giovedì 19 ottobre 2017

Repubblica 19.10.17
“Attico pagato coi soldi per i bimbi malati” Nuove accuse al vescovo degli scandali
Indagato monsignor Miccichè. Lui contrattacca: “La mafia ecclesiastica peggio di quella vera”
di Alessandra Ziniti

ROMA. I soldi destinati ai bambini autistici e ai piccoli malati oncologici sono finiti in un attico di 210 metri quadri con depandance al centro di Roma. Ottocentomila euro, sottratti ad un ente morale, la Fondazione Campanile, una delle più importanti realtà socio-assistenziali della Sicilia, e utilizzati a fini privati dall’ormai ex vescovo di Trapani monsignor Francesco Miccichè,sollevato dal suo incarico nel 2012 da Papa Benedetto XVI all’esplodere dello scandalo per un ammanco milionario dai conti della Diocesi. Cinque anni dopo, dall’inchiesta ancora aperta alla Procura di Trapani che vede l’alto prelato indagato per appropriazione indebita e malversazione per la distrazione dei fondi dell’8 per mille, continuano a venire fuori sorprese. Come questo attico al quarto piano di un antico palazzo nobiliare al numero 50 di via San Nicola di Tolentino alle spalle di piazza Barberini. Cinque finestre su un unico balcone in uno stabile di pregio che ospita anche un paio di residence di lusso e un’accademia di moda. Acquistato nel 2008 dal vescovo di Trapani ad un prezzo decisamente sottostimato per i prezzi del centro di Roma: 760.000 euro più 30.000 di spese notarili,per di più dichiarandone l’utilizzo ai fini di culto ( dunque equiparato ad una chiesa) per non pagare l’imposta di registro, l’appartamento è stato intestato alla Curia di Trapani. Come ha confermato ai pm monsignor Alessandro Plotti, inviato dal Vaticano come nunzio apostolico a Trapani dopo la rimozione di Miccichè. Quello dell’alto prelato (scomparso qualche tempo fa) è un durissimo atto d’accusa: «Io ho rilevato l’anomalia dell’acquisto di una casa privata intestata alla diocesi con soldi che avrebbero dovuto essere destinati alla cura dei bambini e alle finalità della Fondazione Campanile. Non è accettabile che siano stati buttati via 500.000 euro per l’acquisto di una casa privata a Roma in pieno centro storico sottraendo quella somma alla possibilità di destinarli alla cura di bambini con problemi psichici».
Monsignor Plotti parla ai pm di 500.000 euro perché la casa risulta essere stata pagata con cinque assegni da 100.000 girati dal conto della fondazione Auxilium (che aveva incorporato la Campanile) e 300.000 euro in contanti. Quando Plotti aveva chiesto conto a Miccichè di quale fosse la provenienza di quella somma così grossa in contanti, raccontano che il vescovo gli avrebbe risposto con un sorrisetto ironico: «Li ho trovati nel cassetto».
L’ipotesi dei pm è che l’acquisto dell’appartamento rientrasse tra quegli “investimenti” (altri appartamenti a Palermo, ma anche titoli su conti esteri e polizze assicurative) che Miccichè avrebbe realizzato sottraendo quasi tre milioni di euro alla Diocesi, dai fondi dell’8 per mille a quelli della Fondazione Campanile. Con una astuta operazione tecnico- finanziaria: la fusione per incorporazione della Fondazione istituita nel 1968 da monsignor Antonio Campanile, che l’aveva destinata ai bambini con gravi patologie, nella Fondazione Auxiluim della quale il vescovo presidente aveva nominato amministratore il cognato Teodoro Canepa. A quel punto prelevare dal conto 500.000 euro per pagare parte della casa a Roma sarebbe stato un gioco da ragazzi. Ma non sarebbe stata l’unica operazione di quel genere. È ancora il Nunzio apostolico Plòtti a dire ai pm: «Ho rilevato una serie di operazioni sfavorevoli alla Diocesi, di scarsa comprensibilità, quali le cessioni in comodato gratuito di immobili reimpiegati in strutture alberghiere. Devo dire che ho rilevato una gestione personalistica della Diocesi di Trapani che ho trovato in stato di grave dissesto economico con una totale spoliazione dei suoi beni».
Parole durissime in linea con le conclusioni dell’ispezione affidata dal Vaticano a monsignor Mogavero. Davanti alle quali Miccichè ha reagito con un attacco senza precedenti. In una lettera inviata all’ex procuratore Marcello Viola, scrive: «Ho scoperto la pericolosità di una mafia ecclesiastica non meno potente, insidiosa e nefasta della mafia che il sistema giudiziario in Italia è impegnato a contrastare».
In attesa della conclusione dell’inchiesta (finora priva della risposta dello Ior alle richieste dei pm), Miccichè, mai sospeso a divinis, vive a Roma e dice messa alla Confraternita dei siciliani.

Repubblica 19.10.17
Il nuovo saggio di Massimo Cacciari indaga, attraverso la grande pittura, i legami tra filosofia e icone sacre
Così l’arte riunisce il Logos alla vita
di Enzo Bianchi, priore di Bose

Dobbiamo a Northrop Frye e al suo ormai celebre “Il grande codice. La Bibbia e la letteratura” la ragionata consapevolezza di come la Scrittura santa per ebrei e cristiani sia diventata nei secoli chiave di ispirazione e di interpretazione non solo della letteratura ma dell’intera cultura “occidentale”: la parte preponderante del patrimonio artistico, iconografico, letterario e culturale in senso lato dei
paesi segnati dalla tradizione ebraico-cristiana risulta semplicemente incomprensibile se se ne ignorano i testi fondativi.
Ma, proprio per questo legame indissolubile, è vero anche il contrario: conoscendo e frequentando i tesori della cultura di quei paesi è possibile, anche per chi non si professa credente, trarre dalla lettura dei testi biblici profonde intuizioni spirituali. Ne è splendida riprova il libro di Massimo Cacciari Generare Dio con cui si inaugura al meglio la collana “Icone” de Il Mulino. Prendendo spunto da alcuni quadri — le Annunciazioni di Simone Martini e Lippo Memmi, Piero della Francesca e Beato Angelico; due Madonna con il bambino di Andrea Mantegna e altre due di Giovanni Bellini; una
Pietà dello stesso Bellini e una
In Masaccio, Mantegna, Beato Angelico cielo e terra s’incontrano in un abbraccio
Deposizione dalla croce di Rogier van der Weyden; fino alla celeberrima Trinità di Masaccio — Cacciari rilegge la figura di Maria di Nazareth, colei che «sceglie di concepire il bambino che la sceglie» per riprendere con Cacciari le parole di Wystan H. Auden.
Il filosofo, infatti, fa tesoro anche di riletture poetiche del mistero dell’incarnazione, per sondare il senso dell’inaudito «generare Dio»: grazie non solo a Dante, ma anche a Luzi e Hölderlin, a Rilke e Rebora la riflessione di Cacciari assume i tratti di una rivisitazione del dato evangelico con gli occhi, il cuore e la mente di secoli di pensiero occidentale. Il percorso prende avvio nella casa di Nazareth, dove l’annuncio dell’arcangelo Gabriele alla giovanissima Maria — narrato dal vangelo di Luca — ha tratti di una densità umana irraggiungibile dalla corrispondente apparizione in sogno di un angelo a Giuseppe, come descritta nel Vangelo di Matteo. Sono quindi tre le scene evocate da Cacciari, due tratte dai Vangeli e una derivata principalmente dalla pittura: l’Annunciazione, appunto, che richiama come sua postilla la Visitazione di Maria a Elisabetta; la deposizione dalla croce o “pietà”, significativamente raccolta nel capitolo dedicato a
La Croce di Maria; e — collocate tra le scene che precedono la nascita e quelle che seguono la morte di Gesù — le immagini di Maria con il bambino tra le braccia, così umane nei dipinti italici e così differenti dalla maestà ieratica delle icone bizantine.
Ma la profonda comprensione del mistero dell’incarnazione che l’occidente — «terra che procede al tramonto» — ha saputo elaborare nel corso dei secoli consente a Cacciari di mostrare come gli scritti apocrifi e i pensatori gnostici dei primi secoli si siano discostati in maniera decisiva dai dati neotestamentari, rispettati invece in profondità da artisti posteriori di molti secoli, ai quali non ha per nulla nociuto raffigurare Maria e il bambino in vesti, fogge e contesti ambientali propri di tutt’altra epoca.
Se infatti con l’interpretazione gnostica «scompare la donna » e con lei ogni contesto terrestre, nella rilettura che Cacciari fa della tradizione occidentale «dall’unione sponsale tra Logos e Sophia nasce il molteplice » e terra e cielo si incontrano in un abbraccio in cui l’icona si contrappone al mito.
Cacciari sa ricercare una lettura “pneumatica” di Maria, grazie non solo alla sua conoscenza della tradizione patristica dell’oriente e dell’occidente, ma a una sensibilità propria di chi sa percorrere i sentieri del quaerere Deum in aenigmate, raggiungendo apici poetici per nulla estetizzanti. Questo approccio sapiente e rispettoso gli consente interpretazioni audaci ma pertinenti di alcuni dati biblici per i quali troppo spesso il pensiero cristiano ha rinunciato a cercare nuove potenzialità. Così, contro ogni tentativo gnostico di rimuovere lo scandalo dell’“incarnarsi” del Logos, Cacciari evidenzia l’elezione assolutamente inaudita di Maria, «piena di grazia» ( kecharitomene) che genera la grazia, la charis
di Dio, suo Figlio, in sarx, “carne” reale, umanissima. Il suo concepire Gesù è frutto della sua meditazione, del suo raccogliere ( syn- ballein) nel cuore le parole del Signore, mentre la nube luminosa la copre e la feconda.
Così l’obbedienza di Maria ed Elisabetta è «potenza consapevole », propria di chi non subisce l’ineluttabile ma, al contrario «diviene obbediente», giungendo «a volere la volontà divina». Anche apparenti paradossi evangelici svelano ricchezze nascoste: il Verbo nasce come «in-fante», creatura che non parla; così come «la luce si incarna nell’ombra»; ed è Maria a essere «la prossima» del Figlio che si è fatto prossimo dell’umanità, mentre Gesù, venuto tra i suoi, in realtà è costantemente «fuori… ospite ovunque, mai a casa».
Sono pagine intense, raccolte attorno a due “icone” principali: quella del “generare” e quella della “sofferenza”, icone come nessun altra presenti nella vita di ogni essere umano, non solo nel suo nascere e morire, ma al cuore stesso dell’esistenza quotidiana. Perché non si genera solo partorendo, né si soffre solo morendo: è questa la sfida di senso che le pagine evangeliche attorno a Maria di Nazareth lanciano agli uomini e alle donne di ogni tempo e quindi anche del nostro tempo e del nostro occidente, così restii al generare nuova vita e così riluttanti nell’assumere la sofferenza del duro mestiere di vivere.
Da cristiano che fa memoria e prega la Vergine Madre ricordo la domanda di Silesio: «Che mi giova, Gabriele, il tuo salve a Maria, se non hai uguale messaggio per me?». Maria, infatti, più che oggetto di culto è figura esemplare: ognuno generi il Logos in se stesso.
L’OPERA Beato Angelico, Annunciazione della cella 3

Repubblica 19.10.17
Biotestamento, svolta al Senato La relatrice: “Pronta a dimettermi”
Dopo l’appello dei senatori a vita l’annuncio di Emilia De Biasi per portare la legge in aula e superare l’ostruzionismo di Ap, Fi e Lega
di Lavinia Rivara

In commissione sono stati presentati 3500 emendamenti, chieste 80 audizioni e ascoltati decine di interventi
Mi strazia il cuore ricevere le lettere di Peppino Englaro, ma ora l’intervento di Grasso mi aiuta a dimettermi

ROMA. Dopo 50 sedute di commissione, 3.500 emendamenti, oltre 80 richieste di audizione, decine e decine di iscritti a parlare e l’appello di quattro senatori a vita, Elena Cattaneo, Mario Monti, Renzo Piano e Carlo Rubbia, pubblicato ieri da Repubblica, la legge sul biotestamento, osteggiata da una parte del mondo cattolico, è arrivata ad un punto di svolta al Senato. La relatrice Emilia De Biasi (Pd), annuncia che si dimetterà la settimana prossima, per riuscire così a portare il testo in aula aggirando l’ostruzionismo in commissione. A spianarle la strada il presidente Pietro Grasso, al quale aveva chiesto ieri notte di poter utilizzare il cosiddetto “canguro”, il meccanismo che cancella in un sol colpo centinaia di emendamenti. La risposta di Grasso non si è fatta attendere: l’unico modo per farlo, se non c’è l’unanimità, è inserire il provvedimento in aula. Passando per le dimissioni della relatrice. «Lo farò la settimana prossima, dopo aver informato la commissione » annuncia De Biase. Conferma il capogruppo Luigi Zanda: «Se nel giro di una settimana l’impasse non si sblocca porteremo la legge in aula». Ma approvare il biotestamento non sarà facile. Perché dopo un primo sì della Camera, la legge che vieta l’accanimento terapeutico e sancisce il diritto di rifiutare nutrizione e idratazione artificiale, ha ancora molti nemici. E i tempi sono strettissimi. Come spiega la stessa De Biasi.
Quattro senatori a vita denunciano lo stallo della legge, ferma in commissione Sanità da più di cinque mesi. E questo anche se Pd e 5Stelle sono favorevoli. Come è possibile?
«Io condivido quell’appello, mi strazia il cuore ricevere le lettere di Peppino Englaro e non sapere come rispondergli. Ma approvare a fine legislatura norme dall’alto valore simbolico come il biotestamento non è semplice. Il testo è arrivato da noi a maggio e gli abbiamo dato priorità. Ma subito sono state presentate 80 richieste di audizioni, il triplo di quelle della Camera. Alla fine ne abbiamo fatte una settantina».
Da chi sono arrivate queste richieste?
«La maggior parte da Alleanza popolare, Forza Italia, dal senatore Lucio Romano 8 Autonomie). C’è voluto più di un mese» E poi che è successo?
«È cominciata la discussione generale. E lì Ap e centrodestra si sono iscritti in massa a parlare, perfino con senatori che non fanno parte della commissione. Una manovra chiaramente ostruzionistica. A quel punto o facevo un colpo di mano, cancellando gli interventi degli assenti, oppure provavo a chiedere a tutti di ridurre gli interventi. Essendo anche presidente della commissione ho preferito quest’ultima strada e alla fine un taglio c’è stato. Ma nel frattempo sono arrivati 3.500 emendamenti, la metà dalla Lega, il resto da Forza Italia e centristi. E siamo arrivati a fine luglio con la loro l’illustrazione».
Lei già in estate aveva minacciato di dimettersi da relatrice e andare in aula senza voto in commissione. Perché non l’ha ancora fatto?
«Perché non è una mia facoltà portare il provvedimento in assemblea, spetta alla conferenza dei capigruppo e la legge elettorale ha sconlto tutti i tempi. Ma ora la risposta del presidente Grasso mi facilita le cose».
Ma non è stato il suo stesso partito, il Pd, a frenare? Magari per non mettersi prima delle elezioni siciliane contro gli alleati centristi, o perchè non si fida dei 5Stelle dopo la marcia indietro sulle unioni civili.
«Non credo c’entri la Sicilia e non c’è stato un temporeggiamento, checché ne dicano i radicali. Quanto ai 5Stelle in commissione sono stati più che leali».
Avete ricevuto pressioni della Chiesa contro la legge?
«Non che io sappia, c’è stato qualche articolo di Avvenire ».
Anche se lei si dimette però tra riforma elettorale e manovra l’aula del Senato è occupata fino ai primi di dicembre. E a gennaio le Camere probabilmente saranno sciolte. Pensa che si farà in tempo?
«Penso che a dicembre possiamo tentare di approvare lo Ius soli e il biotestamento, perchè diventino legge. Il dolore non può più attendere».

Corriere 19.10.17
I piani per una Cina felice
Xi disegna la Cina fino all’anno 2049 «Belli e armoniosi»
di Guido Santevecchi

Xi Jinping ha aperto, con un discorso di tre ore e mezza, il Congresso del Partito comunista cinese. Ha promesso un Paese «più felice, bello e armonioso» e tracciato piani fino al 2049. Al termine del Congresso, che dura una settimana, Xi Jinping verrà rieletto e con ogni probabilità il suo pensiero verrà scritto nella Costituzione.

PECHINO Quale leader mondiale di questi tempi può promettere «una vita migliore e più felice» al suo popolo? Un Paese «più bello e armonioso»? Lo ha fatto Xi Jinping aprendo il 19° Congresso del Partito-Stato che domina la Cina dal 1949. E dichiarando che il socialismo con caratteristiche cinesi è entrato in «una nuova era» di successi, Xi ha anche tracciato piani fino al 2020, poi fino al 2035 e ancora fino al 2049.
Ha parlato per tre ore e mezza, con un tono di voce più pacato del solito, ispirato da una fiducia basata sui risultati. Il segretario generale e presidente della Repubblica popolare ha subito rivendicato che sotto la sua guida, negli ultimi cinque anni, il Pil cinese è salito da 8,2 a 12 trilioni di dollari. Il 30% cento della crescita globale è dovuto alla Cina, ha ricordato tra gli applausi. La missione del Partito è «provvedere alla felicità del popolo» ha assicurato. Nel discorso l’espressione «vita migliore e più felice» è risuonata 14 volte. Superata solo dalla «nuova era» con 36 citazioni e dal «Partito comunista».
Xi ha fissato obiettivi al 2020, vigilia dei cent’anni dalla fondazione del Partito, e poi al 2035 e ancora al 2049, il centenario della Repubblica popolare. Il primo traguardo è sempre quello caro alla retorica cinese: finire la costruzione di una «società moderatamente prospera». Dovranno seguire altri 15 anni di lavoro duro, ha avvertito il leader, aggiungendo un modo di dire cinese: non sarà una passeggiata nel parco. Ma il premio, nel centenario della Repubblica proclamata da Mao nel 1949, sarà l’edificazione di un Paese socialista moderno, forte militarmente, democratico (in senso cinese, ndr ), culturalmente avanzato e «bello».
Sembra chiaro che per le prime due tappe Xi vorrebbe essere presente e magari guidare ancora il Paese. E chissà, potrebbe esserci nel 2049: è nato nel 1953 e ieri al suo fianco era seduto l’ex presidente Jiang Zemin, 91 anni: lo hanno dovuto sorreggere mentre si sedeva ma poi, sistemato sulla sua poltroncina rossa, ha ascoltato con attenzione, assopendosi solo per un attimo.
Intanto questo Congresso rieleggerà Xi alla guida del Partito, con ogni probabilità iscriverà il «Pensiero di Xi» nella sua costituzione. E se gli esperti avranno ragione, il segretario generale resterà al vertice anche dopo il 2020, per altri cinque anni almeno. Ne sapremo di più a conclusione del Congresso, con la presentazione del nuovo Politburo il 25 ottobre.
Qual è la via per raggiungere gli obiettivi dei due centenari? Più forza al Partito e al suo capo indiscusso e indiscutibile. E per garantire la legittimità comunista a governare Xi insiste che la campagna anticorruzione deve continuare. Il 10% dei membri del Comitato centrale è stato epurato, 280 dignitari di rango ministeriale o superiore sono finiti in carcere; 1,3 milioni di burocrati di medio o basso livello sono stati puniti. Xi ama chiamare i grandi mandarini corrotti «tigri da abbattere», i piccoli funzionari ladri «mosche da schiacciare» e ieri ha aggiunto «le volpi da stanare», riferendosi a chi è fuggito all’estero con centinaia di miliardi sottratti al popolo. Il passaggio sulla lotta ai corrotti ha ricevuto l’applauso più lungo.
Sul fronte geopolitico la Cina dovrà essere una potenza globale, con «un esercito costruito per combattere», anche se Pechino «non cercherà mai egemonia ed espansionismo». Nemmeno un accenno a Nord Corea e Trump. Citazione per Taiwan che deve tornare alla madrepatria. Poi, di nuovo, il tema della Cina da fare «bella», proteggendo l’ambiente con uno «sviluppo verde». Qui Xi, visto che il cielo sopra Pechino è coperto dallo smog, ha ammesso che i livelli di inquinamento sono malsani. Ma subito ha aggiunto che ogni dirigente del Partito respira la stessa aria del popolo.
In campo economico Xi ha assicurato che la Cina continuerà ad aprirsi, che tassi d’interesse e cambio dello yuan saranno più basati sul mercato. Ma sulle sue promesse riformiste del 2012 nessuno in Occidente fa più conto. Il controllo del Partito sulle imprese si sta facendo ancora più invasivo.
Resta la crescita sempre confortante: 6,9% nella prima metà dell’anno. È con questi numeri che Xi può permettersi di dire che il Partito ha come missione di provvedere alla felicità del popolo. La nuova era è l’era di Xi.

