Repubblica 7.3.17
La sinistra che non c’è
di Ezio Mauro
PRIMA di sapere cosa succederà nel Pd dopo la disfatta siciliana, c’è una questione più rilevante e urgente a cui rispondere: cosa c’è di salvabile nel concetto di sinistra e nella sua traduzione politica e organizzativa italiana. La sinistra, o ciò che ne resta, è arrivata esausta all’appuntamento con le urne, con tutti i nodi non sciolti in questi anni che si sono aggrovigliati, fino a trascinarla a fondo. Il peccato originale di sedere a Palazzo Chigi senza mai aver vinto le elezioni ha determinato un pieno di responsabilità nella guida del Paese (negli anni più duri della crisi) e un vuoto nel coinvolgimento emotivo, come se quello del Pd fosse un “governo amico” e niente di più, fino al ministero Gentiloni vissuto come un puro dispositivo tecnico senza colore. La sciagura della scissione ha infranto il mito fondativo del Pd come casa di tutti i riformisti, con un concorso di irresponsabilità, gli scissionisti che la giudicavano inevitabile e Renzi che la considerava irrilevante, come se la politica non fosse stata inventata per governare i fenomeni. Il cozzo del referendum, con una riforma scritta male e trasformata in una guerra.
IL PASTICCIO della legge elettorale, con una sinistra che ha divorato il maggioritario e il proporzionale per varare una riforma che premia le coalizioni nel momento in cui non è mai stata così divisa e distante. All’inizio e alla fine di tutto, il problema irrisolto che raccoglie in sé tutti questi problemi e spiega gli errori: cos’è oggi la sinistra e qual è la sua idea di Paese.
In tutto l’Occidente, la divisione classica è tra la sinistra di governo, riformista, e quella di opposizione, radicale. Da noi l’eccezione: le sinistre riformiste sono almeno due, forse tre, anche se rischia di mancar loro il governo. Pisapia che si era proposto come ponte o rimorchiatore sembra aver ripiegato su un’idea di forza-cuscinetto insieme con Emma Bonino, caschi blu con buone intenzioni e pochi strumenti d’intervento. Sul campo restano le due parti rotte del Pd, incapaci di proporre una visione d’insieme e un vero progetto riformista, in cui si possano ritrovare le forze disperse che chiedono un progetto di cambiamento con una politica responsabile, europea, occidentale e moderna, accontentandosi di molto meno: Renzi di costruire un partito personale come macchina ubbidiente di conquista del potere (quasi che un secolo di storia della sinistra potesse ridursi a un obiettivo così misero) e Mdp di ostacolare tutto questo, proponendosi come organismo di puro veto al progetto renziano, come se la politica si esaurisse sulla piazza toscana di Rignano.
Questa disarticolazione degli orizzonti avviene mentre la crisi inaridisce di per sé i canali della rappresentanza, soverchia i cittadini facendoli sentire senza tutela e senza garanzie, svalorizza la politica come strumento di controllo e di governo, semina dubbi persino sulla democrazia come cornice di valori e di garanzie, che oggi suonano astratti, senza incidere sulla fatica della vita quotidiana delle persone. È una campana d’allarme per tutto il pensiero liberal-democratico occidentale, che dopo la fine della guerra ha dato vita alle costituzioni e alle istituzioni con cui ci siamo garantiti settant’anni di pace e di libertà. Ma è una campana a morto per la sinistra che nei settant’anni dentro l’ordine liberale del nostro mondo ha potuto farsi forza di governo del sistema, con un progetto di inclusione, e insieme sviluppare un suo pensiero critico e d’alternativa. Oggi invece vede l’alternativa nascere totalmente fuori dal sistema, con i populismi che criticano la stessa democrazia e berciano contro le istituzioni, mentre attaccano il cosmopolitismo, il libero scambio, la libertà di circolazione, le politiche di accoglienza, l’integrazione europea: tutto ciò che si muove, si contagia, si mescola, s’influenza, si somma, tutto ciò che forma l’habitat naturale della cultura progressista europea, a favore di un ritorno dentro i confini delle vecchie carte geografiche, dentro una mentalità da indigeni, dentro il colore bianco della pelle, a un passo dal mito del sangue.
Era chiaro che inseguire i populismi con posture mimetiche dal governo era una contraddizione, ma prima ancora un calcolo sbagliato. Perché la sinistra deve chinarsi — per prima — sulle inquietudini e sullo spaesamento democratico delle fasce più deboli della popolazione, ma non può cavalcare le loro paure, incrementandole come la merce politica più pregiata del momento. Rimane dunque una retorica innaturale di populismo in camicia bianca, ammiccante ma responsabile, alla fine velleitario, oltre che contro natura. La cifra dell’epoca, invece, avvantaggia la destra, abituata e legittimata a trattare il cittadino da individuo, nel suo isolamento e nelle sue nuovissime gelosie del welfare, in questo speciale egoismo della democrazia che chiede alla politica una forma inedita di libertà: non come piena espressione dei propri diritti ma come liberazione da vincoli sociali, soggezioni culturali, obblighi comunitari.
Tutto ciò forma una moderna onda di destra che con Trump prefigura l’inondazione prossima ventura delle terre emerse: dall’Onu, allo spazio di civiltà atlantica, alla Nato, al rapporto storico con l’Europa, col sovranismo che diventa isolazionista e mette al centro della politica il “forgotten man” non per emanciparlo, ma per dargli un riconoscimento antipolitico proprio nella sua esclusione. Una folla di esclusi come nuova massa sociale per la ribellione permanente, guidate dalla moderna élite di destra. Una destra contro la quale in questi anni il Pd non ha mai alzato nessuna barriera, non ha fatto nessuna polemica, non ha costruito un sistema culturale di anticorpi, coltivando a distanza l’eternità di Berlusconi come avversario-stampella. Che infatti oggi ritorna a riscuotere il banco, col conflitto d’interessi perennemente innestato, le sentenze dei magistrati che valgono per l’incandidabilità ma non vengono valutate politicamente, l’ambiguità connaturata nelle alleanze che gli impedirà di governare, ma che intanto adesso lo aiuta a vincere.
Bisognerebbe comprendere che la rottamazione è un escamotage fisico da campagna elettorale muscolare, ma non è una politica e tantomeno un’identità. Che il patrimonio di tradizioni e di valori del Pd è stato lasciato deperire in nome di un mitologico nuovo inizio che non è mai davvero incominciato, che la tensione per il cambiamento senza cambiamento si riduce a tensione, e basta. Che in mezzo a tante narrazioni è mancato il senso della storia, del passaggio tra le generazioni facendosi carico di un’esperienza collettiva, da innovare certamente ma da riconoscere e valorizzare. Che il sentimento di sinistra, a forza di non essere convocato e rappresentato si è infine “privatizzato”, con le persone che non votano perché la loro identità politica non corrisponde più all’insieme. Oppure votano, ma per se stesse, come una conferma individuale staccata dal contesto.
Così la sinistra galleggia, alla deriva, mentre la destra galoppa, nelle sue diverse forme. Il primo leader che coniugasse responsabilità e generosità, mettendo questo orizzonte allarmante per il Paese al primo posto, aprirebbe la vera discussione di cui la sinistra oggi ha bisogno, e ne ricaverebbe le scelte necessarie. E invece con ogni probabilità si annuncerà tempesta, poi tutto si risolverà con un temporale per la spartizione dei posti in lista, nel bicchier d’acqua dov’è ormai ridotto il riformismo italiano.
il manifesto 7.11.17
La Rivoluzione
1917-2017. Un secolo è passato dall’Ottobre rosso. Dal 7 novembre in edicola la cronaca di quelle grandi giornate dall’«inviato» del manifesto nel 1917
Aderire o non aderire? La questione non si pone per me. È la mia rivoluzione.
Ottobre. Vladimir Majakovskij
In edicola dal 7 novembre una rivista di 128 pagine
Un secolo è passato dalla rivoluzione russa del 1917.
Quando, ormai più di un anno fa, pensavamo a come celebrare il peso di quegli eventi non immaginavamo ancora che la lunga iniziativa editoriale del manifesto, qui raccolta, sarebbe stata pressoché un unicum nella pubblicistica italiana.
Con tutta evidenza, quella eredità e quella parabola storica sono un rimosso per la politica e la cultura del nostro paese. Non così all’estero, dove nel corso di quest’anno ci sono state mostre, discussioni e convegni, sia sulla sua portata storica che artistica.
La lunga rivoluzione russa che iniziò nel febbraio del ‘17 non solo è stata un accadimento che ha sconvolto il secolo scorso ma anche – e oggi lo si vede bene – una fonte di imbarazzo per il presente.
Come un fuoco d’artificio troppo carico di ambizione e fallimento. O un improvviso colpo di fucile che mancò il bersaglio. Eppure non fu così. Non è così.
Decidendo il piano editoriale di questa cronaca a puntate, fin dall’inizio volevamo evitare di rinchiudere quella rivoluzione nel sarcofago della storia o trasformarla in una statua per la retorica. O peggio, recuperarla come il fossile di un grottesco brontosauro politico.
Abbiamo tentato qualcosa di diverso, di più modesto e di arrischiato al tempo stesso, qualcosa che rispecchiasse i limiti ma anche l’immediatezza del lavoro di un quotidiano politico come il nostro.
Abbiamo tentato di raccontarla come un evento del presente, meno storia e più cronaca, usando l’espediente letterario di un alter ego giornalistico interpretato da più autori che, grazie alla macchina del tempo, potesse pubblicare sul manifesto di oggi il racconto in presa diretta delle giornate di cento anni fa.
Lo pseudonimo di Leone Levy doveva nascondere il narratore e far emergere la pura narrazione.
Ma Leone Levy siamo anche noi lettori, incuriositi spettatori di quegli sconvolgimenti. E grazie agli scrittori, ai giornalisti e agli intellettuali che lo hanno interpretato, quella grande rivoluzione del ‘900 è scesa dal piedistallo ed è tornata uomo, donna, soldato, operaio, generale, guardia rossa, rivoluzionario, ambasciatore, contadino, spia.
In due casi soltanto abbiamo deciso di farci da parte e lasciar parlare veri testimoni dell’epoca. Con la cronaca inedita del principe romano Scipione Borghese della rivoluzione di febbraio e, soprattutto, con le pagine dell’americano John Reed sui giorni «sconvolgenti» dell’Ottobre.
il manifesto 7.11.17
Questo gioco giornalistico avrebbe dovuto restituirci lo stupore, la curiosità, il terrore e l’entusiasmo provati da quei nostri lontani e ignari contemporanei.
Mentre per aiutare il lettore di oggi abbiamo scelto una serie di schede storiche (anche queste affidate ad autori di scuola e provenienza molto diversa tra loro) dedicata alla messa a fuoco di temi, problemi e personaggi che hanno segnato il corso della rivoluzione.
Un progetto simile non poteva essere racchiuso in una grafica convenzionale, perciò il volume che avete tra le mani è attraversato da un ulteriore livello di ricerca iconografi ca, spiegato qui accanto da chi lo ha curato e realizzato.
Per i ringraziamenti e per i curiosi sul vero nome degli animatori di Leone Levy, bisognerà attendere l’ultima pagina di questa storia.
Buona lettura.
il manifesto 7.11.17
Sulle orme di un maestro
Abbatti i Bianchi col cuneo Rosso» e «Per la voce».
Da qui siamo partiti, un manifesto e una raccolta di poesie di Majakovskij. Il manifesto è facile che lo abbiate visto tutti, rappresenta un triangolo rosso che entra in un cerchio bianco disposto su di un rettangolo nero in posizione obliqua. I rossi sono l’Armata rossa e i bianchi rappresentano i controrivoluzionari.
Le poesie invece sono un manuale di tipografia. L’artista descrisse così il suo lavoro: «Le mie pagine stanno alle poesie in un rapporto analogo a quello del pianoforte che accompagna il violino. Come per il poeta dal pensiero e dal suono si forma l’immagine unitaria, la poesia, così io ho voluto creare un’unità equivalente con la poesia e gli elementi tipografici».
Di chi stiamo parlando? Di El Lisickij, artista, tipografo, fotografo, pittore, architetto, grafico e soprattutto rivoluzionario.
Per la ricorrenza dei cento anni della Rivoluzione russa abbiamo deciso che questa volta non serviva disegnare un progetto grafico classico. Volevamo cercare di interpretare lo spirito di quegli anni. Abbiamo studiato, osservato, mangiato e digerito l’opera di Lisickij fino a farla diventare nostra, come dei falsari di opere d’arte.
Quando ci siamo sentiti pronti, abbiamo disegnato le pagine che vedete. Nessuna di queste composizioni è opera dell’autore, abbiamo usato i suoi stilemi, le sue forme, i suoi colori, tenendo sempre presente che erano passati cento anni e quindi andava fatta una sorta di rielaborazione e non una banale ricostruzione delle pagine da cui eravamo ispirati.
Un progetto forte, probabilmente e volutamente azzardato, senza mezzi termini, così come erano gli artisti che nella Russia rivoluzionaria operavano. Abbiamo recuperato i caratteri che l’autore usava all’epoca miscelandoli con «font» più nuove adatte alla lettura, studiato le inclinazioni che dava ai suoi triangoli, rettangoli e quadrati, esaminato e riprodotto il rosso dei due stampati da cui eravamo partiti.
Da traduttori, quali siamo stati, ci sentiamo onorati di aver potuto affrontare e lavorare con un genio che riteniamo tuttora un maestro della Rivoluzione.
Andrés Ladrillo e Costanza Fraia
il manifesto 7.11.17
Ottobre, l’anniversario senza operai
di Rita Di Leo
Si stanno svolgendo molti eventi sulla rivoluzione bolscevica. Pochissimi quelli nostalgici, molti invece quelli che usano l’anniversario per rispolverare antichi odi. Descritti sono i capi, da un lato il prediletto Kerenski che avrebbe evitato l’estremismo bolscevico e dall’altro Lenin e Trotsky, gli autori del «colpo di stato» è prolungatosi fino al 1991. Intanto è riemersa la famiglia reale, giustiziata dall’ebreo Sverdlov, ed oggi santificata.
A leggere le ricostruzioni dei mass media, i programmi dei convegni ti chiedi dove sono finiti gli operai e i contadini, in nome dei quali Lenin fece la rivoluzione e cioè si impadronì del governo e dello stato. La loro assenza non riguarda solo l’anniversario dello sciopero delle officine Putilov o dell’occupazione delle terre, pur a volte sfiorati. È la presenza operaia e contadina ad essere quasi assente nella ricostruzione ufficiale.
Non è così per gli intellettuali e per i politici bolscevichi. Molti sono i libri di denuncia o esaurienti ricerche storiche sui processi cui vennero sottoposti gli avversari del successore di Lenin, e appassionate discussioni intercorrono tra gli esperti occidentali sul numero di «lavoratori della mente», sui poeti, sugli artisti, finiti nei lager insieme ai criminali comuni e agli ex contadini ricchi.
A Stalin infine si imputa lo sterminio per fame di milioni di contadini ucraini e anche questo ‘compito’ fu affidato ad un ebreo l’ucraino Kaganovic, uno tra i suoi più fedeli politici professionali.
Ma gli operai? Gli attori della rivoluzione proletaria? Tutti nei gulag anche gli operai? Se così fosse avrebbero meritato l’attenzione degli storici occidentali. I quali invece se ne sono interessati pochissimo: Sheila Fitzpatrick per spiegare l’origine operaia del ceto politico dirigente voluto da Stalin, e David Filtzner per analizzare le leggi anti operaie sul libretto di lavoro, e le misure sulle infrazioni.
Mi è capitato di chiedere al bravissimo Filtzner (scappato in Europa per non andare in Vietnam) se era mai entrato in una fabbrica sovietica. La risposta fu: purtroppo no. Se vi fosse entrato avrebbe capito che le leggi draconiane erano disattese innanzitutto dai dirigenti ex operai, dai sindacati, dalla cellula del partito.
All’epoca dell’industralizzazione la fame di lavoro era tale che gli operai delle grandi fabbriche erano circuiti con benefit (un orologio, un taglio di stoffa, un tagliando per “lotterie”) perché non lasciassero il posto per un’altra fabbrica che aveva promesso un di più. Il padre di Putin, operaio modello, fu premiato con un appartamento e gli fu perfino fatta vincere un’automobile ad una lotteria.
Quando in Urss ti capitava di essere portato a visitare una fabbrica due cose ti colpivano: la prima erano gli enormi cartelloni con le facce degli operai modello che dovevano essere di sprone, e la seconda era il clima di disinteresse per il lavoro da fare. E il «capoccia», non c’era un caposquadra? C’era e aveva il comportamento giusto per quel clima, un dare per avere.
Altro che minacce di licenziamenti e multe come nelle fabbriche occidentali. Se la sua squadra gli faceva il piacere di consegnare nei termini della norma il lavoro assegnatogli, allora qualcosa sottobanco sarebbe andata a tutti. Degli operai modello – udarniki, stakanovisti – si diffidava, servivano a far aumentare le norme di lavoro e spesso andavano via, scelti per far carriera nel sindacato, nel partito.
E dunque Lenin aveva fatto la rivoluzione per il socialismo e Stalin aveva messo il socialismo nelle mani degli ex operai e contadini, ma è sul risultato che a cento anni di distanza manca il semplice racconto su quello che è successo al socialismo di Lenin con gli ex operai al governo e gli operai invece al lavoro.
Molte lacrime abbiamo trattenuto per il destino di Babel, un po’ meno per la moglie di Bucharin. Detto ciò rimane da chiedersi che cosa sappiamo di coloro in nome dei quali i Babel sono stati sacrificati. Veramente poco.
E dalle statistiche apprendevamo quanti chili di carne mangiavano, i metri abitativi per abitante e il confronto con i livelli europei era solitamente sfavorevole per i sovietici. Intanto però nessuno metteva in dubbio fosse stata raggiunta la parità strategico-militare dell’Urss con l’altra potenza, o la sua capacità di viaggiare nello spazio come l’America. E dunque esistevano tecnici e operai di livello pari ai loro avversari, al lavoro in località ancora più inaccessibili di quella in cui gli americani avevano costruito la prima bomba atomica.
Nel resto del paese operai, contadini, impiegati, insegnanti, medici sperimentavano la gestione popolare di governi affidati a ex operai come gli ucraini Kruschev e Brezhnev. Quando dalla provincia russa arrivò uno con la laurea in legge come Gorbachev, s’intestò di far funzionare l’Urss alla maniera occidentale e l’Urss sparì.
