Corriere 27.2.18
L’antipolitica dell’Italietta
Un saggio di
Clotilde Bertoni (il Mulino) rievoca le numerose opere letterarie che
presero di mira le istituzioni rappresentative verso la fine
dell’Ottocento.Lo Stato liberale di allora fu dipinto come un immenso
focolaio di corruzione
di Paolo Mieli
fu Lo scandalo della banca romana
a gettare discredito sul parlamento
È
curioso che l’Ottocento, il secolo nel quale in Europa si è andata
progressivamente affermando la democrazia parlamentare, sia anche
l’insieme di decenni in cui la letteratura dell’intero continente,
pressoché unanime, ha offerto un’immagine sempre più ripugnante delle
attività svolte nei Parlamenti (nonché del loro intreccio con le realtà
economiche e finanziarie). Lo documenta bene Clotilde Bertoni
nell’avvincente saggio Romanzo di uno scandalo. La Banca Romana tra
finzione e realtà , pubblicato dal Mulino. Un libro che con intelligenza
va molto al di là del caso politico-finanziario che scosse l’Italia
alla fine del 1892. E che offre un ampio repertorio della critica
saggistico-letteraria alla democrazia rappresentativa. Thomas Carlyle,
Hyppolite Taine, Adolphe Prins e ancora Dumas, Stendhal, Balzac, Eliot,
Gustave Flaubert, Meredith, Dickens, Trollope, Daudet, Claretie, Oscar
Wilde, Maurice Barrès, Émile Zola… poi, qui in Italia, Francesco
Domenico Guerrazzi con Il secolo che muore , Antonio Fogazzaro con
Daniele Cortis , Vittorio Bersezio con Corruttela , Matilde Serao con La
conquista di Roma : non c’è stato praticamente scrittore europeo che
abbia anche solo sfiorato la politica dei propri tempi senza volersi
soffermare sui cinici e spregevoli deputati che per amore di denaro e
potere avevano tradito i loro nobilissimi ideali di gioventù. Quasi
sempre in combutta con altrettanto ripugnanti affaristi, banchieri e
giornalisti.
Lo scandalo italiano della Regìa Tabacchi alla fine
degli anni Sessanta (dell’Ottocento), il crac dell’Union Générale e il
fallimento della Compagnia per la costruzione del canale di Panama in
Francia (1889) hanno via via offerto spunti sempre nuovi per questo
genere di racconti. Qui in Italia, è stato soprattutto il crac della
Banca Romana che ha influenzato la narrativa. Per alcuni decenni.
La
storia è abbastanza conosciuta, almeno nelle sue linee generali.
Governatore della Banca è, dal 1881, Bernardo Tanlongo, che Clotilde
Bertoni descrive come «un personaggio insieme macchiettistico e
inquietante», al tempo stesso «buon padre di famiglia» e «affarista
pronto a tutti gli intrallazzi», «praticone e grossolano ma addentro a
tutte le alte sfere». Tanlongo è un «vedovo, padre di numerosa prole,
amante della vita familiare, cattolico devotissimo, di una frugalità
prossima all’avarizia, avvezzo a garantirsi le simpatie popolari
ricevendo infiniti postulanti in un ufficio malridotto da cui dispensa
piccoli favori». Dietro «questa apparenza semplice e bonaria dissimula
una stratificata rete di potere»: è in stretti rapporti con il Vaticano,
con i gesuiti, ma anche con la massoneria, ha gestito le aziende
agricole romane di Vittorio Emanuele II e «a quanto pare gli ha pure
prestato denaro a usura».
Tra la fine del 1889 e l’inizio del 1890
si avvertono i primi scricchiolii della Banca. A dispetto di ciò, nel
1892 — su proposta di Giovanni Giolitti sollecitato in tal senso da re
Umberto — Tanlongo è incredibilmente nominato senatore del Regno. In
quello stesso 1892 esplode lo scandalo. Nel gennaio del 1893 viene
spiccato contro di lui (e contro il cassiere della Banca, Cesare
Lazzaroni «settantenne, vecchio scapolo, barone, bon vivant , amante
delle frequentazioni altolocate, ma non granché influente») un mandato
di cattura per peculato, falso e corruzione.
Prima di andare in
carcere il banchiere fa in tempo a rilasciare un’intervista in cui
minaccia di rendere pubblici i nomi di quelli che gli «hanno chiesto
milioni su milioni» e avverte: «Se io precipito giù, casco in buona
compagnia». In Parlamento esplode la bagarre. Napoleone Colajanni mette
l’accaduto in relazione con i fatti di Caltavuturo, un paesino della
Sicilia nel quale i soldati hanno sparato contro gli occupanti di terre.