il manifesto 19.10.17
Xi al Congresso del Pcc: «Ecco la nuova era del socialismo cinese»
Cina. Tre ore e mezzo di discorso del segretario e presidente cinese ai duemila delegati: «Rinnovare non è una passeggiata nel parco». L'obiettivo è proseguire sulla strada di politiche interne miranti ad allargare l’uguaglianza sociale attraverso un miglioramento delle condizioni di vita
di Simone Pieranni

La rivoluzione non è un pranzo di gala, lo sappiamo tutti, e ora Xi Jinping ci ricorda che rinnovare il paese «non è come fare una passeggiata nel parco».
Con la consueta verve retorica e ricca di riferimenti colti, Xi Jinping con tre ore e mezzo di discorso di apertura al Congresso del Partito comunista cinese, ha messo nero su bianco quanto emerso in cinque anni di vertice: con lo stretto controllo politico del Partito sulla società cinese, la difesa da influenze esterne e il grande spirito del popolo cinese, la Cina entrerà in una «nuova era» nella quale sarà spinto al massimo il socialismo con caratteristiche cinese, ottenendo una moderata prosperità della popolazione e un ruolo globale rilevante del paese.
Ieri Xi Jinping, il segretario del partito comunista cinese dal 2012 e presidente della repubblica popolare dal 2013, ha aperto i lavori del diciannovesimo congresso del partito comunista scandendo i successi ottenuti in questi ultimi cinque anni e lanciando il paese direttamente verso il 2050, un anno dopo il centenario della nascita della Cina popolare.
A quel punto, ha detto Xi Jinping nel suo lungo discorso, la Cina sarà una grande e moderna nazione socialista. I due fulcri per ottenere questo risultato sono estremamente importanti per comprendere tanto il «pensiero» di Xi Jinping, quanto la tendenza futura della Cina: il primo punto da ottenere sarà quello che consentirà il raggiungimento di una società moderatamente prospera.
Significa che la Cina, pur con le sue contraddizioni ai nostri occhi, prosegue una strada di politiche interne miranti ad allargare l’uguaglianza sociale attraverso un miglioramento delle condizioni di vita di tutta la popolazione. Portando al paradosso le parole di Xi, potremmo immaginarci questa tendenza: un paese formato da una élite e da una stragrande maggioranza di popolazione da annoverare quale «classe media».
Per ottenere questo risultato il focus sarà il mondo rurale: è in quell’ambito che si annidano i milioni di poveri ancora esistenti in Cina, sacche sociali rimaste indietro per i difetti, che la dirigenza cinese conosce perfettamente, dovuti allo straordinario sviluppo degli ultimi anni.
L’urbanizzazione e la spinta su progetti edilizi e di grandi opere hanno lasciato indietro fette di popolazioni che quelle strutture, di fatto, non possono neanche sognarle, altro che viverle, farle proprie o concepirle come centro della propria vita.
Non a caso Tuo Zhen, portavoce del 19mo Congresso Nazionale del Partito comunista, ha ricordato che «la chiave per l’edificazione di una società moderatamente prospera risiede nella popolazione rurale. La vera sfida sta nel sollevare dalla povertà la popolazione delle aree rurali più depresse del paese».
Dall’inizio del suo mandato, ha ricordato il portavoce, il presidente Xi ha posto il contrasto alla povertà al primo posto dell’agenda del partito, «presiedendo a 17 importanti riunioni e ordinando 25 studi sull’argomento». Tra la fine del 2012 e la fine dello scorso anno, il numero di cittadini cinesi che vivono in condizioni di povertà, secondo i dati ufficiali, è calato da 98,9 a 43,3 milioni
Il secondo architrave della «nuova era» della Cina moderna e socialista concepita da Xi Jinping è sicuramente la politica estera: Xi ha promesso un paese aperto a investimenti stranieri, come ha sempre ribadito, ma ha anche specificato la necessità di modernizzare le forze armate, vero e proprio gap tra Cina e Usa. E ha ribadito che la Cina avrà un ruolo molto più centrale che in passato sulla scena internazionale.
Da segnalare poi alcuni avvertimenti; Xi Jinping ha specificato che «dobbiamo dire con chiarezza che permangono elementi di inadeguatezza nel nostro lavoro, e numerose sfide a venire».
La Cina, ha detto il presidente, si trova a uno «stadio preliminare» del socialismo e il paese è «sotto molti aspetti» ancora in via di sviluppo. Infine Xi Jinping ha avvertito gli oppositori, esprimendo «ferma opposizione» a chiunque possa minare l’unità del paese e – soprattutto – la sua leadership: «Dobbiamo fare di più per proteggere gli interessi del popolo e opporci fermamente a qualsiasi iniziativa possa arrecargli danno, o allontanare il Partito dal popolo».

Il Fatto 19.10.17
“Xi il fustigatore ha in mente una nuova Cina”
Francesco Sisci - Il ricercatore all’università di Pechino: “Il leader vuole la riforma delle imprese statali”
“Xi il fustigatore ha in mente una nuova Cina”
di And. Val.

La Cina reclama apertamente il suo ruolo di superpotenza. Prima per popolazione nel mondo (1,4 miliardi di abitanti), seconda realtà economica dopo gli Usa, il gigante asiatico celebra il diciannovesimo congresso del Partito comunista, organo-Stato al centro del quale c’è sempre la figura del presidente Xi Jinping, alla guida del Paese dal 2012: un quinquennio di riforme che ha però negato ogni forma di dissenso e critica verso il potere.
Francesco Sisci è un esperto di Cina e ricercatore all’Università popolare di Pechino.
Chi è Xi?
Nelle intenzioni di chi l’ha eletto, cinque anni fa, doveva essere un burattino facilmente manipolabile dagli apparati dello Stato. Non è andata così. Spezzando una tradizione che era arrivata fino al suo predecessore Hu Jintao, per cui doveva diventare il terminale di una banda di leader anziani, Xi ha accentrato tutto il potere su di sé. Lo ha fatto per riprendersi il controllo di un sistema molto frammentato, fatto da funzionari di partito con ampia autonomia a livello locale. Per raggiungere l’obiettivo, si è servito di una campagna anti-corruzione, sistematica e continuativa. In modo strumentale, certo, ma non inutile, dato che il livello di corruzione aveva inceppato la macchina amministrativa.
Che succederà durante questa settimana di congresso?
In primo luogo, Xi vorrà piazzare i suoi uomini. I nomi li sapremo alla fine, comunque il leader cinese ha già, tra le altre cose, messo sotto processo un milione e mezzo di funzionari. Entro il 25 ottobre saranno nominati circa 350 membri del Comitato centrale, 25 del Politburo e 7 del Comitato Permanente: la piramide ascendente del potere.
I suoi uomini, certo. Ma per fare cosa?
La proposta chiave è la riforma delle imprese di Stato, che rappresentano oggi il 70% dell’economia della Repubblica Popolare, ma sostengono solo il 30% del Pil. Idealmente Xi vorrebbe riformare seguendo il modello delle public companies adottato in economie come quella tedesca o giapponese. Le resistenze dei burocrati sono molte e non sarà facile.
A questo punto, possiamo dire che è lui il politico più potente del mondo, come suggerisce l’Economist?
L’economia cinese è ancora lontana da quella americana, ma Xi ha più poteri di Trump. Noi occidentali siamo vittime di una distorsione: sappiamo tutto di primarie, elezioni e dinamiche politiche degli Stati Uniti, mentre quasi ci disinteressiamo di quanto avviene nei palazzi del potere di Pechino. Certo, la politica cinese è opaca, il contrario della spettacolarizzazione operata da Washington. Ma dovremmo essere proprio noi, opinione pubblica europea, a forzarli alla trasparenza.
Non sembra facile, in una realtà monopartitica che censura il web come veicolo del dissenso. Detto questo, il congresso dei comunisti di Pechino sembra qualcosa di remoto. Perché, invece, ci riguarda?
Se il leader cinese decide che si mangia solo maiale, il prezzo anche da noi salirà. Se i cinesi usano meno petrolio, il prezzo scenderà a livello globale. In questo senso ha ragione l’Economist: Xi non ha potere solo sulla Cina, ma su tutto il mondo.
Dove va la Cina?
Il suo interesse principale a livello strategico si chiama ‘Nuova Via della Seta’. Dal Rinascimento in poi, dopo la caduta di Costantinopoli in mano ai turchi (1453), tutto il commercio si è spostato sulla rotta atlantica, dando centralità all’America. Adesso da Pechino a Venezia, Berlino, Parigi e Londra non ci sono più ostacoli e Xi ha capito: meglio il giro corto, senza passare per gli Usa.

Corriere 19.10.17
«La repressione non basta, la corruzione va prevenuta»
Per He Jiahong l’indipendenza del sistema giudiziario è un valore. «Altrimenti è sopruso»
di G. Sant

PECHINO Xi Jinping dice che il Partito continuerà a spazzare via i corrotti. Già più di un milione e trecentomila funzionari sono stati puniti da fine 2012. Questa massa di purgati odia il governo? Lo chiediamo a He Jiahong, professore di diritto penale all’Università Renmin di Pechino e nel tempo libero scrittore di romanzi criminali (in Italia Mursia ha pubblicato «La donna pazza»). «Non posso leggere nella loro anima, ma penso di sì», dice il giurista e spiega: «Incarcerati, hanno confessato, è stata la rovina e l’umiliazione per le loro famiglie, è credibile che provino odio».
E questo risentimento di massa non è un pericolo per la stabilità cinese? «In un certo senso sì, c’è lotta politica, ma parliamo sempre di una frazione della nostra burocrazia, che conta 9-10 milioni di funzionari. E poi la campagna anticorruzione ha il sostegno della gente, che odia chi abusa del potere. Quindi la battaglia proseguirà, anche se ora dovrebbe esserci un cambiamento di focus, dalla semplice repressione alla prevenzione, altrimenti continueremo a dover processare i ladri per 40 anni e nel frattempo se ne aggiungeranno molti altri».
He Jiahong è un giurista e intellettuale che spiega la Cina dal suo interno, con libertà di pensiero, senza superare la linea rossa. Già nel 2008 aveva proposto un’amnistia e una legge che imponesse ai funzionari di dichiarare il loro patrimonio in pubblico. La priorità, nella sua visione dovrebbe essere «non la corruzione di ieri ma quella di domani». La proposta è stata bocciata: «Mi hanno detto che sarebbe stata impopolare e politicamente rischiosa».
Il giurista si è concentrato sull’indipendenza del sistema giudiziario, che ora dipende dal potere politico e, soprattutto lontano dalle città, porta a soprusi e «punizioni selettive». «Nelle contee il capo locale del Partito controlla la corte e quindi è facile interferire», spiega. Entro fine anno il controllo dovrebbe passare a livello provinciale e secondo He si tratta di un buon passo.
Il professore, nato nel 1953 a Pechino, aveva 13 anni quando cominciò la Rivoluzione Culturale: «Mi sentivo molto rivoluzionario, andai anch’io a zappare in campagna, ma poi capii che in quella fase si era aperto un buco nero nella storia della Cina». Però non mette in dubbio il primato del Partito. «Democrazia in cinese si dice “min zhu”, che significa “popolo padrone”, senza dover andare alle urne perché c’è già il Partito comunista a rappresentarlo. La democrazia occidentale non può essere esportata, al massimo importata, altrimenti finisce come in Iraq e in Siria; il multipartitismo da noi porterebbe al caos e sarebbe un disastro: la Cina ha una storia di guerra civile che non è bene per la gente, si muore».

La Stampa19.10.17
L’agenda di Xi tutto il potere resta allo Stato
Il presidente ha parlato per oltre 3 ore ai delegati Qual è la sua idea di Cina?
di Francesco Radicioni

La Cina è entrata in una nuova era. Il presidente Xi Jinping si è preso quasi tre ore e mezzo per spiegare la propria visione del futuro della Cina e del ruolo che Pechino deve avere nel mondo. «Bisogna lavorare senza sosta per la realizzazione del sogno cinese di grande rinascimento nazionale», ha detto Xi Jinping nella cerimonia di apertura del 19° Congresso del Partito Comunista. Davanti agli oltre 2.200 delegati arrivati a Pechino per l’evento più importante nella liturgia del potere cinese, Xi ha chiarito che la sua presidenza vuole rappresentare uno spartiacque nella storia della Repubblica popolare e che la missione che si è dato ha un respiro che durerà decenni. «La costruzione di una grande e moderna nazione socialista» e il sogno di fare della Cina un Paese «forte, culturalmente avanzato e con una qualità della vita più alta» non potranno essere - ha spiegato - «una passeggiata in un parco». Insomma, è proprio per riuscire a raggiungere obiettivi così ambiziosi - sembra dire tra le righe Xi Jinping - che è stato necessario accentrare nelle proprie mani tanto potere come non si vedeva da decenni a Pechino. Segretario del Partito comunista, Capo dello Stato, Presidente della Commissione Militare Centrale e un’altra decina di cariche ufficiali: molti sono i titoli collezioni in questi anni da Xi. Davanti al gotha del potere di Pechino Xi Jinping ha elencato le molte sfide che attendono la Repubblica popolare nei prossimi anni. Ha parlato di economia: contenere i rischi finanziari, spingere sull’innovazione e tutelare l’ambiente. L’impegno a «sostenere la crescita del settore privato» è stato bilanciato dall’affermazione del controllo del governo sulle politiche economiche e sulle imprese di Stato. Applausi quando ha rivendicato i successi della lotta alla corruzione che ha punito centinaia di migliaia di funzionari pubblici. Non c’è spiraglio per un’apertura sulle riforme politiche. «Nessun sistema politico dovrebbe essere considerato l’unica soluzione possibile - ha detto - e non dovremmo limitarci a copiare modelli di altri Paesi». Xi Jinping ha anche elencato i successi della propria politica estera: il G20 di Hangzhou, le nuove Vie della seta e la creazione dell’Asian Infrastructure Investment Bank. Mostrando la determinazione della Repubblica popolare nel difendere ovunque - a Taiwan, Hong Kong o nel Mar Cinese Meridionale - la propria sovranità, Xi Jinping ha anche offerto al mondo un nuovo modello «per quei Paesi che vogliono stimolare lo sviluppo, senza sacrificare la propria indipendenza».

Repubblica  19.10.17
La paura del Banksy cinese “Ora il gioco si fa pericoloso”
Badiucao, il disegnatore misterioso in fuga dal regime
Il sermone di Xi Ping. 203 minuti per negare un futuro democratico
intervista di Angelo Aquaro

PECHINO GLI CHIEDI se ha paura, e lo senti anche attraverso Skype che la voce finora serena e perfino allegra si increspa. «Sì», dice abbozzando una risata troppo nervosa Badiucao, il Banksy cinese, il disegnatore misterioso in fuga dal regime. «Più vai avanti nel tuo lavoro e più ti accorgi che stai alzando l’asticella: e il gioco si fa più pericoloso». Oggi, a Washington, la presidente del comitato per il Nobel, Berit Reiss-Andersen, ricorderà Liu Xiaobo e chiederà la liberazione della vedova, Liu Xia, nella cerimonia organizzata da Human Rights Watch proprio in concomitanza del Congresso, benedetta dagli eroi invisi a Pechino: dal Dalai Lama a Yang Jianli, l’ex leader degli studenti di Tiananmen. Ma se tanti ragazzi di tutto il mondo si sono avvicinati alla storia del Nobel lasciato morire in prigione è anche grazie all’ultima asticella alzata da questo dissidente della matita: quel ritratto che è diventato subito virale su Internet.
Liu Xiaobo era scomparso da poche ore e già il suo disegno correva sul web.
«C’è la denuncia che richiede tempo, studio, progetto. La serie “Chi è Liu Xia”, per esempio, lanciata in questi giorni con Amnesty International, ritrae la vedova di Liu Xiaobo associata alle donne famose della pittura, da Monna Lisa alla Ragazza con l’Orecchino di Perla. Ma poi c’è la denuncia immediata, la satira che risponde a un’emergenza. Come quando bisogna reagire alle catastrofi, ai terremoti: a un disastro come la morte di Liu Xiaobo».
Xi Jinping inaugura il Congresso e annuncia la nascita di una “nuova era”: ma sotto il suo primo mandato le libertà si sono sempre più ristrette. Spera anche lei, come tanti, che consolidato il potere possa “riaprire” il Paese e allentare la morsa?
«Certo che sì: e nominarsi finalmente imperatore. Ma andiamo: è sempre la stessa storia che il regime continua a rivenderci. È successo con Jang Zemin, è successo con Hu Jintao. Dicono: sta consolidando il potere per dedicarsi alle riforme. Ma poi? Non sarà certo Xi Jinping a rappresentare l’eccezione: vista la situazione del Paese».
Ma come: in un mondo ancora in crisi la Cina resta il motore che gira meglio.
«L’inquinamento. L’invecchiamento della società che ha costretto a cancellare la politica del figlio unico: anzi addirittura a spingere a fare più bambini. E in questo clima come puoi aspettarti le riforme? Non credo proprio che l’Imperatore Xi si possa trasformare, d’incanto, nel presidente Washington».
La Cina non cambierà?
«Sicuramente il cambiamento non arriverà dall’alto. Spero dal basso, perché perfino la classe media, al di là delle propagande del regime, fatica. Ma non sono ottimista. Per troppo tempo abbiamo pensato che il cambiamento sarebbe arrivato inevitabile con l’apertura al mercato e alle altre culture. Si diceva: i ragazzi che vanno a studiare fuori, i professionisti che assaporano certe libertà, torneranno e vorranno cambiare le cose anche da noi».
Perché non è successo.
«Nasce tutto con il terrorismo: ha portato alla paura dell’altro, alla rinascita dei nazionalismi e dei populismi, guardate il ritorno dei suprematisti bianchi in America. Lo vedo anche qui, dove vivo ora, in Australia, il razzismo scatenato».
Sta dicendo, come Ai Weiwei, che è anche colpa dell’Occidente?
«Sto dicendo che ci sentiamo sempre meno sicuri, guardati come diversi. E qui interviene la madrepatria: affidatevi a noi, vi proteggiamo noi. I giovani che vanno a studiare all’estero, oggi, vivono in comunità chiuse e sempre più controllate da Pechino. È un lavaggio del cervello: lo dimostra il successo, anche tra i cinesi per il mondo, di un film nazionalista come Wolf Warrior 2. La Cina si riscopre eroica e rialza la testa: volgendo però lo sguardo dove il regime vuole».
La paragonano a Banksy: anche lui senza volto, anche lui anti-sistema.
«Mi piace, lo capisco, anche se i miei miti sono altri: Ai Waiwei appunto, che ho conosciuto, e mi ha anche dato un paio di dritte. Banksy ha creato questo mito giocando sull’artista misterioso, che può essere tutti o nessuno: fa audience. Funziona anche per me: peccato che io non l’abbia scelto. Lui avrà paura, che so, di essere pizzicato dalla polizia inglese: certo non di essere picchiato, o di sparire per giorni o per sempre. Io mi confronto con gente capace di tutto: e devo proteggere la mia famiglia rimasta laggiù ».
Che cosa le dà più forza?
«Ho paura, ma so di fare la cosa giusta: soprattutto per i tanti, troppi artisti che in Cina rischiano ben più di me».
E che cosa le manca di più?
«Risponderò come direbbero tutti i cinesi: il cibo… La verità è che quando ti lasci un mondo alle spalle, la cosa che ti fa più paura, come artista, è l’ispirazione. Il mio lavoro è politico: ma sarò ancora capace di esprimere la vera Cina? Oppure sto combattendo per una causa che ormai esiste solo nella mia immaginazione?».