Tornò la Russia e gli operai presero a essere considerati unità di lavoro, in balia del mercato, licenziati e assunti, senza più l’ideologia della rivoluzione a legittimare il loro stare in fabbrica come nessun operaio mai prima era stato, libero di lavorare oppure di fermare la catena di montaggio per farsi una sigaretta. Ne sono stata testimone.
il manifesto 7.11.17
Meglio conquistare la società
Ottobre rosso. Abbiamo bisogno di una nuova dialettica movimenti/partito. Il mondo è molto cambiato, esistono tante istanze diverse, non si può ridurre tutto ad uno, ma questo non si significa che il problema della strategia ce lo si possa mettere alle spalle. Una società che non solo protesta ma anche costruisce: c’è bisogno di forme di organizzazione permanenti della democrazia
di Luciana Castellina
Intervento al Forum Internazionale «Ottobre, rivoluzione, futuro», Mosca 5 novembre 2017
Inizio ponendomi una domanda: quali sono ora, a cento anni esatti dalla rottura bolscevica, i compiti di una/un militante comunista occidentale nella sua attività giorno per giorno?
E quale è il soggetto non solo puramente politico ma sociale, che può svolgere un ruolo rivoluzionario? La classe proletaria, ciò che eravamo abituati a pensare come soggetto, non esiste più nelle forme che conoscevamo.
Quella classe è stata sconfitta, è stata frantumata socialmente, economicamente, culturalmente. È geograficamente dispersa, i contratti collettivi sono sempre più sostituiti da quelli individuali. Contratti individuali attraverso i quali il lavoratore ha l’illusione di svolgere una attività autonoma e libera. L’individualismo ormai la fa da padrone dovunque. Come ricomporre quel soggetto sociale è un compito dei comunisti.
In secondo luogo credo dobbiamo riflettere sullo sviluppo delle forze produttive che non svolgono più un ruolo progressivo. Ve lo ricordate «il grande becchino» del capitalismo? Vi informo che non esiste più. Noi dobbiamo ricomporlo. Ma come fare? Voi conoscete la risposta che è stata data a questa domanda da Toni Negri e Michael Hardt.
È quella del general intellect, dei collettivi di lavoro che possono produrre nuovi spazi di liberazione e che svilupperebbero gradualmente dei soggetti anticapitalisti. Io penso che i processi di ricomposizione invece saranno molto meno spontanei, anche di come li immaginavamo nel passato. Dobbiamo lavorare di più sul progetto complessivo.
Diciamo spesso «siamo il 99% dell’umanità», ma come mai questa assoluta maggioranza non incide come dovrebbe? Ecco questo è il nostro problema: come progettare un mondo diverso.
I parlamenti ormai non decidono più nulla. La privatizzazione che abbiamo conosciuto in questi anni non è stata solo la privatizzazione dei servizi sociali o delle risorse ma anche quella del potere legislativo. Le decisioni più importanti non vengono più prese nei parlamenti ma sorgono da un accordi tra le grandi holding transnazionali che controllano i mercati globali e queste decisioni incidono sulle nostre vite molto di più di qualsiasi parlamento. Dove si trova oggi il Palazzo d’Inverno? Esiste ancora? È veramente difficile dirlo quando le decisioni sono prese molto lontano da noi.
Questo ci rimanda alla questione del partito, perché noi abbiamo bisogno di un partito. Le critiche che sono state fatte alla struttura partito da parte dei giovani sono importanti. Anche il migliore dei partiti è portato solo ad autolegittimarsi politicamente, ignorando le istanze dei movimenti.
Noi abbiamo bisogno di una nuova dialettica movimenti/partito. Il mondo è molto cambiato, esistono tante istanze diverse, non si può ridurre tutto ad uno, ma questo non si significa che il problema della strategia ce lo si possa mettere alle spalle.
Una società che non solo protesta ma anche costruisce, in questo senso credo che il ruolo dei movimenti sia stato sovrastimato. C’è bisogno di forme di organizzazione permanenti della democrazia. La democrazia non è andare a votare questo o quello ogni quattro anni ma la gestione della società.
Il superamento di questo sistema è un processo lungo che non può essere solo la conquista del potere politico, la «conquista della società» è assai più importante. La socialdemocrazia e il comunismo hanno condiviso la stessa cultura, la cultura dello statismo, l’idea della centralità della presa del potere politico. In questo orizzonte io credo che si riproponga ancora una volta quella che Gramsci chiamava la «conquista delle case matte».
E questo ci riporta al Lenin di Stato e rivoluzione in cui da una parte il rivoluzionario russo studia il problema dello Stato e della sua estinzione e dall’altro si pone il problema della costruzione nella società una nuova democrazia organizzata, quella dei soviet. I soviet o gli stessi consigli nella visione gramsciana non sono solo gli organizzatori dell’insurrezione ma anche strutture che iniziano a operare per la riappropriazione cosciente delle funzioni svolte dalla burocrazia statale, per la gestione sociale.
So che tutto ciò è difficile ma ciò potrà impedire che si imponga ancora una volta una società autoritaria, un potere separato dalla società.
Se non costruiremo nella società una democrazia reale, quello che abbiamo conosciuto nel passato rischierà di ripresentarsi.
il manifesto 7.11.17
Spinta propulsiva (dov’è oggi?)
In una parola. A Berlinguer sembrava già chiara e urgente la necessità di una completa reinvenzione del modo di essere e di pensare della sinistra che in modi diversi aveva un punto di origine in quell’assalto al Palazzo del Potere
di Alberto Leiss
Quasi tutti sanno che la Rivoluzione d’Ottobre, intesa nel suo culmine insurrezionale con la «presa del Palazzo d’Inverno», avvenne in realtà tra ieri e oggi, 7 novembre, un secolo fa. Allora vigeva in Russia il calendario giuliano – subito abrogato dai bolscevichi – e queste date equivalevano al 24 e 25 ottobre.
Ci capita di ricordarlo mentre le elezioni in Sicilia, stando ai risultati in tempo reale dello spoglio – che leggo mentre scrivo – danno le destre al 39,2, i grillini al 35, il Pd al 18,8, e la sinistra alla sinistra del Pd al 6,3 (a più della metà delle sezioni).
Questi risultati preoccupanti – Emanuele Macaluso ha parlato ieri sul Corriere della sera di «disfatta» e di una sinistra «totalmente» priva di cultura politica – fanno pensare ai decenni seguiti alla definitiva implosione dell’esperimento sovietico (1989), trascorsi all’insegna delle abiure, delle rimozioni, delle consolazioni nostalgiche.
Un decennio prima della catastrofe dell’Urss il capo di quello che restava il maggior partito comunista dell’Occidente, Enrico Berlinguer, aveva affermato la fine della «spinta propulsiva che si è manifestata per lunghi periodi, che ha la sua data d’inizio nella rivoluzione socialista d’ottobre, il più grande evento rivoluzionario della nostra epoca». Sembrava già chiara e urgente la necessità di una completa reinvenzione del modo di essere e di pensare della sinistra che in modi diversi aveva un punto di origine in quell’assalto al Palazzo del Potere.
Lo ricorda Aldo Tortorella nell’editoriale del numero in uscita di Critica Marxista, intitolato appunto «La spinta propulsiva nel tempo presente». Citando Gramsci e Rosa Luxemburg Tortorella rintraccia posizioni e comportamenti di quella che definirei la «tradizione» della politica comunista e socialista capaci di parlarci ancora oggi – e il numero di Micromega dedicato all’Ottobre appena uscito annovera sia l’uno che l’altra tra gli «eretici» di questa «tradizione» – e giunge alla conclusione che ripensare a quell’evento non significhi «lo studio di una tattica per il potere. Non il sostegno per appoggiarsi a qualcosa di già avvenuto. Il richiamo è all’ininterrotto bisogno del pensiero critico ai fini della lotta per la libertà e l’uguaglianza, per la giustizia e per la pace. Qui sta la vera spinta propulsiva nel tempo presente».
Eppure vedo che si discute ancora sulle scelte autoritarie di Lenin come di qualcosa in qualche modo positivamente esemplare. Penso all’ultimo libro di Slavoj Zizek Lenin oggi (Ponte alle grazie): ho ritrovato invece drammaticamente toccanti proprio gli ultimi scritti di Lenin qui ampiamente raccolti. Il capo bolscevico che ha puntato tutto sulla «dittatura del proletariato» esercitata dalla élite di un partito unico, è alla ricerca quasi disperata di una qualche forma di contropotere «esperto» che possa contrastare dall’interno la deriva burocratica che già mina il giovanissimo stato sovietico. Un proposito ormai impossibile.
Una delle due ultime lettere, «rigorosamente segrete», è indirizzata a Stalin, piena di risentimento perché aveva «insolentito» con «grossolanità» contro sua moglie, a proposito del contrasto con gli oppositori Zinov’ev, Kamenev, Trockij, questione che Lenin, ormai malato, seguiva «con tutto il cuore». «
Non c’è bisogno di dire – concludeva Lenin – che ciò che è fatto contro mia moglie lo considero fatto anche contro di me. Perciò vi prego di riflettere e di farmi sapere se acconsentite a ritirare le vostre parole e a scusarvi o se preferite rompere i rapporti fra noi».
Il politico sconfinava inesorabilmente nel personale.
il manifesto 7.11.17
Le sinistre sull’attualità della rottura bolscevica
Ottobre rosso. L’iniziativa organizzata dal Forum russo «Alternative» con il sostegno del Fondo Rosa Luxemburg. Mille partecipanti da Asia, Africa, Europa e Stati uniti. A confronto Samir Amin, Kerstin Kaiser della Linke, Savas Matsas e Luciana Castellina (Si)
di Yurii Colombo
MOSCA «Ci rivediamo qui tra un anno per i 200 anni dalla nascita di Karl Marx per discutere ancora sulle prospettive del marxismo e della sinistra» promette Alexander Buzgalin il fondatore del forum russo della sinistra «Alternative», che con il sostegno del Fondo Rosa Luxemburg, ha organizzato la 3 giorni di convegno internazionale a Mosca sull’«attualità dell’Ottobre».
Un’iniziativa straordinaria per estensione geografica dei partecipanti e qualità del dibattito. 60 forum ma anche spettacoli teatrali e film inediti hanno segnato le giornate moscovite: rivoluzione e cultura, filosofia e marxismo, eco-socialismo e sviluppo umano sono stati solo alcuni dei temi su cui gli oltre 1000 partecipanti si sono confrontati senza paracaduti ideologici.
La stessa composizione degli invitati provenienti da tutti il mondo non dava del resto altra possibilità che un confronto libero da diplomatismi. Dall’Italia la nostra Luciana Castellina. «Sono venuta a Mosca per la prima volta nel 1957. Era qui che volevo essere per il centenario dell’Ottobre», ha voluto sottolineare.
La delegazione cinese, con ben 23 professori provenienti dalle «università di marxismo» hanno con orgoglio sottolineato le «conquiste del socialismo di mercato» ma anche la necessità di operare per «ridurre le diseguaglianze economiche» e rendere sempre più «verde» il socialismo cinese.
Sulla Cina e sulla sua «via nazionale al socialismo» ovviamente non potevano mancare le polemiche e la richiesta di spiegazioni da parte di molti altri partecipanti al convegno. Importanti delegazioni di professori e studiosi anche da altri paesi dell’Asia come il Giappone e l’India ma anche dall’Europa e dagli Stati uniti.
Il clou è stata la tavola rotonda di domenica scorsa con Samir Amin il teorico marxista egiziano, di Kerstin Kaiser del fondo Rosa Luxemburg e già deputata della linke, di Liudimila Bulavka-Buzgalina dell’università di Mosca, di Savas Matsas professore di Atene e di Luciana Castellina di Sinistra italiana.
Samir Amin ha sostenuto le vie nazionali al socialismo e la necessità di alleanze con potenze come quella russa. secondo Amin il cuore della trasformazione socialista resta nei paesi in «via di sviluppo» e non nei paesi capitalistici avanzati. Amin ha rivendicato appieno l’esperienza sovietica: «Sono per il socialismo in un paese solo, immaginare rivoluzioni internazionali o simultanee è insensato», ha affermato lo studioso egiziano.
Una posizione che ha lasciato qualche dubbio a Kerstin Kaiser che si è detta convinta che la necessità di riflettere ancora sulla «tragedia staliniana e sul terrore», sostenendo poi la necessità di una maggiore integrazione delle forze di sinistra in europa: «Se l’esperimento greco è finito male è anche perché abbiamo fatto poco in europa per sostenerlo», ha detto.
Liudimila Bulavka-Buzgalina ha sottolineato come nell’esperienza sovietica, soprattutto nei primi anni «si è assistito a un grande tentativo di trasformazione spirituale e culturale non solo di impronta comunista ma anche anarchica e democratica radicale» che non deve essere disperso.
Dopo l’intervento di Luciana Castellina (che riportiamo qui), ha concluso l’assemblea Savas Matsas che ha rivendicato il carattere mondiale della rivoluzione d’Ottobre e la sua attualità in un mondo ancora devastato da guerre e crisi. «Dobbiamo tanto all’Urss che ci ha salvato dal nazismo. Non a Stalin, ma a quei 25 milioni di sovietici che sono morti nella Seconda guerra mondiale».
A San Pietroburgo intanto continuano le celebrazioni organizzate dal Partito comunista di Zjuganov con la presenza di 103 partiti comunisti provenienti dai 5 continenti. Qui il clima è diverso, segnato da una certa ufficialità. Il richiamo acritico non solo all’esperienza dell’Urss ma anche dello stalinismo è risultato perfino esagerato, in alcuni momenti, per un partito che si prepara a contendere la presidenza a Putin nel prossimo marzo.
Di certo a Zjuganov non basterà per arrivare al Cremlino la giusta battaglia contro la rimozione del mausoleo di Lenin perorata dal governatore ceceno Kadyrov ma anche dalla stella nascente dell’opposizione liberale Xenya Sobchak (e su cui si attende la parola finale di Putin).
Fuori dal coro dell’assise l’intervento del segretario di Rifondazione comunista Maurizio Acerbo che, pur rivendicando i grandi risultati del «socialismo reale», ha voluto omaggiare le vittime del terrore stalinista e ha perfino citato le critiche di Kropoktin a Lenin sull’autogoverno, «così tanto amate dal compagno Chavez».
il manifesto 7.11.17
Buzgalin: «Fu vera rivoluzione, restano nazionalismo e nostalgia acritica»
Ottobre rosso. Intervista a Alexander Buzgalin, organizzatore della tre-giorni internazionale tenutasi a Mosca in questi giorni sull’Ottobre rosso: «Avvenne dentro una guerra, morte e fame erano la normalità, e in un paese arretrato»
di Yurii Colombo
MOSCA Alexander Buzgalin è stato l’infaticabile organizzatore della tre giorni internazionale di studio e dibattito tenutasi a Mosca tra il 3 e il 5 novembre sulla rivoluzione d’Ottobre. Luciana Castellina, nel ringraziarlo per la straordinaria iniziativa, ha espresso la speranza che incontri come questi a Mosca si possano tenere ogni anno, per creare un collegamento permanente e sinergico tra le sinistre del mondo e quella russa.
Buzgalin, 63 anni, membro dell’ultimo Comitato Centrale del Pcus gorbacioviano, professore all’Università Lomanosov di Mosca, fondatore del movimento «Alternative» e della corposa rivista omonima quadrimestrale, si dichiara ancora orgogliosamente marxista e comunista. E malgrado i tanti impegni, trova il modo per incontrarci.
Siamo al 7 novembre, al centenario dell’Ottobre. Cos’è rimasto di quella esperienza?
Prima di tutto va detto che fu una vera rivoluzione e non un semplice capovolgimento politico. L’Ottobre cambiò la struttura economica, cambiò gli stili di vita, la morale, i parametri di riferimento dell’intera esistenza degli uomini. La rivoluzione produsse un uomo nuovo, l’«homo sovieticus». Alexander Zinoviev ha scritto una straordinaria parodia dell’Urss ma anche lui è stato costretto ad affermare che allora venne forgiato una sorta di «uomo nuovo». Venne dimostrato, non che poche decine di persone, ma decine di milioni possono lavorare per degli obbiettivi sociali, che il bene comune può essere più importante di un portafoglio gonfio o una bella macchina. Gli uomini non si sentirono più oggetti ma soggetti della loro storia. Oggi al massimo a cui siamo abituati a pensare è il raggiungimento di qualche riforma, mentre nel 1917 si produsse un mutamento qualitativo: è una bella differenza.
Ma ciò che ne seguì fu molto contraddittorio e tragico…
Una rivoluzione è qualcosa che nasce a partire da contraddizioni, non possiamo sceglierne le condizioni. La rivoluzione russa si sviluppò dentro una guerra dove morte e fame erano la normalità e in un paese arretrato. Non avvenne in condizioni ideali. In questo quadro le conseguenze della rivoluzione furono contraddittorie. Non si poteva pensare che ne sarebbe sorta una società «comunista perfetta».
In quel quadro non ci furono alternative: o la controrivoluzione bianca in Russia e poi il fascismo in Italia, Germania, Spagna e dappertutto, oppure quella cosa che fu lo stalinismo con i suoi campi di concentramento, i suoi delitti, le sue stragi, che però lasciò aperta una possibilità con la vittoria sul nazifascismo in Europa nella Seconda Guerra Mondiale.
Oggi da più parti si condanna la rivoluzione russa perché fu violenta…
Nell’Ottobre i soviet – e non i bolscevichi – nel 80% dei governatorati della Russia presero il potere pacificamente. Nell’altro 20% ci furono delle violenze, ma assai limitate. In seguito i vari Kerenskij dopo aver dato la loro parola di ufficiali che non sarebbero insorti, si organizzarono con le guardie bianche, ma non avrebbero comunque combinato nulla se non fossero venuti loro in aiuto i governi stranieri. Per cui le cose andarono diversamente dalle vulgate che circolano ampiamente. Se si vogliono rivoluzioni pure e non-violente allora è meglio sedersi sulla riva del fiume della storia e aspettare. Cosa si sarebbe dovuto fare in Cile nel 1973, quando Pinochet rovesciò il governo socialista di Allende? Arrendersi e farsi accompagnare pacificamente nello stadio di Santiago o resistere armi alla mano?
Ormai gli archivi sovietici sono aperti da un quarto di secolo. A che punto siamo con la ricerca storica sull’Ottobre e sulle sue conseguenze?
Siamo messi male. Ci sono accademici che hanno fatto solo la conta dei morti mettendo in un solo sacco le vittime della repressione, della guerra civile, delle carestie, della Seconda guerra mondiale attribuendole tutte a Stalin. Questo è un metodo ovviamente poco serio di fare storia.