E denuncia il fatto che si possa «essere impunemente iniqui contro i
contadini» e lasciar liberi «i ladri di milioni, i barattieri i quali
finiscono per frequentare l’Aula di Montecitorio». Una comparazione che
resterà impressa nella memoria di Luigi Pirandello.
I personaggi
assomigliano ai protagonisti di Corruttela di Bersezio: dal «cinico
pennivendolo» Biagio Livi al «viscido faccendiere» Federico Parione.
Colajanni, nel libro Banche e Parlamento (pubblicato dai Fratelli Treves
in quello stesso 1893), è il primo a stabilire una comparazione tra gli
scandali francesi e quello della Banca Romana. Con la differenza, a suo
dire, che quello panamense (in realtà francese) era «una grande
ladreria privata, a cui partecipavano anche degli uomini di governo e
parlamentari», mentre quello italiano andava considerato come «una
grande ladreria governativa a cui parteciparono anche dei privati».
Quanto
a Giolitti, per Colajanni (che pur giustifica i «prestiti» ottenuti da
Crispi), andava tenuto nel conto di «uno dei più disonesti ministri che
abbia avuto l’Italia». Il processo è quasi immediato e nell’estate del
1894 c’è, a sorpresa, l’assoluzione per tutti: i giornali generalmente
ne attribuiscono la colpa all’impreparazione dei giurati. Non solo loro,
a dire il vero: il leader socialista Filippo Turati così scriveva a
Colajanni: «Sulla questione bancaria sono un asino calzato e vestito…
Non conosco libri, né posseggo più idee di quelle del mio portinaio… Non
dirlo per carità al nostro pubblico, neppure per vendicarti di me». Ma i
giornali degli altri Paesi sono spietati. Scrive il 29 luglio il
«Berliner Tageblatt»: «L’Italia si è coperta con questo verdetto di una
incancellabile onta… Con l’assoluzione d’una notoria e confessa banda di
ladri ha pronunciato la propria dichiarazione di bancarotta morale».
Tanlongo morirà nel 1896. Ma il veleno instillato dal caso nel nostro
sistema politico gli sopravvivrà.
Già nel 1895 Scipio Sighele dà
alle stampe un pamphlet, Contro il parlamentarismo. Saggio di psicologia
collettiva , in cui sostiene che la Camera dei deputati «è
psicologicamente una femmina e spesso anche una femmina isterica».
Quello stesso anno, Guglielmo Ferrero pubblica La reazione , in cui si
scaglia contro il «regime parlamentare degenerato e corrotto».
Nel
complesso, fa notare Clotilde Bertoni, «la produzione letteraria dà
scarso spazio al versante finanziario della vicenda». Con la parziale
eccezione del romanzo Onorevole Paolo Leonforte di Enrico Castelnuovo
che è la storia di un giovane che si fa eleggere deputato per smania di
«acquistare influenza e quattrini», ritrovandosi in un Parlamento in cui
domina il presidente del Consiglio Fuscelli, «uomo dei piccoli tempi…
ambizioso senza grandezza» (una figura modellata, secondo la storica, in
parte su Depretis e in parte su Giolitti). Molto atteso è il romanzo
L’onorevole dell’ex garibaldino Achille Bizzoni (già denunciatore dello
scandalo della Regìa Tabacchi, per cui era finito anche in prigione).
Contiene ironie contro il trasformismo, «il più grande portato della
scienza parlamentare», accusa il giornalista di turno di essere un
«bandito onnipotente», definisce Montecitorio un «ammazzatojo di
reputazioni». E fa attribuire, da un personaggio minore, lo scandalo
bancario all’italica «mania di imitazione» della Francia. Curioso. Va
detto, però, che anche Bizzoni è coinvolto nello scandalo: tra le carte
di Tanlongo c’è una cambiale con la sua firma.
Nel 1896 a Parigi
esce Rome , secondo volume della trilogia di Émile Zola Trois Villes .
Lo scrittore francese è stato nella capitale d’Italia per documentarsi:
papa Leone XIII gli ha rifiutato un’udienza; il re Umberto, la regina
Elena e il presidente del Consiglio Crispi — oltre a numerose
personalità del mondo giornalistico — lo hanno, invece, accolto a
braccia aperte. Risultato: una rappresentazione della politica, secondo
la Bertoni, «insipida», «prudentemente vaga», «impigliata un po’ nei più
sfioriti cliché di repertorio, un po’ in quelli sempre fiorenti della
vulgata popolare». Il tutto accompagnato da imbarazzanti inchini ai
sovrani e da qualche sberleffo anticlericale.