PECHINO. Il sogno cinese di Xi Jinping è un incubo da 203 minuti per Jiang Zemin, l’ex leaderissimo che a 91 anni resta ostaggio sul palco del Politburo, e durante l’interminabile discorso non smette di guardare disperato l’orologio, sbadiglia, si distrae, se potesse schiaccerebbe un pisolo. Hu Jintao, al giro di boa del mid term, il primo stadio dei 10 anni di governo stabiliti per tradizione, aveva tediato i suoi simili per 90 minuti appena. E invece il riconfermando segretario generale, presidente della Repubblica, capo delle forze armate e titolare di almeno altri otto titoli onorifici, Xi Jinping, legge le 66 pagine del discorso senza un’interruzione, frenando solo una volta, dopo le prime due ore e mezzo, e trattenendo il respiro per una trentina di secondi. Finito? No, falso allarme, ci pensa il commesso della Grande Sala del Popolo a raggiungerlo sul podio per cambiargli il bicchiere: acqua calda o te? I 2.280 delegati seguono in religioso, cioè laico silenzio, scandito solo dallo sfrusciare all’unisono delle pagine del discorso che alla stampa verrà distribuito alla fine: per evitare il fuggi fuggi? Non è l’unica cattiveria fatta ai giornalisti: con che coraggio, per esempio, il partito ha vietato, nero su bianco, l’uso degli stick per i selfie? E non è un po’ troppo, mentre Xi dice che la Cina «non copierà mai» i sistemi politici stranieri — di fatto negando la democrazia “una testa un voto” — sottolineare in un comunicato la regola «un giornalista, un telefonino», non un cellulare di più? Perfino Robert Lawrence Kuhn, il prof americano commentatore di CCTV, la tv di Stato, abbandona la nave prima che capitan Xi raggiunga l’approdo, svicolando dalla platea stampa. Eppure il discorso piace nei posti più impensati: a Pyongyang, per esempio, dove invece di spedire un missile o regalare un test nucleare, come ha fatto durante gli ultimi appuntamenti internazionali, Kim Jong-un manda gli auguri «al fraterno popolo cinese». Che pazientemente sopporta. Il disappunto per il discorso troppo lungo, velatissimo, si insegue però sul web, che pure il nuovo Mao promette di mantenere «pulito» — leggi “imbavagliato”. «Oh mio dio, 3 e ore e mezzo!», dice un post su Weibo, il Facebook di qui. Eppure l’hashtag #19esimo congresso spacca per tutta la Cina: la France Press conta 1 miliardo e 190mila visualizzazioni, praticamente l’intero Impero, 1 miliardo e 450milioni di anime. Sì, il sogno cinese è diventato davvero un incubo: si addormenti chi può.
( a. aq.)

il manifesto 19.10.17
Il 21 ottobre in piazza contro il razzismo
#Nonèreato. Abbiamo bisogno di giovani, ragazze e ragazzi italiani e nuovi cittadini, per costruire il futuro di questo paese; abbiamo bisogno di accoglienza, solidarietà e speranza

Condividiamo le ragioni della manifestazione del 21 ottobre contro il razzismo a Roma, testimoniamo l’umanità che ci unisce.
Rifiutiamo le distinzioni e le etichette con le quali si classificano gli sventurati che attraversano l’Africa e il Medio Oriente sperando nell’accoglienza dell’Italia e dell’Europa. I rifugiati come i cosiddetti migranti economici tentano tutti di sfuggire alla morte: morte per guerra o morte per fame. Ma la risposta europea è stata la chiusura della rotta balcanica prima e della rotta libica poi, e il Mediterraneo è diventato il cimitero di oltre cinquantamila migranti.
La strada degli accordi con i regimi dei paesi dell’altra sponda non solo implica aiuti economici a governi opachi dalla democrazia malconcia, ma il prezzo dell’alleanza con le milizie libiche vuol dire costruire un inferno dove i migranti sono torturati, stuprati o mandati a morire di sete nel deserto, come ha denunciato l’Onu.
Noi non vediamo, non sappiamo o fingiamo di non vedere e non sapere?
Siamo consapevoli di avere una parte di responsabilità in questo disastro?
Il surriscaldamento del globo terrestre correlato al nostro sistema di vita aggraverà i problemi climatici, e la crisi alimentare in Etiopia, Somalia, Sud Sudan, Nord Kenya e Lago Ciad creerà altra fame.
Le armi vendute in Sudan, Somalia, Eritrea, Centro Africa, Mali contribuiscono ad incrementare guerre sempre più feroci. E non si dica «Aiutiamoli a casa loro» perché – colmo di ipocrisia – la politica economica verso l’Africa è un saccheggio di materie prime e, in seguito ad accordi a svantaggio dei paesi africani, sarà causa di ulteriore impoverimento.
Se questo si tace, non si capisce perché tanta gente fugge e si diffonde la paranoia dell’invasione. Da qui alla xenofobia e al razzismo il passo è breve.
Quando criminalizziamo i migranti definendoli clandestini, neghiamo l’umanità delle persone. Calpestiamo quei diritti sanciti dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, per cui si ha diritto ad una vita sicura, alla libertà di movimento e ad una esistenza dignitosa. Svalutiamo quanto abbiamo raggiunto, dopo il buio delle guerre mondiali che hanno devastato l’Europa, mentre invece la Convenzione di Ginevra vieta il respingimento se vita e libertà sono minacciate.
Ma non sono queste le prospettive peggiori: negando l’uguaglianza e la libertà delle persone, diventando discriminanti di fronte alla diversità e alla povertà, rischiamo di distruggere quei valori che i nostri padri hanno difeso creando l’Europa patria dei diritti. Il danno potrebbe essere enorme ed imprevedibile, e potrebbe ricadere anche su di noi.
Non siamo di fronte a nessuna invasione, invenzione mediatica, e di altro invece ci si dovrebbe preoccupare. Non solo le nascite sono scarse, ma l’Italia è tornata ad essere un paese di emigranti: giovani soprattutto che espatriano deprivando il paese di energie vitali. Per il momento, ancora nessuno osa dirgli che vanno a rubare il lavoro all’estero.
Abbiamo bisogno di giovani, ragazze e ragazzi italiani e nuovi cittadini, per costruire il futuro di questo paese; abbiamo bisogno di accoglienza, solidarietà e speranza. Di responsabilità e lealtà nel servizio della politica, dell’informazione e della creazione di coscienza pubblica contro chi semina odio, paure e violenza. Per questo ci appelliamo alle persone di buona volontà.
Senza timore di testimoniare, manifestiamo l’umanità che ci unisce.
Per adesioni: 21ottobrecontroilrazzismo@gmail.com
*** Primi firmatari: Monsignor Raffaele Nogaro, don Luigi Ciotti, Andrea Camilleri, Moni Ovadia, Toni Servillo, Giuseppe Massafra, Luciana Castellina, Carlo Petrini
Tra le organizzazioni che aderiscono:
A Buon Diritto; A MM-Archivio delle memorie migranti; A.C.S.E. (Associazione Comboniana Servizio Emigrati e Profughi); Action Aid; ADIF (Associazione Diritti e Frontiere); Agenzia Habeshia; Altramente; Amnesty International Italia; Antigone; AOI; Arci; Arcigay Napoli; Arcs; ARS (Associazione per il rinnovamento della sinistra); Articolo 3 Osservatorio sulle discriminazioni; ASGI; ASI (Associazione solidarietà internazionale); Asinitas Onlus; Associazione “Con…Officine Gomitoli”; Associazione Chi rom e…chi no; Associazione CIAC onlus di Parma; Associazione Cultura è  Libertà; Associazione culturale la festa dei folli; Associazione Dhuumcatu; Associazione d’iniziativa politica e culturale “IN COMUNE”; Associazione Gylania di Perugia; Associazione Insieme Onlus di Vicchio Firenze; Associazione Italia – Nicaragua; Associazione K_Alma; Associazione Laura Lombardo Radice; Associazione Le Mafalde Prato; Associazione Linearmente Onlus; Associazione Marco Mascagni; Associazione Maschile Plurale; Associazione Nazionale di Amicizia Italia-Cuba; Associazione nazionale di solidarietà con il popolo Sahrawi (ANSPS); Associazione Nazionale Giuristi Democratici; Associazione per la Pace Nazionale; Associazione Spazio Libero; Associazione Sucar Drom; Associazione Transglobal; Associazione Voci della Terra; Associazione Welcome in Val di Cecina ONLUS; AssoPacePalestina; Attac Italia; Baobab Experience; Campagna LasciateCIEntrare; Campo Progressista; Casa Internazionale delle Donne; Casetta Rossa; Centro Riforma dello Stato; Cesv (Centro di Servizio per il Volontariato); Cild; CIPSI; Circolo culturale cerco…piteco di Roma; Cittadinanza e Minoranze; Cittadinanzattiva; Cnca; Coalizione Civica di Bologna; Coalizione Sociale – L’Aquila; COBAS; Comitato 3e32 – L’Aquila; Comitato Accoglienza Solidale Castelnuovo di Val di Cecina; Comitato Fiorentino Fermiamo la Guerra; Comitato Organizzatore “Convegno Libertà delle donne 21 sec. “; Comitato Popolare Antirazzista Milet Tesfamariam Genova; Comitato Verità e Giustizia per i Nuovi Desaparecidos; Comune-info.net; Coop. Agorà Kroton; Coop. Gea Irpina Impresa Sociale Fattoria Sociale Onlus; Cooperativa Be free; Cooperativa Sociale Dedalus; Coordinamento Basta morti nel Mediterrraneo – Firenze; Coordinamento genitori democratici di Roma; Coordinamento nord sud del mondo; Coordinamento per la democrazia Costituzionale; COSPE; COTRAD Cooperativa Sociale ONLUS; Cultura è libertà; E Zezi gruppo operaio; Emergency; EMMAUS ITALIA; Ex Opg – Je So Pazzo; Filef (Federazione Italiana Lavoratori Emigranti e Famiglie); Fiom-Cgil nazionale; FLC Cgil; Focus-Casa dei Diritti Sociali; Fondazione Cercare Ancora; Forum Droghe onlus; Gesco; Giornale “Il Bolscevico”; Giuristi Democratici di Roma; Greenpeace Italia; Gruppo Abele; Gruppo PaLaDe (sez. Roma nordovest Alleanza per la Democrazia e l’Uguaglianza); Italiani senza cittadinanza; Kumpania impresa sociale; l’Altra Europa con Tsipras; Legacoopsociali; LegaCoopSociali Nazionale; Legambiente; Libera; Libertà e Giustizia; Link Coordinamento Universitario; Lunaria; Medici Senza Frontiere; MEDU; Movimento Consumatori; Movimento Nonviolento; Nelpaese.it; Noi Siamo Chiesa, movimento per la riforma della Chiesa cattolica; Nuova Arca Cooperativa Sociale; Osservatorio Migranti di Basilicata; PMLI; Possibile; Prc S.E; Progetto Diritti; Progetto Ubuntu Firenze; Radicali italiani; Redazione periodico Lavoro e Salute; Reorient Onlus; Rete Antirazzista Fiorentina; Rete degli Operatori e delle Operatrici Sociali; Rete degli Studenti Medi; Rete della Conoscenza; Rete della Pace; Rete delle Città in Comune; Rete ECO – Ebrei contro l’occupazione; Rete italiana delle Donne in Nero; Rete nazionale “EDUCARE ALLE DIFFERENZE”; Rete Primo Marzo; Rete Radiè Resch; Rete Scuole Migranti; S.E.I. Sindacato Emigranti e Immigrati; Senzaconfine; Servizio Civile Internazionale; Sinistra Italiana; SOS Razzismo Italia; Sprar “Valeria Solesin” (AV); Sud Pontino Social Forum; UDS; UDU; UISP; Un ponte per… ; Una città in comune Pisa; Unione Sindacale Italiana fondata nel 1912; USACLI.

il manifesto 19.10.17
Asia Argento
Cara sinistra ascolta la denuncia delle donne
Sinistra e femminismo. Dobbiamo ascoltare un linguaggio che non conosciamo abbastanza, e riconoscere un sistema etico e di valori che consideriamo, sbagliando, altro da noi
di Maria Cecilia Guerra

Da quando l’attrice Asia Argento ha denunciato sul New Yorker il suo stupratore, un potente produttore di Hollywood, si è verificato qualcosa di straordinario. Intanto altre vittime dello stesso uomo hanno parlato, scoperchiando un sistema corrotto.
Un sistema ben radicato e ben corazzato, nel quale tutti sapevano e nessuno parlava, alcuni venivano pagati per tacere, altri ancora per insabbiare.
Ma soprattutto è successo che l’onda di parole femminili, di rivelazioni, di racconti di violenze, stupri, molestie, ricatti, abusi di potere non si è fermata a Hollywood e agli Usa. Con l’hashtag #metoo (anche io, è successo anche a me) centinaia di migliaia di donne e ragazze sui social media hanno strappato il sipario e rivelato la scena di una sopraffazione maschile raccapricciante e estremamente diffusa.
Il dato certo non è nuovo, ma è nuovo questo impetuoso movimento di massa che attraversa gli oceani e sbatte in faccia agli uomini e al potere la loro responsabilità e il disgusto che ne accompagna i comportamenti violenti, con la ferma intenzione di dire basta e di mettere fino a tutto questo.
Come è possibile, allora, che la politica e le istituzioni non reagiscano, tacciano davanti a questa enorme protesta?
Io non voglio tacere. Non solo perché sono ben consapevole che ogni testimonianza è vera e sofferta, ma anche perché sono certa, certissima, che qui si vede in trasparenza un nodo della crisi della rappresentanza politica. Un punto politico che tutte e tutti siamo chiamati a interrogare trovando le necessarie risposte.
In particolare parlo per me e per i miei compagni, quelli con i quali ho l’ambizione di costruire una realtà politica a sinistra del Pd che ascolti le proteste e le istanze di questo Paese.
Non possiamo farlo senza le donne, non possiamo farlo senza la forza femminile e senza la loro creatività, senza la capacità delle donne di rovesciare l’ordine del discorso corrente e di portare nel senso comune voci e istanze di enorme valore non ancora riconosciute.
Quello che scopriamo impiegando anche solo mezzora a leggere ciò che viene raccontato con l’hashtag collettivo #metoo (in Italia anche #quellavoltache) è il risultato di un odioso abuso di potere sul lavoro, nella scuola, nelle nostre città, nei servizi pubblici, nelle famiglie.
In ogni parte del mondo, in ogni contesto sociale e culturale. Ovunque le donne vengono valutate di meno, pagate di meno, occupate di meno, ricattate di più. Donne che tacciono per paura di perdere il lavoro, di vedere schiacciati i loro sogni, di non essere credute, di essere insultate e disprezzate come succede in questi giorni alla coraggiosa Asia Argento.
Queste donne non si fidano di noi e non si fidano delle istituzioni: non delle forze dell’ordine, non della magistratura, non delle loro comunità. Temono di ritrovarsi sul banco degli imputati al posto del carnefice. Temono che il provvedimento di tutela e giustizia che chiedono e che spetta loro arriverà troppo tardi per salvarle. Temono che non arriverà mai.
Sono preoccupate di vedere le loro figlie passare attraverso lo stesso inferno e la stessa gogna. Sono sfiduciate, non credono che la cultura patriarcale cambi, e che la politica faccia la sua parte per accelerare questo cambiamento.
A questo bisogna mettere riparo, al più presto. E con il femminismo, con le associazioni di donne, con le rappresentanze sindacali che si impegnano ogni giorno con le lavoratrici, dobbiamo aprire subito un confronto. Essere disponibili ad ascoltare un linguaggio che non conosciamo abbastanza, a riconoscere un sistema etico e di valori che non abbiamo saputo assimilare e che, sbagliando, consideriamo altro da noi.
Se non faremo questo, metà del mondo sarà fuori dal nostro raggio d’azione, dunque la nostra azione non sarà efficace. E non sapremo rappresentare la parte del paese che non trova più ascolto nella politica e nelle istituzioni, perché le donne ne occupano il centro, e non da ieri.
* L’autrice è presidente dei senatori Mdp

La Stampa 19.10.17
Le donne non fanno sistema
di Linda Laura Sabbadini

Asia Argento denuncia pubblicamente la violenza subita da uno dei maggiori produttori di Hollywood, Harvey Weinstein, lo denuncia insieme a tante altre vittime. La valanga di accuse che si è abbattuta su Weinstein ha creato un vero terremoto.
nel giro di pochi giorni il potere sessista di Weinstein si sgretola. Fuori dal club degli Oscar, fuori dal sindacato produttori, via la Legione d’Onore. Il produttore che considerava le donne sua preda deve fare le valigie e sparire. Non solo. I social vengono invasi da twitter virali in tutto il mondo, tantissime donne si scatenano e partendo dalla loro voglia di libertà e di normalità cominciano a raccontare le loro storie di ricatti sessuali sul lavoro, di violenze subite, da bambine, da adulte, da anziane. Da disoccupate, da operaie, da precarie, da dirigenti, da artiste e da libere professioniste. Tante storie terribili, partendo da sé, dal proprio vissuto, che accomunano tutte. Non vogliono obbedire al maschio di turno che solo perché ha il potere si sente in dovere di esercitarlo per dominare e ricattare sessualmente una donna. Se vi fermate a leggere le testimonianze fanno impressione. Voi uomini, leggetele, e provate ad immaginare per un momento come vi sentireste, subendo le stesse violenze, l’umiliazione, la vergogna, la paura, l’angoscia…. Ma accanto alle donne che hanno reagito ci sono stati anche tanti uomini e questa è una cosa molto bella. Uomini che hanno sensi di colpa? Può essere, ma non credo sia così per tutti. Mi oriento a credere che siano uomini che hanno capito e che sono cambiati, condividendo le loro vite con donne che libere tentano e vogliono esserlo. Purtroppo non credo che questi uomini siano la maggioranza. Ma penso che debbano scendere in campo con forza, sono alleati preziosi in una battaglia di civiltà. Ma torniamo ad Asia Argento. Oltre ai tantissimi messaggi positivi Asia è stata colpita non solo da attacchi maschili, molti dei quali ignobili e violenti, ma anche da attacchi femminili, le viene rinfacciato di non aver denunciato prima, di averne ricavato vantaggio, cosa che lei assolutamente nega. Io pongo a tutti una domanda: il problema è come reagisce una donna alla violenza o il fatto che l’uomo si permette di farla? Per me è il fatto che l’uomo si permette di farla. Il problema è che una ragazza si mette la minigonna, oppure che l’uomo approfitta di lei? E’ giusto che la donna debba adeguarsi, perché l’uomo ha le sue esigenze sessuali? E le donne non ce l’hanno? Eppure non violentano gli uomini. E come facciamo a rinfacciare ad una donna che non ha denunciato prima? C’è chi non ne parla con nessuno per tutta la vita! Lo dicono i dati , specie sui ricatti sessuali sul lavoro. C’è chi ci riesce da sola e subito a reagire, ma anche chi ci mette 20 anni. Deve diventare una colpa? Come possiamo diventare noi giudici di questo? Nessuno può farlo. Asia rimane molto colpita dalla reazione di una parte delle donne e decide di andare a Berlino, dichiarando che preferisce andare lì, perché nel nostro Paese le donne non sono sufficientemente unite. Ebbene, capisco l’amarezza. Ma penso anche che tutte le donne possano mettersi d’accordo su un punto: combattere unite contro i ricatti sessuali sul lavoro, combattere unite contro la violenza maschile sulle donne. Unite siamo una potenza. E lo siamo ancora di più se ci uniamo con gli uomini che credono che questa sia una battaglia vera di qualità della vita di tutti. Tutte le donne devono sapere che è più ciò che ci unisce che ciò che ci divide. Ci deve unire la battaglia per la nostra libertà. Lo so, sono un’inguaribile sognatrice ed ottimista. Ma prima o poi ci riusciremo.

