Repubblica 27.11.17
Stefano Rodotà il teatro è la polis
Stefano Rodotà conosceva il Diritto ma anche il suo rovescio, l’ordinare e il precipitarsi. La ragionevole follia.
di Fabrizio Gifuni
Credeva
necessario battersi ogni giorno per difendere l’idea che tutte le forme
di espressione artistica fanno parte del tempo unico della vita
Sapeva
che la nostra esistenza ha bisogno tanto dello slancio indispensabile
dell’utopia quanto della sua traduzione in ciò che è possibile fare
Fabrizio
Gifuni racconta la passione del giurista per l’arte scenica considerata
cruciale per un’esperienza comunitaria, luogo di conoscenza e di
democrazia
Attraversava con l’innocenza di un fanciullo
i rischi della convivenza e della modernità, senza mai averne paura. La
vita prima delle regole, appunto.
Quando tutto sembrava nebbia e
palude, il suo sguardo acutissimo e sorridente sapeva sempre illuminare
una rotta, un compito. La sobrietà era uno dei suoi tratti identitari
più riconoscibili.
Vinceva il tempo, gli anni, attraversava le
generazioni, sorprendeva per il suo essere spesso il più giovane di
tutti, anche quando stava in mezzo ai ragazzi.
Il più bello dei
frammenti di Eraclito dice: «La vita è un fanciullo che gioca, che
sposta i pezzi sulla scacchiera. Il Regno di un fanciullo». Non si
potrebbe dir meglio. Stefano sapeva giocare con il diritto con la
massima serietà con cui giocano i fanciulli.
La mia passione per
il diritto e per la libertà delle regole – quella dei miei primi studi
universitari e la passione divenuta presto totalizzante per il mio
lavoro in teatro vissuto come uno dei pochi luoghi in cui sia possibile
sperimentare un processo di conoscenza che passi attraverso l’esperienza
viva dei corpi, hanno trovato presto in Stefano Rodotà un punto di
riferimento prezioso e per molti aspetti imprescindibile. Un maestro che
negli anni sarebbe diventato un compagno gentile a cui rivolgere sempre
più spesso lo sguardo.
Perché Stefano aveva un modo tutto suo di essere maestro.
Annullava
le distanze. Stava idealmente ai miei occhi in un punto altissimo in
termini di autorevolezza eppure sempre vicinissimo, mai distante, dal
punto di vista umano.
Avevo scelto lui a diciotto anni per il mio primo voto, indipendente e di Sinistra.
Più
di vent’anni dopo quel mio primo voto iniziai a spedirgli regolarmente
gli inviti per i miei spettacoli a cui non mancava mai. Perché Stefano,
come sua moglie Carla, amava il teatro. Lo riconosceva. L’esperienza
teatrale era per lui, per loro, fonte viva di riflessione.
Condividevamo
l’idea che i teatri dovessero essere piazze aperte sulla città. Non
luoghi chiusi, monumenti, spesso nel nostro Paese bellissimi ma inerti.
Ma luogo di incontro, di riflessione, di sovvertimento temporaneo
dell’ordine e degli sguardi.
D’altra parte nel cerchio magico del
teatro, in quel tempo sospeso, accadono anche cose terribili, corto
circuiti psichici, catarsi come dicevano i greci, che devono servire,
finito quel tempo, a ripensare - in un modo prima imprevisto - a un
nuovo ordine possibile. Per la Comunità. E questo corrispondeva al suo
sguardo.
Stefano sapeva che il teatro era nato come momento
centrale dell’esperienza della polis. Un luogo di conoscenza e dunque
una necessità primaria dei cittadini prima ancora che degli artisti.
Condividevamo
l’idea che il teatro fosse anche paradigma di un’idea inclusiva di
società e di lotta contro ogni genere di discriminazione.
Ci
ritrovavamo in un pensiero a cui io sono molto legato e che non mi
abbandona mai nel mio lavoro. Che il teatro, la musica, il cinema, la
letteratura, l’arte in generale non possano vivere nell’aberrazione del
cosiddetto tempo libero in cui la rivoluzione industriale le ha relegate
da secoli, spaccando per sempre in due il tempo dell’esperienza
quotidiana. Come se esistesse davvero un tempo delle cose serie – quello
della produzione e del consumo - e un tempo libero in cui si va quando
si è terminato di fare le cose serie.
Ma che sia necessario
battersi ogni giorno per ricordare innanzitutto a noi stessi - che ogni
forma di espressione artistica con cui entriamo in contatto fa parte
solo del tempo unico della nostra vita. Che ha bisogno di libertà, di
fantasia, di disordine, di poesia e di bellezza quanto di regole
indispensabili alla sopravvivenza del consorzio sociale. Tutte le zone
dell’io devono essere costantemente nutrite, compreso il sogno, via
regia per l’inconscio.
Se devo pensare a una cosa in cui Stefano
era davvero maestro, forse il più bravo di tutti, era questa. Spingersi
nell’ambito dello studio e della sapienza giuridica fino al punto
estremo in cui era possibile tradurre concretamente lo slancio
dell’utopia nel massimo risultato storicamente possibile in quel
momento. Il risultato ottenuto in termini di allargamento dei diritti
sarebbe diventato il punto di partenza per la battaglia successiva.
Perché Stefano sapeva che la nostra esistenza ha bisogno tanto dello
slancio indispensabile dell’utopia come momento di incoscienza cinetica
quanto dell’immediata traduzione - successiva, concreta e cosciente - di
quello slancio iniziale in ciò che è possibile fare, una volta attutita
la forza del salto. Ci vuole pazienza, coraggio e luce negli occhi. E
ciò che rendeva davvero unico questo modello di prassi politica e
culturale è che sapeva fare tutto questo tenendo lontana qualsiasi forma
di narcisismo, con quella semplicità seria e sorridente che costituiva
uno dei suoi tratti umani più affascinanti.La sua partecipazione
fondamentale all’esperienza del Teatro Valle, immediatamente successiva
alla vittoria del referendum sull’acqua, è stata parte naturale di
questo sguardo. Il teatro Valle diventò in quegli anni, allo stesso
tempo, il luogo d’incontro che ospitò i lavori di una nuova Costituente
sui Beni comuni e oggetto stesso di quello studio giuridico.Il modello
innovativo di gestione del teatro a cui Stefano Rodotà aveva dedicato
tanto lavoro, che culminò nella presentazione dello Statuto della
Fondazione Teatro Valle Bene Comune, è una delle tante pagine a cui lo
smarrimento progressivo della sinistra non seppe far altro che dedicare
uno sguardo infastidito e distratto. Ci vorrebbe molto tempo per
raccontare in maniera minimamente esaustiva il complesso di
quell’esperienza, urgente e vitalissima pur all’interno delle sue
naturali contraddizioni. L’occupazione durò per la cronaca tre anni e
due mesi. Sono passati tre anni e tre mesi dalla fine di
quell’esperienza e la chiusura assordante di quel teatro, al di la di
ogni vuota promessa, vale più di qualunque altra parola.