Repubblica 25.3.18
Paolo Virzì, regista
Dov’è finita la Sinistra
“Ci servono passioni radicali E godiamoci l’opposizione”
di Concita De Gregorio
«Renzi
da una parte ha tutto il diritto di defilarsi, dall’altra ha il dovere
di esser generoso e di dare una mano a una nuova stagione. Se lui si
mette di traverso quel che resta del Pd si rompe tutto». Con Paolo
Virzì, sul set del suo prossimo film, a parlare di politica. Una
passione che come tutte procura gioie e sofferenze.
«Per esempio la campagna elettorale è stata una grande sofferenza».
La campagna? La vigilia del voto?
«Sì.
Solo messaggi di propaganda, dai più subdoli ai più sfacciati. Non c’è
stata una proposta politica che trasmettesse sicurezza, empatia, che
accendesse passioni. Non era un compito facile, va bene: si trattava di
dire cose complicate. Prendi il tema dell’immigrazione: da una parte
fuori i negri, portano la malaria e subito la giravolta opportunista, da
pura azienda di marketing elettorale, dagli attacchi di Di Maio alle
Ong in nome di una legalità che più sordida e ottusa non si può».
La Lega, i Cinquestelle. E a sinistra?
«Si
balbettava. Nessuno, non il Pd ma nemmeno le formazioni più radicali,
son riuscite a usare parole all’altezza della tragedia in corso.
L’Olocausto di un continente. Calcolo elettorale, ma anche mancanza di
conoscenza: come se fosse una questione che sta a cuore a pochissimi.
Parlare di immigrazione non vuol dire essere caritatevoli ma guardare in
faccia con realismo le grandi questioni del futuro: sostenibilità,
lavoro, risorse del territorio, diritti umani, equilibri demografici,
sicurezza, futuro dei nostri figli. Tutto. Non stiamo parlando soltanto
del destino insopportabile di una spaventosa moltitudine di persone: lo
preciso per chi ritiene che avere a cuore i diritti umani sia un lusso
per un’ipocrita élite di virtuosi. Non è solo quello. È la Politica, la
Civiltà».
Dimmi del Pd. Di Renzi.
«Quando ho visto il video
del suo discorso al Terminal Crociere di Livorno ho avuto la
rappresentazione plastica della sconfitta che si stava annunciando.
Sembrava che le regole drammaturgiche del suo format da stand up
comedian gli impedissero di vedere la platea.
Si rivolgeva a
pensionati, pochi operai, molti disoccupati con le stesse parole che
avrebbe usato davanti a una platea di imprenditori, magari le eccellenze
italiane che ama motivare, quelli “che non devono aver paura del
futuro”.
Quindi, tra un filmato con Totò e un meme, giù con la
crescita del Pil e dell’export. A un certo punto è sceso, microfono in
pugno, le maniche rimboccate, a cercare il contatto fisico con il
pubblico come i grandi showman. In quel momento finalmente la camera ha
inquadrato i volti di quella gente, non poca, che era venuta ad
ascoltarlo. Impassibili, afflitti da una profonda mestizia.
Qualcuno guardava per terra, qualcuno - sentendosi guardato dal Segretario - accennava un sorriso».
Li hai riconosciuti, quei livornesi?
«Mi
pareva, qualcuno. Li vedevo, li sentivo, c’era in quei sorrisi anche
qualcosa di languido, Lucio Battisti direbbe un dolce dispiacere. Renzi
non ha menzionato nessuna delle questioni che li riguardavano.
Sembrava
non aver dato neanche uno sguardo al “dossier Livorno” che magari
qualcuno, solerte, gli avrà pure preparato. Una volta si faceva così.
C’era uno bravino, in Federazione, incaricato di preparare i dossier
della città al Segretario. Quella fabbrica che chiude, la situazione
dell’Ospedale, le scuole».
Però tu ci hai creduto a Renzi. Quando hai smesso, se hai smesso, e perché?
«Arrivava
il giovane sindaco di una città governata con pragmatismo, che
dialogava con i Mille, con Scalfarotto, con Civati, quindi con un
ribollire anche generazionale, uno che aveva il fegato di sfidare il
gruppo di dirigenti che negli ultimi trent’anni avevano passato il tempo
a farsi le scarpe l’un l’altro. Non si poteva non guardare con favore.
Anche se la parola rottamazione mi è sempre sembrata inutilmente violenta.
Comunque,
su Renzi: mi sembra che ormai si sia detto molto. Le sue luci - la sua
energia, la voglia di fare - e le sue ombre - la divisività, il
circondarsi di fedelissimi, non aver spalancato le porte del partito nei
territori. Mi ha colpito molto anche la gestione confusa,
contraddittoria, sciatta dell’Unità. Immagino abbia colpito anche te».
Molto,
sì. Il successo dei Cinquestelle d’altra parte era annunciato dalla
vicenda di Roma. So che hai visto il docufilm di Francesco Cordio, “Roma
golpe capitale”. C’è la fila fuori dal cinema ogni volta che lo
proiettano. Mi dicevi che ti ha intristito.
Perché?
«Mi ha
fatto ripercorrere quei giorni da un punto di vista che avevo
trascurato. A un certo punto di Marino ho pensato anch’io: basta, se ne
vada. Poi rielaborando i fatti: gli scontrini di poche decine di euro,
la Panda rossa, la battuta estorta a Papa Francesco, adesso mi sembra
evidente che si sia consumato un rito torbido, l’ennesima congiura
fratricida.