Il Fatto 19.10.17
Gli abusi sono gravi anche nel dorato mondo del cinema
di Silvia Truzzi

Il caso Weinstein ha aperto diversi vasi di Pandora con relative, nefaste, conseguenze. Ormai non c’è giorno che qualche attrice non riveli passati episodi di molestia, più o meno gravi, sui quali noi non vogliamo dubitare, che hanno però sull’opinione pubblica effetti diversi. Abbiamo già scritto che stupratori e vittime, ricattatori e ricattati non stanno sullo stesso piano: è un punto fermo da cui bisogna necessariamente partire. E non è credibile (nonostante le sguaiate esternazioni di qualche signora inspiegabilmente assurta al ruolo di opinion maker) che ci siano donne disposte ad affermare che dopotutto una palpata (peggio, uno stupro) cosa vuoi che sia, o a sostenere l’insopportabile “se la sarà cercata”. A nessuna fa piacere essere molestata. Eppure questo specifico caso hollywoodiano irrita la gente: la ragione sta probabilmente nella percezione di quel mondo come di un luogo privilegiato, esclusivo, un circolo di cui tutti vorrebbero far parte perché girano tanti soldi e perché per molti la fama è una meta. Quanto al fatto che irrita forse soprattutto le donne, ha detto bene Palazzeschi: “Povere donne, non sarà mai un’altra femmina a fare l’elogio del vostro genere”. Si dice sempre che le aspiranti attrici (ma anche gli aspiranti attori) farebbero carte false per avere successo. Tradotto: sono disposti a tutto. Quindi non scopriamo l’acqua calda. “Sono andata a letto con i produttori: sarei una bugiarda se dicessi il contrario. Se non ci fossi andata, c’erano altre 25 ragazze pronte a farlo al posto mio”. Lo ha detto una volta Marilyn Monroe, la diva più diva della storia, magnifica e disperatamente infelice, morta suicida, sola e giovanissima. Qui dovremmo interrogarci sul perché anche oggi – con possibilità di realizzazione personale infinitamente superiori a quelle del 1950 – la maggioranza delle adolescenti non vuol diventare manager, giudice o scrittrice, ma sogna di entrare nella casa del Grande Fratello come trampolino di lancio verso la notorietà. Questa però è un’altra storia.
La questione è semplice: il contesto condiziona il giudizio. Una stupenda signora che conosciamo, oggi settantenne, ha lavorato tutta la vita in fabbrica con le mani perennemente addosso del capo reparto e vari dirigenti della sua azienda. L’ha salvata il fatto che il marito lavorasse nella stessa fabbrica: qualcuno è disposto a non essere solidale con lei? Le molestie restano tali, alla linea e sul divano del produttore. Asia Argento ha risposto alle domande di un giornalista che ha fatto un’inchiesta. Il contenuto delle sue denunce non cambia perché non è simpatica o non è una grande attrice. L’opinione su di lei o sul suo esibizionismo non può influire sulla questione centrale o peggio giustificare gli abusi di potere di Weinstein. Quanto ha raccontato sull’episodio che ha subito a 16 anni è agghiacciante: siamo pronti a linciare qualunque sconosciuto molesti una ragazzina, però se si tratta di un’attrice, figlia d’arte, non ci scomponiamo più di tanto. La decisione di non rendere nota l’identità dell’orco (era poco più che una bambina, le foto lo spiegano bene) è discutibilissima. E a poco vale la sua difesa, “in Italia c’è la prescrizione”. La prescrizione esiste perché il passare del tempo attenua l’interesse dello Stato ad accertare l’esistenza di un reato (alcuni sono imprescrittibili) e bisognerebbe riflettere quando la politica inventa marchingegni per accorciare i termini della prescrizione: non valgono solo per i loro reati, ma per tutti. Non esiste però solo la questione squisitamente giuridica, c’è anche la sanzione sociale, senza dire che fare i nomi rafforza la rivelazione. Non è facile denunciare, questo è ovvio, ma l’anonimato non dovrebbe indurci a derubricare l’intera faccenda a una cosa di poco conto.

Corriere 19.10.17
Boldrini
«Cara Asia, ti dico: resta in Italia, la gente è con te»
La presidente della Camera su Weinstein e gli abusi «Si è perso terreno, la misoginia avvelena la società»
di Giuseppe Sarcina

WASHINGTON « Non ho avuto modo di chiamare Asia Argento perché sono in missione a New York e in Canada. Le mando, però, questo messaggio: bisogna rimanere in Italia per rafforzare la solidarietà tra donne. Asia non mollare». La presidente della Camera, Laura Boldrini, è al telefono da New York. Ha appena concluso l’incontro con il Segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres. «Abbiamo parlato di Libia e degli sforzi per arrivare a un accordo tra le parti in causa. Il Segretario condivide la nostra preoccupazione per le condizioni dei migranti e dei richiedenti asilo in quel Paese. Stiamo lavorando insieme anche su questo versante».
Nello stesso tempo ha seguito il «caso Weinstein»? Ha visto l’intervista di Asia Argento a Bianca Berlinguer l’altra sera?
«Ho seguito la vicenda. Non ho visto l’intervista perché ero in volo per New York. Mi spiace che abbia detto che vuole andarsene dall’Italia...»
Dice che è stata criticata solo nel nostro Paese, anche dalle donne…
«A maggior ragione non deve arrendersi. Anzi è il momento di fare squadra tra le donne. Ognuno lo può fare nel proprio ambito, nello spettacolo, come nella politica. Alla Camera ho istituito il “caucus delle donne”, un gruppo di deputate interpartitico come usa negli Stati Uniti. Le donne, insieme, possono mettere al centro dell’attenzione le questioni di genere, incluso il problema degli abusi. Per quanto riguarda le molestie e gli stupri, il problema sono gli uomini e il loro comportamento. Invece in questa vicenda stiamo sentendo cose inaccettabili: aveva la minigonna? Era provocante? Perché ha denunciato così tardi? Inaccettabile, lo ripeto. Noi dobbiamo spostare l’attenzione dalle vittime ai colpevoli».
Asia Argento ha raccontato che non si era esposta prima perché temeva di non essere creduta o giudicata male, anche dalle donne…
«Detesto il fatto che Asia Argento debba arrivare a giustificarsi. Questo è il mondo alla rovescia, non è importante se e quando una donna decide di denunciare un abuso. Queste sono sue scelte. Lo scandalo è che un uomo di potere, questo Weinstein, si sentiva libero di saltare addosso alle ragazze che volevano lavorare. Questo è il sistema marcio che va sradicato. Io ho letto molti rilievi offensivi, beceri fatti da uomini che quasi giustificavano l’atteggiamento di Weinstein. Dopodiché, è vero, ci sono anche delle donne che non sono amiche delle donne perché adottano un metro di giudizio che va incontro alle esigenze maschili e non a quelle femminili. Purtroppo, se non c’è consapevolezza accade anche questo. Non è un mistero, ma non si può dire che la maggior parte delle donne sia così. Quelle che la criticano sono poche, magari rumorose e quindi fanno notizia».
La rete ha reagito in modi opposti. Negli Stati Uniti l’hashtag «Me too» e in Italia «quella volta che» raccolgono i racconti delle donne che hanno subito abusi. È un’onda impressionante. Asia Argento pensa che possa essere il segnale di una rivoluzione. È cosi?
«Mi auguro che possano essere momenti di condivisione e quindi di forza. Spero che questi hashtag continuino a circolare il più possibile e che aiutino le donne a rompere il silenzio, a uscire allo scoperto. È sempre difficile farlo e prima di giudicare, bisognerebbe mettersi nei panni di una donna che ha subito una violenza sessuale».
Dall’altra parte, sempre sul web, Asia Argento e altre sono state sommerse di insulti…
«La rete è la nuova frontiera dell’umiliazione per il mondo femminile. Una donna si trova spesso davanti a un bivio: o accettare le offese, le sconcezze oppure uscire dal web. Alla Camera ho istituito una commissione sui fenomeni di odio, dedicata alla deputata laburista britannica Jo Cox, uccisa nella campagna elettorale per la Brexit. Le conclusioni della commissione sono inquietanti: al vertice della piramide dell’odio c’è la donna. È il bersaglio numero uno delle violenze, dell’intolleranza. Forse si è creduto che le questioni femminili fossero risolte. Niente di più sbagliato. Si è, invece, perso molto terreno e la misoginia avvelena la società».
Quindi gli «hashtag» non bastano…
«Dobbiamo lavorare molto e a più livelli. Promuovere l’educazione di genere fin da piccoli, spiegando l’uguaglianza tra i sessi ai bambini e alle bambine. Puntare molto sull’educazione digitale. Adesso stiamo lanciando con la ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli un progetto nelle scuole per navigare con più consapevolezza sul web, per combattere i pregiudizi e le fake news. Proprio oggi ne ha parlato anche il New York Times , come uno dei piani più innovativi».

Corriere 19.10.17
Sarà l’ascesa delle donne a fermare le molestie
risponde Aldo Cazzullo

Caro Aldo,
a proposito della vicenda Weinstein, con tutta la comprensibile solidarietà nei riguardi delle vittime, si dice che queste avrebbero perduto il lavoro. Ma il mondo lavorativo abbonda di donne che, chiamate a scegliere tra dignità e lavoro, scelgono la prima. Invece, col loro silenzio, hanno reso possibile che altre colleghe fossero oggetto degli abusi del produttore.
Delio Lomaglio dlomaglio@libero.it

Caro Delio,
Ricordate quando nel 1991 in America erano sotto processo per violenza sessuale Mike Tyson e William Kennedy? Il primo venne condannato, il secondo assolto. I giudici valutarono in un caso che c’era stata un’aggressione, nel secondo che l’atto fosse consenziente, o meglio che mancassero le prove che non lo fosse. La violenza sessuale può presentare sul piano giudiziario aspetti completamente diversi, che integrano il medesimo reato. C’è l’aggressione fisica, come quella sulla spiaggia di Rimini, o quelle particolarmente odiose contro le minorenni che Edgar Bianchi, il maniaco di Genova liberato troppo presto, ha potuto riprendere a commettere a Milano, incredibilmente non controllato. Altre volte c’è una volontà che si impone su un’altra non manifestamente esplicitata: casi complessi, che portano in giudizio a sentenze totalmente diverse a seconda delle circostanze (e delle capacità di pm e avvocati). Poi c’è il «do ut des»: uno scambio tra favori sessuali e favori lavorativi; più una forma di mercimonio che di violenza. Nell’importante intervista a Emilia Costantini del Corriere , Claudia Cardinale raccontava non solo un’aggressione subìta da uno sconosciuto, ma anche il rapporto di dipendenza psicologica, professionale e fisica che la legò al produttore Franco Cristaldi, il quale giunse a imporle il matrimonio. Perché anche l’amore (ma è possibile chiamarlo così?) può essere un rapporto di forza.
Non vale dire: si è sempre fatto, il mondo va in questo modo. Desta impressione la catena di denunce di questi giorni. Sono le attrici a diventare un mito; ma l’industria dello spettacolo è tradizionalmente in mani maschili. A parte ovviamente i reati da sanzionare, la questione nel tempo sarà risolta solo da un cambiamento culturale degli uomini, e anche dalla formidabile ascesa delle donne in tutti i campi; compreso Hollywood. Più potere avranno le donne, meno casi Weinstein ci saranno.

Repubblica 19.10.17
Il caso Weinstein
A proposito di donne
Rebecca Solnit
Siamo tutte cortigiane perché ci educano a compiacere l’uomo
intervista di Anna Lombardi

Il caso Weinstein ha riportato al centro dell’attenzione il tema della violenza sulle donne, dei silenzi e della difficoltà di denuncia che caratterizzano ancora la società in modo trasversale.
Due scrittrici lontane per formazione e cultura - l’americana Rebecca Solnit e la turca Elif Shafak - affrontano la questione femminile e dei diritti, guardandola da diversi punti di vista
Rebecca Solnit “Siamo tutte cortigiane perché ci educano a compiacere l’uomo”
«No, le molestie non sono solo questione di sesso. Il sesso è una delle tante forme usate per sottomettere le donne». Rebecca Solnit, 56 anni, con i suoi scritti ha esplorato gli aspetti più diversi della realtà: dal modo in cui camminano i potenti in Storia del camminare fino a Un paradiso all’inferno su come reagiamo ai disastri. Solnit, però, è anche l’autrice femminista di saggi come Gli uomini mi spiegano le cose, appena pubblicato in Italia: dove affronta il fenomeno del “ mansplaining”,
paternalistico modo di mettere a tacere le donne. Prende spunto da un episodio reale: quando a un party qualcuno cercò di spiegarle l’importanza di un libro da lei scritto, non credendo che l’autrice potesse davvero essere la donna che aveva davanti. Riscoperto in America dopo la vittoria di Donald Trump, da noi arriva nel pieno dello scandalo legato al produttore Harvey Weinstein.
Il suo libro è sempre attuale: ogni volta, purtroppo, in modo nuovo.
«Quando si parla di violenze sulle donne, se ne parla sempre come di fatti isolati. Ma basta sfogliare i giornali per capire che non è così. Non ci sono solo le attrici: ricercatrici denunciano i professori, infermiere i medici, soldatesse i commilitoni. Le molestie sessuali mettono tutte sullo stesso piano. Ognuna ha una sua storia: che è sempre la stessa storia. Altro che casi unici: la violenza sulle donne è un’epidemia, frutto di una cultura radicata. Per questo è fondamentale creare anticorpi nella società».
Oggi tante denunciano. Dopo decenni di silenzio…
«La cultura dominante considera la parola delle donne meno credibile di quella degli uomini. Immaginano le cose, si dice. Sono vendicative. Per questo tante hanno taciuto così a lungo. Ora le cose stanno cambiando. Ad Hollywood, nella Silicon Valley, negli uffici, gli uomini si dicono: non possiamo continuare così. Lo stesso le donne: non possiamo più restare in silenzio».
Non trova che le donne hanno una parte di responsabilità nell’aver accettato un modello culturale sbagliato così a lungo?
«È qualcosa su cui sto riflettendo, forse sarà il tema di un nuovo saggio. Sì, siamo tutte cortigiane. E non perché ci piaccia ma perché ci hanno inculcato che gli uomini vanno compiaciuti e rassicurati: sempre. Poche, compresa me, sfuggono».
Si può cambiare?
«Certo. Quando sono nata io, nel 1961, le donne erano prive di diritti basilari e in tanti casi il matrimonio era una relazione serva- padrone, dove i mariti controllavano soldi e figli, le violenze domestiche erano cose private. Dobbiamo guardare al cambiamento, considerarlo nel lasso di tempo giusto. Poi, il nostro è il migliore dei mondi possibile? No. È migliore di quello che era? Sì».
È ottimista?
«No. Ma ho speranza. Quella che mi spinge a scrivere per ricordare alla gente che agendo si cambiano le cose. Tutte queste donne che alzano la testa, questa solidarietà nuova: servirà a non tornare indietro. Perché sia chiaro: gli Harvey Weinstein sapevano cosa facevano, forti della capacità di colpire chi si ribellava. Tante hanno taciuto? Dal mio punto di vista hanno semplicemente resistito in “ surviving mode”, modalità di sopravvivenza. Per prevenire ciò che gli sarebbe costato troppo dolore: il linciaggio di quel mondo, dei giornali, di Twitter. Ora qualcosa si è rotto. E non ho dubbi: avrà conseguenze».
Cosa intende?
«Quel che accade è parte di una rivoluzione femminista che sta mettendo in crisi il principio millenario che quel che vogliono gli uomini conta più di quel che vogliono le donne. Diciamocelo chiaro: sarebbe stato bello che una volta introdotta l’idea radicale che le donne sono persone con diritti inalienabili tutti avessero concordato e avremmo potuto occuparci d’altro. Invece le donne hanno continuato a sprecare energie nello sforzo di imporsi o di evitare ambiguità e molestie. E chissà quante scoperte, romanzi, inchieste giornalistiche abbiamo perso per questo motivo».
Parla di rivoluzione femminista: ma non la colpisce che il maschilismo non ha colore politico? Weinstein, per esempio, è un democratico.
«Gli uomini di sinistra dovrebbero essere più femministi? Certo. E senz’altro molti si riconoscono in un sistema di valori che rispetta le donne. Per altri i “privilegi maschili” restano il valore più forte. È come il razzismo. Quanti, fra coloro che si proclama antirazzisti, poi non vogliono mettere in discussione i “privilegi dei bianchi”?».
Si dice che anche Hillary Clinton sapeva. E ha taciuto.
«In America ormai è tutta colpa di Hillary Clinton. Chissà perché, si affibbia sempre alle donne la responsabilità dei comportamenti sbagliati degli uomini».
Prossimo passo?
«È quello che le donne stanno già facendo. Tutto questo parlare: è già agire».

Repubblica 19.10.17
Elif Shafak “Io, odiata dai media per aver raccontato la mia bisessualità”
Il coming out
Ho difeso la molteplicità della diversità Ho osato dire cose mai dette prima
intervista di Marco Ansaldo

ISTANBUL L’epiteto più “gentile” che le hanno lanciato sui social media non si può nemmeno scrivere su un giornale. Perché usando parole come pietre la Turchia più retriva e conservatrice, a cui strenuamente si oppone la parte più liberale e laica del Paese, ha sommerso con termini ingiuriosi e pieni di odio la scrittrice Elif Shafak che in un recente discorso a New York ha rivelato di essere stata bisessuale. «Sono molto ferita e scioccata dalla bruttezza di queste reazioni – spiega ora l’autrice parlando con Repubblica – e, benché in un certo modo me le aspettassi, fanno ancora male». Nei giorni scorsi fa Shafak, la scrittrice più venduta in Turchia e tradotta in 48 lingue in tutto il mondo, è stata invitata ai “Ted Talk”, il marchio di conferenze gestite da una fondazione privata, a cui già aveva partecipato con successo nel 2010. L’autrice del romanzo La bastarda di Istanbul, bestseller mondiale, e dell’ultimo Tre figlie di Eva (pubblicati da Rizzoli) ha voluto affrontare un discorso globale, parlando di letteratura e di rispetto dei diritti. Queste le sue parole di fronte a un pubblico attento e silenzioso, che non ha mancato di applaudirla a scena aperta mentre Shafak spiegava la propria posizione: «Come scrittori naturalmente inseguiamo sempre storie. Ma penso che siamo interessati anche al silenzio, o a cose di cui non possiamo parlare: tabù politici, culturali. Siamo allora interessati anche ai nostri silenzi. Io ho sempre parlato a voce alta, e anche scritto in modo ampio, di diritti delle minoranze, i diritti delle donne, i diritti LGBT (lesbiche, gay, bisessuali e transgender, ndr). Ma, pensando a questo “Ted Talk”, stavo riflettendo su una questione: non ho mai avuto il coraggio di dire in uno spazio pubblico che sono stata bisessuale anch’io, perché temevo così tanto la calunnia e il marchio e il ridicolo e l’odio che ero certa ne sarebbero seguiti. Ma, naturalmente, nessuno deve mai, in nessun modo, rimanere in silenzio per paura della complessità ».
In Turchia molti quotidiani hanno subito riferito le parole della scrittrice, dando spazio al-donne la notizia. Alcuni ricordavano come Shafak abbia due figli dal matrimonio con Eyup Can, noto direttore di giornali, sgradito all’attuale potere e addirittura ricercato perché considerato vicino a Fethullah Gulen, l’imam turco accusato da Ankara di avere organizzato il fallito golpe del 15 luglio 2016 e in autoesilio in Pennsylvania dal 1999. Ma è soprattutto la reazione dei social e dei media vicini al mondo religioso a causare lo scontro fra chi difende Shafak e chi invece la denigra in modo pesante per il suo coming out. Nei forum online le discussioni si sono concentrate, invece che sul discorso generale affrontato dalla scrittrice, sulla sua figura di donna e di intellettuale. Shafak già in passato si è trovata più volte sotto accusa. Come quando fu processata (mentre era incinta della prima figlia) per “insulto all’identità turca” a causa di una dichiarazione fatta da un personaggio di un suo romanzo ( La bastarda di Istanbul) che giudicava il massacro degli armeni come un genocidio. Il caso venne poi archiviato. «Questo mio Ted Talk – spiega adesso Shafak a Repubblica – era una difesa della molteplicità, della diversità, del cosmopolitismo, soprattutto in un’epoca di populismo, nazionalismo ed estremismo. Ho parlato della molteplicità che c’è fuori, e della molteplicità che c’è dentro. E ho osato dire cose che non avevo detto prima, non in questo modo ».
Elif Shafak, 45 anni, nata a Strasburgo, vissuta da bambina fra Medio Oriente ed Europa per via dei viaggi e degli spostamenti continui della madre diplomatica, vive da tempo a Londra, e torna di tanto in tanto a Istanbul, città che costituisce l’ambientazione preminente dei suoi lavori. È un’intellettuale integrata tanto in Occidente quanto in Oriente. Ha insegnato nelle Università del Michigan e dell’Arizona, e ha una grande attenzione al mondo della spiritualità, in particolare a quello dei mistici sufi e alla confraternita dei dervisci rotanti.

il manifesto 19.10.17
La protesta delle mamme dell’outlet: vogliamo una domenica libera
I Diritti Calpestati delle Donne al Lavoro. Valeria - è stata trasferita a Valmontone per rappresaglia - e le altre commesse di Castel Romano: non riusciamo a stare con i nostri figli. L’Usb denuncia: sono iscritte al sindacato ma l’azienda non vuole parlare con noi
di Massimo Franchi