Dall’altra c’è stato storiograficamente un recupero di Stalin: si è scoperta una sua certa vena intellettuale, si è enfatizzato il suo ruolo di statista, si è cercato di giustificare le repressioni come «necessarie» contro molti nemici del paese. Si sta cercando di far passare l’idea che la Russia ha sempre avuto, e sempre avrà, bisogno dell’ «uomo forte» viste le dimensioni del paese e la pluralità di culture. Per cui viva gli Zar, viva Stalin e viva Putin. Una visione che accomuna purtroppo tanti storici sia a destra sia a sinistra.
Per concludere con il presente, qual’è la situazione attuale della sinistra russa?
Non così tragica come sembrerebbe a prima vista. La maggioranza della popolazione ritiene un valore fondante l’uguaglianza e vorrebbe uno forte welfare state. Se si esclude forse la «questione Lgbt» la maggioranza dei russi è «naturalmente» di sinistra. Ciò viene rappresentato politicamente prima di tutto dal Partito comunista di Zjuganov e da «Russia Giusta». Purtroppo questi partiti sono sciovinisti, alimentano una nostalgia acritica per l’Urss, e vorrebbero in politica estera una Russia «imperiale».
Ma la gente non gli crede, percepisce che una volta al potere non si scontrerebbero con le oligarchie, con i potentati corrotti, ecc. I russi attendono una alternativa al potere attuale che sappia rischiare, che sia pronta ad andare in galera per le sue idee. E non è il caso degli attuali partiti della sinistra e dell’opposizione in generale.
ininfluenza del Pd
Corriere 7.11.17
Berlusconi: ora la vera sfida è tra noi e M5S
«La sinistra ha fallito, noi la sola alternativa al partito di Grillo»
intervista di Marco Galluzzo
«L’alternativa in Sicilia era la stessa che si porrà tra qualche mese in Italia, di fronte al fallimento della sinistra: da un lato il nostro centro destra moderato, dall’altro i Cinque Stelle con il loro linguaggio d’odio». In una intervista al Corriere Silvio Berlusconi analizza la vittoria in Sicilia: «Come in tutta Europa, la sinistra non ha più risposte da offrire ai problemi della società. Dissapori con Salvini? Falsità. E spero si vada al voto il prima possibile».
ROMA Silvio Berlusconi lei è felice, ha esultato definendo la vittoria in Sicilia «un grande risultato dei moderati che hanno sbarrato la strada a gente che non ha mai lavorato». Alle Politiche, in primavera, sarà una sfida a due fra voi e 5 Stelle? Centrodestra contro Grillo?
«Lo sto dicendo da mesi, l’ho ripetuto nei giorni scorsi agli elettori siciliani, e direi che mi hanno ascoltato. L’alternativa in Sicilia era la stessa che si porrà fra qualche mese in Italia, di fronte al fallimento della sinistra. Un cambiamento serio, costruttivo, affidato a persone credibili per quello che hanno saputo fare nella vita. Oppure un pericoloso mix di ribellismo e giustizialismo, nelle mani di chi non ha mai realizzato nulla. In altre parole, l’alternativa fra il nostro centrodestra moderato, liberale, cristiano, e il Movimento Cinque Stelle con il suo linguaggio d’odio, di rancore sociale, di progetti deliranti per l’economia».
Renzi esce malconcio dal voto siciliano, crede che la sua leadership sia in declino?
«Non credo che la leadership sia il principale problema del Pd. Il tema vero è che, come in tutt’Europa, anche in Italia la sinistra non ha più risposte da offrire ai drammatici problemi della società. Il Partito democratico in questi anni ha rappresentato il potere che conserva sé stesso, sempre più lontano e distaccato dagli italiani. Come dimostra il fatto di aver dato vita a ben quattro governi consecutivi non eletti dal popolo. Il nome del leader rispetto a tutto questo è un problema secondario».
Avete definito un accordo politico con Salvini e Meloni?
«Non avevamo bisogno di definirlo, l’accordo politico esiste da sempre e non è mai stato in discussione».
Se tornate al governo avrete un programma comune? Ci dica tre punti.
«Avremo naturalmente un grande programma di cose da fare, con il quale cambiare davvero volto all’Italia. Tre punti qualificanti potrebbero essere questi. Il primo, una profonda riforma fiscale, con un taglio generalizzato del livello di imposizione e l’introduzione della flat tax — la tassa piatta che attenua la progressività — al livello più basso possibile. Il secondo è il blocco vero, non solo annunciato, dell’immigrazione clandestina. Come eravamo riusciti a fare quando governavamo e avevamo praticamente azzerato gli sbarchi. Nel 2010 sono arrivati in Italia tanti clandestini quanti in un solo weekend la scorsa primavera. Il terzo punto, fra i tanti del nostro programma, sarà un rapporto diverso con l’Europa: per il rilancio di un europeismo vero, contro l’Europa dei burocrati, dei vincoli ottusi, dell’identità debole e confusa».
Renzi sembra pronto ad un passo indietro sulla sua candidatura alla premiership? Lei cosa ne pensa?
«Lo ripeto, è un problema loro, non credo cambi molto per gli italiani. La vera sfida è fra noi e i Cinque Stelle, com’è avvenuto in Sicilia. E come in Sicilia vinceremo ancora noi, vinceranno l’esperienza, la concretezza, la positività. Il Pd è perdente non per il nome del leader, ma perché gli italiani hanno sotto gli occhi i risultati fallimentari degli ultimi anni. Da quando nel 2011, con un vero e proprio colpo di Stato, ci hanno costretto a lasciare il governo, nel bel mezzo della più grave crisi economica del dopoguerra. La disoccupazione in Italia era due punti percentuali sotto la media europea, oggi è 2,5 punti sopra quella media. Noi eravamo riusciti a portare la pressione fiscale al 39% — comunque ancora troppo alta — ora è al 43,3%. Quindici milioni di persone vivono sotto la soglia di povertà, e di loro 4.750.000 in condizioni di povertà assoluta, cioè totalmente dipendenti dall’assistenza pubblica e dalla carità privata. Numeri vergognosi per un Paese avanzato, e nel frattempo il livello del debito pubblico ha raggiunto nuovi record. Noi avevamo bloccato lo sbarco dei clandestini, ancora in questi giorni invece, nonostante i proclami del governo il dramma degli sbarchi continua. Sono questi i fallimenti della sinistra, è questa la ragione per la quale sono così lontani dai sentimenti, dalle speranze, dalle paure, dalla rabbia degli italiani».
Cosa vi divide al momento con Salvini, in Sicilia avete anche litigato...
«Apprendo da lei di aver litigato con Salvini in Sicilia. A me — e alle decine di testimoni presenti — è sembrato un incontro molto cordiale, amichevole, addirittura affettuoso. Basato sulla consapevolezza che uniti avremmo vinto, come infatti è avvenuto. E uniti continueremo a vincere».
Eppure secondo le cronache non siete così compatti.
«Falsità. In Sicilia ho sentito intorno a me l’entusiasmo, il calore, il sentimento positivo di una coalizione compatta e vincente. Ho chiesto ai siciliani di impegnarsi perché il futuro della loro bellissima isola fosse nelle mani di chi ha dimostrato di avere concretezza, efficienza e la positività necessarie per farla ripartire. L’ottimo risultato di Forza Italia ha consentito la vittoria con buon margine di Musumeci e dimostra che sono stato ascoltato».
Si deve votare a marzo o a maggio?
«Il più presto possibile, visto che dal 2008 gli italiani aspettano di poter scegliere da chi essere governati. L’ultimo governo che ha avuto il consenso degli elettori è stato il nostro, ormai 10 anni fa. Ora che si è approvata la legge elettorale, una volta fatta la legge di Stabilità, non c’è davvero motivo di tenere ancora in piedi questo Parlamento».
È immaginabile una punta in Forza Italia che non sia lei? E nel centrodestra che non sia Salvini?
«Tutto questo non lo deciderò né io né altri. Lo decideranno gli elettori, con il voto. Finora gli italiani mi hanno dato in totale, dal 1994, oltre 200 milioni di voti. È per questo che sono in campo da 23 anni, facendo di volta in volta la punta, il regista, l’allenatore».
Cosa cambia dal 22 novembre, con l’udienza della Corte di Giustizia di Strasburgo?
«Io confido di avere finalmente dall’Europa quella giustizia che attendo da anni e che mi è stata negata. Però lo ripeto ancora una volta: il mio coinvolgimento in campagna elettorale e poi al servizio del Paese continuerà con il massimo impegno. In ogni caso. Mettendo a disposizione degli italiani le mie capacità, la mia cultura di imprenditore, la mia esperienza di governo, le mie relazioni internazionali. È un dovere che sento verso il mio Paese e gli italiani che mi hanno sempre dato fiducia e affetto».
Repubblica 7.11.17
Elezioni Sicilia, Diamanti: "Pd in crisi, dopo 10 anni non è più partito di massa e non ha più un leader comunicatore"
Il risultato delle elezioni in Sicilia nell'analisi di Ilvo Diamanti durante lo speciale 'Effetto Sicilia' di Repubblica Tv con Laura Pertici in studio. "La crisi della sinistra è la crisi di un partito di massa nato dall'accordo delle due più grandi culture politiche di questo paese che a distanza di 10 anni non sembra più rispondere alle esigenze della società. È poi diventato un partito incentrato sulla figura di Renzi, quello che ho definito PdR. Oggi però non è più un partito di massa, non ha più un leader comunicatore come Renzi, ma ha un Gentiloni 'impopulista', il contrario di quello che va di moda oggi: un leader di governo ma non di partito"
il manifesto 7.11.17
Renzi
Le dimissioni di un uomo solo allo sbando
di Norma Rangeri
Non lo farà, non farà un passo di lato così come non accetterà i buoni consigli che alcuni commentatori gli inviano a mezzo stampa (fai autocritica, buttati a sinistra), perché, molto semplicemente, certi suggerimenti vanno a sbattere contro il progetto e la cultura politica di Renzi.
Certo sarebbe arrivata l’ora di riconoscere che la disfatta siciliana è solo l’ultima di una lunga serie di sconfitte, sia a livello politico generale (il referendum costituzionale), sia in importanti amministrazioni locali, con grandi città (Roma, Torino, Genova) consegnate al governo dei pentastellati o del centrodestra. Ora si aggiunge la ciliegina sulla cassata siciliana.
Come onestamente ammette il vicesegretario Lorenzo Guerini, si tratta di «una sconfitta inequivocabile».
Renzi dovrebbe, altrettanto onestamente, prenderne atto riconoscendo di aver dato il massimo contributo a un esito così nefasto per il Pd. E, serenamente, riprendere il progetto di ritirarsi a vita privata.
Se non fosse che il giovane leader, ha perseguito e affermato una linea politica neocentrista e, coerentemente, lavorato alla rottamazione della sinistra interna, volendo portare a termine una profonda metamorfosi del Pd.
Ha costruito un partito sulla sua persona, contro sindacati e forze intermedie. Solo che così, come all’indomani delle primarie del 2013 scrivevamo «di un uomo solo al comando», oggi, 5 anni dopo, è ormai ora di cambiare definizione perché con tutta evidenza siamo di fronte a un uomo solo allo sbando.
L’ex presidente del consiglio non è tipo da farsi da parte, anche perché il partito che così ostinatamente si è cucito su misura è una creatura che, nonostante tutti i falsi movimenti verso Pisapia e altri raggruppamenti, rivendica le politiche neocentriste e principalmente sull’economia e il lavoro. Esattamente quelle che meglio esprimono la nuova natura del suo Pd.
Più che consigli verso tattici spostamenti a sinistra, sarebbe giusto riconoscergli una sua forte coerenza sulla via maestra di una coalizione, dopo le elezioni politiche, con il redivivo Berlusconi. Tanto più che il vecchio leader di Arcore suda cento camicie nel completare l’operazione di lifting politico, da padre del populismo italiano a figura degasperiana europeista. Trovando il conforto delle grandi firme.
E’ per questo motivo, di fondo e generale, che l’emorragia di consensi, prolungata e profonda, anziché amare riflessioni sul suicidio del Pd, al contrario, si manifesta con reazioni scomposte. Come la sgangherata e vana ricerca di qualche improbabile capro espiatorio. E’ il caso dell’attacco al presidente del senato Grasso per non aver accettato la candidatura in Sicilia. Recriminazione sciocca non fosse altro per il fatto che è rivolta a chi stava meditando di lasciare il Pd, come Grasso ha fatto all’indomani dell’approvazione della legge elettorale.
Se il partito di Renzi si ritrova senza candidati qualche domanda sul perché non sarebbe inutile. Succede in Sicilia e capita anche con il preoccupate risultato di Ostia, il popoloso municipio di Roma, dove è stato ripescato un piddino senza chance in un territorio commissariato per mafia da due anni, con il presidente del Pd finito agli arresti.
E come non bastasse, ecco che nel ballottaggio tra pentastellati e destra (con l’exploit di Casa Pound), l’indicazione di voto del Pd è l’astensione, la fuga, l’abbandono del campo di battaglia.
Se Sparta piange, Atene non ride.
La lista di Claudio Fava lotta per raggiungere il quorum del 5%, probabilmente riuscirà ad agguantare un rappresentante nell’assemblea siciliana. Un risultato dignitoso ma deludente, specialmente se giudicato nel contesto di un’astensione che nessuno, nemmeno i grillini, riescono a scalfire. Né in Sicilia, né al confine metropolitano di Ostia dove è aumentata del 20%.
Ma è proprio lì, nella disillusione verso questa sinistra che riconsegna il paese alla destra, che chiunque voglia costruire un nuovo soggetto politico dovrà misurarsi.
il manifesto 7.11.17
La maledizione dell’Idroscalo, dove Casa Pound sogna l’Alba Dorata
Estrema destra. Si è insediata pian piano da queste parti, dando corpo a quell’idea di «sindacato del popolo» che prende forma nella distribuzione di generi alimentari alle famiglie italiane ma anche nella continua denuncia delle malefatte di immigrati e rom
di Guido Caldiron
Chissà cosa avrebbe detto Pasolini. Lui che nel 1962, per rispondere a due lettori di Vie Nuove preoccupati della diffusione dell’estrema destra, scriveva «non occorre essere forti per affrontare il fascismo nelle sue forme pazzesche e ridicole: occorre essere fortissimi per affrontare il fascismo come normalità, come codificazione, direi allegra, mondana, socialmente eletta, del fondo brutalmente egoista di una società». Chissà cosa avrebbe detto camminando oggi per le strade di Ostia, emblema non tanto dell’affermazione elettorale di Casa Pound – a vincere davvero nel municipio del litorale romano è stata l’astensione – quanto piuttosto della sua piena «normalizzazione».
Per una sorta di tragica ironia, proprio la strada da cui i fascisti del terzo millennio hanno dato l’assalto alla città-quartiere, via Pucci Boncampi, dove hanno aperto prima un pub e quindi una sede, si trasforma dopo qualche isolato in via dell’Idroscalo. E dai locali in cui si elogia «il buono del fascismo» conduce al monumento che ricorda l’assassinio del poeta, il 2 novembre del 1975, che lo scorso anno fu danneggiato da un’azione rivendicata da altri fascisti, quelli di Militia.
L’Idroscalo è un punto di arrivo, all’estremità nord di un lungomare che da allora si è riempito di stabilimenti, ristoranti, locali. Neanche il porto turistico c’era ancora, a quell’epoca. Yacht e scafi da crociera ancorati e poche centinaia di metri dalla striscia rossiccia e ininterrotta delle case popolari dell’Ater costruite in mezzo alla campagna e dai palazzi di Nuova Ostia, quelli stretti intorno a piazza Gasparri, vuota, si direbbe quasi abbandonata, con i giardinetti malconci che montano la guardia al degrado. Lungo l’arco di un paio di chilometri qui Ostia si è rifatta il trucco e la movida un tempo vincolata alla riviera sud di quello che nel 1940 fu inaugurato come Pontile del Littorio, si è spalmata a pochi passi dalla battigia. All’interno però, poco o nulla è cambiato. Decine di migliaia di persone strette in un quadrilatero d’asfalto che corre parallelo al mare, quasi una città nella città, il cuore popolare del Lido.
«Noi, periferia di nessuno», ha scritto sui suoi depliant un candidato indipendente. E in effetti più che le periferie urbane della Tuscolana o della Casilina, questa parte di Ostia potrebbe far pensare a certi quartieri di Bari o di Pescara, forse di Napoli. Il «mare d’inverno» della canzone, quello dove «non viene mai nessuno a trascinarmi via».
Se il confine tra politica e malaffare è spesso molto sottile, qui a volte è scomparso del tutto, con il municipio sciolto per mafia, l’ex presidente Pd condannato in primo grado, e due clan, i Fasciani e gli Spada che stando alle cronache giudiziarie, hanno cercato di spartirsi i soldi facili arrivati con la gentrificazione. E proprio un membro della famiglia Spada alla vigilia del voto ha postato su facebook quello che aveva tutta l’aria di essere un messaggio di sostegno a Casa Pound.
Tra abbandono e crisi dei partiti tradizionali, qualcosa è però cambiato anche da queste parti. Lo si capisce subito percorrendo a ritroso le vie del quartiere dal centro verso l’Idroscalo. I «faccioni» di Luca Marsella, il candidato di Casa Pound a presidente del municipio, e di Carlotta Chiaraluce, capolista di Cpi, incartano letteralmente i muri del mercato popolare di via Orazio dello Sbirro. Lungo le strade del quartiere ci sono solo loro e lo sguardo di Pietro Malara, «nelle forze dell’ordine da oltre 20 anni» e candidato di Fratelli d’Italia che occhieggia con i suoi flyer da quasi tutte le cassette della posta.
Il comitato elettorale di Monica Picca, insegnante di Fiumicino e candidata-presidente per il partito di Giorgia Meloni, è lì a due passi, non lontano da un altro mercato dove gli ambulanti bengalesi vendono i cd dei neomelodici napoletani che spopolano anche qui. Picca andrà al ballottaggio con la candidata del M5S, ed è probabile che allora i voti raccolti da Marsella peseranno ancora di più. Del resto i punti di contatto tra «il centro-destra» e «l’estrema destra» non mancano. «Senza mafia, nomadi, immigrazione selvaggia e degrado», annuncia il programma di Picca, che promette di «fare altrove i centri d’accoglienza». «Penseremo prima agli italiani», «impediremo i mercatini rom abusivi e rimuoveremo ogni insediamento di stranieri», replica quello di Marsella.
Pressoché nel vuoto, Casa Pound si è insediata pian piano da queste parti, dando corpo a quell’idea di «sindacato del popolo» che prende forma nella distribuzione di generi alimentari alle famiglie italiane ma anche nella continua denuncia delle malefatte di immigrati e rom. Di questo modello, che si ispira esplicitamente ai greci di Alba Dorata, la chiusura della campagna elettorale ha però mostrato anche l’altro volto, quello che accompagna il «sociale».
