porto. Rischiarono l’arresto dopo
l’incidente (diplomatico) più grave, tra aprile e maggio 1946, alla
Spezia: 1014 profughi pronti a partire sulle navi Fede (Dov Hoz) e
Fenice (Elyhau Goulomb) e bloccati dalle autorità britanniche, non senza
l’aiuto di quelle italiane che già avevano messo sotto sequestro altre
tre imbarcazioni in Puglia.
Fu necessario che i mille profughi
iniziassero uno sciopero della fame e minacciassero di far saltare le
navi con i loro occupanti perché il caso La Spezia diventasse una
formidabile arma di pressione sui britannici e sugli italiani
convincendo infine i primi a vistare i lasciapassare per la Palestina. E
fu imprescindibile l’intervento di Ada Sereni, che era a capo
dell’Aliya Bet in Italia. Ada si era trasferita in Palestina nel ’27 con
il marito Enzo per fondare un kibbutz. Era tornata in Italia a cercarlo
dopo che lui, arruolato nelle Brigate ebraiche per combattere i
tedeschi, era scomparso (si scoprirà poi che era morto a Dachau). La
ricerca di Enzo, per Ada, si trasformò in un’opera di salvataggio
incessante.
Conoscenze, bustarelle, persuasione, durezza: tutti i
mezzi erano buoni per lei, che una notte riuscì anche a convincere una
pattuglia di allibiti carabinieri che gli uomini e le donne che
stazionavano in spiaggia erano un gruppo di suoi amici in vacanza - un
centinaio di persone - che avevano deciso di dormire sotto le stelle non
avendo trovato un albergo.
Questo fiume di storie si è lasciata
alle spalle una scia di fotografie, lettere, cartoline che ora sono
visibili al Memoriale della Shoah di Milano, nei sotterranei della
Stazione Centrale, al Binario 21 da cui partivano i convogli destinati
ai campi nazisti. La mostra («Le navi della speranza Aliya Bet
dall’Italia 1945-48», curata da Rachel Bonfil e Fiammetta Martegani,
aperta fino a fine maggio), è un percorso di dolore e di gioia.
Se
non è difficile capire il dolore, la gioia degli scampati è quella di
persone capaci di sfidare qualunque avversità perché, dopo l’orrore «si
sentivano immensamente liberi e forti», scrive Primo Levi nella Tregua.
«La comunità milanese ebbe una parte importante nell’Alya Bet», conclude
il presidente della Fondazione Memoriale della Shoah di Milano Roberto
Jarach, «ma il punto è un altro. Questo Memoriale ricorda un luogo nel
quale il martirio cominciava, i sorrisi degli ebrei stipati sulle navi
salpate dall’Italia concludono in qualche modo quella pagina di storia».