«Il diritto ad una domenica al mese senza lavoro per stare con i propri bambini». Questo hanno chiesto una decina di lavoratrici – quasi tutte mamme – di vari negozi dell’Outlet Mc Arthur Glen di Castel Romano, 130 negozi di abbigliamento di marca a prezzi scontati fra mura patrizie finte, palme e fontane ad una ventina di chilometri dalla capitale, «costrette a lavorare tutti i giorni festivi che dio manda in terra». La proposta era tutt’altro che estremista: «Turnandoci ognuna di noi poteva stare a casa una volta ogni quattro settimane senza mettere in difficoltà le altre o lasciare sguarnito il negozio». Dopo vari dinieghi da parte dei responsabili, hanno deciso di iscriversi al sindacato – l’Usb – per far valere i propri diritti. La risposta – specie del negozio Calvin Klein – è stata durissima: rappresaglie, minacce, spostamenti forzati.
IERI POMERIGGIO, nell’ultimo mercoledì della promozione «Friends & Family» con sconti del 30 per cento l’outlet è pieno di clienti. In più ci sono gli immancabili turisti: assieme al Colosseo, l’Outlet è tappa fissa per i tour operator che accolgono facoltosi cinesi, russi e dagli emirati.
ALLE TRE VALERIA FINISCE il suo turno. È il suo ultimo giorno di lavoro. Da domani è stata spostata a Valmontone, 58 chilometri di distanza da Aprilia, dove vive col figlio di 2 anni e 5 mesi che vedrà ancora di meno. Non può parlare per non rischiare di essere licenziata. Allora si mette il bavaglio e si lega con catena e lucchetto alla panchina davanti al negozio che l’ha trasferita. Accanto lei le colleghe, i sindacalisti Usb e – questa è la novità – mariti e genitori delle colleghe: «Lavorare tutte le domeniche colpisce tutta la famiglia, io non sono cattolico ma sento che a difenderci oramai c’è solo papa Francesco quando parla di sacralità della domenica», spiega Antonio. Il cartello di Simone spiega meglio il concetto: «Mamma, anche domenica gioco la partita di pallone, perché non mi vieni mai a vedere?».
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L’UNICA CHE PUÒ PARLARE liberamente è Tetyana. Semplicemente perché a Castel Romano non lavora più: «Mi sono dimessa lo scorso maggio perché non ce la facevo più: la capa mi faceva lavorare tutte le domeniche, comunicando gli orari con un solo giorno di preavviso. Le ho detto: “Dammi almeno una domenica libera, non posso scegliere fra lavoro e famiglia, inizio ad avere problemi a casa”. Lei mi ha risposto: «Ma c’è chi lo fa». Così sono stato costretta ad andarmene ma almeno gliel’ho detto in faccia: «Vi state approfittando delle persone, la pagherete».
LA CATTEDRALE del consumismo griffato non guarda in faccia a nessuno. A Pasqua a Serravalle Scrivia, in Piemonte i sindacati confederali hanno proclamato uno sciopero con picchetto per non lavorare il giorno di Pasqua. Niente è cambiato.
ORA CI PROVA L’USB «a rompere questo clima di terrore», racconta Francesco Iacovone che si è invitato la protesta. E che tratta con le guardie giurate e i carabinieri subito chiamati «ad evitare cattiva pubblicità» dal responsabile dell’outlet che non si degna neanche di venire sul posto. Dopo vari tentativi, il responsabile di area della Calvin Klein si degna di rispondere al telefono: «Ha detto che gli avvocati si stanno parlando, ma la linea dell’azienda è questa». Una posizione che aveva già espresso – con altri accenti – alle sue dipendenti: «La domenica si lavora, sempre. E basta. E non mi parlate di sindacati perché io non li considero neanche».
CARABINIERI E GUARDIE private solidarizzano con Valeria. «Figuriamoci, stiamo dalla tua parte, noi lavoriamo domeniche e notturni, ma se non facciamo il nostro dovere ci mandano a Timbuctu, altro che Valmontone», cercano di scherzare per allentare una tensione palpabile.
«SENTIAMO TUTTI I POLITICI, la Boschi per prima, parlare di conciliazione dei tempi di vita per le mamme e poi nessuno che capisca che se permetti ai negozi di stare sempre aperti, di figli non se ne faranno più – attacca Iacovone – . Noi andremo avanti con questa battaglia: il nostro avvocato sta seguendo Valeria, l’obiettivo primario è bloccare il trasferimento», chiosa.
LA SOLIDARIETÀ ARRIVA da due consigliere regionali: Silvana Denicolò (M5s) che è sul posto e Marta Bonafoni (Insieme per il Lazio) che manda un comunicato. Entrambe hanno interessato del caso di Valeria la consigliera di Parità di Roma città metropolitana Flavia Ginevri: «Lei contatterà l’azienda», promettono.
LA PROTESTA FINISCE con la distribuzione alle altre commesse – pochissime iscritte al sindacato – del libro «Not 4 $alE, storie di ordinaria schiavitù dei lavoratori del commercio» dell’Usb. «Sono d’accordo con voi ma qua ci ricattano», risponde Maria. «L’unione fa la forza», le rispondono, «iscriviti anche tu». Ma intanto cinesi e russi entrano da Calvin Klein come se niente fosse successo.

La Stampa 19.10.17
Il rischio dello scontro tra poteri
di Federico Geremicca

Benzina, fino a ieri, per durissime polemiche politiche, il cosiddetto caso-banche si sta ormai trasformando in qualcosa di diverso e assai più pericoloso: uno scontro aperto tra poteri dello Stato del quale, in tutta onestà, nessuno sentiva la mancanza.
Il varo - sofferto e ritardato - di una Commissione d’inchiesta che facesse luce su crac e responsabilità, era stato interpretato (forse troppo frettolosamente) come il tentativo di mettere un silenziatore alle polemiche, rinviando la resa dei conti alla prossima legislatura. Le cose, invece, hanno preso una piega diversa: e anzi è proprio a quella Commissione - e al suo presidente Casini - che Ignazio Visco, paradossalmente, si è ieri rivolto per difendersi dall’attacco di Matteo Renzi.
Nulla di ufficiale intorno all’incontro tra Pier Ferdinando Casini e il Governatore di Bankitalia, ma quel che trapela (come scriviamo su questo stesso giornale) lascia presagire un possibile e ulteriore innalzamento del livello dello scontro: al presidente della Commissione d’inchiesta, infatti, Ignazio Visco avrebbe consegnato file e documenti in grado di dimostrare due cose. La prima: che a completamento del lavoro di controllo e ispezione, l’istituto di vigilanza avrebbe girato alla magistratura atti e segnalazioni intorno ai casi più opachi e discussi. La seconda: che Bankitalia - come già chiarito in una nota - ha sempre mantenuto un contatto continuo con il governo: e fin dai tempi in cui a presiederlo c’era proprio Matteo Renzi.
La mossa di Ignazio Visco apre dunque uno scenario nuovo: e cioè quello di un Governatore pronto alla guerra e nient’affatto disposto a passare alla storia come l’unico o il principale responsabile del crac di sette banche e del verticale crollo di fiducia da parte dei cittadini nei confronti dell’intero sistema. Scenario nuovo, anzi del tutto inedito e dagli approdi imprevedibili. Lo schieramento delle forze in campo, infatti, è più o meno riassumibile così: contro il Governatore sono all’attacco i leader del maggior partito di governo (Renzi, appunto) e della principale forza di opposizione (Di Maio). In difesa di Visco è però intervenuto addirittura il Presidente della Repubblica; in mezzo - tra ministri che mugugnano a mezza voce - c’è il governo di Paolo Gentiloni, sorpreso e infastidito dalla mossa del suo segretario.
Situazione del tutto inedita, come è chiaro. E se il punto d’approdo dello scontro appena avviato è difficile da ipotizzare, resta evidente qual è stato il passo d’avvio: la mozione parlamentare - contestata da alcuni all’interno dello stesso Pd - con la quale Matteo Renzi ha esplicitamente chiesto la testa di Ignazio Visco.
Molti sono gli interrogativi intorno alle ragioni dell’improvviso affondo dell’ex presidente del Consiglio. E molte e diverse, naturalmente, le possibili risposte. La prima: per gli scandali bancari (Banca Etruria in testa a tutte) Renzi ritiene di aver pagato un prezzo altissimo, e crede sia il momento che altre responsabilità vengano alla luce. La seconda: togliere dalle mani dei Cinque Stelle - in vista della campagna elettorale - la bandiera della “guerra” a Visco e al sistema bancario, tema assai sentito da molti cittadini. La terza: Renzi, banalmente, ha un suo candidato per la poltrona di Governatore, e per aprirgli la strada deve prima liquidare Visco.
Non sappiamo qual sia la verità: vediamo, però, gli effetti determinati dalla mossa del segretario democratico. I rischi che la polemica degeneri in uno scontro tra poteri sono infatti evidenti, così come è politicamente evidente il disagio crescente di Paolo Gentiloni. Apprezzato per lo stile sobrio e silenzioso - tanto da farne il più quotato aspirante alla sua stessa successione - nel giro di una settimana il Presidente del Consiglio si è prima visto costretto a porre la fiducia sul cosiddetto Rosatellum bis ed ora gli viene chiesto di metter da parte, bruscamente, il Governatore di Bankitalia: ce ne abbastanza, insomma, per fargli perdere molto di quel placido consenso che aveva costruito.
Diverse, insomma, sono le possibili spiegazioni alla mossa renziana. Per la modalità e la pericolosità dello scontro innescato, il leader pd è certamente meritevole di critiche. Andrebbe solo rispettata una condizione: che a puntare l’indice contro di lui non ci siano gli stessi (e sono tanti) che fino a qualche giorno fa l’indice lo puntavano proprio contro Ignazio Visco. Perché va bene la campagna elettorale e il diritto a cambiare idea, ma recuperare un po’ di serietà e di responsabilità in questo Paese non sarebbe certo male.

Corriere 19.10.17
I giochi pericolosi
di Antonio Polito

Lo spettro di una gara elettorale tra tre populismi, paventato dal Corriere alcuni mesi fa, si è materializzato l’altra sera a Montecitorio. La mozione del Pd, che impegnava il governo a una scelta sul vertice della Banca d’Italia nella quale il Parlamento non ha poteri, aveva lo stesso identico obiettivo delle mozioni dei Cinque Stelle, della Lega e di Fratelli d’Italia: liberarsi di Ignazio Visco, per metter al suo posto qualcuno più «idoneo» — era scritto così — o più amico. L’attacco alla sezione italiana della Banca centrale europea — perché questo oggi è la Banca d’Italia — si faceva d’altronde forte di uno dei tratti tipici del populismo: individuare un capro espiatorio per le cose che non hanno funzionato, e darlo in pasto al pubblico. Non si può onestamente escludere che l’attività di vigilanza e prevenzione delle crisi bancarie sarebbe potuta essere in questi anni migliore e più rapida. E del resto oggi i Governatori non sono più a vita proprio perché se ne possa giudicare l’operato ogni sei anni. Ma le cose non stanno come la vulgata populista racconta.
Per esempio: Renzi ha spesso rivendicato al suo governo il merito di aver commissariato Banca Etruria senza guardare in faccia nessuno, cioè il padre dell’allora ministro Boschi. Ma non ha mai aggiunto che fu l’ennesima ispezione di Banca d’Italia a rivelare il marcio di Arezzo e a richiedere il commissariamento. Così come tutti quelli che oggi se la prendono con la normativa europea del «bail in» considerandola la radice dei nostri problemi bancari, sonnecchiavano beati nel 2013 quando fu solo la Banca d’Italia a segnalare per iscritto i rischi di una introduzione troppo repentina e retroattiva di quelle regole, senza che l’Italia riuscisse a far passare questa tesi in Europa.
Ma lasciamo perdere. Non è questo il punto di quanto è accaduto. Il punto è che il partito che guida il governo, ed esprime la gran parte dei ministri, gli ha teso un agguato parlamentare, senza neanche informarlo prima, tranne pare il sottosegretario Boschi, creando così una tensione senza precedenti con il Quirinale. Il quale giustamente si preoccupa di difendere l’autorità e la credibilità del sistema che tutela i risparmi degli italiani, e le prerogative di una scelta che compete al capo dello Stato. Per far perdere la pazienza a Mattarella ce ne vuole, ma il Pd stavolta ci è riuscito.
Ieri poi Renzi ha ribadito di averlo fatto proprio per prendere le distanze dalle scelte che il governo Gentiloni si appresta a fare su Banca d’Italia, addossandogliene la responsabilità: fate quello che volete, è il suo messaggio, ma si sappia che non è in mio nome. Come se quello di Gentiloni non fosse più, ammesso che lo sia mai stato, il governo del Pd, il quale evidentemente non ne può avere uno davvero suo se non è presieduto da Renzi. E come se, di conseguenza, la campagna elettorale già cominciata avesse liberato le mani del Pd da ogni responsabilità di governo. Magari portando ora l’attacco ieri fallito a Visco nella Commissione d’inchiesta sulle banche.
Il punto è questo: il partito di maggioranza, che sostiene il governo, non può fargli l’opposizione, è tenuto a una responsabilità comune, di collaborazione leale tra le istituzioni, soprattutto quando le decisioni riguardano un Istituto la cui indipendenza è cruciale, perché è chiamato a tutelare gli interessi dei risparmiatori, e abbiamo visto che fine fanno le banche quando finiscono in mano ai politici e alle loro consorterie locali. La sinistra democratica in Italia, fin dai tempi dell’Ulivo, ha fatto della responsabilità fiscale e finanziaria il suo vangelo, in un Paese le cui sorti nazionali dipendono dall’immane e potenzialmente devastante debito pubblico che ha accumulato, e non possono essere subordinate alle tentazioni demagogiche ed elettorali. Qualche volta le sarà costato qualche voto, ma forse è anche questa la ragione per cui non è scomparsa sotto i colpi della crisi come praticamente in tutto il resto d’Europa, e Renzi dispone oggi di un patrimonio di voti ancora rilevante, più o meno analogo peraltro a quello che gli è stato lasciato dai suoi predecessori. Giocare Bankitalia sul tavolo elettorale è pericoloso. Già le imminenti elezioni porteranno con sé un elevato grado di incertezza politica, e Dio solo sa se dopo il voto questi partiti un governo sapranno formarlo.
Mettere anche in discussione il bene primario della stabilità, che stava dando a questo governo i primi frutti in termini di crescita economica, restituire l’immagine di un Paese in cui anche le principali autorità di vigilanza sono ostaggio di una lotta politica perenne e senza quartiere, e tutto può cambiare a ogni vento elettorale, è la ricetta migliore per ripiombare l’Italia nel tutti contro tutti da cui siamo da poco usciti, e di rimetterla nel mirino della speculazione internazionale. Un atteggiamento oltretutto autolesionista, perché sulla rovina comune nessuno può guadagnare, meno che mai chi si candida a guidare il Paese .

Repubblica 19.10.17
Una scommessa tutta elettorale pagata con la moneta dell’isolamento
di Stefano Folli

CAPITA di rado che un’iniziativa parlamentare del partito di maggioranza susciti un tale coro di critiche e voci contrarie nei palazzi romani. Questa volta è successo: la mozione del Pd contro il governatore della Banca d’Italia passerà alla storia come un gesto di singolare autolesionismo il cui risultato è l’isolamento del segretario Renzi. La sfida al Quirinale - perché di questo si è trattato - si unisce alla delegittimazione del presidente del Consiglio (l’uomo che cinque giorni fa celebrava il decennale del Pd con aria non troppo gioiosa). Ed è evidente che sullo sfondo s’intravede il profilo di Draghi: destabilizzare la Banca d’Italia oggi significa indebolire l’Italia in Europa e di conseguenza creare problemi inediti al presidente della Bce in un passaggio molto delicato.
Era chiaro questo scenario agli estensori della mozione o tutto è avvenuto con eccesso di leggerezza, fra una stazione e l’altra del treno dei desideri? Difficile dirlo. Sta di fatto che ieri Renzi ha insistito. Ha parlato in prima persona con toni determinati, lasciando intendere che il Pd è favorevole ad “aprire una pagina nuova” a Palazzo Koch e non vuole condividere la responsabilità politica della riconferma di Visco. Significa che al leader del Pd interessa solo il dividendo elettorale dell’operazione. Se il governatore verrà riconfermato, come è probabile, sarà per decisione esclusiva di Mattarella e Gentiloni. Dal canto suo, Renzi ritiene di aver tagliato l’erba sotto i piedi dei Cinque Stelle, che si preparavano a fare la campagna fino a marzo sul tema delle banche fallite e dei risparmiatori truffati. Avendo scaricato tutto sulla banca centrale, il segretario pensa di essersi conquistato una forma di immunità rispetto ai risentimenti popolari di cui ha già fatto esperienza in giro per l’Italia.
Che il piano riesca, è tutto da vedere. Intanto c’è da domandarsi se il gioco valga la candela. Il Partito Democratico ne esce a pezzi. Da Veltroni a Zanda fino a un indipendente come Calenda, autorevole ministro in carica, il fronte a difesa del Quirinale e della Banca d’Italia, quasi in simbiosi istituzionale, si è pronunciato con un’asprezza inequivoca. E anche questo è interessante perché nessuno usa simili accenti per criticare Renzi in pubblico, esclusi gli scissionisti e qualche isolato dissidente. Invece stavolta tutti condividono il giudizio di Giorgio Napolitano sulla “deplorevole” iniziativa parlamentare. Gli stessi esponenti di Forza Italia hanno tenuto una linea molto prudente.
ORA cosa può succedere? Lo scossone è talmente forte da suscitare parecchi interrogativi sul prossimo futuro. Ma a questo punto Ignazio Visco dovrà essere confermato nella carica proprio per non accentuare il rischio di lacerazioni istituzionali. Anzi, Mattarella e Gentiloni dovranno decidere con una certa urgenza per non dare adito a ulteriori speculazioni: politiche, sul piano interno, e magari finanziarie sul teatro internazionale. Del resto, per capire fino a che punto sono gravi le falle nella vigilanza bancaria, esiste - appena costituita - la commissione d’inchiesta presieduta da Casini. È curioso (ma non troppo) che Renzi, dopo averla voluta composta così com’è, preferisca saltarla a piedi pari emettendo una sorta di verdetto preventivo di colpevolezza per la Banca e il suo governatore.
In realtà il segretario del Pd non può fare altro che andare avanti a testa bassa. Avendo fatto saltare tanti ponti persino all’interno del suo partito - basti ricordare che c’era anche Veltroni sul palco del decennale, pochi giorni fa - oggi Renzi può rivolgersi solo al suo pubblico, all’elettorato che incontra sulla scaletta del treno. E a cui può dire, avendo appena promesso di evitare il populismo: “meglio un’ora con voi che una settimana in Parlamento”. Beninteso, deve essere capace di convincere questo piccolo mondo che lui, il segretario, è esente da colpe sulle banche. Tutte: dalle venete alla fatidica Etruria. Infatti è colpa di Bankitalia. Come dire che la rincorsa dei Cinque Stelle è cominciata. Ne deriva una tensione istituzionale e politica destinata a non risolversi facilmente. Sarà una campagna dura e imprevedibile. Con la variabile Sicilia come possibile spartiacque.

Corriere 19.10.17
Mezzo Pd si smarca da Renzi
di Dino Martirano

ROMA Il secondo siluro lanciato da Matteo Renzi contro i vertici della Banca d’Italia è arrivato quando ancora — tra Palazzo Chigi e il Quirinale — si valutava l’entità delle macerie causate dalla mozione del Pd che, pur non citando il governatore Ignazio Visco, aveva chiesto al governo di individuare una «figura più idonea a garantire nuova fiducia» nell’istituto di via Nazionale.
Quello del segretario dem è stato un uno-due, micidiale: «Non è eversivo dire che i meccanismi della Vigilanza sul sistema bancario non hanno funzionato... Chi ha sbagliato paghi... Quella mozione del Pd è stata corretta e poi approvata dal governo e non s’è mai visto un atto eversivo approvato dal governo». Dunque, ha ripetuto Renzi, «il problema non è il nome del governatore, dire che il Pd è contro Visco è sbagliato».
Così si è dovuto ricredere chi si aspettava un passo indietro di Renzi. L’argine si era ormai rotto. E con molte ore di ritardo sull’allarme lanciato dal Quirinale, si è fatta avanti la minoranza dem del ministro Andrea Orlando che ha preso coraggio quando anche i padri nobili del partito hanno alzato la voce. «Incomprensibile e ingiustificabile», ha detto Walter Veltroni commentando la mozione: «Da sempre la Banca d’Italia è un patrimonio di indipendenza e di autonomia per l’intero Paese».
Al Senato — dove il premier Paolo Gentiloni è andato per le comunicazioni sul vertice europeo — l’ex capo dello Stato Giorgio Napolitano è stato tranciante: «Fortunatamente non mi devo occupare delle troppe cose che ogni giorno capitano e che sono deplorevoli». Pochi minuti prima l’ex inquilino del Quirinale aveva affrontato Nicola Latorre e un drappello di senatori dem ai quali aveva manifestato tutto il suo disappunto. «Renzi è fuori di sé, bisogna fermarlo», è il pensiero di Ugo Sposetti che scortava Napolitano porgendogli il braccio.
Il presidente del Consiglio Gentiloni, almeno in pubblico, non ha detto una parola sul caso Bankitalia ma ha trovato un quarto d’ora per prendere fiato nello studio del capogruppo dem al Senato, Luigi Zanda. Al termine del colloquio, il premier è filato via sorridente e agli atti rimane una dichiarazione dell’amico di lunga data Zanda: «Quando si tratta di questioni che hanno a che fare con il risparmio dei cittadini e con la stabilità del sistema bancario bisogna sempre usare il massimo della prudenza, e questo significa che di mozioni del genere meno se ne fanno e meglio è».
E mentre alla Camera il ministro Carlo Calenda se la cavava con un laconico «Non parlo per carità di Patria», il senatore a vita Mario Monti in aula, davanti a Gentiloni, ha puntato il dito contro i deputati che hanno votato la mozione: «Non mi sono tanto sorpreso» per l’iniziativa «del capo del Pd... Sono stato viceversa molto sorpreso dal fatto che 213 deputati si siano sentiti di approvare quella mozione...».
Dai tabulati risulta che circa 60 deputati del Pd non hanno votato la mozione. Tra assenti a tutti gli scrutini e missioni, tra i non allineati spiccano Antezza, Baruffi, Boccuzzi, Causi, Cenni, Coccia, Crimi (astenuto), Cuperlo, Dell’Aringa, Di Gioia, Fabbri, Galli, Gandolfi, Giacobbe, Ginefra, Giorgis, Lattuca, Maestri, Malisani (astenuto), Mazzoli, Meloni, Miotto, Misiani, Nardi, Piccione (astenuto), Quartapelle, Raciti e Taranto. Per dirla con Gianni Cuperlo, non hanno votato perché la mozione è «un grave errore, un autogol».

