Repubblica 27.10.17
Cinismo e furbizia Verdini il mefistofele del potere girevole
Da uomo forte di Berlusconi a “idraulico di Renzi”. Nel Palazzo il dilemma ora è: come farne a meno se la causa è buona?
di Filippo Ceccarelli
È
giusto e anche utile convincersi che i mostri non esistono, tanto meno
in politica, e nel potere meno che meno. Però l’Italia si merita un
Verdini?
La risposta è sì, purtroppo, anche se per certi aspetti è
una specie di fortuna che ci sia, e comunque Denis Verdini si è messo a
disposizione e il pensoso premier Gentiloni se l’è preso. Amen.
Giusto
due anni orsono, era l’ottobre del 2015, sul trespolo Sky di Maria
Latella tra una chiacchiera e l’altra l’ex Orco del Patto del Nazareno
si era esibito, va da sé senza alcuna vergogna, in un ispirato
gorgheggio: «La maggioranza, sai, è come il vento...». E ieri il vento
l’ha reso decisivo nel far passare l’ennesimo capolavoro legislativo, in
tal modo salvando la patria e ancor più il governo dallo schianto.
L’esperienza consiglia di non lasciarsi troppo ingannare dalle
orgogliose rivendicazioni sul contributo da lui reso e dai suoi alle
unioni civili o sull’impegno a proposito dello Ius soli. Con lo stesso
slancio Verdini avrebbe potuto tranquillamente votare una legge a favore
delle unioni incivili, come pure per il ripristino della schiavitù. Sul
realismo politico e le sue applicazioni, da Hobbes in poi, esiste del
resto la più vasta letteratura. Ma se all’antico cinismo dell’homo
homini
lupus si assomma la vacuità post-ideologica di questo tempo
sciaguratello, beh, l’effetto è doppio, e non saranno le reiterate
esibizioni canore o magari il negoziabile sostegno alla legalizzazione
della cannabis a nasconderlo.
Ieri, in aula, Verdini ha anche
ricordato la sua antica militanza repubblicana e un altro accenno, per
quanto ipotetico e paradossale, ha fatto al proposito di battersi perché
l’Italia resti unita. Ma al dunque nessuno più di lui ha meglio
assecondato la trasformazione della Repubblica in monarchia
berlusconiana; per non dire che ha incoraggiato i capricci del sovrano
fino a tagliarsi i baffi dato che Re Silvio non si fida di chi li porta.
Dopo di che ha mollato la corte di Arcore e si è spostato sul lato in
ombra del giglio magico, dove pure esisteva un certo pregresso, per
infine proclamarsi in letizia “l’idraulico di Renzi”.
E tuttavia è
vero che per spostare qualcosa dentro i palazzi del potere è
indispensabile sporcarsi le mani, talvolta fino ai gomiti e oltre; e se
si è fatto un passo avanti sul piano dei diritti civili, o se c’è
qualche speranza di sanare un’ingiustizia aprendo un orizzonte a
migliaia di cittadini venuti da lontano, beh, ecco che ritorna
l’inverosimile rompicapo iniziale: come fare a meno di Verdini
utilizzandolo a buon fine?
Con il dovuto azzardo, oltre a
incarnare l’eterna ambiguità dell’arte politica, egli sopravvive,
resiste e anzi guadagna posizioni perché interpreta l’autobiografia
della nazione. Nel senso che tiene in sé il tocco furbo e vistoso della
commedia, la propensione intimidatoria al melodramma, l’afflato sinistro
della prepotenza, quello destro della più simpatica cialtroneria, oltre
all’arte di arrangiarsi, anche troppo, come si potrebbe dedurre dalla
sua Maybach, un’automobile da emiri che nessuno della scorta s’azzardava
a guidare.
Ieri nell’aula di Palazzo Madama ha fatto il classico
numerone. Ma la stessa coraggiosa gigioneria Verdini aveva messa in
scena nell’aula del Palazzo di Giustizia in uno dei suoi sei processi,
quello della cosiddetta P3. Per cui dopo essersi paragonato al
facilitatore di Pulp fiction,
Wolf, accortosi che c’erano i
giornalisti ha seguitato a darci dentro con Guicciardini e Orson Welles
fino a quando il presidente non è stato costretto a intimargli: «Si
rivolga a me».
Insomma, dice il vero Verdini quando fa presente
che c’è sempre stato. Ma non con Spadolini, con Berlusconi, con Renzi o
con Gentiloni: con tutti e con nessuno, quindi principalmente per se
stesso. Personaggio e insieme maschera esemplare, proverbiale,
ricorrente; insieme prototipo, movente e sintomo; se è consentita una
smargiassata intellettualistica, figura ciclicamente archetipale.
Ogni
epoca, in altre parole, ha avuto i suoi Verdini; riconoscibili, nelle
loro varianti a seconda dell’estetica, della fisiognomica, della
geografia e magari, con qualche poetica licenza, perfino della
letteratura. Nel caso specifico la capigliatura leonina, l’andatura
baldanzosa, il linguaggio spiccio, l’oro al polso, il campo d’azione e
l’originaria professione di beccaio (commercio di carne) fanno del più
controverso e determinante sostenitore del governo un tipico personaggio
da Divina Commedia, di quale cantica pare qui superfluo indicare.
Non
molto tempo fa, soffermandosi su certe morbide scarpine di camoscio blu
che rifulgevano ai piedi di quel fisico massiccio, il senatore Gotor,
Mdp, ha valutato l’incompatibilità antropologica tra Verdini e chissà
che cosa. Ma la politica è un’altra cosa, e la teratologia, o scienza
dei mostri, un innocuo passatempo in attesa del tutto e del nulla.