In una piazza del Villaggio San Giorgio di Acilia, un agglomerato di case popolari sorto nel 1948 per accogliere gli esuli giuliano-dalmati e che nel frattempo è stato riacciuffato dalla città con una serie di casette a schiera costruite tutto intorno, dove al tramonto piccoli cani abbaiano nervosi dietro grandi cancelli, accanto ai candidati del X municipio c’era anche il «vicepresidente nazionale di Casa Pound» Simone Di Stefano. Dopo aver ammonito quelli che dipingono gli appartenenti al movimento come dei «mostri», Di Stefano ha lamentato la presunta disinformazione operata dalla stampa spiegando come «oggi sul Fatto c’è uno che racconta che quelli di Casa Pound gli menano ogni giorno… eppure è ancora vivo». Il tutto prima di annunciare come dopo Ostia Cpi guardi al parlamento. Per fare cosa? Più o meno questo: «Avere 10/15 eletti pronti a prendere per la cravatta i traditori della patria e cacciarli via a pedate».
Quando nel 2012 i deputati di Alba Dorata entrarono per la prima volta nel parlamento di Atene lo fecero marciando in formazione militare e ammonendo i presenti: «State attenti, stiamo arrivando. I traditori della patria devono cominciare ad aver paura».
A Ostia, come in tanti altri territori della crisi, il vecchio fascismo si veste del «prima gli italiani» per tentare di trasformarsi in senso comune. Forse Pasolini ci aveva visto giusto.
Corriere 7.11.17
CasaPound e l’exploit di Ostia: «Voti a Grillo, è possibile»
Ballottaggio, il leader Marsella non esclude lo «sgambetto» al centrodestra: ma niente apparentamenti
di Maria Egizia Fiaschetti
ROMA Il ballottaggio di Ostia, popoloso municipio del litorale romano, potrebbe essere deciso dai voti dell’estrema destra. Sa di aver intercettato il voto di protesta Luca Marsella, candidato di CasaPound sconfitto sì al primo turno ma forte di un risultato, il 9%, che rappresenta una crescita di sette punti in un anno e mezzo.
In controtendenza rispetto ai Cinque Stelle, che nel X Municipio perdono il 13% dopo il trionfo alle amministrative di giugno 2016. E al Pd che, penalizzato dallo scioglimento per mafia dell’ex giunta a trazione dem, si ferma al 14%. Un risultato che Marsella, in corsa assieme alla compagna capolista Carlotta Chiaraluce, definisce «eclatante». Consapevole di aver accantonato un tesoretto che, nella sfida tra Giuliana Di Pillo, favorita di Virginia Raggi, e la rivale Monica Picca di Fdi, potrebbe fare la differenza. E però il 33enne grafico che con il suo «sindacato popolare» ha moltiplicato i consensi, tra collette alimentari per famiglie bisognose e ronde antimigranti, smentisce che ci siano trattative in corso: «Non si è ancora sentito nessuno. Certo, se ci chiameranno risponderemo ma non faremo apparentamenti». Anche se poi, mentre si prepara a dare battaglia dai banchi dell’opposizione, lascia aperto uno spiraglio: «Devo confrontarmi con i vertici».
Nelle geometrie variabili di un elettorato diviso tra astensionismo e antipolitica, verrebbe da pensare che i voti di CasaPound possano confluire nel centrodestra: «Non è così scontato. Quando erano loro ad amministrare non hanno sgomberato l’ex colonia Vittorio Emanuele (l’edificio sul lungomare diventato centro di accoglienza per migranti, ndr ). Noi non peschiamo solo a destra o nelle roccaforti storiche del centrosinistra. È stato Beppe Grillo a dire che se fallisce il Movimento arriva CasaPound...». È possibile che i suoi sostenitori convergano su Di Pillo? «Se gran parte delle preferenze che loro hanno perso è andata a noi, vorrà dire qualcosa». Nel duello del 19 novembre, chi la spunterà? «Credo sia una partita equilibrata ma il centrodestra non ha brillato. Alla fine potrebbe vincere il M5S». Lei è accusato di rapporti con il clan Spada, potente famiglia che controlla la periferia di Nuova Ostia: certe frequentazioni non la imbarazzano? «Sono attacchi a orologeria. La verità è che guadagniamo consensi anche in zone come Villaggio San Giorgio ad Acilia, l’Infernetto e il centro di Ostia. Se dipendesse solo dagli Spada bisognerebbe spiegare perché cresciamo anche in altri quartieri». Eppure c’è chi parla di endorsement . «Sono costruzioni dei giornali che invece di indebolirci ci fanno pubblicità. Noi siamo contro ogni forma di mafia».
Il Fatto 7.11.17
“Chi ci guida non deve essere calato dall’alto”
Anna Falcone - L’avvocato, animatrice della sinistra civica: “Il percorso parta dal basso, serve legittimazione”
“Chi ci guida non deve essere calato dall’alto”
di Tommaso Rodano
“Le elezioni siciliane dimostrano che il centrosinistra è un luogo politico che non esiste più. E che ora serve coraggio”. Anna Falcone (con Tomaso Montanari) è l’anima della “sinistra civica” nata dall’assemblea del teatro Brancaccio di Roma, il 18 giugno. “Con il risultato di Fava – aggiunge – la sinistra torna nell’assemblea regionale siciliana dopo tanti anni di assenza. Ma abbiamo obiettivi più ambiziosi. Bisogna riportare la gente a votare. Dobbiamo lavorare sul coinvolgimento di una base larga e popolare”.
Hanno votato in pochissimi, ma la destra mobilita il suo elettorato (anche a Ostia), la sinistra no. Perché?
Veniamo da 25 anni di governo della destra. In prima persona o diversamente interpretata dalle politiche renziane, ispirate alla cosiddetta ‘Terza via’. La destra ha convinto i suoi elettori che esistono soluzioni semplici alla crisi, anche se le sue politiche non hanno fatto altro che aggravarla. L’elettore di destra si accontenta, quello di sinistra aspetta una proposta coraggiosa, e resta a casa.
La proposta più coraggiosa sarà la lista unica con Mdp e gli altri partiti di sinistra di cui si parla da mesi?
Il nostro appello, da giugno, è far nascere una lista unica a sinistra che tenga insieme le parti migliori della politica e della società civile. Non c’è alternativa al coraggio. Come quello che in Spagna ha portato alla partecipazione civica di Podemos o in Inghilterra, con Corbyn, ha permesso la rinascita di un partito che rappresenta il mondo del lavoro e un modello di sviluppo alternativo alle politiche mercantilistiche che hanno umiliato i diritti delle persone. Su questi temi – lavoro, scuola, sanità, ricerca, ambiente – le convergenze si trovano. Ma chiediamo l’applicazione di un metodo democratico, che vale anche per le candidature.
Vale anche per Pietro Grasso? Sul suo nome sembrano d’accordo tutti, da Bersani fino a Vendola.
È una figura che si è guadagnata, per la sua storia personale, assoluta stima e credibilità. Ha un sincero radicamento nei principi democratici e costituzionali di questo paese. Non conosco le sue determinazioni , ma sono convinta che anche lui chiederebbe a sua garanzia una legittimazione democratica di una sua eventuale leadership.
Ovvero le primarie?
Dobbiamo discutere anche del metodo. È evidente che le primarie aperte, o chiamare a votare chiunque passi per strada, non sarebbero il massimo della trasparenza. Ma chi partecipa a questo percorso deve poter esprimere il suo voto sul programma, le candidature e la leadership.
Si parla anche di un ticket Grasso-Falcone.
Non sono interessata. I leader vengono dopo e dovranno essere legittimati dal basso. Io e Montanari siamo garanti, non abbiamo intenzione di proporci. E poi mi creda: i tatticismi e le lotte per la leadership non appassionano nessuno. Alle persone interessa sapere dove si va e quanto si è credibili.
Ha ragione, ma il tempo stringe e dovrete pur scegliere una formula.
Stiamo lavorando a un testo condiviso, che uscirà a brevissimo, per iniziare un percorso comune e aperto a tutte le forze civiche e della sinistra. Qualsiasi documento, per quanto ci riguarda, sarà sottoposto alla nostra prossima assemblea, il 18 novembre.
Avete paura che la lista unitaria sia un’operazione di apparati politici, che finisca con un altro 5%.
Nessuna paura. La sinistra non deve avere paura dei cittadini, né di mettersi in gioco su un grande programma di superamento delle diseguaglianze e delle enormi ingiustizie di questo paese. Pensi alla forza politica che potrebbe avere, anche rispetto all’Europa, una sinistra che mette la Costituzione alla base del suo programma.
La Stampa 7.11.17
Nelle pieghe del voto tra impresentabili e lo spirito di Pirandello
I dispetti degli elettori e i nuovi equilibri nella Regione siciliana
di Marcello Sorgi
Forse non aveva proprio torto Renzi, a dire che le elezioni siciliane tutto sommato sono un fatto locale.
Seppure saranno molto forti le conseguenze dei risultati - il ritorno del centrodestra, con Musumeci, alla guida della Regione, la «non vittoria», verrebbe da dire, citando un indimenticabile Bersani, del Movimento 5 Stelle, e la dura sconfitta del centrosinistra, con il candidato battuto, Micari, che subito ha annunciato il suo ritiro dalla politica -, per capire il significato vero del voto occorre addentrarsi nelle pieghe del lunedì in cui lo spoglio lentissimo, inesorabile, delle schede, aveva fatto temere, al mattino, perfino un ribaltamento del quadro politico che alla fine è uscito confermato.
Musumeci ha parlato per ultimo e ha citato Verga, per definire retoricamente la Sicilia «terra dei vinti». Ma forse c’è un di più di Pirandello e dello spirito di contraddizione di Sciascia, nelle menti indecifrabili, per il leader Pd, degli elettori siciliani, e nelle urne che gli hanno inflitto una grande delusione, seconda solo a quella della sera del referendum 4 dicembre 2016.
Prendiamo gli «impresentabili»: protagonisti, nel bene e nel male, di una campagna elettorale combattuta senza esclusione di colpi. Dal Pd ai 5 Stelle, allo stesso Musumeci, perfino (più blandamente) a Berlusconi, tutti avevano invitato gli elettori a non votarli. E invece sono andati benissimo: il campione, eletto con più di ventimila preferenze, è quel Luigi Genovese, figlio di Francantonio, ex-segretario regionale del Pd trasmigrato in Forza Italia condannato a undici anni. Luigi ha avuto un plebiscito a Messina, nella città in cui l’elezione del sindaco pacifista in sandali Accorinti aveva segnato quattro anni fa l’apice della rivolta contro suo padre e la partitocrazia di cui era l’emblema. E in cui invece Musumeci, con l’appoggio del campione degli «impresentabili», ha superato il cinquanta per cento. Come possano gli stessi messinesi cambiare idea in così poco tempo e votare in due modi opposti è difficile da spiegare, se non con il fatto che sanno distinguere tra Comune e Regione, e con la seconda non scherzano. In un sol colpo, son tornati a votare per i «poteri forti», hanno dato un avvertimento al primo cittadino e, pur premiandolo, hanno fatto un dispetto politico a Musumeci, che s’era schierato pubblicamente contro le candidature opache.
Anche il successo del nuovo governatore va radiografato. Nel quasi quaranta per cento che lo ha eletto, il nucleo forte è rappresentato da Forza Italia, guidata dal coordinatore Micciché, cioè dallo stesso che la volta scorsa, come avversario, riuscì a impedire l’elezione di Musumeci, dall’Udc e da liste locali e personali di provenienza post-democristiana. «Diventerà Bellissima», la lista di Musumeci, insieme a quella di Meloni e Salvini hanno ballato per molte ore sulla soglia del 5 per cento, correndo il rischio di restare fuori dall’Assemblea regionale. Vale a dire che chi ha fatto vincere Musumeci ha voluto al contempo ricordargli quali sono i reali rapporti di forza interni della coalizione, per far sì che ne tenga conto al momento della formazione del suo governo.
Sono in molti ora a chiedersi come farà il vincitore a trovare la maggioranza che i voti, malgrado il successo, non gli hanno garantito. All’inizio, sarà giocoforza consentirgli di prendere il largo, perché se l’Assemblea regionale non lo appoggia e non lo mette in condizione di presentare il bilancio e la legge di stabilità, va a rischio di scioglimento. Ma poi? Nasceranno anche qui larghe intese, o Musumeci dovrà cedere al sostegno occasionale, negoziato di giorno in giorno, con gruppi diversi? Per rispondere a queste domande, c’è chi guarda Totò Cardinale, l’ex-ministro delle Comunicazioni del governo D’Alema, che ha lasciato in eredità alla figlia Daniela il seggio alla Camera e come passatempo s’è costruito un piccolo partito personale. «Sicilia futura», quotato oltre il 6 per cento e definito dal suo fondatore, con perfetta ambiguità, «corrente renziana esterna al Pd», era schierato ufficialmente con il centrosinistra e il suo sfortunato candidato sconfitto Micari. Cardinale è pronto a offendersi per le allusioni, giunte anche alle sue orecchie, all’eventualità che alcuni eletti suoi amici possano occasionalmente schierarsi, per senso di responsabilità, a favore di Musumeci, o offrire i propri voti per eleggere Micciché presidente dell’Assemblea. L’ex-ministro infatti ha la figlia che sta per ricandidarsi e può essere rieletta con l’appoggio del partito del padre in un collegio uninominale. Sa bene che in questo frangente, almeno fino alla prossima primavera, Renzi non tollererebbe un cedimento. Ma dopo le elezioni politiche, chi potrebbe considerare imperdonabile una piccola apertura di «Sicilia futura» alle ragioni della governabilità siciliana?
Si tratterebbe, in fondo, di una sorta di voto disgiunto, tra Roma e Palermo. Come quello che ha penalizzato oltremisura il rettore Micari, per l’azzardo di volersi cimentare - lui, ingegnere, uomo di studi tecnici - con la politica siciliana. Nel voto per la presidenza, Micari ha avuto l’8 per cento in meno delle liste che lo sostenevano, dirottato verso Cancelleri, il candidato pentastellato che ha superato della stessa percentuale la lista del suo Movimento. Mentre a Fava e alla sinistra, i dispettosi elettori anti-Micari hanno riservato solo le briciole. Una doppia punizione, che ha reso la sconfitta ancora più amara.
Corriere 7.11.17
IL VICOLO CIECO DI UN PARTITO ALLA RICERCA DI CAPRI ESPIATORI
di Massimo Franco
L’impressione è che non ci sarà nessun terremoto politico. Per quanto sgualcito dagli elettori e criticato dagli avversari, Matteo Renzi resterà segretario del Pd e, se riuscirà, anche candidato a Palazzo Chigi; ma solo per il suo partito. Dietro l’apparente apertura, i dem si preparano a confermare la blindatura del segretario. E nessuno tra quanti sono additati come la fronda interna ha la voglia né la forza di azzardare la resa dei conti a pochi mesi dal voto politico. La nomenklatura che si è riunita intorno a Renzi, cementata dalla battaglia referendaria persa nel dicembre scorso e dalla scissione, rimane con lui.
L’insuccesso in Sicilia e a Ostia viene riconosciuto come «sconfitta», con molte scusanti. La tentazione di scaricare la responsabilità sugli scissionisti dell’Mdp, sull’eredità della giunta Crocetta, e perfino, in modo maldestro, sul «no» del presidente del Senato Pietro Grasso a candidarsi, è istruttiva. Fa registrare l’ennesimo tentativo di trovare all’esterno responsabilità che sono del gruppo dirigente, locale e nazionale. D’altronde, il magro risultato della lista guidata da Claudio Fava cancella l’incubo di una concorrenza del gruppo di Pierluigi Bersani al Pd renziano.
La sconfitta è di tutta la sinistra. E il vertice dem ha gioco facile nel bollare le «strumentalizzazioni». Renzi commenta il forfait di Luigi Di Maio per il faccia a faccia con lui su La7. Replica al candidato del M5S a Palazzo Chigi che ha definito «defunto» il Pd e liquidato Renzi come un ex candidato premier; ma in realtà sembra parlare al proprio partito. «Il leader del Pd», scrive, «lo decidono le primarie, cioè la democrazia interna. Non le correnti, non il software di un’azienda privata».
Suona come un avvertimento a quel «club dei ministri» evocato come grumo ostile alla sua leadership. Il presidente del Pd, Matteo Orfini, ma anche governatori regionali come Michele Emiliano, fanno presente che è impensabile chiedere un passo indietro al segretario. La verità è che scaricare le responsabilità sul solo Renzi è difficile, per un gruppo dirigente che ne ha condiviso le decisioni per anni. I dem sono prigionieri dei risultati del congresso e dell’assenza di alternative. Il pericolo di rimuovere l’emorragia di voti, tuttavia, è in agguato.
Per questo, dietro le parole da trincea aumenta la consapevolezza che gli insuccessi esigono un superamento dello schema egemone utilizzato finora. L’ipoteca su Palazzo Chigi sfuma. Si cercano alleati. E l’uscita di Grasso, che ieri ha ricevuto Giuliano Pisapia in Senato, agita il partito in modo inaspettato. L’impressione è che tra i dem Renzi continui a non avere avversari insidiosi. Ma aumentano i problemi fuori, nel rapporto compromesso con l’elettorato. Il centrodestra è resuscitato, il M5S si è rafforzato, e l’astensionismo cresciuto. Per questo sarà duro uscirne indenni.
Corriere 7.11.17
I DEMOCRATICI
È caos nel Pd dopo il voto E Pisapia si avvicina a Grasso
Incontro tra l’ex sindaco e il presidente del Senato, che così replica alle accuse dei dem: patetiche scuse
di M.Gu.
PALERMO La sconfitta del Pd in Sicilia è destinata a rivoluzionare gli assetti dell’intero centrosinistra. Se non avrà ripercussioni immediate sulla leadership di Matteo Renzi, di certo innescherà reazioni a catena nei partiti e tra i partiti. A segnare il cambio di fase è l’incontro, ieri a Palazzo Giustiniani, tra il presidente Pietro Grasso e Giuliano Pisapia, che è andato a portare la sua solidarietà alla seconda carica dello Stato per le bordate dei luogotenenti renziani.Non è stato solo un incontro di cortesia. Il faccia a faccia tra l’ex sindaco di Milano e il leader in pectore del movimento — che metterà insieme Mdp, Sinistra Italiana, Possibile di Pippo Civati e, forse, anche i leader del Brancaccio, Falcone e Montanari — apre uno scenario nuovo a sinistra del Pd. È la prima volta che Grasso e Pisapia si vedono per parlare di come costruire una alleanza alternativa, che volti pagina rispetto al renzismo. D’altronde la débacle in Sicilia spezza ogni tentativo di saldare un’alleanza con il Pd prima del voto. E se i renziani bombardano Grasso, individuato come il capro espiatorio e ritenuto un pericoloso competitor per la premiership, il presidente è in sintonia con Pisapia nel ricambiare i colpi.