La Stampa 19.10.17
Il leader Pd raggiunge comunque il suo scopo
di Marcello Sorgi

Era prevedibile: il Pd su Visco è diviso. Contro Renzi, che nel frattempo ha rincarato la dose, coadiuvato dal presidente del partito Orfini, si sono alzate le voci autorevoli di Veltroni, appena uscito dalle celebrazioni dell’Eliseo e dagli applausi corali che hanno salutato il suo ritorno attivo alla politica, e del Presidente emerito Napolitano, già critico sull’operazione fiducia sulla legge elettorale e in attesa di pronunciarsi nell’aula di Palazzo Madama sul merito del Rosatellum. Ma esprime riserve anche la minoranza di Orlando e di Emiliano e parecchie dichiarazioni di dissenso di senatori su quanto è accaduto alla Camera martedì si sono allineate ieri sulle agenzie.
Bloccare il rinnovo di Visco, che era ormai quasi concordato tra governo, Quirinale e Banca d’Italia, è ancora possibile. Il Governatore è in carica da sei anni e, se confermato, sarebbe il primo della serie di quelli insediati dopo la riforma del mandato a termine a restare al suo posto per un altro mandato. Ma è il metodo della mossa a sorpresa, scelto da Renzi per disarcionarlo, a renderne più difficile la sostituzione. Visco, al momento, oltre alla larga e qualificata solidarietà istituzionale che si è espressa in suo favore, può contare sull’appoggio di Forza Italia, che ieri, su consiglio di Gianni Letta, s’è rifiutata di votare anche la mozione leghista anti-Bankitalia, e di gran parte della galassia centrista, a cominciare dal neo-presidente della commissione d’inchiesta sulle banche Casini, pronto a convocare il Governatore, come ha dichiarato, ma non subito e non prima di aver cominciato un’istruttoria sulle crisi bancarie che s’annuncia piuttosto lunga. Inoltre Renzi non ha un vero candidato alternativo: il nome dell’economista Fortis, che gli viene attribuito, non è considerato del livello di standing necessario per poter correre per la poltrona di via Nazionale. E dentro l’istituto, anche a causa dei pessimi rapporti intrattenuti quando era a Palazzo Chigi, non ha alcun nome da proporre.
Se anche alla fine dovesse arrendersi, come pure ha lasciato intendere per lasciarsi una via d’uscita, tuttavia il leader Pd avrebbe comunque realizzato in buona parte il suo scopo. Che era quello di creare un bersaglio da additare alle vittime dei titoli spazzatura messi in giro dalle banche finite nei guai, come, tra le altre, Banca Etruria, allontanando da sé e dal suo governo «dei mille giorni» le responsabilità che Lega, Movimento 5 stelle e Fratelli d’Italia continuano a scaricargli addosso, in una campagna elettorale già con troppo infuocata.

Corriere 19.10.17
Il conflitto tra il premier e Boschi che sapeva già della mozione
Il presidente del Consiglio si è detto «esterrefatto» per il blitz
di Francesco Verderami

ROMA Non è detto che la formula «tre per uno» sia sempre vantaggiosa. L’affaire Bankitalia, per esempio, costringe Paolo Gentiloni a risolvere contemporaneamente un grave problema istituzionale, un intricato nodo politico e un delicato caso di rapporto fiduciario.
Se l’altro ieri Renzi non lo avesse omaggiato della mozione a sorpresa che ha scatenato il parapiglia dentro (e soprattutto fuori) il Parlamento, il premier sarebbe forse riuscito con altri metodi a trovare una soluzione che accontentasse il segretario del suo partito per la nomina del governatore, superando le obiezioni del Quirinale e le perplessità dell’Eurotower.
Raccontano che ci sta provando lo stesso, perché non è comunque facile per un governo assumere una decisione che contrasti con la linea del partito di maggioranza relativa ed il suo potere di interdizione. Ed è vero che Gentiloni — nonostante lo sgradito regalo — vuole evitare di mettersi contro Renzi. Ma non può mettersi nemmeno contro Mattarella, che ieri — durante il pranzo al Quirinale — gli ha ribadito tutta la propria indignazione per quanto era accaduto il giorno prima alla Camera.
Il capo del governo non ha potuto che convenire con il capo dello Stato, a cui spetta peraltro la nomina, dicendosi «esterrefatto» per il metodo adottato dal Pd e giudicando «inopinato» nel merito il contenuto della mozione: per un politico a sangue gelido come Gentiloni, si tratta di due aggettivi dirompenti.
Il colloquio è avvenuto al cospetto di alcuni ministri e — dettaglio non irrilevante — anche della Boschi, schieratissima con l’iniziativa di Renzi e al centro di un caso dentro il caso Bankitalia. Perché se è vero che Gentiloni era ignaro del blitz organizzato dal segretario del Pd, se è vero che ne è venuto a conoscenza «casualmente» — come ha spiegato a Mattarella — è altrettanto vero che il sottosegretario alla presidenza del Consiglio sapeva anzitempo del testo. C’è chi sostiene che avrebbe addirittura avallato la prima versione della mozione, dove si chiedeva esplicitamente un segno di «discontinuità» a Bankitalia, cioè la giubilazione di Visco. Ma il punto non è questo. Il problema è che — oltre ad esser stato scavalcato dalla ministra competente per i Rapporti con il Parlamento, Finocchiaro — Gentiloni non è stato avvisato.
La rottura del rapporto fiduciario con la sottosegretaria alla presidenza è il terzo problema del premier. È un fatto che in altri tempi avrebbe provocato clamorose e repentine decisioni. Né sarebbe stato senza conseguenze la presa di posizione di rappresentanti del governo, come il ministro per lo Sviluppo economico Calenda, che «per carità di patria» non ha voluto commentare la vicenda. E nemmeno sarebbe stata derubricata la spaccatura tra i capigruppo di Camera e Senato della forza di maggioranza relativa.
Se Gentiloni — con un esercizio zen — ha esortato tutti alla «moderazione», è perché deve trovare il modo di uscire indenne dal pacchetto «tre per uno» che gli ha rifilato il segretario del suo partito. Non è dato sapere se martedì, oltre alla telefonata burrascosa con Renzi, abbia chiesto conto alla Boschi. È certo che ieri il capo del governo non ha sentito il leader del Pd, mentre è stato a pranzo da Mattarella con il sottosegretario.
Antropologicamente agli antipodi rispetto al suo predecessore a Palazzo Chigi, non c’è dubbio che la sua posizione — dopo una giornata burrascosa anche con il Colle — si sia rinsaldata nei rapporti politici e istituzionali, nazionali e internazionali. Ma deve sciogliere quei tre nodi e il più intricato è la mediazione sul futuro governatore di Bankitalia. Da una parte ci sono il Quirinale e l’Eurotower, dall’altra il segretario del Pd.
E in mezzo c’è Visco, che ieri ha sentito Draghi prima di recarsi dal presidente della Commissione d’inchiesta sulle banche Casini e dare la sua disponibilità all’audizione. In quella sede ribadirà — documenti alla mano — che in ogni passaggio nell’attività di controllo del sistema creditizio «ho tenuto informato il governo e all’occorrenza anche le autorità giudiziarie». Niente male come anticipazione...
Gentiloni avrebbe desiderato istruire la pratica in modo diverso, come diversamente avrebbe voluto muoversi in altre occasioni. Ma poi c’è sempre stato l’amico Renzi, che lo ha sempre trattato da premier di un «governo amico». E lui se n’è fatta una ragione. Anche stavolta, dopo «l’inopinato» blitz su Bankitalia che gli è stato tenuto nascosto.
«Non è il tempo dell’irresponsabilità», aveva detto la settimana scorsa all’assemblea dei sindaci: «Al di là di ogni comprensibile tensione politica, dobbiamo mettere sempre l’Italia al primo posto». Parole pronunciate davanti alle fasce tricolori ma rivolte ai franchi tiratori che minacciavano di affossare la legge elettorale. Quel giorno Gentiloni difendeva la riforma di Renzi dall’«agguato» a scrutinio segreto. L’altro ieri si è dovuto difendere da una mozione voluta da Renzi a scrutinio palese. Pure profetico...

Repubblica 19.10.17
Il Rosatellum con le spine
di Piero Ignazi

SI POTREBBE dire che “il modo ancor m’offende”, visto che, ancora una volta, una legge elettorale viene approvata a colpi di fiducia strozzando il dibattito parlamentare. La fiducia viene utilizzata da un governo per far approvare in fretta questioni che esso ritiene di fondamentale importanza al fine di realizzare il proprio programma; e per questo vuole evitare che le opposizioni interferiscano più di tanto. Tutto legittimo, dato che l’uso della fiducia è a totale discrezione del governo. Semmai si può ricordare che il presidente del Consiglio, nel presentare il suo governo alle Camere aveva dichiarato che si sarebbe astenuto dall’intervenire sulla materia elettorale. In aggiunta, qui non era in gioco un provvedimento vitale del governo, bensì una legge su cui due partiti di opposizione avevano dato il loro assenso di massima. Se la legge godeva di tanto sostegno, perché allora mettere la fiducia quando un dibattito parlamentare avrebbe potuto chiarire meglio il senso di alcune norme e, sperabilmente, portare qualche cambiamento? Questo interrogativo rimanda alle dinamiche interne al partito di maggioranza, non alla sostanza della legge. Ed è un altro discorso.
Ora, se il modo offende, non di meno la sostanza stessa delle legge offende la buona creanza dell’ingegneria elettorale. Il sistema delineato è, tecnicamente, un sistema misto, un po’ di maggioritario e molto di proporzionale. Nulla di inedito in quanto sistemi misti di vario genere sono emersi negli ultimi anni, anche se nessuno prevede una quota così piccola di collegi uninominali.
L’aspetto peculiare della norma italiana riguarda il collegamento tra i due sistemi elettorali prodotto dalla scheda unica. Un elettore, votando per un candidato all’uninominale, voterà automaticamente anche per lo stesso partito — o coalizione di partiti — al proporzionale. Non potrà fare una scelta diversa pur in presenza di due sistemi diversi quando proprio la compresenza di sistemi dalle logiche così diverse come il maggioritario e il proporzionale necessiterebbero di voti distinti. In Germania, dove vige un sistema in qualche misura paragonabile — pur con molti distinguo — il voto disgiunto, contrariamente a quanto incautamente dichiarato da Matteo Renzi nella sua recente intervista a Repubblica, non riguarda “l’1% degli elettori”, bensì almeno il 20%. Laddove si offrono possibilità di scelta, il cittadino le utilizza. Aver imbrigliato questo “spazio di decisione”, quando non produce effetti sistemici negativi di alcun tipo, limita la libertà di scelta. (Altri spazi di decisione come le preferenze, invece, producono gravi, e ben noti, effetti negativi).
Infine, l’altro vulnus inferto alle buone pratiche elettorali riguarda le “liste bloccate” ovvero l’impossibilità di scegliere tra i candidati nel proporzionale. Sia chiaro: nessuna nostalgia per le preferenze. Le liste bloccate sono adottate in molti Paesi e non hanno suscitato particolari problemi. Ma il diavolo sta nei dettagli. In Germania, ad esempio, le segreterie dei partiti non possono agire a loro piacimento, ma devono seguire procedure precisamente indicate dalla legge sui partiti per selezionare i candidati. Il processo decisionale è, pur senza mitizzare, trasparente e partecipato. Tutta la vita interna dei partiti deve seguire norme di legge stringenti, tra cui anche garanzie di rappresentatività delle minoranze.
Da noi, il virus del plebiscitarismo e della
reductio ad unum nella figura del leader ha tracimato anche a sinistra. Chi è alla guida di un partito pensa di essere un unto del signore, di avere mani libere nel fare e disfare. Di fronte a questa cultura politica, che appare sempre più tracotante, almeno la legge elettorale avrebbe dovuto porre qualche limite. E invece essa ha assecondato la tendenza, aggiungendo una ulteriore, drammatica, aggravante: la possibilità di pluri-candidature. Ogni candidato può presentarsi, oltre che nel maggioritario anche in altri cinque (!) collegi proporzionali. Meglio evitare rischi, evidentemente… Questo ampio paracadute, oltre a rafforzare il controllo della leadership sulle candidature, impedisce all’elettore di sapere chi sarà il proprio rappresentante perché l’eletto potrà optare per un altro collegio, privando così i cittadini della facoltà di conoscere il proprio parlamentare.
C’è una coazione a ripetere nei legislatori italiani: dare sfogo alla fantasia rifiutando di seguire sperimentati modelli stranieri. Ma una fantasia sfrenata, a volte, produce deliri.

Corriere 19.10.17
Una polemica che ripropone l’Italia come malata d’Europa
di Massimo Franco

Il riflesso meno vistoso ma più pericoloso dell’offensiva del Pd renziano contro Bankitalia è quello internazionale. L’attacco contro il governatore Ignazio Visco conferma una sottovalutazione del contesto in cui si è immersi. A Bruxelles non importano le ragioni per le quali il maggior partito di governo ha «armato» il suo gruppo parlamentare con una mozione contro l’Istituto di emissione. L’iniziativa è stata letta come un’ingerenza irrituale a spese dell’ indipen-denza del sistema bancario. Il risultato è di fare apparire di nuovo il Paese come «il malato d’Europa».
Si tratta di un rischio oggettivo, che prescinde da ragioni e torti della polemica. A emergere è l’immagine di un’Italia sovrastata da un estremismo populista che non risparmia nemmeno una parte delle forze di governo; e che affiora ora su Bankitalia, ieri sul tetto alla spesa pubblica, domani su altro. La presa di distanza da Matteo Renzi di esponenti come l’ex premier Mario Monti ma anche di suoi alleati come l’ex capo dello Stato Giorgio Napolitano, Walter Veltroni o il capogruppo Pd al Senato, Luigi Zanda, è rivelatrice.
A emergere è una miscela di imbarazzo e di preoccupazione trasversale, nella quale per paradosso il centrodestra berlusconiano appare più responsabile del grosso del vertice dem nel difendere Visco. Anche se nel Pd si allarga una protesta meno timida verso una leadership che sta appannando non tanto i referenti sociali della sinistra ma qualcosa di più: un profilo responsabile verso le istituzioni, costruito in decenni; e un’immagine di «forza del sistema» rivendicata ma contraddetta. Quando Zanda dice che mozioni del genere «meno se ne fanno meglio è», fa capire questo.
Il senatore a vita Mario Monti va oltre. Ricorda il ruolo svolto da Visco nel 2012 contro lo spread che rischiava di metterci in ginocchio. E ammette di essere stupito non tanto per l’attacco renziano a Visco, ricevuto ieri dal presidente della commissione parlamentare sulle banche, Pier Ferdinando Casini. La sua sorpresa è che «213 deputati si sono sentiti di approvare la mozione. Ci rendiamo conto che sono temi riguardanti inestricabilmente anche l’Europa?».
È una domanda pesante. E non chiama in causa solo il segretario dem, ma chi nel governo gli ha fatto sponda senza informare il premier Paolo Gentiloni. La possibilità che all’estero la classe politica venga percepita come inguaribilmente bifronte aumenta: pronta ad accettare le regole della convivenza europea, salvo poi violarle. È probabile che non sia la sola a farlo. Ma su uno sfondo di ritorno dei nazionalismi, rischia di essere additata non come responsabile dello scollamento europeo. Peggio: come capro espiatorio della crisi.

il manifesto 19.10.17
Legge Rosato, la conta nel Pd
Al senato. Sul filo del numero legale per le votazioni di fiducia, il capogruppo dei democratici Zanda serra le fila per parare i contraccolpi dell'annunciato intervento critico di Napolitano. Il presidente emerito ha lasciato intendere che si sta preparando, parlerà in aula la prossima settimana
di Andrea Fabozzi

En attendant Napolitano, il cui intervento critico sulla fiducia e nel merito della nuove legge elettorale è atteso in aula la prossima settimana (l’ex presidente ha confermato ieri questa sua intenzione lasciando intendere che si sta preparando), il Pd è costretto a fare bene i conti in vista delle votazioni. La legge Rosato può certamente contare su una maggioranza solida, circa i due terzi dell’aula, visto il sostegno di Forza Italia, Lega e verdiniani oltre a Pd, Ap, altri centristi e autonomie. Questa maggioranza avrà modo di esprimersi, dal momento che non sarà necessario chiedere la fiducia su tutti gli articoli della legge perché gli ultimi due non corrono rischi di incappare in troppi o pericolosi emendamenti: l’articolo 5 che contiene la clausola di invarianza finanziaria e l’articolo 6 che esclude anche Mdp dall’obbligo di raccolta delle firme. Ci sarà dunque un voto agevole sul complesso della legge. Ma resta il problema del numero legale sugli altri voti, probabilmente quattro, di fiducia.
Se berlusconiani e leghisti non risponderanno alla chiamata, fondamentale sarà l’apporto dei senatori di Verdini. E non è detto che basti, visto che il senato è il luogo dove più forte si fece sentire l’opposizione interna al Pd per l’Italicum, proprio con la non partecipazione al voto di 24 senatori democratici. Dei quali una metà non è andata via con la scissione di Bersani e dunque è conteggiata tra i voti indispensabili al Rosatellum (tra gli altri D’Adda, Mucchetti, Micheloni, Tocci). Il capogruppo del Pd Zanda non può prevedere l’impatto che le critiche di Napolitano avranno sui suoi senatori e ha convocato una riunione questa mattina, parteciperà anche il capogruppo dei deputati e «padre» del testo Rosato.
In contemporanea in prima commissione, dove ieri sera si è esaurita la discussione generale sulla legge, saranno ascoltati nove giuristi e costituzionalisti sul Rosatellum: con un paio di eccezioni sarà un rosario di critiche. Rivolte anche alla procedura di approvazione: la fiducia in tutte e due le camere, la mancata chiusura del lavoro in commissione (accadrà lunedì), persino la pretesa di fissare il termine per il deposito degli emendamenti in aula tre ore prima che in commissione comincino le votazioni, come se fosse possibile avanzare proposte di modifica su un testo in teoria – solo in teoria, perché è blindato – ancora in lavorazione.
Il Movimento 5 Stelle ha già convocato per mercoledì prossimo, il secondo giorno di votazioni in aula, una manifestazione davanti al senato (dove non c’è uno spazio enorme). La scelta è stata fatta considerando che il giorno successivo potrebbe essere quello del voto finale, ma non è detto che vada così perché è prevista anche una seduta di emergenza venerdì mattina, prima che si apra la sessione di bilancio. Poi l’attenzione si sposterà sul Quirinale per la promulgazione della legge, con anche in questo case le annunciate manifestazioni grilline. Non ci sono evidentemente dubbi sul sostegno di Mattarella alla legge Rosato. Resta però da vedere se potrà esserci qualche spazio di imbarazzo per il presidente di fronte alle osservazioni critiche che farà l’emerito Napolitano.

