il manifesto 18.1.18
Niger, missione nell’urna
di Tommaso Di Francesco
A
legislatura finita, mentre chiude i battenti, come di sfuggita, il
governo Gentiloni che, in chiave di preoccupazione elettorale, ha deciso
di non mettere all’approvazione lo Ius soli perché «manca la
maggioranza» per via del voto contrario in Parlamento della destra (e
l’astensione del M5s), sceglie ora una nuova avventura militare con un
voto bipartisan, con l’appoggio in Parlamento della destra, da Forza
Italia a Fratelli d’Italia e l’astensione della Lega pur d’accordo con
la missione: in fondo è così che li «aiutiamo a casa loro».
Siamo
in campagna elettorale e siccome è stato valutato il «valore positivo»
nell’urna perfino delle dichiarazioni razziste del leghista
«costituzionalista» Fontana, va da sé che anche il valore elettorale di
questa missione militare in Niger è altissimo.
Come preminente è
l’emergere del ruolo centrale di Minniti che, da ministro di polizia, ha
coordinato e coordina la crisi nigerina, dopo la crisi in Libia, con la
carta bianca e i finanziamenti elargiti alle “autorità” di Tripoli –
sempre più nel pieno di una guerra per bande – per fermare ad ogni costo
– con la detenzione, le minacce, le violenze – i migranti. Colpevoli
tra l’altro di alimentare un immaginario che metterebbe in discussione
«le basi della democrazia» – parola del ministro degli interni. Che ha
preferito la guerra ai soccorsi a mare delle Ong contribuendo a chiudere
ai profughi la rotta del Mediterraneo.
E che ora con tutto il
governo Gentiloni si è attivato per una estensione del modello libico,
perché la frontiera dell’Italia e dell’Europa «è il Niger», la sponda
sud dei paesi del Sahel, oltre il deserto del Sahara.
Lì vanno
fermati i disperati e coraggiosi in fuga dalle nostre troppe guerre e da
quelle intestine di un’Africa martoriata che in questo momento sopporta
35 conflitti armati ed è sempre sottoposta alla rapina delle sue
risorse necessarie al nostro modello di sviluppo e sfruttamento.
Un
modello che per dominare ha bisogno di corrompere le leadership locali
(dalla Nigeria, alla Costa d’Avorio, al Niger, al Mali, al Ciad, al
Burkina Faso, al Camerun, al Congo, ecc.).
Sconcertanti le motivazioni che arrivano dal governo Gentiloni.
In
Senato la ministra della difesa Pinotti ha ribadito l’incredibile
versione che «quella che sta per partire non è una missione combat ma di
addestramento per il controllo dei confini che si coordinerà con i
francesi con gli americani», spiegando che «appena il parlamento
approverà la deliberazione sono pronti a partire 120 militari che,
secondo le esigenze, potranno arrivare a 470», più 130 mezzi terrestri e
due aerei da guerra.
Sembra un’operazione contabile: verranno
stornati militari dall’Afghanistan – dove siamo nella fallimentare
guerra Usa-Nato da 16 anni – e dall’Iraq perché lo jihadismo «è
sconfitto», ma si tace che il Paese è spaccato in tre realtà e dilaniato
dal conflitto tra sunniti e sciiti.
Ora come si fa a raccontare
che non è una missione combat quando molti «addestratori» francesi e
americani vengono uccisi in combattimento proprio in Niger? Si dirà poi
che in fondo sono poche centinaia di soldati: ma non è forse stato così
l’inizio delle scellerate presenze militari in Somalia e in Iraq?
Più insidiosa ma non meno drammatica è l’affermazione sempre governativa che «andiamo in Niger per impedire un’altra Libia».
Ma
se la Libia è ridotta così è proprio grazie all’intervento militare
della Nato del marzo 2011 a guida francese, il cui disastro ha
influenzato perfino le elezioni americane. Qualcuno poi dovrà spiegare
come sarà possibile fermare i migranti, per allontanarli – loro e le
stragi a cui sono condannati – dagli occhi dell’opinione pubblica e
dalla coscienza d’Europa, per nascondere sotto la sabbia le tragedie del
milione di persone rimaste intrappolate in Libia; come si può
controllare una frontiera di più di 5mila chilometri se non attivando
una sorta di caccia vera e propria ai profughi.
Una guerra ai
migranti. Come non vedere che la partecipazione a questa missione, della
quale si contrabbanda che «ci è stata richiesta il 1 novembre scorso
dalle autorità nigerine di Njamey», ed è vantata come un aiuto «contro i
jihadisti», rappresenta in realtà un vulnus alla democrazia dei Paesi
africani che tornano ad essere considerati – e politicamente esposti al
giudizio interno nel poverissimo Niger – solo come tutela coloniale.
Come hanno rimproverato i giovani dell’università di Ouagadougou a
Macron che li sfidava: «Non siete più sotto il dominio coloniale».
La
realtà dice che le economie, le risorse minerarie preziosissime
(uranio, coltan, petrolio), la stessa terra, così come le riserve
monetarie in franchi Cfa, sostanzialmente ancora coloniali, sono nelle
mani dell’Occidente (ma anche dell’Arabia saudita e della Cina) e della
nuova primazia militare che avanza in chiave di difesa europea alla
prova in Africa: quella di Parigi. Alla quale ormai ci siamo accodati.
Capovolgiamo
allora l’obiettivo governativo per la missione militare in Niger che
anche stavolta viene rappresentata come «umanitaria». A sinistra avranno
un grande valore elettorale la scelta o il rifiuto di questa nuova
avventura coloniale.
Che la guerra, finalmente, torni ad essere la discriminante.