La nota durissima del portavoce è un assaggio dello scontro che si profila: «Imputare a Grasso il risultato del Pd, peraltro in linea con tutte le ultime competizioni amministrative e referendarie, è una patetica scusa». Al Nazareno, Palazzo Madama rimprovera attacchi personalistici che impediscono «più approfondite riflessioni» sugli errori di oggi e sul futuro della sinistra. Accusato dai renziani di mancanza di coraggio, Grasso non intende caricarsi sulle spalle il peso di una sconfitta non sua, visto che il Pd è reduce da una lunga serie di batoste: Roma, Torino, Sesto San Giovanni, il Friuli Venezia Giulia e ora la Sicilia. Il presidente ricorda di aver comunicato ufficialmente già il 25 giugno le ragioni «di carattere istituzionale» per le quali si sottrasse al pressing di Renzi, che voleva candidarlo alla guida della Sicilia. E respinge «merito, metodo e contenuti dell’attuale classe dirigente del Pd», stigmatizzando «lo stile e l’eleganza dei commenti» di Davide Faraone e compagni.
Mentre la sinistra si organizza, il Pd cerca una tregua per non dilaniarsi lunedì in direzione in una rissa correntizia e sminare l’annunciata resa dei conti. Orlando e Franceschini torneranno a chiedere che Renzi si decida a tessere la tela delle alleanze, allargando il campo a sinistra e al centro. Sul candidato premier invece i due ministri non la vedono allo stesso modo. Il Guardasigilli guarda a un federatore come Gentiloni, il responsabile della Cultura non vuole ancora aprire lo scontro su Renzi.
L’ipotesi di primarie di coalizione sembra sfumare lasciando spazio al teorema di Massimo D’Alema, convinto che un dialogo tra le diverse forze del centrosinistra potrà aprirsi solo dopo la grande conta delle politiche. «Sinistra e centrosinistra sono rimasti fuori dalla partita — avverte il portavoce di Campo progressista, Alessandro Capelli —. Un risultato disastroso che deve far riflettere tutti».
Corriere 7.11.17
MDP E GLI ALTRI
La sinistra al primo test si ferma al 6% Delusione e allarme tra i bersaniani
Tra i fuoriusciti serpeggia la paura di aver pagato
il prezzo della scissione per fondare un partitino
Monica Guerzoni
PALERMO Svanito il doppio sogno del risultato a due cifre e del sorpasso sul Pd, la sinistra nata a febbraio da una costola dei dem fa i conti con la sua prima delusione elettorale. Il traino di Bersani e D’Alema non c’è stato e adesso, fallito il test in Sicilia, tra i fuoriusciti serpeggia la paura di aver pagato il prezzo della scissione per fondare un partitino di mera testimonianza. Roberto Speranza ha convocato d’urgenza il coordinamento per l’analisi del voto, il che conferma quanto alto sia il livello di allarme al vertice di Mdp. E dire che, in soccorso di Claudio Fava, erano scesi in Sicilia tutti i «big» del movimento. L’ex premier Massimo D’Alema, l’ex segretario Pier Luigi Bersani, il presidente della Toscana Enrico Rossi, il leader di St Nicola Fratoianni e lo stesso Speranza, che si è detto «soddisfatto di un risultato che ci dà una forza significativa». Ma il suo commento rassicurante stride con il magro bottino elettorale portato alla nuova «ditta» dal vicepresidente dell’Antimafia.
La Sicilia sarà pure una regione storicamente di destra, come si affannano a ricordare i dirigenti di Mdp, ma Fava si è fermato poco sopra il 6% e la lista ha raggiunto appena il 5,3. Un risultato ben al di sotto delle attese. «Corro per vincere», si era sgolato il candidato presidente. E D’Alema aveva scatenato le ire dei renziani affermando che «solo uno stupido può pensare al voto siciliano come a un fatto locale». Un anatema che rischia di ritorcersi contro Mdp. Il senatore Federico Fornaro ammette che «il dato è buono ma non buonissimo» e va dritto al punto politico: «Siamo nati per intercettare il voto dei tanti che si sono allontanati dal Pd e non abbiamo centrato l’obiettivo». È vero che la Sicilia ha quasi sempre penalizzato la sinistra, ma per sperare di agguantare il 10% su scala nazionale bisognava raggiungere almeno l’8 sull’isola, il che non è stato. «Non siamo riusciti a bucare, parte della nostra gente si è rifugiata nell’astensionismo — riconosce Fornaro — Questo è il punto dolente». L’eurodeputato Massimo Paolucci, dalemiano di ferro, ha passato la giornata a compulsare i dati e si sforza di leggerli in positivo. «A Palermo e a Messina siamo sopra l’8, a Ragusa lo sfioriamo, a Catania siamo al 6... ». E nelle province? «Lì i numeri sono meno buoni, ma abbiamo preso centomila voti. Un risultato straordinario». I dati dicono il contrario e per quanto Fava si sforzi di diffondere il «legittimo orgoglio» di aver superato lo sbarramento, i suoi non fanno che elencare le ragioni di un risultato modesto: dall’appello del Pd al voto utile, alla campagna troppo breve e senza soldi. Bersani si aspettava che dalla Sicilia «potesse ripartire un progetto serio di sinistra di governo, recuperando quella grande parte di elettorato che si è disamorata». E chissà se lo consola l’aver contribuito alla disfatta del Pd, accelerando una svolta che potrebbe coinvolgere la leadership di Renzi. Superata l’asticella del 5%, a Palazzo dei Normanni entreranno tre esponenti della sinistra. Per Arturo Scotto non è poco: «La nostra priorità era tornare dopo un decennio nell’assemblea regionale. Ora lavoreremo per radicare una forza della sinistra che attraversi il deserto».
La Stampa 7.11.17
Peppino Caldarola è stato direttore dell’Unità e deputato, ora dirige la rivista dalemiana Italianieuropei.
«Siamo tutti in mezzo al guado Non basta l’uscita di scena di Renzi»
intervista di Andrea Carugati
«La somma dei voti di Micari e Fava è dieci punti sotto il M5S: le due forze della sinistra sono fuori gioco, e a questo punto non basterebbe neppure rimettere insieme un’alleanza di necessità per le politiche. Serve un big bang, ripartire da zero e convincere gli elettori che inizia una storia nuova». Peppino Caldarola è stato direttore dell’Unità e deputato, ora dirige la rivista dalemiana Italianieuropei.
Quale sarebbe il big bang?
«Qualcuno crede che basti l’uscita di scena di Renzi, io no. Il Pd deve riconoscere di aver fatto scelte su scuola e lavoro che la società italiana ha rifiutato. E Mdp deve guardarsi dal diventare il circolo delle vedove del centrosinistra. Oggi il Pd non è Macron e Mdp non è Corbyn, siamo tutti in mezzo al guado, travolti dalle onde. Metterci insieme per sopravvivere accelererebbe la fine comune».
Che giudizio dà sulla performance di Mdp?
«È rassicurante, nel senso che non è una forza del 3% ma può ambire al 10%. Ma non ha ancora imparato che la ricetta per una nuova sinistra, come diceva Riccardo Lombardi, è fare a cazzotti col capitalismo. Riferirsi all’Ulivo non ha senso, quella stagione non ha prodotto una riforma profonda della struttura economica e sociale».
La leadership di Renzi è al tramonto?
«Il Pd non mi pare pronto al trauma del dopo-Renzi, anche perchè non vedo tra i suoi antagonisti la stessa combattività. Ma lui ha disperso la forza del suo messaggio, è partito movimentista e ora non muove niente, sopravvive grazie ai patti con i notabili locali».
Che futuro immagina per il centrosinistra?
«Bisogna ripartire da zero, come nel gioco dell’oca. Sicuramente si salterà un giro anche a livello nazionale. Il Pd come progetto è destinato a sparire, dalle sue ceneri nascerà qualcosa di nuovo. Renzi lo vedo come leader di una forza liberale di centro, ma non ha più chance di andare a palazzo Chigi. La soluzione non sarà una figura alla Delrio, un Renzi più educato. Rifondare la sinistra non sarà un pranzo di gala, ma una battaglia in campo aperto. Bisogna avere molta pazienza».
Chi vede come leader del futuro? Pietro Grasso?
«Grasso ha molte qualità, ma il futuro è dei capi politici, non degli speaker delle coalizioni. Penso a un outsider, un uomo di popolo e di movimento, che non abbia fatto parte dei vecchi gruppi dirigenti. Una figura come Maurizio Landini, uno che anche fisicamente stia dalla parte degli esclusi».
Corriere 7.11.17
Al Quirinale si studia l’ipotesi voto a maggio
di Marzio Breda
Sarà impossibile, per il Pd, mettere da parte il voto siciliano come si archivia una pratica fastidiosa. La sconfitta va così al di là delle previsioni da riaprire il confronto sui campi di forza interni al partito, sulle prossime alleanze e sul nome del candidato premier e, di conseguenza, sul timing per arrivare alle politiche del 2018. Ne discutono in tanti ormai, puntando a far aprire le urne a maggio anziché a marzo (il 4 o l’11), secondo la road map pianificata da Sergio Mattarella, che prevedeva lo scioglimento delle Camere subito dopo la sessione di Bilancio, cioè tra Natale e l’Epifania. Che cosa ne pensa il capo dello Stato? Diciamo che il suo atteggiamento è oggi «indifferente» per forza di cose, e domani sarà comunque condizionato dalle scelte della politica. Con l’obiettivo di non avallare nulla che possa essere traumatico, in un senso o nell’altro. Per capirci: posto che la legislatura si chiude a 5 anni da quando si è insediato — il 15 marzo 2013 — questo Parlamento, anche se nella storia repubblicana la prassi è sempre andata nel senso di anticipare di qualche settimana o mese il congedo delle Assemblee (e allora si parla di scioglimento tecnico), il presidente potrebbe concedere tempi supplementari tali da sfociare in un voto a maggio. Ma non certo per una strategia di traccheggiamento pre-elettorale, che rischierebbe di tradursi in una forzatura. E dunque a patto che il prolungamento gli venga chiesto dal premier o dal segretario del partito di maggioranza, i quali gli assicurino di voler completare provvedimenti che altrimenti decadrebbero. Come jus soli o testamento biologico. Insomma: nell’anno elettorale europeo, mentre a Bruxelles si attende di capire dove sfocerà il voto italiano, non sembra utile sorprendere tutti con incomprensibili dilazioni. Sarebbero prove di bizantinismo politico.
il manifesto 7.11.17
Gabanelli, le dimissioni e il virus dell’Agire Etico
Habemus Corpus. Le dimissioni in Italia sono cosa rara. Quelle della ex conduttrice di Report dalla Rai hanno in più, alcuni elementi che dovrebbero far vergognare chi sta attaccato alla poltrona pensando solo ai propri interessi di conservazione del posto
di Mariangela Mianiti
Le dimissioni in Italia sono cosa rara. Quelle di Milena Gabanelli dalla Rai hanno in più, alcuni elementi che dovrebbero far vergognare chi sta attaccato alla poltrona pensando solo ai propri interessi di conservazione del posto, del potere e dello stipendio. Già è scandaloso che un’azienda come la Rai, pagata con il canone da tutti gli italiani intestatari di un contratto di elettricità, abbia tenuto per più di un anno a bagnomaria una delle sue giornaliste di punta che fa vera informazione. Se poi si pensa al palinsesto Rai, al fatto che lì ci sono quasi 1600 giornalisti, a quali e quanti programmi di approfondimento e di inchiesta sono prodotti, non c’è mica bisogno di aver frequentato la London School of Economics per capire che paghiamo tanto per ottenere il minimo. Dopo aver lasciato Report un anno fa, Milena Gabanelli aveva presentato alla Rai piani e proposte di vario genere. Un imprenditore o editore degno di questo nome le avrebbe dato credito perché, anche considerando solo l’aspetto commerciale e del capitale, bisogna essere masochisti a non investire su chi è bravo, ha idee e produce risultati. E invece che fanno questi? Le propongono di tornare al punto di partenza, ovvero condurre Report, proprio la trasmissione da lei ideata nel 1997 e che ha lasciato per desiderio di costruire altro.
Chi conosce il difficile mestiere del giornalismo d’inchiesta sa che richiede tempo, esperienza, tenacia, bravura, intuito, a volte un po’ di fortuna e un ottimo lavoro di squadra. Dietro a Milena Gabanelli, infatti, la squadra c’era e c’è tant’è che, partita lei, la trasmissione continua condotta da Sigfrido Ranucci, coautore di Report dal 2006 e con un lungo curriculum di cronista e inchiestista. Oltre all’impossibilità di dare un contributo utile, una delle ragioni per cui Gabanelli ha preferito andarsene ha qualcosa di straordinario in questo Paese. Intervistata dal Corriere della Sera ha detto: «Per quel che riguarda la proposta di ritornare a Report in condirezione con Ranucci, oltre a precisare che è stata la sottoscritta a decidere che dopo 20 anni era venuto il momento di considerarla un’esperienza conclusa, la ritengo mortificante per il collega e l’intera squadra che sta portando avanti il programma in modo eccellente». Ha detto proprio così, mortificante. Non perdo tempo a disquisire sulla proposta della Rai perché si commenta da sola. Voglio invece dire qualcosa su ciò che c’è dietro le parole di Gabanelli.
C’è il riconoscimento per chi lavora e lo fa bene. C’è l’orgoglio di chi ha costruito qualcosa e lo ha lasciato in ottime mani. C’è il rispetto per chi ti ha sostituito. C’è l’allergia per mosse opportuniste. C’è il non ritenersi indispensabili. E poi c’è l’indisponibilità a rendersi complici di tiri mancini. Tutto ciò si chiama Agire Etico. Non è una merce e infatti non la si trova al mercato. È un modo di essere. È una scelta di vita, un metodo di lavoro, una qualità dei rapporti e delle relazioni. È un virus che viene inculcato dall’ambiente, dall’educazione e quando ti prende non c’è antidoto che lo debelli anzi, più lo si pratica e più si installa rendendo la persona allergica alle schifezze. Colpisce laici e non, quindi non ha religione. Purtoppo l’Agire Etico molti lo predicano e poi non lo praticano e quelli sono i peggiori. Dopo le dimissioni di Gabanelli, il direttore generale della Rai Mario Orfeo si è detto «Molto dispiaciuto, ma anche molto stupito». Ha poi aggiunto di aver cercato «Ogni soluzione per convincerla a restare», ma che le richieste da lei avanzate erano «Impraticabili». Eh già, mortificare era invece praticabilissimo.
il manifesto 7.11.17
Paradise Papers, Sanders e Corbyn all’attacco della «classe miliardaria»
di Roberto Ciccarelli
«Plaudo ai giornalisti che hanno scoperto questa truffa fiscale – afferma il senatore americano Bernie Sanders – Prima che il Congresso consideri la legislazione fiscale, deve indagare pienamente sui documenti «Paradise Papers» per assicurarsi che la classe miliardaria non possa più depositare i suoi contanti nelle Isole Cayman, Bermuda e in altri paradisi fiscali offshore».
«DOBBIAMO chiedere un sistema fiscale equo e progressista – continua l’ex sfidante socialista di Hillary Clinton alle primarie per la Casa Bianca – invece di concedere ulteriori agevolazioni fiscali a società redditizie come Apple e Nike e ai miliardari del gabinetto di Trump, che evitano miliardi di tasse americane trasferendo posti di lavoro e profitti americani verso paradisi fiscali offshore». Dopo il racconto dei dettagli sugli interessi in un’azienda che fa affari con una società russa controllata da membri della cerchia interna di Vladimir Putin, il segretario al commercio di Donald Trump, Wilbur Ross ha negato ogni responsabilità e sostenuto che i documenti non rivelavano nulla di improprio.
NEL REGNO UNITO sono roventi le polemiche dopo la pubblicazione della lista nera. Il leader dei laburisti britannici, Jeremy Corbyn, ha indirettamente invitato la regina Elisabetta a scusarsi per i fondi investiti nei paradisi fiscali caraibici. «Chiunque porti denaro nei paradisi fiscali per eludere le imposte dovrebbe fare due cose: non solo chiedere scusa, ma anche riconoscere ciò che sta facendo alla società» ha detto. «Se una persona molto ricca vuole eludere le imposte nel Regno Unito e mettere il denaro in un paradiso fiscale ci rimettono i nostri ospedali, le scuole e tutti i servizi pubblici». Una dichiarazione che un portavoce del Labour si è affrettato a minimizzare, spiegando che Corbyn «non ha chiesto alla regina di scusarsi» ed il suo era un discorso rivolto a «chiunque».
UNA REAZIONE DURA è arrivata anche da Bruxelles: il commissario europeo per gli Affari economici, Pierre Moscovici, ha parlato di «rivelazioni sconvolgenti» e ha chiesto l’adozione di nuove misure per contrastare il fenomeno. «Questo nuovo scandalo dimostra ancora una volta come alcune aziende e ricchi individui siano pronti a fare di tutto per non pagare le tasse» ha commentato.
MOSCOVICI ha fatto appello agli Stati membri ad adottare una lista nera europea dei paradisi fiscali e altre misure dissuasive.
il manifesto 7.11.17
Texas, strage in chiesa? «Più parrocchiani armati»
Stati uniti . Le reazioni dopo i 26 morti di Sutherland Springs. Trump: «Solo problemi mentali». Nessun movente religioso o razziale dietro al gesto dell’ex soldato, un fan del mitragliatore AR-15
di Marina Catucci
NEW YORK David Patrick Kelley, 26 anni, domenica mattina, armato di una mitraglietta semi automatica, la solita e famigerata AR-15, ha aperto il fuoco contro i fedeli in una chiesa battista a Sutherland Springs, In Texas. Prima di tentare la fuga e poi suicidarsi l’uomo è riuscito ad uccidere 26 persone e ferirne una ventina; le vittime hanno un’età compresa tra 5 e 72 anni, tra queste anche la figlia 14enne del pastore. Secondo il governatore dello Stato, Greg Abbott «è la peggiore strage nella storia del Texas».
IL KILLER È UN EX MILITARE che nel 2012 era comparso davanti al tribunale militare per violenza domestica nei confronti della moglie e del figlio, era stato condannato a un anno di carcere militare, degradato e nel 2014 congedato per cattiva condotta. A suo carico anche un’accusa per maltrattamenti sugli animali.
