lunedì 19 febbraio 2018

Il Fatto 19.2.18
30 anni fa l’Italia scoprì la violenza sulle donne
La prevenzione. Una donna non la si salva soltanto togliendola alle percosse, bisogna darle gli strumenti per cavarsela da sola anche sei mesi dopo l’aiuto
di Silvia D’Onghia e Alessia Grossi


Si fa presto a dire “la violenza contro le donne nasce dall’ignoranza”. Non è così. E non è neanche vero che a subirla sono le donne che non hanno strumenti culturali. Non lo dicono soltanto gli esperti, lo dicono i numeri. Nel 2017 il 9,7 per cento delle donne che si sono rivolte al 1522 – il numero verde promosso dal dipartimento Pari Opportunità e gestito dall’associazione Telefono Rosa – ha un diploma di laurea; il 15,25 per cento una licenza media superiore. In totale, per prendere contatti, ricevere informazioni, chiedere aiuto o segnalare casi di maltrattamenti, gli operatori hanno registrato in tutta Italia 33 mila 466 chiamate. La maggioranza? Al Nord, in Lombardia soprattutto (2.549 richieste, il 7,6 per cento). Forse perché al Sud ancora si denuncia poco: ci sono realtà – ma questo purtroppo vale anche altrove – in cui gli atteggiamenti violenti del marito sono considerati quasi la normalità. Vergogna, difficoltà ad esprimersi, mancanza di informazioni, paura di controlli di polizia: le straniere che chiamano sono soltanto il 15 per cento del totale. Di norma le vittime si convincono a telefonare quando hanno paura per l’incolumità dei propri figli: soltanto il 30 per cento delle richieste di aiuto è arrivata da donne non madri. Capitolo a parte quello dello stalking: in questo caso hanno avuto bisogno soltanto 818 donne – una cifra irrisoria rispetto a un fenomeno così esteso –, il 33 per cento delle quali ha una laurea o un diploma superiore. Anche in questo caso, si tratta in prevalenza di italiane, ma sono quasi la metà quelle senza figli.
Il 1522 è un servizio istituito nel 2009, attivo 24 ore su 24, tutti i giorni dell’anno e gratuito. Si parlano l’italiano, l’inglese, il francese, lo spagnolo e l’arabo. Le operatrici forniscono una prima risposta alle vittime, con assoluta garanzia di anonimato, offrendo loro informazioni e un orientamento verso i servizi socio-sanitari pubblici e privati presenti sul territorio nazionale. I casi che rivestono carattere di emergenza vengono accolti con una specifica procedura condivisa con le Forze dell’Ordine.
Recuperare i bambini ed educare i giovani
“Sulla violenza si è cominciato a lavorare con serietà – spiega Gabriella Carnieri Moscatelli, presidente di Telefono Rosa – mentre non si è fatto quasi nulla su quella sommersa, che viene assorbita dai bambini. Il loro modello è quello di un padre violento e di una madre che lo subisce. Quindi va bene continuare a lavorare sulle donne, dando loro la consapevolezza di non sapersi sole, ma bisogna anche sradicare questo esempio culturale”. È l’eterna questione mai realmente affrontata in questo Paese: come si fa a prevenire quelli che, con una parola orribile, vengono chiamati femminicidi? “Partendo dalle scuole. Noi nel Lazio abbiamo realizzato un progetto di formazione scuola/lavoro a spese nostre, che coinvolge 800 studenti”. Una classe a turno, dopo essere stata istruita dai docenti, si trasferisce per un sabato in una casa-famiglia, per stare con donne e bambini. Viene realizzato un laboratorio, i ragazzi possono parlare con le vittime – quelle che accettano – incontrano le psicologhe, le educatrici e le avvocate. Capiscono come potrebbe essere lavorare in questo campo e, a volte, riescono a tirar fuori anche sentimenti altrimenti messi a tacere, come la rabbia o gli attacchi di ira. “Ma la cosa più bella sa qual è? – prosegue Carnieri Moscatelli – Vedere le facce dei bambini, che magari per la prima volta in vita loro si trovano davanti a uomini ‘normali’”. Se un progetto come questo fosse rifinanziato nel tempo, si potrebbero vederne i risultati tra qualche anno. Perché questo è uno dei problemi, i finanziamenti. Lo Stato finora concede fondi dietro la presentazione di progetti.