Quel documentario mi ha fatto male perché mi ha fatto sentire stupido, una delle tante vittime di una narrazione deformata».
Dei Cinquestelle hai detto spesso che senti che ci sia dietro qualcosa di pericoloso.
«Qualcosa
per me di indigeribile in quello stile di reclutamento, di propaganda.
Non mi spiego come facciano tanti amici, persone che ritengo
intelligenti, le stesse che magari nel dicembre del 2016 sono state in
pena per l’assalto alla Costituzione, a considerare una questione
trascurabile l’assetto proprietario, il management privato,
l’ncontendibilità dei vertici dell’attuale primo partito italiano. Chi
è, cos’è dietro a Casaleggio».
Poi però se volti le spalle a
Casaleggio e a Di Maio, se guardi gli elettori del Movimento vedi anche
una domanda disperata di partecipazione che non trova casa altrove.
Tanti sindaci sono arrivati ai Cinquestelle perché chiusi fuori dalla
sinistra. Carbonia, Carrara, Alcamo. Tanti.
«È così. Vedo che li
racconti nel tuo viaggio in Italia. Ci sono città come Livorno o Roma
dove non si riesce a percepire il sindaco come una figura autonoma dalla
Casaleggio Associati. Altre come Torino, Augusta, come in fondo Parma,
con un sindaco post-post-grillino che adesso è il critico più severo del
Movimento stesso, dove il grillismo ha dato voce, spazio,
rappresentanza a tanti che non l’avevano. Specie lì dove il Pd non
riesce ad essere altro che un impenetrabile club di notabili.
Peggio ancora, con le parole di un ministro: “Un comitato d’affari”».
Se
poi fai la commissione Barca sul Pd romano e lo fai commissariare da
esponenti del Pd romano. Se vinci le primarie e perdi le elezioni,
perché la corrente sconfitta sistematicamente non vota il candidato che
le ha vinte.
«Le primarie declinate in Italia, a sinistra,
diventano un rituale di maschi alfa che lottano per il ruolo di capo
branco lasciandosi alle spalle ferite insanabili. Ma soprattutto: hai
perso i tuoi temi. Pensa all’Ubi, universal basic income, che è al
centro del dibattito delle sinistre europee.
Regalato ai 5stelle,
che ci hanno costruito intorno la mitopoietica del reddito di
cittadinanza. Ma quello, insieme agli ammortizzatori sociali, è un
patrimonio dei partiti della sinistra. Insomma: non basta il buon
governo delle cose in un mondo che sta collassando.
Abbiamo perso i
treni precedenti. La stagione della terza via Blair-Clinton. Renzi ha
fatto l’agenda Schroeder quindici anni dopo. Curioso come i temi
bollenti che animano il dibattito nei paesi del nord Europa (climate
change, green economy, sostenibilità ambientali) da noi arrivino come
pallido maquillage. Sento un gran burlarsi di Corbyn, ma non mi stupirei
se vincesse le prossime elezioni con un programma radicale».
Un programma radicale.
Che dici della sinistra di LeU?
«Con
tutto il rispetto e la simpatia: Fratoianni e compagnia mi sembrano la
riedizione di una sinistra identitaria alla Bertinotti, votata al ruolo
marginale di portabandiera. Ora è lampante come il minuscolo progetto di
D’Alema e di Bersani sia stato figlio di una pura pulsione di vendetta,
dannosa per tutti a partire da loro».
Da dove ripartiresti?
«C’è un terreno fertile, ci sarebbe addirittura un popolo da mobilitare. Da accendere con passioni anche radicali.
L’immigrazione è un fenomeno esplosivo, è il grande tema del mondo contemporaneo. Ha bisogno di risposte di sinistra.
L’Europa
si limita a spendere miliardi di euro con Frontex: stiamo trasferendo
la frontiera giù fino al deserto, stiamo finanziando campi di
concentramento».
È cosi, finanziamo campi di concentramento.
«Tanti quattrini veri che potrebbero essere destinati a politiche lungimiranti».
Dunque: ora all’opposizione?
«Ma
sì, godiamoci l’opposizione, un posto dove la sinistra è sempre stata
comoda. Bisogna ricostruire un’agenda sui temi del mondo, che deve
essere ambiziosissima perché deve mobilitare: le povertà, il lavoro di
domani, il futuro del Pianeta, cose altisonanti. Non può bastare
un’agenda di buongoverno. Il riformismo del XXI secolo deve aver dentro
un po’ di radicalità, dev’essere anche rivoluzionario. Sogni, futuro,
investimenti in educazione, cultura, progetti per tutte quelle aree del
Paese che si stanno spopolando, i nostri borghi rurali, e che andando ad
incrociarsi con una stagione di movimenti migratori potrebbero essere
il nostro petrolio. E niente nostalgia del passato per favore. Il
passato non era meglio del presente, era solo diverso».
Parli del Pci?
«Non è che fosse un partito accogliente nemmeno il Pci.
Diciamolo.
Quando da liceali, ingenuamente, andavamo a chiedere una saletta alla
sezione “Stalin”, quella del quartiere Sorgenti a Livorno, per le
riunioni movimento studentesco, venivamo messi alla porta senza tanti
complimenti. Bisognava insistere. Bisogna insistere».