Kelley dopo aver commesso la strage ha provato a scappare, ma vedendosi braccato si sarebbe tolto la vita nel furgoncino pieno di munizioni e di armi. Abitava a 40 km dalla chiesa, a New Braunfels. Sembra che la famiglia della moglie frequentasse la chiesa e che questo abbia a che vedere con la strage. Il movente per gli investigatori «non è di natura religiosa o razziale. L’uomo aveva manifestato rabbia nei confronti della suocera, che riceveva sms di minacce». A quanto pare né lei né sua figlia erano presenti in chiesa domenica.
DALLE ANALISI DEI SOCIAL del killer, si evince una vera passione nei confronti delle armi, in special modo la famigerata AR-15 Bushmaster, l’arma utilizzata in quasi tutte gli eccidi di massa americani.
Ken Paxton, procuratore generale del Texas, in un’intervista a Fox News ha dichiarato che «la strage di fedeli nella chiesa di Sutherland Spring, dimostra che c’è bisogno di più parrocchiani armati che possano rispondere a tono a minacce simili. Non si possono tenere le armi lontane dalle mani di persone che intendono violare la legge. L’unica cosa che ferma un uomo cattivo con una pistola è un uomo buono con una pistola». Paxton ha concluso citando lo slogan della lobby delle armi, la National Rifle Association (Nra), e ricordato che dal mese scorso la legge texana permette alle chiese di proteggere le proprie parrocchie armando i parrocchiani, servendosi di sicurezza privata o poliziotti in pensione.
Molto diversa la reazione di tutti gli esponenti democratici, primo fra tutti Chris Murphy, senatore del Connecticut, lo Stato dove è avvenuta la strage di bambini di SandyHook, seguito dall’ex vice presidente Joe Biden e dal governatore di New York Andrew Cuomo, a capo del movimento dei governatori per il Gun Control.
IN UNO DEI SUOI RARI INTERVENTI politici, ha preso posizione, via Twitter, anche l’ex presidente Barack Obama, che durante i suoi due mandati era arrivato letteralmente alle lacrime nel chiedere al Congresso di mettere limiti alla libera vendita di armi e che dopo uno dei 18 mass shooting avvenuti durante la sua presidenza aveva affermato che le stragi di massa sono molto più un pericolo per l’America che non il terrorismo; Obama ha ribadito che è un problema di libera circolazione delle armi e ha chiesto di non farsi prendere dallo sconforto e continuare a lottare per il gun control.
NON LA PENSA COSÍ TRUMP, che dal Giappone, nel corso di una conferenza stampa congiunta con il premier giapponese Shinzo Abe, ha definito la strage un atto di malvagità e poi ha tenuto a specificare che non è un problema di armi ma di salute mentale. «Abbiamo molti problemi di salute mentale, così come li hanno altri Paesi», ha detto Trump.
Oggi gli Stati uniti vanno alle urne in molti stati per eleggere sindaci e governatori, con sulle spalle l’attentato terroristico di New York e la strage texana; gli occhi sono puntati sulla rielezione del socialista De Blasio e l’elezione dei governatori di Virginia e New Jersey. Per Phil Murphy in New Jersey è sceso in campo tutto l’apparato democratico, inclusi Obama e Biden che hanno fatto campagna per lui. E da oggi potrebbe ripartire la rinascita del partito dopo Trump.
Corriere 7.11.17
America
La stampa resta libera ma Trump ha reso la verità irrilevante
L’avvocato Abrams: le fake news limitano la capacità di giudizio della gente
di Massimo Gaggi
«È paradossale. I media esercitano la loro libertà con un vigore mai visto prima alla ricerca della verità dei fatti, eppure perdono peso e credibilità: nonostante le minacce, Donald Trump non ha varato leggi liberticide, ma con le sue continue campagne denigratorie a base di tweet rende la verità irrilevante».
Floyd Abrams sorride mestamente nella penombra pomeridiana del suo studio di Pine Street nella sede di Cahill, lo studio legale della quale è consigliere generale e per la quale lavora da 54 anni. Monumento vivente della difesa della libertà di stampa in America da quando, nel 1971, difese il New York Times per la pubblicazione dei Pentagon Papers sulla guerra in Vietnam, il celebre avvocato del Primo Emendamento della Costituzione, quello che in America garantisce un illimitato diritto al free speech , nella sua vita professionale ha visto di tutto. Ma non avrebbe mai immaginato che alla Casa Bianca potesse arrivare un presidente che istituzionalizza le fake news .
Cominciamo dalla libertà di stampa. Anni fa lei si disse preoccupato per l’atteggiamento di Obama che faceva ricorso con una certa frequenza all’Espionage Act, una legge del 1917, contro i giornalisti che raccolgono informazioni sensibili nel governo e le sue agenzie. Con Trump va ancora peggio o è solo rumore di fondo?
«Obama ha fatto cose sbagliate, ma nulla in confronto a Trump che minaccia di continuo la stampa. Minacce immediate, come quella di arrestare i giornalisti che esagerano, o di lungo termine, come quando ipotizza di togliere alla Nbc la licenza per le trasmissioni perché, secondo lui, dà informazioni non accurate. Intendiamoci: non può succedere. Dovrebbero cambiare le leggi, la giurisprudenza e il modo di operare della Fcc, l’authority di controllo. Nel lungo periodo, però, le cose potrebbero cambiare, se muteranno gli umori dei parlamentari e dell’opinione pubblica. Ma non ora. Tanto più che sul piano giudiziario i suoi furiosi tweet sono un autogol».
In che senso, scusi?
«Chiunque, nei media, dovesse subire un intervento liberticida del governo, potrebbe chiedere protezione alla magistratura sostenendo che il presidente è prevenuto e vuole punire la stampa. E probabilmente la spunterebbe: dovrebbe solo allegare i tweet nei quali Trump definisce le reti televisive Usa “nemici del popolo” o sostiene che bisogna obbligarle a dire la verità. Dal punto di vista strettamente legale quei messaggi diffusi sui social network sono un vero boomerang. Vale anche per le esternazioni del presidente in altri campi come il terrorismo. Non mi stupirei se la condanna che verrà inflitta all’attentatore della pista ciclabile del Lower West Side fosse impugnata con successo dai suoi difensori sostenendo che il presidente, che ha invocato la pena di morte, ha esercitato pressioni indebite condizionando l’indipendenza del suo ministero della Giustizia: una lesione del diritto di ogni imputato a un giusto processo».
Allora cosa teme?
«Per ora sul piano giuridico la libertà di stampa è pienamente garantita e in questo anno è stata esercitata con straordinaria energia. Ma la continua campagna denigratoria del presidente nei confronti dei media ha un micidiale effetto cumulativo su una vasta parte dell’opinione pubblica; o, almeno, su quella minoranza significativa che crede in lui, ormai convinta che la stampa non va creduta per definizione. Non solo aizza i cittadini contro i giornalisti, ma diffonde indifferenza per la nozione di verità. Una manovra tutta extralegale».
Il polverone delle fake news non ha, quindi, rilevanza giuridica.
«Non ha un impatto diretto sulla libertà di chi fa informazione, ma avvelena e alimenta il cinismo dell’opinione pubblica. Riduce il ruolo dei media. E poi tenta anche di ridurre il diritto e la capacità della gente di farsi le sue idee, come con l’attacco ai giocatori di football che si inginocchiano quando viene intonato l’inno».
Un attacco al free speech? È per questo che ha appena pubblicato un nuovo libro, «The Soul of the First Amendment», a difesa di questo baluardo della Costituzione?
«L’ho pubblicato da poco, ma l’ho scritto tra 2015 e 2016, pensando ad altre minacce contro la libertà d’espressione. Quando Trump attacca con violenza o il suo vice Pence se ne va per protesta da uno stadio dove i giocatori si inginocchiano, c’è un tentativo di limitare la capacità di giudizio della gente. Ma va ricordato che gli atleti non sono protetti dal Primo Emendamento: una norma che si applica solo agli abusi di potere dei governi. Mentre i privati possono limitare la libertà d’espressione all’interno delle loro organizzazioni. La Costituzione può essere invocata solo se il vertice politico esercita pressioni indebite per limitare la libertà: proprio quello che stanno facendo Trump e Pence».
Solo responsabilità di Trump per il caos comunicativo? E le reti sociali megafono di falsi, onnipotenti e non regolamentate, a differenza degli altri media?
«La bilancia del potere nei media è cambiata radicalmente. Facebook, Google e Twitter non sono attori statali, quindi non sono soggetti al Primo Emendamento: se vogliono, possono controllare i loro flussi informativi. Molti ormai si informano solo su Facebook che ha un potere sterminato. Mi aspetto che prima o poi sia regolato. Ma non è facile».
Ci sono reti che cancellano gli account di soggetti russi che seminano fake news per gettare l’America nel caos. Ma li puniscono perché hanno dato false identità, non per il contenuto di questi messaggi. Corretto?
«Le società di Internet devono decidere cosa pubblicare e cosa censurare? Io credo di no, se non ci sono violazioni di norme fondamentali».
Libertario fino in fondo, lei lo è anche nel chiedere che Assange e Snowden non vengano puniti. Ne è ancora convinto davanti a Wikileaks usata dal Cremlino? Lei è un liberal che rischia di essere odiato dai liberal.
«Sì, lo credo ancora. Non mi piace ciò che hanno fatto, ma punirli creerebbe un vulnus della libertà: un grave precedente. Mi odieranno, lo so. Mi odiano già per il mio appoggio a Citizens United (la sentenza che ha consentito ai gruppi economici di fare campagne politiche senza limiti, ndr): mi rassegnerò anche a questo» .
Il Fatto 7.11.17
Libertà o sopravvivenza
Amalia Signorelli aveva ragione: siamo chiusi in una gabbia
Mi sono commossa leggendo l’articolo di Caporale che non aveva i soliti caratteri del necrologio, ma parlava di Amalia come una figura viva, ironica, coraggiosa che solo per una “questione di cuore” ci ha dovuto lasciare.
Così sono andata subito a rileggermi la sua ultima rubrica su Millennium, che ho sempre apprezzato, ma questa volta di più. Si apre con un’analisi dell’antropologa sul narcisismo maschile, all’origine di conflittualità intollerabili, mai abbastanza sondata. Poi individua il tramonto dei partiti insieme a buona parte della cultura di massa, per lasciar spazio a piccoli gruppi uniti da interessi specifici, un fenomeno non solo italiano, ma assai negativo.
Come si affrontano poi i problemi e i rischi che minacciano il Pianeta?
La conclusione dell’antropologa intravede per il futuro la drastica alternativa: sopravvivenza o libertà.
A me sembra che il futuro intravisto da Amalia Signorelli, per chi vuol vedere, lo incontriamo da ora con il restringersi di spazi importanti di libertà, vuoi per il terrorismo, vuoi per i diversi assetti geopolitici, vuoi per il crescere di diseguaglianze, vuoi perché il troppo è troppo di tutto…
Vabbè Amalia, continua a illuminarci da dove sei, se sei, se puoi!
Alessandra Savini
Cara Alessandra, il nuovo numero di Millennium, uscito sabato in edicola e che penso avrà fra le mani, indaga sul mondo senza braccia. Sul tempo che presto verrà dove gli umani avranno un sostituto funzionale nella macchina nel robot, nell’artificio di una mente costruita in laboratorio. E questo futuro, benché illustrato fin nei dettagli, ci procurerà altre crisi di panico, altri spaventi. Amalia Signorelli ha sempre raccontato la realtà attraverso l’uomo e la sua postura ed era più facile per lei scoprirne il disagio, giungere al dettaglio della crisi sociale. Oggi il continente più grande al mondo è quello di Facebook col suo miliardo e seicento milioni di abitanti.
Siamo tutti rinchiusi in questo recinto. Se ci pensa, Alessandra, siamo perseguitati dalla necessità di condividere con altri ogni istante della giornata in una solitudine che si fa però angosciante.
Una società senza coesione ma con l’assillo della condivisione. Nell’artificio del virtuale, che pure rende grandi vantaggi alla nostra esistenza, siamo così tanto immersi da smarrire l’uscita, una minima via di fuga.
Antonello Caporale
La Stampa 7.11.17
Quando i fanatici eravamo noi
Nella sanguinosa storia delle crociate, le vicende di quattro sfortunatissimi marchesi del Monferrato nel XII secolo tra Gerusalemme e Costantinopoli
di Alessandro Barbero
Quando cerchiamo di capire quelli che partivano per le crociate, dobbiamo accettare la contraddizione tra le motivazioni ideali che li animavano e la violenza e l’avidità del loro comportamento. Per molto tempo i nostri antenati hanno creduto che fosse giusto uccidere e morire per strappare ai nemici di Dio i luoghi della Passione; e che non ci fosse niente di male se chi rischiava il martirio combattendo gli infedeli trovava la sua ricompensa già su questa terra.
I crociati che nel 1099 conquistano Gerusalemme sono partiti per offrire a Dio le loro sofferenze. Sono arrivati fin laggiù, e ci sono arrivati a piedi. Hanno cavalcato nelle strade della città e nell’atrio della moschea con il sangue che arrivava alle ginocchia dei cavalli, e guardandosi indietro scoprono di avere occupato un vasto paese, che si estende dalla Turchia fino all’Egitto. Nemmeno per un attimo pensano di tornare a casa: hanno conquistato un nuovo regno per la fede di Cristo e rimarranno lì a governarlo.
Ma scoprono subito che non sarà facile. Nel mondo musulmano l’invasione degli infedeli provoca un’ondata di indignazione: a Baghdad come a Damasco la folla scende in piazza invocando il jihad. Il regno crociato è in pericolo e occorre difenderlo: perciò dall’Europa debbono partire nuove spedizioni. Molte generazioni di cristiani vivranno sapendo che lontano, al di là del mare, c’è un paese tenuto dai nostri e minacciato dal nemico, e che tutti sono moralmente impegnati a difenderlo. C’è chi lascia dei soldi per testamento; e c’è qualcuno che parte. Chi non ne può più della sua vita e sogna l’avventura può lasciare tutto e imbarcarsi, sapendo che laggiù potrà costruirsi una nuova vita. L’Oltremare, come lo chiamano loro, è il Far West dei nostri antenati medievali.
Il fascino della Terrasanta
Fra quelli a cui la vita in Europa comincia a star stretta ci sono anche dei principi. È l’epoca in cui un nuovo protagonista, il comune cittadino, si afferma in Italia. Le città crescono, si riempiono di immigrati e di cantieri, accumulano soldi, si armano, si fanno la guerra, sottomettono le campagne. E i conti e marchesi che fino allora comandavano il paese, prestando all’imperatore un omaggio poco più che simbolico, si trovano sulla difensiva. I vassalli li abbandonano, i contadini scappano per andare a vivere in città, i castelli non reggono quando una città decide di attaccarli. È allora che l’orizzonte della Terrasanta rivela tutto il suo fascino. C’è una famiglia di principi italiani che all’indomani della sconfitta del Barbarossa a Legnano, quando ormai è chiaro che le città hanno vinto, gioca tutto il suo futuro sulla capacità di cogliere le occasioni che balenano in Oriente.
Sono i marchesi di Monferrato, i quattro biondi figli del marchese Guglielmo il Vecchio e della sua moglie tedesca. Ognuno di loro aspira a diventare re o imperatore, e sa che le crociate possono offrirgli l’occasione. Sono quattro fratelli straordinariamente ambiziosi - e sfortunati. Il maggiore, Guglielmo detto Lungaspada, sbarca in Terrasanta nel 1177 per sposare Sibilla, la sorella del re lebbroso, erede al trono di Gerusalemme. In prospettiva sarà lui il re. Ma si ammala subito, e tre mesi dopo muore. Il secondo fratello, Ranieri, parte anche lui per l’Oriente, ma con un’altra meta: la più grande città del mondo cristiano, Costantinopoli. Anche lì c’è una principessa da sposare, Maria, figlia del basiléus; non erediterà il trono, perché ha un fratellino, ma suo marito avrà comunque un ruolo importante nella reggenza, e chissà cosa potrà accadere in futuro. Poco dopo il matrimonio il vecchio imperatore muore, scoppia la guerra civile, e Ranieri combatte dalla parte del cognato; ma la partita è persa, sale al trono un candidato ostile, e poco dopo, nel 1183, Ranieri e sua moglie muoiono avvelenati.
Il sultano gentiluomo
Ma intanto è già arrivato a Costantinopoli il terzo fratello, Corrado; un’ennesima guerra civile porta al trono un candidato amico, Corrado ne sposa la sorella, e poi, all’improvviso, lascia tutto e parte per Gerusalemme, perché in Terrasanta la famiglia è di nuovo in piena avventura. Guglielmo Lungaspada morendo ha lasciato Sibilla incinta; il bambino che nasce, Baldovino, sarà re di Gerusalemme, e il nonno Guglielmo accorre a tutelare i suoi interessi. Ma il bambino muore, Saladino invade il regno, il vecchio marchese è catturato. Corrado sbarca nell’unico porto ancora in mano ai cristiani, Tiro, accolto come un salvatore; difende la città dal Saladino, e quando il sultano minaccia di decapitare il vecchio padre se la città non si arrende, Corrado dà una di quelle risposte che poi saranno raccontate con entusiasmo in tutti i mercati d’Europa: mio padre, dice, ha già vissuto abbastanza a lungo. Il Saladino, vedendo che con questi fanatici è impossibile discutere, lascia perdere e siccome è un gentiluomo libera lo stesso il vecchio. Fatta la pace, nel 1192 Corrado è eletto dai baroni re di Gerusalemme: ma prima dell’incoronazione è pugnalato per strada da misteriosi assassini.
Resta un fratello, Bonifacio, e al suo posto molti sarebbero rimasti a casa; ma nel loro sangue evidentemente c’era qualcosa che ribolliva. Nel 1202 Bonifacio accetta di comandare la quarta crociata, quella che anziché andare a Gerusalemme finirà col conquistare Costantinopoli, sottoponendola al saccheggio più spaventoso della sua storia. Bonifacio fallirà nella campagna elettorale per essere nominato dai crociati imperatore d’Oriente, ma strapperà il premio di consolazione, sarà re di Tessalonica: l’unico dei quattro fratelli che ha realizzato il sogno di diventare re. È vero che muore presto anche lui, ucciso in battaglia contro i bulgari; e che suo figlio Guglielmo si fa rimproverare dai trovatori, perché anziché partire a rivendicare il suo trono se ne sta tranquillo in Monferrato. Ma visti i precedenti, è difficile dargli torto.