Finanziamenti a pioggia ma non dove serve
Attualmente si discute di trasformare la modalità dei finanziamenti, adeguandola a quanto si fa per gli stranieri: 35 euro al giorno a persona assistita. “Non si rendono conto che mangiare e dormire non sono le nostre voci di spesa principali – conclude la presidente di Telefono Rosa – perché il compito più importante per noi è recuperare quelle donne. L’assistenza legale, quella psicologica, le trasferte per seguire i processi, i gruppi di auto-aiuto, il ‘dopo’, che significa il reinserimento nel mondo del lavoro e la possibilità di trovare un alloggio. Una donna non la si salva soltanto togliendola alle percosse, bisogna darle gli strumenti per cavarsela da sola sei mesi dopo. E questo ha un costo che va ben oltre i 35 euro al giorno”.
Pronto? Qui 1988: le donne al Telefono
È un esperimento temporaneo. Cinque volontarie, tra cui la futura presidente Giuliana Dal pozzo in una stanzetta del Tribunale 8 marzo, in via della Colonna Antonina, Roma rispondono a un numero di telefono attivato in caso le donne avessero bisogno di segnalare violenze e abusi. In mano ognuna ha una matita e un foglio di carta su cui prendere appunti. Ma quale matita e quale foglio. In quattro anni arrivano 75 mila chiamate. È l’Italia “segreta”: dall’altro capo del telefono ci sono mogli, figlie e anche madri. Il primo teatro di violenza sono le mura domestiche e a perpetrarla uomini con un buon livello di cultura e una professione importante. Così qualche mese dopo quel febbraio 1988 i fogli diventano questionari. Domande che arginino lo sfogo incontrollato delle donne al Telefono Rosa, e che diano la possibilità a chi vuole aiutarle di raccogliere dati indispensabili. Nomi, cognomi e indirizzi di chi fino a quel momento aveva bussato ai commissariati di Polizia, dove funzionari in pantaloni rispondevano perlopiù: “Signora, torni a casa, suo marito la picchia perché è geloso, la ama”. Allora c’è bisogno di una struttura ora, di qualcosa di più di una linea amica. Per questo nel ’90 le volontarie si costituiscono in associazione. Iniziano a prendere lezioni. Si impara a reagire a quelle confessioni quasi incredibili. Si insegna a riportare le donne alla realtà. Quello non è uno sfogatoio, bisogna risolvere i problemi delle vittime, che nel frattempo si scopre essere anche madri. Cioè, a picchiare sono anche i figli. E allora una ricerca aiuterebbe. Nasce nel ’94 e si chiama “Le voci segrete della violenza”. Col Telefono iniziano a parlare anche le istituzioni e da questa sinergia si scrive la prima legge contro le molestie e lo stalking con un nuovo punto di vista: l’impressione di chi subisce, non di chi abusa.
L’Europa è Paese: la rete e i progetti antiviolenza
Da cinque volontarie il Telefono arriva a 47, la sede cambia: prima Piazza Navona, poi in Viale Mazzini. E guarda all’Europa, ma soprattutto alla prevenzione e all’educazione dei rapporti. L’Ue finanzia opuscoli e guide su “come difendersi da aggressioni, stupri e molestie, in casa e per strada”. E a Bruxelles il Telefono porta Cercando Eva storie di giovani donne che viaggiano per il Continente. La fondatrice, Dal Pozzo, raccoglie le storie in un libro Così fragile e così violento. È il 2000. Potrebbe essere oggi.
“Non toccate le allieve”: Weinstein alla Sapienza
È il 1994 e le avvocatesse del Telefono Rosa raccolgono le denunce delle studentesse molestate all’Università di Roma. È il caso Weinstein italiano. Si fanno nomi e cognomi dei professori implicati. Il Rettore minaccia querele. I giornali titolano: “Sapienza, lezioni insidiose”. Viene istituita una linea apposita. Ed escono le prime cifre. Su 3.000 studenti il 50 per cento dichiara di essere stato molestato.
La Commissione parlamentare: i dati oggi
“Negli ultimi 6 anni – si legge nella relazione finale pubblicata questo mese – una graduale riduzione (con una lieve risalita nel 2012) del numero dei delitti di violenza sessuale denunciati: sono passati dai 4.617 episodi del 2011 ai 4.046 del 2016 (-12 per cento circa)”. Anche se il dato evidente è la “divergenza fra il numero dei delitti di violenza sessuale denunciati e quelli, più esigui, relativi alle condanne”. Trent’anni dopo il Telefono squilla ancora. Qualcuno risponde?