Il Fatto 19.10.17
Un sms da due euro per Matteo in treno

Il treno di Matteo è in viaggio, soste continue, giro d’Italia in ogni provincia, ma qualcuno dovrà pagare, quando si fermerà all’ultima stazione. Il bilancio del Partito democratico è in rosso dopo gli investimenti enormi per perdere il referendum, i dipendenti del Nazareno sono in cassa integrazione e dunque chi paga? Ieri il “Pd Nazionale”, pescando tra i numeri che ha ereditato con le primarie anche di coalizione e le vecchie iscrizioni, ha invitato con un sms elettori ed ex elettori a contribuire. Basta poco. Un messaggio, 2 euro: “In viaggio con il Pd, dai energia al treno. Puoi donare 2 euro inviando un sms al numero … Scrivi: destinazione Italia. Grazie per il tuo sostegno”. E dunque, ma chi va in viaggio con il Pd? Ci va il segretario Renzi, allora perché omettere l’unico passeggero? E poi cos’è “destinazione Italia”? Se qualcuno ci casca, magari spende questi 2 euro. Come sempre, Renzi si conferma Renzi. Promette e non sa come mantenere. Parte e non sa dove arrivare. Adesso è partito, più o meno sa dove arriverà, ma non ha capito bene chi pagherà. E la risolve a modo suo con un sms, che dice e non dice, però chiede. E come se chiede.

Corriere 19.10.17
Evitare il logoramento di Gentiloni, la preoccupazione di Mattarella
di Marzio Breda

Lo scudo del Colle per proteggere anche Palazzo Chigi dopo la tempesta su Visco
Più che complicata, incartata. Ecco come si profila, dal punto di vista di Sergio Mattarella, la successione al vertice di Bankitalia dopo l’attacco del Pd a Ignazio Visco. La mossa da campagna elettorale pianificata da Matteo Renzi («lo confermino pure, ma non in mio nome»), oltre a provocare uno strappo senza precedenti con il capo dello Stato, ha reso strettissima e molto scivolosa la strada per scegliere la nuova guida di Palazzo Koch ai soggetti cui è istituzionalmente delegata questa scelta. Cioè il governo e, appunto, il Quirinale, previo un parere del consiglio superiore della banca.
Uno stallo che, comunque lo si consideri, rende impervia qualsiasi via d’uscita. Infatti, se si esclude una rinuncia di Visco, che pareva quasi probabile prima della mozione dei democratici ma che oggi equivarrebbe di fatto a una sua ammissione di colpa, la formula per sintetizzare gli umori che circolano nei dintorni del Colle, si riassume in un gioco di negazioni, dirette o sottintese. Queste: non si può non nominarlo, a maggior ragione dopo quel che è successo; tuttavia riconfermarlo potrebbe spalancare le porte a un non augurabile inferno...
Un grosso guaio. Destinato a pesare in particolare sulle spalle del presidente del Consiglio, al quale, secondo la procedura standard, compete l’onere di avanzare la proposta. Ed è ovvio che la partita, comunque venga chiusa, possa alla fine tradursi in un altro logoramento di Paolo Gentiloni, già trascinato pochi giorni fa dal suo Pd a condividere l’accelerazione parlamentare sulla legge elettorale con l’assai contestato voto di fiducia alla Camera. Non a caso, al di là di certi regolamenti di conti interni al Pd e dei calcoli per scaricare sull’istituto di via Nazionale («per omessa vigilanza») una buona quota di responsabilità del crac di Banca Etruria, circola il sospetto che alcuni strateghi renziani non disdegnino un effetto collaterale: minare, inventando una trappola dopo l’altra, piccola o grande che sia, un po’ della credibilità e del prestigio conquistati dal premier negli ultimi mesi. Insomma: eroderne pezzo dopo pezzo la forza tranquilla e indebolirlo. Tutto questo in proiezione futura, quando il suo nome potrebbe magari risultare spendibile, nell’ipotesi che la prossima legislatura si riveli a rischio ingovernabilità.
Gelosie infantili da competitori insicuri? Chissà. Di sicuro c’è che questa osservazione è ormai talmente diffusa nei palazzi della politica da rendere impensabile che lo stesso Mattarella non cominci a porsi il problema. E infatti, secondo alcuni intimi del Quirinale, pare se lo stia ponendo. Sia per un personale apprezzamento verso Gentiloni e il suo modo di stare sulla scena (con uno stile pacato, antiansiogeno e naturalmente istituzionale), sia per il rispetto che si è conquistato nei mesi scorsi in Europa e per i risultati che l’esecutivo ha portato a casa pur tra mille difficoltà.
Ciò spiega perché il presidente della Repubblica abbia alzato tante volte il proprio scudo per blindare Palazzo Chigi. E spiega anche l’irritazione profonda affiorata nel comunicato dell’altro ieri, quando il Colle si è trovato spiazzato dalla mossa di Renzi, offeso e umiliato nelle proprie prerogative. Se c’è una cosa cui Mattarella tiene è il rispetto delle regole e delle competenze. Ne parla spesso in chiave per spiegare come interpreta il ruolo. E le ha evocate in quella nota dove, richiamando l’autonomia e l’indipendenza di Bankitalia, alludeva a un assetto che risale addirittura ai tempi di Giolitti. Una tradizione che diverse volte qualcuno ha cercato di aggirare, nella nostra storia, politicizzando la carica del governatore. Senza però mai riuscirci per fortuna.

Corriere 19.10.17
«No alle liti sull’istituto nell’interesse dello Stato»

La presidente della Camera Laura Boldrini sul caso Bankitalia sposa in pieno il richiamo fatto a caldo dal capo dello Stato Sergio Mattarella: «La Banca d’Italia è un’istituzione che va tenuta fuori dalle polemiche e questo perché è nell’interesse dello Stato farlo. Io mi allineo a quanto detto dal presidente della Repubblica, ritengo che sia l’unica linea possibile per quanto riguarda Banca d’Italia». La presidente dell’assemblea di Montecitorio si è soffermata sulle polemiche scoppiate martedì nel mondo politico italiano durante una pausa della sua visita a New York dove al Palazzo di vetro ha incontrato il segretario generale delle Nazioni Uniti Antonio Guterres.

Il Fatto 19.10.17
Mps, il procuratore: “Pronto a riaprire l’inchiesta su Rossi”
Il magistrato alle “Iene”: “Se c’è un’istanza, provvederemo”. La vedova del manager presunto suicida: “La faremo”
di Davide Vecchi

Lo dice senza prendere fiato, parole che sembrano quasi sfuggirgli, tanto vanno via in scioltezza: “Se ci fosse un errore materiale le persone offese facciano un’istanza di riapertura e noi provvederemo”. Il procuratore capo di Siena, Salvatore Vitello, pressato dal giornalista Antonino Monteleone de Le Iene, concede questo spiraglio ai familiari di David Rossi, il manager del Monte dei Paschi di Siena trovato morto la sera del 6 marzo 2013 in vicolo Monte Pio, tre piani e dodici metri sotto la finestra del suo ufficio a Rocca Salimbeni, sede della banca. Spiraglio al quale per prima la vedova, Antonella Tognazzi, sembra aggrapparsi seppur con poca convinzione: “Istanza di riapertura? La faremo”, concede pure lei a Le Iene.
Con poca convinzione perché la stessa Procura oggi guidata da Vitello ha per due volte archiviato la scomparsa di Rossi come suicidio nonostante le tante incongruenze e carenze riscontrate nelle indagini iniziali ed evidenziate persino dagli stessi periti nominati dal magistrato Andrea Boni che ha riaperto il caso nel 2015. Incongruenze e carenze che però non sono state tenute in considerazione nei decreti di archiviazione. Ma che anzi hanno portato il giudice per le indagini preliminari Roberta Malavasi a commettere dei macroscopici errori nel decreto con il quale il 4 luglio 2017 archivia il secondo fascicolo su David Rossi confermando il suicidio.
Nel testo si legge, fra l’altro, che tra le persone sentite nel corso degli approfondimenti investigativi figura anche Lorenza Pieraccini, segretaria di Fabrizio Viola, all’epoca dei fatti ad di Mps. Cosa non vera. La donna non è mai stata sentita come persona informata sui fatti. Eppure era stata una delle ultime persone ad avere parlato con David Rossi il 6 marzo 2013. E proprio per chiedere ragione di questo errore Le Iene chiedono di interloquire con il procuratore capo Vitello che declina la richiesta di intervista.
Allora il giornalista lo contatta telefonicamente. Pochi minuti di conversazione trasmesse nella puntata di martedì sera dalla quale il magistrato sembra decisamente infastidito dalle legittime contestazioni tanto da interrompere la conversazione prima di rispondere nel merito. Sostiene Vitello: “Nell’ordinanza con cui il gip Malavasi ha archiviato il caso ci sono tutte le risposte”. Il cronista gli fa notare che in realtà ci sono alcuni errori tra cui il passaggio sulla segretaria di Viola.
Il procuratore parla ad alcune persone che sono con lui e dice: “Se fate silenzio il signor Monteleone di Italia 1 mi sta facendo le domande così anche voi sentite le risposte che sto dando a come si chiama lui”. E prosegue: “Se ci fosse un errore materiale, le persone offese facciano un’istanza di riapertura e noi provvederemo”. Alle insistenze sul motivo dell’errore commesso dal gip, Vitello sbotta: “Lei fa il giornalista o fa soltanto spettacolo? Lei vuole provocarmi. Se lei mi dice che quello che dice la dottoressa Malavasi non è vero perché contiene degli errori e delle falsità.. crede sia questo il modo di intervistare le persone? La ringrazio e la saluto”.
Che un errore ci sia è indubbio. Così come è certo che la procura di Genova, competente sui magistrati di Siena, ha aperto un fascicolo a seguito delle dichiarazioni dell’ex sindaco Pierluigi Piccini ed ha già convocato alcune persone per essere sentite, oltre ad acquisire il materiale relativo a entrambe le inchieste svolte a Siena su David Rossi, compresa la ricostruzione di come il magistrato Aldo Natalini abbia distrutto alcuni reperti fondamentali come i sette fazzoletti di carta sporchi di sangue trovati nell’ufficio di David. Reperti mai analizzati e mandati al macero prima che il gip si pronunciasse sull’archiviazione o disponesse un supplemento di indagine.
L’invito di Vitello a presentare una nuova istanza di riapertura è ritenuta “una strada sicuramente da percorrere” dall’avvocato Luca Goracci, legale che difende la vedova di David, Antonella Tognazzi, e la figlia di lei, Carolina Orlandi. Sarebbe la terza. “Stiamo svolgendo altre indagini difensive e nel momento in cui avremo gli esiti formuleremo istanza di riapertura”. Sicuramente, aggiunge, “sarà chiesto anche che sia sentita Pieraccini” seppure “era già stato inutilmente chiesto nelle opposizioni finora presentate”. Ben tre. Una anche alla Procura generale di Firenze, alla quale chiesero di avocare le indagini. Ma dal capoluogo toscano preferirono rispedire il tutto a Siena.

ll Fatto 19.10.17
L’alternanza scuola-servitù della gleba
di Daniela Ranieri

La megalomania di una classe politica si misura principalmente su quanta ambizione mostra nel voler mettere mano alla scuola. Affondare le grinfie nell’istruzione per esportarvi il proprio modello di società è il primo atto da tentare se si vuole cambiare l’assetto istituzionale di un popolo (come peraltro indicato nel “Piano di rinascita democratica” della P2 di Licio Gelli).
Una coincidenza non incidentale ha voluto che quelli che hanno lasciato tracce più profonde sull’istruzione e sulla vita di studenti e insegnanti negli ultimi anni fossero i più somari del cosiddetto arco costituzionale. Gente a cui non affideresti nemmeno una scuola di ballo ha deciso del destino di milioni di studenti dalle elementari fino all’università e dei fondi destinati alla scuola pubblica e alla ricerca, cioè all’avanzamento culturale e tecnico-scientifico della Nazione. Da Gelmini (quella convinta dell’esistenza di un tunnel sotterraneo tra Ginevra e il Gran Sasso in cui transitavano neutrini), la cui riforma scriteriata sortisce tuttora i suoi effetti, alla montiana Giannini, firmataria della Buona Scuola di Renzi, fino alla ministra Fedeli che, forte del suo diplomino alle magistrali, vuole insegnare ai ragazzi come si studia, un diluvio di cialtroneria e incompetenza si abbatte da anni sul mondo della scuola e, nonostante le proteste di tutti i soggetti costretti a subirlo, continua a produrre danni.
I renziani, che come si sa sono il drappello della incultura e della rozzezza di una “sinistra” ridotta allo sbando, non contenti di aver ideato la Leopolda della formazione nota come Buona Scuola – in cui centrale è la figura del preside-talent scout che sceglie a chiamata diretta la sua “squadra” di docenti – hanno prima tentato l’inosabile con le cosiddette “cattedre Natta”, con cui 25 commissioni presiedute da docenti nominati direttamente dal presidente del Consiglio (!) avrebbero dovuto selezionare ogni anno “500 cervelli italiani e stranieri” (idea bocciata dal Consiglio di Stato alla fine del 2016); poi hanno obbligato gli studenti degli ultimi tre anni delle superiori a sottrarre ore allo studio per dedicarle a lavori non retribuiti (400 ore per gli istituti professionali e 200 per i licei) e hanno chiamato la rivoluzione “alternanza scuola-lavoro”. Quest’ultima scemenza gli è riuscita, e se venerdì scorso non avessimo visto gli studenti sfilare in 70 città con la tuta blu da metalmeccanici avremmo potuto continuare a credere alla fake news di una generazione bizzosa e viziata, ingrata del grande regalo che il segretario del Pd, che sta pappa e ciccia coi geni della Silicon Valley, sta facendo loro.
Peccato che i ragazzi non vengano sottratti alla didattica per essere inviati al Cern ad apprendere i fondamenti della ricerca, né accolti nei ministeri per sapere come nasce una riforma (forse meglio vedere come si fanno i BigMac). Vengono mandati a passare prodotti alle casse dell’autogrill, portare sdraio in spiaggia, guidare muletti nei magazzini, pulire i tavoli dei fast-food. Cioè a fare quel che faranno da grandi e da laureati se continueremo ad avere governanti del calibro di questi qui.
Ma perché un provvedimento così demenziale? Il rasoio di Occam impone di considerare valida la risposta più ovvia e cioè: perché quelli che lo hanno ideato sono degli analfabeti. Ma a ben vedere l’alternanza scuola-lavoro, cioè l’alternanza studenti-servi della gleba, oltre che una furbata di bassa lega (per uno studente che compie gratis quella mansione, un disoccupato resta a casa), è perfettamente coerente col modello culturale di Renzi, che a dispetto dei suoi slogan sul merito ha portato al governo delle nullità e considera la critica “chiacchiera”, la riflessione una perdita di tempo, i “professoroni” un freno al progresso.
È naturale che chi ha fatto il Jobs Act voglia inculcare nei giovani l’idea che non debbano sentirsi sfruttati, ma appagati di partecipare al grande balzo neoliberista. Fa comodo alla classe non dirigente attuale che gli adolescenti si abituino a pensarsi come destinati alla precarietà e a lavori poco qualificati, sottopagati, senza pensioni future, ferie e giorni di malattia.
Dopo aver stracciato lo statuto che limitava il potere dei padroni di licenziare a proprio piacimento i dipendenti, mancava solo il modo di diffondere tra i futuri lavoratori i principi della rassegnazione e della mancanza di solidarietà con cui decenni di svalutazione del lavoro hanno disgregato la coscienza di classe.
Perciò è semplicemente ridicola la rassicurazione della ministra che presto sarà attivato sul sito del Miur un bottone per segnalare gli abusi, quando gli abusi sono scientemente perpetrati dal governo per il quale lavora. Piuttosto e a proposito, proponiamo l’alternanza per la ministra Fedeli: visto che il lavoro già ce l’ha, potrebbe alternarlo con l’attività didattica e finire finalmente le scuole.

Repubblica 19.10.17
La politica dal neurologo
Gentiloni è costretto a un lavoro impegnativo: togliere le mine messe da Renzi
di Eugenio Scalfari

IN QUESTI giorni m’è venuto in mente uno dei miei più cari amici, da tempo scomparso: Guido Carli che fu uno dei più efficienti governatori della Banca d’Italia, insieme a Carlo Azeglio Ciampi qualche anno più tardi.
La Banca d’Italia è per definizione un’istituzione assolutamente indipendente e il suo governatore è una delle figure istituzionalmente del tutto autonome. In genere le sue iniziative vengono concordate con il ministro del Tesoro, ma possono anche divergere senza che questo comporti le dimissioni dell’uno o dell’altro. Un tempo il compito del governatore era quello di stabilire la politica monetaria, di stampare moneta e metterla in circolazione nella quantità ritenuta necessaria, d’intervenire e vigilare sulla correttezza del sistema bancario, di stabilire rapporti continuativi con le altre Banche centrali dei Paesi più importanti, a cominciare da quella americana, da quella francese, inglese, tedesca. Curava i rapporti della moneta italiana con il dollaro, il franco, la sterlina, il marco.
Gran parte di queste funzioni, con la moneta dell’euro, sono passate alla Banca centrale europea, ma non tutte.
E comunque le Banche centrali dei 19 Paesi aderenti all’euro hanno un consiglio direttivo del quale fanno parte.
Ho citato Guido Carli e Carlo Azeglio Ciampi perché anche loro furono spesso attaccati da forze politiche ed economiche i cui interessi erano danneggiati dagli interventi della Banca centrale; attacchi talvolta violenti e volutamente provocatori. A loro debbo aggiungere Paolo Baffi che fu perfino colpito da un mandato di cattura per l’azione di un giudice che si rivelò poi influenzata dalla società massonica chiamata P2.
Ho ricordato queste vicende ma molte altre potrei raccontare perché ho quasi sempre apprezzato l’azione della Banca d’Italia e chi l’ha governata. Del resto anche il governatore attuale, Ignazio Visco, ha subito l’altro ieri un attacco inatteso e immotivato da Matteo Renzi e dal suo “ cerchio magico” del Pd. Visco ha preso il posto di Draghi quando Draghi andò a dirigere la Bce, del cui consiglio direttivo fa parte anche il governatore della Banca d’Italia. La sua carica scade a fine mese e sarà certamente rinnovata perché il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, cui spetta di firmare il decreto di nomina del governatore, ha già deciso che Visco mantenga la sua carica attuale. Ciononostante il segretario del Pd l’ha duramente attaccato con un documento presentato al Parlamento, chiedendo che Visco non sia rinominato a causa della sua indolenza nella attività di vigilanza sul sistema bancario nazionale. Il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, ha cambiato notevolmente il contenuto di quel documento tagliando tutte le punte renziane e sostituendole con una frase in cui raccomanda agli organi competenti di scegliere con la dovuta attenzione il governatore.
Purtroppo Gentiloni è costretto ad un lavoro che occupa notevole parte del suo tempo, è costretto a fare lo sminatore: Renzi mette le mine e lui le toglie. C’è un film americano che racconta una situazione analoga, ma appunto è un film. Per Gentiloni è un lavoro molto apprezzabile ma molto noioso e ruba tempo.
Questo mio articolo viene dopo un altro pubblicato ieri su Repubblica, di Massimo Giannini e — sempre sul nostro giornale — le dichiarazioni del senatore del Pd Massimo Mucchetti, presidente della commissione parlamentare dell’Industria. Nel frattempo ci sono state dichiarazioni molto critiche nei confronti di Renzi su questo tema, provenienti da Giorgio Napolitano, Walter Veltroni, Luigi Zanda, Carlo Calenda, nonché — come abbiamo già detto — la conferma della decisione che verrà presa dal presidente Mattarella.
Questo mio intervento era quasi inutile ma ho voluto far sentire anche la mia opinione critica perché domenica ho riferito della manifestazione del Pd per festeggiare i dieci anni dalla sua fondazione; sabato scorso in un gremito teatro Eliseo Renzi sembrava cambiato in positivo, affiancato da Gentiloni e da Veltroni e da tutto il meglio del partito. Sembrava che il Pd si fosse finalmente rinnovato e il suo segretario avesse accettato la formazione d’una squadra di prima qualità. Il “ Sono uno e comando da solo” che finora era stata la pessima realtà del Pd renziano era stata dunque superata. E invece no. Renzi è sempre lo stesso, per di più su un argomento che ha alcuni risvolti delicati per il leader di un partito che dovrebbe essere il perno politico e culturale dell’Italia e perfino dell’Europa.
C’è un sentimento isterico nel carattere di Renzi che talvolta lui domina, ma più spesso ne è dominato. Speriamo che riesca a guarire dall’isterismo. Altrimenti deve mettersi nelle mani d’un neurologo che tenti di curarlo. Faccio voti affinché avvenga.