La Stampa 7.11.17
Le 5 regole della creatività in un mondo determinato
Il neuroscienziato Beau Lotto spiega come il cervello elabora i segnali in arrivo dai sensi in modo da ampliare i nostri orizzonti
di Piero Bianucci
Vediamo il mondo a colori ma non ci sono colori nel mondo. Afferriamo significati in segni neri sulle pagine di un libro, ma i significati non sono in quei segni. Ci fermiamo davanti a un semaforo rosso ma di per sé quella luce non è rossa e quel rosso non significa nulla fuori dal contesto stradale. Come avviene che le percezioni si trasformino in messaggi?
Beau Lotto, neuroscienziato all’University College di Londra, risponde a questa domanda con un libro strano: da leggere, certo, ma anche da guardare, perché nella grafica, nell’alternarsi di caratteri grandi e piccoli, neri e chiari, allineati o messi di traverso come in certe poesie futuriste, offre ai lettori piccoli esperimenti per far capire come il nostro cervello elabora i segnali in arrivo dai sensi, e in particolare dalla vista: Percezioni (Bollati Boringhieri, 327 pagine, 25 euro, traduzione di Giuliana Olivero) racconta «come il cervello costruisce il mondo».
Non è la posizione del filosofo empirista George Berkeley (1685-1753), «essere significa essere percepito», che, se portata alle estreme conseguenze, nega l’esistenza del reale. Lotto sa bene che il reale esiste in sé e non solo nel nostro cervello, ma ciò che gli interessa è il meccanismo con cui il cervello rappresenta il reale. Questo meccanismo è frutto di milioni di anni di evoluzione biologica. Le esperienze di innumerevoli generazioni passate hanno inciso nel nostro patrimonio genetico un vasto repertorio di interpretazioni percettive che si sono rivelate vantaggiose per la sopravvivenza. «Guardiamo – dice Lotto – attraverso milioni di anni di storia». Ecco perché solo una piccola parte dei dati sensoriali viene elaborata: quella che l’esperienza evolutiva ha ritenuto utile; perché il senso della vista lavora per contrasti: la stessa tonalità di grigio ci sembrerà chiara su uno sfondo scuro e più scura su uno sfondo chiaro; perché reagiamo a uno stimolo prima di esserne consapevoli, come hanno dimostrato gli esperimenti di Benjamin Libet mettendo in discussione l’esistenza del libero arbitrio. Insomma, nel costruire il senso del mondo siamo schiavi dell’evoluzione e il contesto è tutto.
Ma allora, se siamo schiavi del passato, come si può essere creativi? La soluzione è «cambiare il passato del nostro futuro». Sembra una frase delirante. Ma la creatività è una specie di delirio. Per delirare occorre recuperare il valore del dubbio: le soluzioni vantaggiose che l’evoluzione biologica ha fissato nei meccanismi percettivi per assicurarci la sopravvivenza non aiutano ad affrontare l’incertezza; affrontarla implica la liberazione dalle certezze cristallizzate, ed è appunto ciò che Lotto intende quando afferma che la creatività consiste nel «cambiare il passato del nostro futuro». Restare (è inevitabile) nel recinto delle conquiste evolutive, ma anche saperne uscire.
La sua ricetta dell’atto creativo si articola in cinque punti: 1) «celebrare l’incertezza», cioè vederne gli aspetti positivi; 2) aprirsi alla possibilità, cioè «incoraggiare la diversità in seno all’esperienza»; 3) cooperare per arricchire la diversità delle esperienze; 4) non cercare motivazioni esterne, «lasciare che il processo della creatività costituisca di per sé una gratificazione; 5) agire in modo intenzionale, «impegnarsi con volontà» in vista di un obiettivo. Attenzione, però, a non cadere nei tranelli dell’utilitarismo. La scienza – la conoscenza – funziona se è gratuita, se è un gioco fatto per il piacere di giocare: «la ricompensa sta tutta nel processo».
Beau Lotto non lo fa, ma è interessante mettere in rapporto il punto di vista sulle nostre percezioni del neuroscienziato con il lavoro che stanno facendo i ricercatori nel campo dell’intelligenza artificiale oggi applicata in tanti software di uso quotidiano, dai motori di ricerca come Google agli algoritmi che fanno diagnosi mediche, traducono da una lingua all’altra, scrivono articoli di finanza o battono i campioni mondiali di scacchi (e ci vuol poco) ma anche di go (dove le combinazioni possibili sono 10 alla 750!). Questa intelligenza artificiale (nulla a che vedere con la fantascienza dei robot che si ribellano all’uomo) si sta sviluppando grazie ad algoritmi che imparano dai propri errori (deep learning). È un ambito in formidabile crescita che mima il cervello umano. A cominciare dal riconoscimento delle immagini. Mostrandogli un albero, un animale, un volto, l’ultimo cellulare Huawei vi dirà il loro nome. L’incrocio di neuroscienze e computer science sta svelando il meccanismo ancora segreto delle percezioni, e Lotto dovrà scrivere un altro libro.
Corriere 7.11.17
Strage in chiesa perché odiava la suocera
Texas, il killer ha scritto un messaggio di minacce. Poi è entrato nel tempio battista e ha trucidato 14 bambini
Guido Olimpio
Devin Patrick Kelley ha ucciso 26 persone perché era infuriato con la suocera Michelle Shields. Questo il possibile movente — non definitivo — per la strage nella chiesa battista di Sutherland Springs, in Texas. L’ex aviere ha trucidato 14 bambini, uno di soli 18 mesi, ed alcuni adulti, compresa la madre della donna. Per compiere il massacro che ha decimato la piccola comunità ha imitato altri sparatori di massa: ha indossato un giubbotto antiproiettile e una maschera con il teschio, ha impugnato la copia di un fucile d’assalto, si è portato dietro due pistole, una Glock calibro 9 e una Ruger 22. Voleva essere pronto per un possibile scontro con gli agenti.
L’incursione nella piccola località è iniziato a metà mattinata quando il killer ha lasciato la sua auto nei pressi della chiesa, quindi è sceso aprendo il fuoco, per continuare all’interno dove ha sorpreso i fedeli. Il tiro rapido ha falciato minori, un anziano di 77 anni e una mamma incinta insieme ai suoi tre figlioletti. Dieci feriti restano in gravi condizioni. Una carneficina che la polizia ha potuto rivedere grazie a un video registrato da una telecamera di sicurezza.
Finita la sua «missione» assassina, Kelley è tornato alla sua vettura dove è stato affrontato da un uomo che abita nella vicinanze, Stephen Willeford. Quando ha sentito gli spari ha impugnato il suo fucile ed è riuscito a centrare l’omicida in un punto non coperto dal giubbotto antiproiettile. Pur ferito l’assalitore è riuscito ad avviare l’auto e a scappare. Willeford, insieme ad un’altra persona, ha iniziato l’inseguimento.
Momenti concitati durante i quali l’assassino ha trovato il tempo di telefonare al padre per dirgli che era stato ferito: «Non credo di farcela». La sua fuga si è conclusa abbastanza presto: ha perso il controllo del mezzo e si è schiantato in un canale. A questo punto — secondo la versione ufficiale — si sarebbe tolto la vita. Anche questo uno scenario già visto, come altri aspetti di questa tragedia americana.
Kelley era chiaramente un «disturbato». Arruolatosi nell’Us Air Force nel 2010 era stato congedato con disonore due anni dopo: i superiori lo avevano spedito davanti alla Corte marziale perché accusato di aggressione contro moglie e figlia. Procedimento accompagnato da 12 mesi in stato di fermo.
Inoltre, aveva avuto una denuncia per crudeltà contro gli animali e chi lo ha conosciuto lo ha descritto come una figura con seri problemi mentali, pieno di risentimento verso la suocera e il prossimo. Avrebbero dovuto controllarlo e invece è diventato una bomba a tempo esplosa domenica. Lo stragista ha prima mandato un messaggino di minacce contro Michelle Shields, un avvertimento seguito dall’assalto.
Il passato turbolento non ha ostacolato in apparenza i suoi piani. Le autorità vogliono capire come sia riuscito a costituire il suo piccolo arsenale. Quando è andato a comprare il fucile, nel 2016, ha scritto nel modulo di non avere precedenti e il venditore lo ha preso sulla parola. Nessuno ha eseguito verifiche adeguate. Successivamente è emerso che ha chiesto il permesso di portare armi, ma gli è stato negato e questo nonostante svolgesse un lavoro part time di guardia giurata.
Dettagli che dovrebbero far riflettere e spingere il Congresso e la Casa Bianca a reagire. Invece la reazione è consueta: parole, preghiere e tutto resta come prima.
Corriere 7.11.17
L’altra verità su Spartaco
Giovanni Brizzi propone un‘interpretazione originale del sanguinoso conflittoin un saggio edito dal Mulino. Numerosi indizi suggeriscono che l’autentica posta in gioco fossero i diritti delle popolazioni che reclamavano la cittadinanza
di Paolo Mieli
Non guidò masse di schiavi fuggiaschi
ma gli italici in rivolta contro roma
È giunto il momento di aprire il dossier dell’«altra Italia», quella del mondo appenninico e meridionale che fino all’inizio del I secolo a.C. prese più volte le armi contro Roma. E lo fece in conflitti che, pur assai diversi tra loro, ebbero, però, in questa costante ostilità uno speciale filo conduttore. Un filo conduttore già intravisto in passato, ma che è oggetto adesso di un interessantissimo e approfondito studio di Giovanni Brizzi, Ribelli contro Roma. Gli schiavi, Spartaco, l’altra Italia , edito dal Mulino. Prima Annibale, poi Silla che cercò di reclutare gli Italici alla sua causa, infine Spartaco, tutti provarono a far leva sull’«altra Italia». E in più occasioni quest’«altra Italia» fu sul punto di travolgere la città più importante dell’epoca.
La storia ricostruita da Brizzi ha inizio con la Seconda guerra punica (218-202 a.C.) che, secondo lo studioso, avviò una serie di processi «gravidi di conseguenze funeste». E, se si può dire che le spese sostenute dall’erario della Repubblica erano state molto, molto grandi, si può altresì documentare che «le distruzioni e i danni, anche permanenti subiti dalla penisola durante i quindici anni di presenza cartaginese» erano stati «spaventosi». Le città prese da Annibale (e successivamente riconquistate dai Romani) furono ben 400. Molte di queste 400 città furono distrutte e date alle fiamme, le altre «ripetutamente espugnate e messe a sacco dalle parti in lotta». Con danni specifici per l’Italia del Sud: «I campi del Meridione furono per anni sistematicamente devastati e brutalmente sfruttati dagli opposti eserciti, intere popolazioni conobbero la deportazione in massa». Ciò che produsse la fuga dei contadini dalle loro terre (la Lucania e l’Apulia rimasero quasi deserte) e, assieme ad essa, la crisi irreversibile della piccola proprietà, progressivamente assorbita nel latifondo.
Il latifondo, d’altra parte, poté svilupparsi esclusivamente in virtù dell’utilizzo di schiavi, un grande utilizzo di schiavi. Di tale sfruttamento della manodopera servile si occuparono due autori greci, Strabone e Diodoro Siculo, contemporanei di Augusto, che avevano entrambi ampiamente attinto da Posidonio di Apamea, lo storico vissuto centocinquant’anni prima di loro. Il ricorso agli schiavi era già stato praticato in Sicilia in tempi precedenti. Ma, a seguito della sconfitta di Cartagine nella Seconda guerra punica (202 a.C.), i Siciliani godettero per sessant’anni di una immensa prosperità e tutti quelli che avevano estensioni di terra acquistavano, per poterle coltivare, enormi quantità di nuovi servitori. In quali condizioni vivevano questi schiavi? Alcuni «erano tenuti in catene, altri erano gravati di lavori pesanti e in modo infame venivano tutti marchiati a fuoco», riferisce Diodoro; la Sicilia intera — dove la schiavitù introdotta prima dai Punici e poi dai Greci era praticata da almeno tre secoli — fu all’epoca «gremita da una massa di schiavi» in una misura che ancora adesso appare davvero «incredibile». I padroni di questi schiavi si distinguevano per «arroganza, avidità e crudeltà». Ma le prime sommosse, in realtà, non si ebbero in Sicilia, bensì a Sezia e a Preneste nel 198 a.C. e poi ancora in Etruria due anni dopo. Si trattava di schiavi provenienti dalle «città fedifraghe», quelle cioè che nel corso della guerra avevano parteggiato per Annibale. In queste aree geografiche si erano diffuse — in particolare nelle grandi fattorie dell’Apulia ma non solo — società segrete dedite ai culti misterici di Dioniso e di Proserpina. Culti di cui Catone il Censore, intuendone la carica ideologica, chiese fin dagli inizi una decisa repressione. Secondo Appiano, il tribuno Tiberio Gracco si allarmò per quello che stava accadendo in Sicilia a causa della concentrazione di grandi masse servili e fu il primo a predicare — anche sulla base di acute considerazioni in merito alle possibili conseguenze di questa proliferazione della schiavitù — il ritorno alla piccola proprietà coltivata da liberi contadini. La rivolta siciliana scoppiò nell’autunno del 135 a.C. e fu domata solo nel 132 a.C. dal console Publio Rupilio. Ideologo di questa grande sommossa fu il carismatico siriaco Euno, che assunse il nome di Antioco. Euno, racconta Brizzi, si propose — come poi avrebbe fatto Spartaco — quale «vate di una realtà migliore», puntando a trasformare gli schiavi in combattenti. Come poi Spartaco, che vietò di introdurre oro e argento negli accampamenti, Euno «impose una spartizione rigorosamente equa della preda e, sembra, non permise se non in due circostanze soltanto che i prigionieri romani fossero costretti a battersi come i gladiatori». Inoltre bandì il saccheggio e incoraggiò «il rispetto di una proprietà che ebbe a soffrire piuttosto — a quanto riferisce Diodoro — dal rancore di quel libero proletariato che si era unito alla rivolta».
Trent’anni dopo, nel 105 a.C., esplose una seconda insurrezione che fu sconfitta solo quattro anni dopo, nel 101 a.C., dal console Manio Aquilio. E Spartaco? Brizzi è convinto che la sua sia tutta un’altra storia e che sia riduttivo considerarlo esclusivamente il capo di una rivolta servile. È chiaro, scrive, «che tra i suoi seguaci vi furono anche schiavi; ma le energie più consistenti e autentiche che alimentarono quella rivolta furono forse altre». Le «vere» rivolte degli schiavi, quelle siciliane, avevano costituito, secondo lo storico, «una sorta di drammatico preludio rispetto alla nuova, interminabile sequenza di lotte intestine che per venti lunghissimi anni bruciarono come in una fornace la gioventù italica e insieme quella romana, opposte su tutti i campi di battaglia della penisola». Seguirono altri anni di guerra civile e l’«avventura di Spartaco» si inserisce con caratteristiche peculiari in questo interminabile conflitto. Conflitto che si produsse — ed è qualcosa da tenere bene a mente — lungo una linea fissata con efficacia da Santo Mazzarino: all’epoca «solo la parte a destra degli Appennini si può chiamare propriamente Italia; quanto all’altro versante, quello che digrada verso lo Ionio, ora anche questo è chiamato Italia, ma sono Greci coloro che abitano lungo la costa ionica; e il resto l’occupano i Celti». Due Italie diverse, insomma. Tant’è che gli scontri avrebbero avuto termine solo con la piena unificazione della penisola ad opera di Augusto.
Tornando a Spartaco, Brizzi dubita, tra l’altro, che fossero davvero tutti schiavi i seimila uomini crocefissi lungo la via Appia allorché la rivolta fu domata. Ricorda che «al termine del primo conflitto combattuto in Sicilia, a conclusione di quella che potremmo definire forse la più autentica tra le guerre servili, gli schiavi non vennero uccisi, bensì restituiti ai loro padroni, nel rispetto di una proprietà nei confronti della quale i Romani mostrarono allora massima considerazione». Con Spartaco le cose andarono in modo diverso. Molto diverso. E questa differenza, secondo Brizzi, «potrebbe essere stata motivata non dal differente momento storico, ma dalla diversa natura del nemico, così almeno come veniva percepita». Nel 71 a.C. è probabile che la caratteristica attribuita ai seimila seguaci di Spartaco crocefissi fosse quella («imperdonabile per i Romani») di «ribelli a oltranza». E forse «si volle dare un definitivo, atroce esempio a chiunque intendesse ripercorrere la strada di quanti, neppur dopo Silla, si erano lasciati piegare dalle recenti tragiche disfatte».
Racconta Appiano che, in procinto di misurarsi ancora una volta con Roma, Mitridate ritenne di poter contare sugli Italici poiché sapeva che «recentemente quasi tutta l’Italia per odio si era ribellata ai Romani e a lungo aveva fatto loro guerra, e contro di loro si era unita al gladiatore Spartaco». Se questo è vero, si domanda Brizzi, «da che cosa gli ex alleati poterono essere indotti, pur dopo la concessione della cittadinanza, a una nuova, sanguinosa rivolta, a capo della quale finirono addirittura per accettare un gladiatore trace?». Certo, concede l’autore, «lo strazio della guerra civile e le proscrizioni, gli espropri sillani e la miseria nata dal conflitto: fattori, questi, che, certo, contarono tutti». Ma la risposta più autentica alla domanda posta poc’anzi «può forse essere cercata in una significativa anomalia». Quale? Il tentativo compiuto dai censori eletti per l’anno 89 di contare tutti i cittadini, compresi quelli più recenti, era andato incontro al fallimento più completo; e un censimento regolare si era tenuto successivamente solo nell’86-85 a.C. In questa seconda circostanza però — malgrado il dato ancora una volta inequivocabile dello stesso Appiano secondo il quale «i nuovi cittadini superavano largamente per numero i vecchi» — rispetto ai 395 mila circa censiti alla fine del secolo precedente, ne erano stati computati 463 mila, «con un incremento assolutamente irrisorio di 68 mila soltanto». Pochi, troppo pochi furono quelli che avevano effettivamente ottenuto la cittadinanza. Cosa che non poteva non destare il malcontento degli Italici.
Spartaco ebbe l’astuzia di farsi interprete di questo malcontento. Forse in un primo momento si calò nei panni di un «comandante vittorioso venuto dall’Oriente», di cui qualcuno proprio in quel momento storico aveva vaticinato l’avvento. Ma quella del «comandante» che prima o poi sarebbe entrato a Roma accolto come un trionfatore fu un’illusione di breve durata. Escluso dal mondo delle città, sostiene Brizzi, Spartaco «tornò, sia pure con speranze sempre più fievoli, a cercare nuovi alimenti alla lotta in quella seconda Italia che per secoli aveva combattuto contro Roma; e che prima durante la guerra sociale, poi durante la guerra civile sillana, era stata sconfitta senza però essere stata ancora completamente domata». Ed è forse «per esorcizzare questa immagine, e soprattutto per dimenticare che una parte cospicua dell’Italia di allora aveva seguito un gladiatore trace contro la res publica , che — con l’eccezione di Sallustio (e, parzialmente, di Appiano…) — quasi tutta la storiografia romana sembra aver deformato la figura di Spartaco in una maschera, che sovrapponeva alla sua identità reale l’immagine dello schiavo fuggiasco». E, allo scopo di infangarlo, del «gladiatore partecipe della peggior condizione umana» (Floro), della «belva insensatamente scatenata contro lo Stato egemone».
