Corriere 19.11.17
Memoria Un libro di Pierluigi Vercesi (Neri
Pozza) rievoca l’avventura del poeta e dei suoi «legionari» sulle sponde
dell’Adriatico tra il 1919 e il 1920
Fiume , la sagra dei colpi di mano
D’Annunzio s’impadronì della città e la trasformò in un palcoscenico di sogni e fantasmi
di Antonio Carioti
Poteva
essere una semplice disputa di confine. Ma la prese a cuore Gabriele
d’Annunzio. E la sua personalità strabordante trasformò la crisi di
Fiume nella «rappresentazione teatrale», così la definisce giustamente
Pierluigi Vercesi, delle tensioni e delle pulsioni, dei sogni e dei
fantasmi che agitavano l’Italia postbellica.
Il poeta era
febbricitante il 12 settembre 1919, quando entrò nella città adriatica
(oggi appartenente alla Croazia con il nome di Rijeka), che il governo
di Roma rivendicava e che gli era stata negata alla conferenza di pace
di Versailles. Con d’Annunzio erano partiti da Ronchi (detta poi per
questa ragione Ronchi dei Legionari) circa 2.500 militari ammutinati
(granatieri, bersaglieri, arditi), cui si aggiunsero volontari di ogni
estrazione. E ben presto la febbre del carismatico letterato, come
racconta Vercesi nel libro Fiume. L’avventura che cambiò l’Italia (Neri
Pozza), si tramise alla cittadinanza locale, composta in maggioranza da
individui di lingua italiana, e a gran parte del nostro Paese.
In
teoria il governo avrebbe dovuto stroncare la ribellione, ma troppo era
l’entusiasmo suscitato dal gesto compiuto dal poeta e dai suoi discorsi
infiammati. Il debole esecutivo guidato da Francesco Saverio Nitti,
bollato da d’Annunzio con il nomignolo ingiurioso di «Cagoia», non
poteva permettersi il prezzo di uno scontro frontale e presumibilmente
sanguinoso. Tanto più che l’impresa dei «legionari» fiumani, che
reclamavano l’annessione della città all’Italia, aveva colpito
l’immaginario di tutti gli insofferenti e gli eversivi, di destra e di
sinistra, nazionalisti e anarchici, ma anche di personalità illustri
come l’eroe di guerra Luigi Rizzo, il direttore d’orchestra Arturo
Toscanini, l’inventore della radio Guglielmo Marconi, che portarono
personalmente a d’Annunzio la loro solidarietà.
In quella Fiume
ribollente di passioni, ricorda Vercesi, accadeva di tutto. Il poeta
aveva istituito anche un Ufficio colpi di mano, incaricato di
organizzare scorrerie alla caccia di rifornimenti: tra le prede,
autocarri colmi di scarpe e cappotti invernali, vagoni ferroviari pieni
di cibo, una nave carica di armi. Gli addetti alle razzie li aveva
battezzati «uscocchi», dal nome dei pirati balcanici cinquecenteschi. Il
più attivo tra loro era Mario Magri, futuro antifascista ucciso dai
tedeschi alle Fosse Ardeatine nel 1944. Ma tra gli uscocchi troviamo
anche un temerario diciassettenne, poi squadrista e quindi segretario
del Pnf, che invece sarebbe stato soppresso nell’agosto 1943 sotto il
governo Badoglio, poco prima dell’armistizio, e sarebbe stato celebrato
come un martire dai camerati di Salò: Ettore Muti. Vicende analoghe e
nel contempo opposte.
Fiume divenne un grande laboratorio anche di
libertà dei costumi sessuali, «un bordello a cielo aperto, dove tutto è
concesso in attesa dell’apocalisse», scrive Vercesi. Furoreggiavano
personaggi variopinti come Guido Keller, molto vicino a d’Annunzio e
amico del futuro scrittore Giovanni Comisso: pilota da caccia durante la
Grande guerra, vegetariano, ghiotto di miele e avido di cocaina,
dormiva spesso sugli alberi e si portava un’aquila appollaiata su una
spalla. Era destinato a morire in un incidente stradale.
Il
culmine dell’esperienza fiumana, nell’agosto 1920, fu la proclamazione
della «Reggenza italiana del Carnaro» (dall’antico nome del tratto di
mare su cui si affaccia Fiume), una fantasiosa entità statuale dotata
anche di una costituzione, elaborata dal sindacalista rivoluzionario
Alceste de Ambris. Detta Carta del Carnaro, per l’epoca risultava tra
l’altro molto avanzata: poneva alla base dell’ordinamento «il lavoro
produttivo» e stabiliva l’eguaglianza giuridica di tutti i cittadini
«senza distinzione di sesso».
Nel frattempo però a Roma era
tornato alla presidenza del Consiglio Giovanni Giolitti, vecchia volpe
che isolò d’Annunzio sul piano politico, attraverso un accordo
sotterraneo con Benito Mussolini (all’epoca in risalita dopo la batosta
elettorale del 1919), e nel novembre 1920 stipulò con il governo di
Belgrado il trattato di Rapallo, che prevedeva la creazione a Fiume di
uno Stato libero.
In città la popolazione era stanca, anche gli
eroici furori dei legionari si andavano spegnendo. Quando a Natale le
truppe del generale Enrico Caviglia presero d’assalto Fiume per
consentire l’esecuzione del trattato, con tanto di bombardamento
dell’artiglieria navale, la resistenza fu breve, con poche decine di
morti. D’Annunzio, ferito leggermente alla testa dai calcinacci
sollevati da una cannonata, gridò all’«assassinio», ma preferì cedere il
campo. Era riuscito a tenere in scacco lo Stato liberale per oltre un
anno, accentuandone la delegittimazione. E gli umori di quell’avventura
avrebbero nutrito lo spirito antiborghese del fascismo, ma anche quello
di alcuni dei più agguerriti avversari di Mussolini.