In omaggio alle
proprie diffidenze nei confronti della Chiesa, Zola intravede, dietro lo
scandalo, lo zampino del Vaticano. Dedica, però, pagine efficaci alla
costruzione dei nuovi quartieri romani, tra cui Prati, da cui è rimasto
affascinato. Ma, in sostanza — come ha scritto Ennio Flajano in Diario
notturno (Adelphi) — si può dire che Zola «venne a Roma per scrivere un
romanzo su Roma e non ne capì nulla». Rome — assieme ad altri libri
dello stesso autore — offrirà spunto a Cesare Castelli per scrivere La
terza Roma .
Il resto della narrativa italiana continua e
continuerà a puntare sulla figura dei parlamentari (e in penombra dei
banchieri). In L’onorevole Grigioni di G.A. Delgrosso il deputato di cui
al titolo del libro entra in contatto con l’uomo di banca Fabiani, un
«vero demonio» con «relazioni dappertutto», uscito da un processo «pel
buco della toppa» dopo aver ottenuto di «compromettere in esso uomini
politici». L’assalto di Montecitorio di Ettore Socci (giornalista ed
esponente politico del fronte radicale) si segnala per aver descritto
l’invenzione della «distribuzione delle scarpe» — una alla vigilia del
voto, l’altra dopo — cinquant’anni prima che i napoletani la
attribuissero ad Achille Lauro. Il tribuno di Montecitorio del
reazionario Luigi Marocco rievoca lo scandalo della Banca Romana al fine
di biasimare il «guazzabuglio di situazioni false (sic) e di inchieste
parlamentari». Viste, quest’ultime, come punto estremo della
degenerazione politica.
Di miglior qualità è Le ostriche di Carlo
Del Balzo che, riprendendo un’immagine già usata da Matilde Serao, parla
di quei deputati che si attaccano «allo scoglio di Montecitorio, con la
ferma intenzione di rimanervi tutta la vita». Tutti i personaggi sono
«traditori degli ideali risorgimentali». Qualcuno in extremis si accorge
di aver «sporcata la sua canizie» e di essere scivolato «nella melma».
Stesso impianto in I corsari della breccia di Filandro Colacito, che
pure ospita una figura di Tanlongo ribattezzato «Talfondo», meno
«macchiettistica», secondo l’autrice, di quanto appaia negli altri
romanzi.
Un discorso a sé merita I vecchi e i giovani di Luigi
Pirandello, comparso la prima volta — a puntate, sulla rivista «Rassegna
contemporanea» — nel 1909. È il romanzo che ci ha lasciato l’immagine
più celebre del nostro Paese ai tempi dello scandalo: «Dai cieli
d’Italia in quei giorni pioveva fango… pareva che tutte le cloache della
città si fossero scaricate e che la nuova vita nazionale della terza
Roma dovesse affogare in quella torbida fetida alluvione di melma, su
cui svolazzavano stridendo, neri uccellacci, il sospetto e la calunnia».
Dopodiché Pirandello se la prende anche con la «gogna» mediatica, con i
giornali «sfognati dalle officine del ricatto». Ma, pur in un contesto
di assai più ampio respiro — i Fasci siciliani, la sua isola «terra di
conquista», la «pioggia di benefizii» all’Italia settentrionale, i
giovani giunti ad assumere un ruolo pubblico a «vendemmia già fatta» — è
più ciò che accomuna il romanzo a tutti gli altri coevi, di ciò che lo
rende diverso.
Il racconto pirandelliano, secondo la Bertoni, è
stato spesso ritenuto «più originale di quanto sia davvero»,
semplicemente perché è più conosciuto. Ma in realtà l’autore de I vecchi
e i giovani , sempre secondo la Bertoni, non fa che «esacerbare il
compianto sulle speranze risorgimentali naufragate e lo scetticismo sul
regime parlamentare in cui ci siamo imbattuti spesso; e rimette in gioco
un repertorio di giudizi e topoi ormai avvizzito». Addirittura uno dei
suoi personaggi principali di fronte alla prospettiva di candidarsi al
Parlamento dichiara preferibile «affogarsi in una fogna». Il che sta a
riprova che l’antipolitica ha origini molto più remote di quanto si
pensi comunemente.