Così un esercito fatto di genti che provenivano dalle aree montuose del Meridione d’Italia fu identificato con la figura di quel capo di una «rivolta servile», un personaggio che non avrebbe potuto nutrire altra aspirazione che quella, «nobile ma limitata», alla libertà individuale o, al più, sognare, sottolinea Brizzi «un ritorno a una patria che egli, invece, rinunciò fino dall’inizio a perseguire». Ma in realtà Spartaco non fu niente di tutto questo. Fu piuttosto il ribelle con la cui morte si chiuse di fatto una ferita aperta da secoli. Nell’arco di diciotto anni appena l’Italia aveva conosciuto ben tre feroci guerre intestine («poiché di questo, in realtà, si era trattato», scrive Brizzi, «anche nell’ultimo caso»); guerre che, «se alquanto diversi erano stati gli spunti iniziali», avevano però invariabilmente attinto le principali energie «da un ben preciso serbatoio di instabilità». A chiudere la partita fu la decisione romana — guarda caso proprio dopo aver sconfitto Spartaco e aver esposto lungo la via Appia i corpi degli ultimi seimila ribelli crocefissi — di concedere finalmente agli Italici quello che anche Silla aveva tentato di garantir loro: la piena fruizione della cittadinanza. «Non può essere una coincidenza», fa notare Brizzi, «che, contro i 463 mila dell’atto precedente, il nuovo censimento del 70-69, il primo dopo la morte di Spartaco, registri nelle liste ben 910 mila cittadini, ai quali vanno aggiunti probabilmente i 70 mila uomini sotto le armi oltremare». Quasi un milione di persone. Ecco chi fu davvero Spartaco secondo Brizzi: «l’ultimo condottiero di un’Italia disperata e furibonda, da secoli in lotta con Roma che, pur nella morte, l’aveva, in fondo, portata alla vittoria». Dopo di lui altri cercarono di pescare almeno in parte dal fondo dello stesso barile: Catilina è uno di questi. O Lepido, il «console sovversivo» che si appoggiò ad alcuni capi «mariani» dispersi, altri «banditi», gli ultimi «Etruschi ribelli». Forze alle quali «aveva forse pensato già Spartaco nella sua infruttuosa puntata verso nord, venendone però rifiutato». Ma ormai la spinta si era esaurita, tant’è che l’autore considera Spartaco e non Lepido «l’ultimo vero conduttore della seconda Italia». Quanto a Roma, «ripensando a questi eventi nella sua più tradizionale storiografia, preferì dimenticare e rimuovere; come del resto già aveva fatto nei confronti degli infelici Sanniti, quando l’annalistica di età sillana aveva cancellato “ufficialmente” la sconfitta subita dalla stessa Roma nella prima guerra contro di loro, giungendo a stravolgere la cronologia degli eventi». Pratiche non inusuali in una storiografia avvezza a riscrivere il passato in funzione del presente.
Corriere 7.11.17
Fondazione Mondadori
L’archivio Giorgio Colli si apre domani La mostra e gli incontri
L’archivio del filosofo e filologo Giorgio Colli (1917-1979) è ora disponibile al pubblico: nel centenario della nascita, una serie di iniziative annuncia l’apertura del fondo Colli depositato dagli eredi presso la Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori. Intanto, domani al Laboratorio Formentini a Milano si inaugura la mostra Altre idee si affacciano. Giorgio Colli filosofo editore , che sarà presentata da Edoardo Camurri, Giulio Campioni e Giancarlo Maggiulli (alle 18, via Formentini 10). Un altro incontro sarà il 18 novembre, per BookCity, con Michel Valensi, Alberto Banfi e Francesco Cataluccio (alle 18). «Per la prima volta — spiega Luisa Finocchi, direttrice della Fondazione — l’archivio di Colli, a lungo studiato dal figlio Enrico, viene a Milano, affidato dalla famiglia alla Fondazione Mondadori, che lo ha riordinato e inventariato. E che per la prima volta lo mette a disposizione del pubblico nella sua integrità». Intanto la selezione di documenti della mostra, aperta fino al 28 novembre, illustra i legami dello studioso (con lettere alla moglie, al padre Giuseppe e a personalità come Leone Ginzburg, Paolo Boringhieri e altri) e i suoi studi, con appunti e scritti «che testimoniano — conclude Finocchi — un rigore davvero straordinario».
Repubblica 7.11.17
Medicina
Il potere terapeutico della relazione
Tempo per parlarsi e capirsi. Attenzione alla storia individuale del malato. Dopo la sbornia di tecnologie e burocrazia della sanità di massa, i dottori riscoprono il valore dell’empatia e del rapporto. A sorpresa: anche grazie alla genetica
di Andrea Grignolio
OGGI FACCIAMO fatica a crederlo, ma per secoli la medicina è stata quasi esclusivamente una questione rituale, un racconto tra paziente e medico, il quale ha sempre svolto il ruolo chiave di mediatore del dolore e della malattia. Dal periodo degli sciamani guaritori sino alla seconda metà dell’Ottocento, ovvero sino all’avvento della farmacologia e della tecnologia, i medici hanno riposto la loro capacità di cura sull’alleanza terapeutica con il paziente: un processo fatto di riti, parole, contatto visivo e soprattutto basato sulla fiducia e sulla speranza ispirate dal medico. Oggi sappiamo, grazie agli studi di Fabrizio Benedetti (professore presso il dipartimento di neuroscienze Rita Levi Montalcini dell’università di Torino), che tutto ciò è dovuto alla presenza di meccanismi cerebrali che sono alla base dell’effetto placebo. È il fenomeno dell’autosuggestione che in una persona in attesa di una cura è in grado di mettere in circolo una serie di farmaci naturali, prodotti dal nostro sistema neuroendocrino, come serotonine, endorfine ed endocannabinoidi, capaci di diminuire il dolore - e quindi l’uso di antidolorifici e favorire il processo terapeutico.
Insomma, al di là di una questione etica, è bene che il medico sia empatico, che parli col suo paziente capendone i disagi oltre che le malattie, che si metta in relazione con lei o lui, perché in molti casi così cura meglio e più rapidamente: anche per questo si sta cercando, anche in Italia, di stabilire delle procedure standard per migliorare l’alleanza terapeutica. A questo scopo, ad esempio, da diversi anni si stanno inserendo nei curricula medici le medical humanities, discipline come il teatro, la pedagogia e la bioetica, nel tentativo di riumanizzare la professione medica, che da parte sua, e non ha torto, lamenta turni di lavoro eccessivi e un aumento vertiginoso del contenzioso legale con i pazienti che, a loro volta, sono spesso preda di truppe di avvocati che alimentano il mercato della malasanità. Basti pensare, ad esempio, al fenomeno inaccettabile delle cause di risarcimento basate sulla relazione autismo-vaccini. Anche in questo caso, il dialogo e un’attenzione all’individualità del paziente sembrano essere una panacea: diversi studi, infatti, confermano che aumentando di pochi minuti il tempo di visita medio negli ambulatori - che ora è inaccettabilmente fissato sui 15 minuti al massimo - il numero di cause di risarcimento contro i medici cala sensibilmente, segno di un ritrovato rapporto fiduciario, anche in caso di presunto errore.
È questa in fondo anche la direzione verso cui ci sta portando la medicina personalizzata, basata sulla genomica. Essa ci ricorda che molti pazienti assumono farmaci senza trarne benefici perché la variazione di alcune lettere nel loro Dna comporta una diversa e personale risposta ai trattamenti, come confermato dalla rivista Science, da cui emerge che negli Usa solo uno su quattro dei dieci farmaci più usati nel paese sono efficaci per chi li assume.
E non è tutto: la medicina personalizzata e di precisione ci indica anche con sempre maggior affidabilità la nostra predisposizione alle malattie. Si pensi al caso di una paziente che, a causa di una diffusa familiarità con il tumore al seno e/o all’ovaio, scopre di avere i geni Brca 1 e 2 mutati. Mai come in questo caso avrebbe più bisogno di un ampio e prolungato dialogo con il medico, o meglio, i medici: dal genetista all’oncologo, dal chirurgo allo psicologo, per decidere se fare un percorso di continui controlli o affrontare la chirurgia preventiva. Dunque, il massimo avanzamento della medicina, la genomica personalizzata, e il più antico degli strumenti terapeutici, il fiducioso dialogo medico-paziente.
Che la cura debba passare anche attraverso il racconto di storie è d’altronde un concetto che è all’origine stessa del pensiero medico. Nello stesso periodo nell’antica Grecia nacquero la medici- na, grazie a Ippocrate, e la storia, grazie a Erodoto, due discipline che si costruirono attorno a una nozione comune historìa che veniva dal linguaggio medico e indicava l’atto di esaminare e mettere insieme casi e situazioni diverse per tentare di individuare le cause naturali comuni.
Quando il grande storico Tucidide descrisse la peste di Atene del 430 a.C., ricordò ai suoi lettori che lo faceva nella speranza «che, se un giorno dovesse di nuovo tornare a infierire, ognuno che stia attento, conoscendone prima le caratteristiche, abbia modo di sapere di che si tratta». Stiamo dunque “attenti”, evitiamo di far tornare la medicina dei secoli bui, rimettiamo al centro l’ascolto dei pazienti e le loro storie. Tra l’altro, è l’unico modo per sottrarli ai ciarlatani dei trattamenti alternativi, che di metodo scientifico non ci capiscono nulla, ma che sulle esigenze di dialogo dei pazienti la sanno lunga, visto che offrendo in media un’ora di visita, le loro schiere di pazienti aumentano di anno in anno.
Storia della Medicina, La Sapienza università di Roma
Repubblica 7.11.17
Norme, ordinanze, divieti: così la nostra giurisprudenza mostra pregiudizi e paure degli italiani
Allarme, siam razzisti anche quando dettiamo legge
di Michele Ainis
Sono razzisti gli italiani? Ed è razzista l’uso della parola “razza” nella Costituzione italiana? Che razza di problema, verrebbe da obiettare. Con tutti i guai che ci cadono sul collo, non è proprio il caso d’impiccarci su questioni lessicali. Eppure i genetisti qualche settimana fa hanno indetto un convegno a Pavia per reclamare l’espulsione di quella parolina, per cancellarla dal nostro testo fondativo. Hanno ragione, dal loro punto di vista. In termini scientifici ci sono razze equine, ci sono razze bovine, ma non esistono razze umane. Bianchi e neri, abbiamo tutti lo stesso dna, siamo tutti figli dell’homo sapiens sapiens.
Perciò quando l’articolo 3 della Costituzione afferma che gli uomini sono uguali «senza distinzione di razza» (oltre che di varie altre condizioni personali), mente. Di più: legittima il razzismo, gli offre un manto costituzionale. O almeno questa è la loro opinione.
Sta di fatto che il razzismo esiste, eccome. Specie in Italia, soprattutto alle nostre latitudini. «Inutile tacerlo, siamo un popolo di razzisti», ha detto recentemente Andrea Camilleri. E del resto basta consultare i dati diffusi a luglio dalla commissione Jo Cox su fenomeni di odio, intolleranza, xenofobia, e razzismo, istituita dalla Camera. Il 56% degli italiani pensa che un quartiere si degrada quando ci vivono troppi immigrati; il 65% li considera un peso sociale (in Germania è il 21%); il 40% diffida persino delle loro pratiche religiose. Non c’è affatto da stupirsi, dunque, se il 29% della popolazione straniera dichiari d’aver subito qualche forma di discriminazione.
Ma la discriminazione è già nel termine con cui li designiamo: extracomunitari. Significa costruire la loro identità a partire dalla nostra, come se ogni europeo non fosse che un extramericano, o come se un siciliano fosse un extramilanese. Eppure questo razzismo semantico si comunica al nostro stesso ordinamento normativo, giacché nella banca dati delle Leggi d’Italia il termine “extracomunitario” figura in centinaia di documenti. Come d’altronde sono centinaia le ordinanze dei sindaci puntate come lame contro gli immigrati, specialmente dopo l’adozione (nel 2008) del “pacchetto sicurezza”. Così, un comune vieta di tenere riunioni pubbliche in lingue diverse da quella italiana; un altro nega l’erogazione del bonus bebè alle famiglie immigrate; in molte località vigono norme anti-kebab; e via via, proibendo e decretando.
Questo (mal)costume normativo non rimane circoscritto alle ordinanze sindacali. Sale su fino ai regolamenti del governo, alle leggi del Parlamento. E in conclusione alimenta una sorta di “xenofobia istituzionale”, per usare la definizione presente nel bel libro di Luigi Manconi e Federica Resta ( Non sono razzista, ma, Feltrinelli 2017). Ne è prova il progressivo inasprimento delle misure repressive, dalla legge Martelli (1990) alla Turco- Napolitano (1998), dalla Bossi-Fini (2002) all’aggravante di clandestinità (2008): se a rubarmi dentro casa è un clandestino, il suo furto vale doppio, merita un doppio castigo.
Successivamente la Consulta ha annullato quest’imbarazzante invenzione normativa, però rimangono fin troppi buchi neri. Per esempio circa la possibilità che gli stranieri usino la propria lingua d’origine nelle comunicazioni con i nostri uffici pubblici: nessuna tutela, e anzi la legge Maroni (2009) prescrive il superamento d’un test di conoscenza dell’italiano, per ottenere il permesso di soggiorno. Mentre più di recente il decreto Minniti- Orlando (2017) sottrae agli immigrati la duplice garanzia attribuita ai cittadini: per loro, soltanto per loro, via l’udienza davanti al magistrato, via l’appello contro la sentenza che neghi l’asilo. Sicché dinanzi a una causa di sfratto si può impugnare la pronunzia sfavorevole, dinanzi all’esercizio d’un diritto fondamentale (l’asilo) invece no.
Ecco, è al culmine di questo slalom normativo che s’incrocia la legge più alta — la Costituzione — con la sua promessa d’eguaglianza, fra le persone come fra le razze. Sarà pure un errore scientifico, tuttavia l’indicazione della “razza” nell’articolo 3 riflette una verità giuridica, storica, sociale. Meglio lasciarla lì dov’è, e non solo perché i principi fondamentali della Costituzione dovrebbero essere intangibili, non solo perché senza questo baluardo normativo le discriminazioni finirebbero per moltiplicarsi. Quella disposizione, quella parola conservano tutte le loro ragioni, e sotto almeno due profili.
In primo luogo, il linguaggio dei costituenti rispecchia il loro tempo, il loro vissuto collettivo. Siamo tutti uomini situati, diceva Camus. Non per nulla la Costituzione americana del 1787 parla ancora degli indiani. Loro non hanno nessuna intenzione d’emendarla, e fanno bene. Giacché ogni testo costituzionale ha un che di sacro, trasmette una sacralità che deriva anche dall’epoca remota in cui fu scritto. Quanto ai costituenti italiani, c’era in quegli uomini la memoria delle leggi razziali del 1938 — si chiamavano così, a torto o a ragione — e c’era la volontà di dire: mai più. Lo stesso sentimento che li spinse a bandire il fascismo, attraverso la XII disposizione finale. Eppure il fascismo è ormai un fantasma della storia; dovremmo allora sbarazzarci anche di quest’altra citazione? No, faremmo molto male. L’antifascismo, qui e oggi, significa opporsi al dominio degli altri su noi stessi, significa resistere alle nuove forme d’oppressione. Dopotutto, per chi ne subisca l’offesa, anche il razzismo è una forma di fascismo. E gli ebrei ne sanno qualcosa.
In secondo luogo, ogni Costituzione si rivolge a tutti, e perciò parla la lingua di tutti. Se in nome della precisione ospitasse i diversi linguaggi settoriali, diventerebbe un testo incomprensibile per i comuni mortali, senza influenza, senza capacità regolativa. D’altronde il razzismo esiste nel linguaggio comune perché esiste nella vita. Da qui una conclusione e un paradosso: sarebbe razzista cancellare la razza dall’articolo 3, non il contrario. Razzismo inconsapevole.
Già la parola “extracomunitario” è una discriminazione culturale Luigi Manconi la definisce una “xenofobia istituzionale”
Repubblica 7.11.17
Le “Cronache di una Rivoluzione” di Ezio Mauro da oggi con “Repubblica”
«Ho provato a fare il cronista dei fatti di cento anni fa lasciandomi travolgere dal furore che ha afferrato l’anima di una città e la storia di un Paese». Ezio Mauro descrive così lo spirito di un progetto multidisciplinare, che intreccia parole e immagini, dedicato alla storia della Rivoluzione russa, in occasione del centenario del grande evento che ha cambiato il corso del ‘900. Ora le Cronache di una Rivoluzione diventano una collana di Repubblica,
in edicola insieme al quotidiano a partire da oggi: prima uscita il libro
L’anno del ferro e del fuoco, nato dalla serie di articoli pubblicati sul giornale (a 9,90 euro più il costo del giornale).
Seguiranno i dvd del docufilm che, attraverso reportage sul campo e materiali d’archivio, ripropone in video i reportage di Ezio Mauro (già usciti su Repubblica. it) in quattro puntate: Da Rasputin al Febbraio; I due treni del destino russo; Da Kerenskij a Trotzkij; L’Ottobre e la fine dei Romanov (dal 14 novembre, ogni settimana, a 7,90 euro in più).
Un viaggio avventuroso dentro la Russia, che mette a frutto la passione e le conoscenze dell’autore, in passato corrispondente da Mosca, per ripercorrere il 1917 mese dopo mese. Un’avventura in presa diretta dentro il caos e la rabbia della storia, dall’assassinio di Rasputin fino all’Ottobre rosso.
Protagonisti San Pietroburgo, i palazzi del potere, gli scenari di ieri e di oggi. Scrive Mauro: «Tutto quel che è accaduto dopo comincia qui.
Anche se sembrava un inizio, ed era la fine del mondo».
L’OPERA
Al via la collana
Cronache di una Rivoluzione di Ezio Mauro. Oggi in edicola il libro L’anno del ferro e del fuoco ( euro 9,90 più il prezzo del quotidiano). E dal 14 novembre, ogni settimana, 4 dvd ( a 7,90 euro in più)