Corriere 19.10.17
I numeri sul declino della democrazia
di Danilo Taino

La democrazia è in recessione, nel mondo. Dopo gli anni seguiti alla caduta dell’impero sovietico, durante i quali ha conquistato numerosi nuovi Paesi, oggi è in arretramento. L’indice sulla salute della democrazia globale elaborato da Freedom House calcola che nel 2016 ci sia stato un declino dei diritti politici e delle libertà civili in 67 Nazioni, contro un miglioramento in 36 . Ma quanto credono i cittadini nella democrazia rappresentativa, quella a cui l’Occidente è abituato? E vedono alternative? Se l’è chiesto il Pew Research Center che ha condotto un sondaggio in 38 Paesi di tutti i continenti. Con alcuni risultati che sorprendono. Globalmente, la democrazia rappresentativa è ritenuta «buona» dal 78% delle persone, «cattiva» dal 17% . Il 66% considera positivamente anche la democrazia diretta — tipo referendum — contro il 30% che non la sceglierebbe. La prima sorpresa è che il 49% è anche a favore di un governo degli esperti (il 48% no), il 26% vede bene il potere a un solo leader (il 71% è contrario) e il 24% dice che sarebbe una buona cosa se il suo Paese fosse guidato da militari (il 73% rifiuta l’idea). La democrazia è insomma nettamente maggioritaria nel mondo ma le alternative elitarie o autoritarie sono forti. In Russia, per dire, solo il 7% si dice impegnato nettamente a favore della democrazia rappresentativa: il 61% la appoggia con una certa freddezza e il 22% vorrebbe un governo non democratico. Percentuali alte di cittadini che vorrebbero vivere in un sistema autoritario si trovano in Sudafrica ( 22 ), Perù ( 28 ), Messico ( 27 ), Colombia ( 25 ), Cile ( 24 ), Brasile ( 23 ). Il record però spetta alla Giordania ( 36% ) seguita dalla Tunisia ( 32% ). I Paesi con una lunga tradizione democratica sono i più solidi nel sostenerla. Negli Stati Uniti e in Canada solo il 7% vorrebbe un governo non democratico, in Germania solo i l 5% , il 9% in Italia, il 10% in Gran Bretagna e in Francia. In Paesi europei con esperienze tutto sommato recenti di regimi dittatoriali, un governo autoritario è desiderato dal 12% in Polonia, dal 15% in Ungheria, dal 17% in Spagna: mentre in Grecia solo dal 6% . Anche tra chi sceglie la democrazia, però, molti non sono chiusi all’idea di forme di governo alternative. In Italia, per esempio, il 17% pensa che un regime militare potrebbe essere positivo, il 29% accetterebbe un leader forte, il 40% apprezza un governo degli esperti.

Corriere 19.10.17
L’ultimo latitante del caso Moro e il mistero dell’arresto fantasma
Casimirri, trovato un documento nell’archivio dei carabinieri. Fuggì in Nicaragua nell’83
di Giovanni Bianconi

ROMA La vita avventurosa dell’ex brigatista rosso Alessio Casimirri — uno dei dieci componenti del commando che rapì Aldo Moro in via Fani, il 16 marzo 1978, oggi sessantaseienne cittadino nicaraguense — s’è dipanata tra i giardini vaticani dove giocava da bambino, la lotta armata praticata negli anni Settanta e il rifugio centro-americano dove vive dal 1983. Mai passato da una prigione; unico tra i sequestratori del presidente della Democrazia cristiana ad aver evitato l’arresto. Una inafferrabile «primula rossa», intorno alla quale si sono costruite ipotesi più o meno fondate, e persino leggende. Alimentate prima dall’essere figlio e nipote di alti funzionari della Santa Sede, con tanto di prima comunione ricevuta dalle mani di Paolo VI, e poi dalle presunte protezioni garantite dal governo sandinista in Nicaragua.
Nome già noto
Oggi però, dagli archivi del Comando provinciale dei carabinieri di Roma, spunta un documento che rappresenta un mistero autentico, e ripropone gli interrogativi sull’ex terrorista ancora uccel di bosco. È un cartellino fotodattiloscopico utilizzato per identificare le persone, saltato fuori dalle ricerche ordinate dall’ultima commissione parlamentare d’inchiesta sul sequestro e l’omicidio Moro. La data dell’avvenuto accertamento è il 4 maggio 1982, quando a carico di Casimirri pendevano due mandati di cattura per associazione sovversiva e partecipazione a banda armata, accusa debitamente annotata sul cartellino. E alla voce «motivo del segnalamento» il compilatore tuttora anonimo (c’è una firma illeggibile) scrisse «arresto». Ufficio segnalatore: una serie di abbreviazioni che stanno a significare «Reparto operativo carabinieri Roma».
Logica vorrebbe che per Alessio Casimirri — un nome all’epoca già iscritto sulla rubrica delle frontiere, come persona da fermare in caso di tentativo di espatrio — quel giorno si fossero aperte le porte del carcere. Invece così non è stato. Non risulta che l’allora militante delle Br dal nome di battaglia «Camillo» (altro particolare segnalato sul cartellino) abbia mai messo piede in una cella. Perché? Com’è possibile che un ricercato venga fermato e fotosegnalato, ma poi liberato?
Dubbi e anomalie
Dell’operazione non c’è traccia in nessun altro documento giudiziario, e alla data del 4 maggio ’82 non si hanno notizie del suo fermo né di altri terroristi. Un arresto fantasma, insomma; certificato da un documento apparentemente autentico, senza che si sia mai realmente verificato.
L’apparenza dell’autenticità deriva dal fatto che il cartellino è di quelli effettivamente in uso, nel 1982, alle forze di polizia, ma nella compilazione ci sono alcune anomalie. La più evidente sta nella foto: non è di quelle normalmente scattate negli uffici investigativi, su tre lati (di fronte, fianco destro e fianco sinistro, accanto al misuratore di centimetri che stabilisce l’altezza) bensì è un’unica fototessera, trovata probabilmente a casa di Casimirri durante una perquisizione (senza esito, lui non c’era) effettuata durante i giorni del sequestro Moro, il 3 aprile ’78. Perché? L’indicazione del falso nome «Camillo» è di provenienza ignota, e le dieci impronte digitali delle due mani impresse su entrambe i lati non si sa di chi siano: per procedere a un confronto la commissione Moro ha chiesto alle autorità nicaraguensi, tramite canali diplomatici, il recupero di quelle autentiche, ma la risposta (chissà quanto credibile) è che non le hanno. Nello spazio riservato alla firma della persona segnalata, il carabiniere compilatore scrisse «si rifiuta», e dunque non c’è nemmeno la possibilità di perizie calligrafiche.
La lettera di Fioroni
Tutto questo alimenta il mistero: si trattò di un’operazione interrotta (dopo il fermo qualcuno intervenne per lasciare andare Casimirri), di cui qualche zelante militare volle comunque dare atto lasciando una traccia rimasta sepolta in un archivio per 35 anni? Oppure è un falso costruito apposta? Ma da chi, quando e con quali finalità? Sono domande che autorizzano a riproporre i molti enigmi maturati intorno all’ultimo latitante del «caso Moro»; compreso quello, rimasto senza riscontri, a cui accennò l’ex pubblico ministero Antonio Marini alla commissione stragi nel 1995, quando riferì la voce secondo cui l’ex br sarebbe stato un informatore di un ex capitano dei carabinieri (poi identificato nel generale Antonio Delfino, morto nel 2014) che l’avrebbe passato al Sismi, il servizio segreto militare. Teorie mai verificate, che tornano d’attualità con la prova dell’arresto fantasma.
Per adesso il presidente della commissione Moro, Giuseppe Fioroni, si è limitato a scrivere una lettera al presidente del Consiglio Gentiloni, e ai ministri Alfano, Minniti e Orlando, per sottoporre nuovamente al governo la necessità di «promuovere l’estradizione del latitante Alessio Casimirri». Fioroni ricostruisce la sua carriera di estremista e brigatista, avanza «ampi dubbi sulle protezioni di cui egli poté eventualmente godere», e cita il mistero del fermo per sostenere che «poté sottrarsi alla giustizia grazie al concorso di una rete di complicità che la Commissione sta cercando di ricostruire».

Il Fatto 19.10.17
“Catalogna anno zero: Madrid è irremovibile”
Klaus-Jürgen Nagel. Il politologo: “Dal governo centrale solo muri”
Oggi scade l’ultimatum. Il presidente Puigdemont dovrà chiarire al primo ministro Rajoy (a sinistra) se la Catalogna si è proclamata indipendente
“Anche una riforma in senso federale della Spagna appare improbabile”
di Andrea Valdambrini

Puigdemont e Rajoy come in un western di Sergio Leone: uno di fronte all’altro, pronti al duello, ma chi sparerà per primo? Di questa snervante impasse tra il governo centrale spagnolo – che ieri ha proposto all’esecutivo regionale di rinunciare ad attivare l’articolo 155 sul “commissariamento” di Barcellona in cambio della convocazioni di elezioni anticipate – e quello della regione della Catalogna, che potrebbe vedere oggi una prima svolta con lo scadere dell’ultimatum agli indipendentisti, parliamo con Klaus-Jürgen Nagel, politologo dell’Università Pompeu Fabra di Barcellona.
A che punto è il ping-pong tra Rajoy e Puigdemont?
I catalani si trovano davanti un muro, parlino di indipendenza o semplicemente di tenere una consultazione. Ma anche se il gioco è di fatto da una parte sola, è vero che entrambi cercano di capitalizzare al massimo.
Di chi è la colpa?
Non dei catalani, basta mettere in fila i fatti. Nel 2010 la Corte Costituzionale negò gli articoli essenziali dello Statuto di Autonomia negoziato nel 2004 e approvato con un referendum in Catalogna, seppur in una versione depotenziata. Da allora i nazionalisti hanno perso fiducia nella speranza di autonomia e chiesto un referendum sull’indipendenza. Quando si sono resi conto che non l’avrebbero mai ottenuta, sono arrivati all’idea della dichiarazione unilaterale. Pronti a bloccarla, se il governo spagnolo accettasse di trattare.
Al di là dei proclami e delle schermaglie, come andrà a finire?
Soluzioni a portata di mano non ne vedo. La Generalitat potrebbe rinunciare all’indipendenza solo nella prospettiva di un referendum negoziato con Madrid. Il governo spagnolo e i partiti di opposizione rifiutano però sulla base del principio di sovranità della Spagna e discutono solo del grado della repressione. Finché regge il fronte di popolari, socialisti e Ciudadanos (e che include anche Podemos), e l’Ue permette a Rajoy di ignorare le richieste dei catalani, gli unici dubbi riguardano il grado di repressione da parte del governo centrale o i modi e tempi della possibile applicazione dell’articolo 155 della Costituzione per eliminare l’autonomia della regione.
Poniamo si arrivi a un vero punto di non ritorno. Non sarebbe un problema anche per Puigdemont, ostaggio degli oltranzisti della secessione e senza, per questo, ulteriore margine di manovra?
L’uso della violenza politica il 1° ottobre non ha scosso particolarmente il fronte dei partiti spagnoli, anche se ha creato un clima internazionale di simpatia verso i catalani. Se la repressione si intensificasse, tutti gli indipendentisti si unirebbero e potrebbero controllare la regione, in accordo con la legge che il parlamento catalano ha predisposto. Sul fronte opposto, i partiti spagnoli che sostengono il governo, inclusi alcuni esponenti del Psoe, non chiedono niente altro che maggior uso della forza.
Crede che una riforma della Spagna in senso federale sia possibile?
Mi sembra un’eventualità più improbabile dell’indipendenza catalana. Sarebbe necessaria la modifica della Costituzione con l’accordo dei maggiori partiti e lascerebbe da parte l’opinione dei catalani stessi, che rappresentano il 16% della popolazione. La federazione sarebbe inutile, se non riconoscesse il carattere plurinazionale della Spagna.

il manifesto 19.10.17
Halper: «Guerre contro i popoli: il modello è Israele»
Intervista. «Il capitalismo globale reprime i popoli usando il concetto di pacificazione. Ma l’Occidente non ha molta esperienza in questo tipo di conflitti. E Israele gli fornisce armi e high tech», spiega lo storico attivista e fondatore di Icahd
intervista di Chiara Cruciati

Guerre contro-insurrezionali, anti-terrorismo, guerre non convenzionali, limitate, guerre a bassa intensità. Nell’ultimo decennio il mondo ha assistito alla trasformazione del concetto di conflitto militare: da guerre tra Stati e eserciti a guerre contro i popoli. Repressione, stato di polizia, frontiere chiuse al passaggio di esseri umani ne sono la plastica rappresentazione.
In cima alla piramide del mercato globale della sicurezza c’è Israele, paese che conduce da 70 anni una guerra contro un intero popolo, quello palestinese. Ne abbiamo discusso con Jeff Halper, fondatore di The People Yes! Network e di Icahd, Comitato israeliano contro la demolizione di case.
In questi giorni è in Italia per la presentazione del libro «La guerra contro il popolo. Israele, i palestinesi e la pacificazione globale» (Ed. Epokè).
I sistemi usati oggi in Europa per impedire l’ingresso dei rifugiati lungo le rotte terrestri sono spesso made in Israel.
Muri, sistemi di sorveglianza, barriere high tech che individuano i movimenti umani: è tutto israeliano. Israele vende in Europa le tecnologie di confine sviluppate sui palestinesi a Gaza e in Cisgiordania. Questa è la Palestina globalizzata. Israele sa che i palestinesi non rappresentano alcuna minaccia ma forniscono un conflitto di basso livello che gli permette di sviluppare armi e sistemi di sicurezza e sorveglianza da esportare sul mercato globale. Israele è all’avanguardia perché ha un popolo intero da usare come cavia da laboratorio.
Il libro introduce i concetti di «conflitto securitario» e «industria globale della pacificazione». Perché il modello israeliano è diventato globale?
L’occupazione israeliana va posta oggi all’interno del sistema capitalista globale che, entrato in crisi, è divenuto maggiormente coercitivo. Cambia anche la guerra: dalle guerre tra Stati, convenzionali, si è passati oggi a guerre contro i popoli, repressive di istanze popolari e a bassa intensità. Il capitalismo globale reprime i popoli utilizzando il concetto di pacificazione, ovvero una forma di repressione popolare che rende la base incapace di reagire e riorganizzarsi.
E, a parte il caso del Vietnam per gli Stati uniti, il nord globale – il centro del sistema capitalista mondiale – non ha molta esperienza in questo tipo di conflitti. Ed è qui che Israele si inserisce: ha le armi, le tattiche, il sistema di sicurezza e sorveglianza, il sistema di controllo della popolazione a cui oggi anelano le classi dirigenti di tutto il mondo. E questo dà a Israele un potere nuovo, sul mercato militare ma anche sul piano politico.
Un know how militare che si traduce in cartamoneta politica e diplomatica?
La sua incredibile influenza è proporzionale al bisogno che di Israele ha il capitalismo globale. La chiamo la «politica della sicurezza» che intreccia l’economia israeliana (fondata sulla commistione tra industria bellica e high tech) a influenza politica internazionale.
Alcuni esempi. L’avvicinamento alla Cina: Israele è il secondo o il terzo esportatore di armi a Pechino, tradizionalmente vicina alle istanze palestinesi. O la normalizzazione con l’Arabia saudita che sul piano ideologico dovrebbe essere una nemica ma con cui condivide obiettivi (l’Iran) e bisogni (la repressione interna).
Durante le proteste di Black Lives Matter negli Usa, gli attivisti palestinesi inviavano consigli su come resistere alle cariche della polizia. Se il sistema securitario si globalizza, se il capitalismo si globalizza, è possibile che si globalizzi anche la resistenza?
Il problema è l’assenza della sinistra. Il capitalismo è globalizzato, la cooperazione è globalizzata, gli Stati sono globalizzati e lo sono anche terrorismo e reti criminali. Solo la sinistra non riesce a globalizzarsi. Il movimento delle donne non parla agli attivisti pro-palestinesi, il movimento per il clima non parla a quello per i diritti degli afroamericani e così via. I movimenti di base tendono a restare isolati, limitati, a concentrarsi su temi specifici senza fare i dovuti collegamenti con altre questioni.
La ragione sta nell’incapacità della sinistra di vedere il quadro completo. Le nuove generazioni sono nate e cresciute sotto il modello globale del neoliberalismo, un sistema che ha annullato i movimenti globali e distrutto la collettività, imponendo l’individualismo e la riduzione dei cittadini a consumatori. La sinistra dovrebbe dotarsi di un’agenda globale che leghi le diverse questioni.
Il neoliberismo vive anche istigando la guerra tra gli ultimi.
Le opinioni pubbliche si sono assuefatte alla violenza di questo modello securitario. Il cittadino medio pensa a come proteggersi da soggetti che apparentemente mettono in pericolo il suo lavoro, la sua casa, i suoi interessi, affibbiando le responsabilità del neoliberismo ai soggetti da questo esclusi. Anche qui Israele è modello ad una visione distorta, al non-impatto del modello repressivo sulla società.

il manifesto 19.10.17
Raid nelle sedi dei media palestinesi, altre 2600 case per i coloni
Cisgiordania. Pugno di ferro di Israele nei Territori occupati dopo l'annuncio del governo Netanyahu che non negozierà con un governo palestinese con all'interno il movimento islamista Hamas.
di Michele Giorgio

GERUSALEMME Arresti notturni in Cisgiordania, migliaia di nuove case per coloni, demolizioni di abitazioni a Gerusalemme Est e raid dell’esercito nelle sedi di organi d’informazione palestinesi. Tutto nel giro di poche ore. Notizie che certo non rappresentano una novità nei Territori palestinesi che Israele occupa del 1967. Tuttavia questa escalation potrebbe essere collegata alla decisione del governo Netanyahu di far uso del pugno di ferro contro la riconciliazione tra il movimento islamista Hamas e il partito Fatah. L’altro giorno è passata nell’esecutivo israeliano la linea del ministro ultranazionalista Naftali Bennett che aveva chiesto di dare una risposta forte all’accordo al Cairo tra le due principali forze politiche palestinesi divise per dieci anni da uno scontro devastante. Il premier Netanyahu che, secondo gli analisti aveva inizialmente scelto una posizione più prudente, ha deciso che il suo governo non negozierà con quello palestinese se al suo interno ci sarà anche Hamas del quale è tornato a chiedere il disarmo. «Le decisioni del gabinetto israeliano sono una scusa per arrivare a un punto morto» denunciano i palestinesi. Il «no» di Netanyahu al negoziato con il futuro governo di unità nazionale avrebbe lo scopo, aggiungono, di aprire la strada al “piano di pace” dell’Amministrazione Trump che, secondo le indiscrezioni, propone la soluzione della questione palestinese nel quadro di una trattativa tra Paesi arabi e Israele.
Sono 1.323 i nuovi alloggi che saranno costruiti per i coloni israeliani nella Cisgiordania occupata, dove ieri un palestinese avrebbe tentato di accoltellare un soldato israeliano ma è stato bloccato e ferito. Un numero che porta, in appena tre giorni, a 2.646 il totale delle nuove unità abitative negli insediamenti coloniali, rivela l’organizzazione pacifista Peace Now. A questi appartamenti si aggiungono i 31 approvati lunedi, per la prima volta dal 2002, per i coloni nella città di Hebron. Una colata di cemento che non turba il leader dell’opposizione laburista Avi Gabbai che a inizio settimana aveva escluso l’evacuazione anche di una sola colonia nel quadro di un accordo di pace. Poi ha fatto una parziale retromarcia. Invece vengono demolite subito le case palestinesi “illegali” nei territori sotto occupazione. Tra martedì e ieri le ruspe del comune israeliano di Gerusalemme hanno trasformato in un cumulo di macerie un edificio nel quartiere di Beit Hanina e due abitazioni a Silwan. «Ai palestinesi vengono rilasciati pochi permessi edilizi mentre dal 1967 i governi di Israele sono stati coinvolti nella costruzione a Gerusalemme Est di 55mila case per israeliani contro le 600 per i palestinesi», ricorda Daniel Seidemann di “Terrestrial Jerusalem”. L’Onu riferisce che dall’inizio dell’anno sono stati demoliti a Gerusalemme 116 edifici palestinesi.
Sarebbero parte, secondo il portavoce militare israeliano, di una operazione dell’Esercito contro «l’istigazione alla violenza e al terrorismo» i raid compiuti martedì notte negli uffici di otto redazioni giornalistiche palestinesi a Betlemme, Nablus, Ramallah e Hebron, città che ufficialmente sono sotto la piena autorità, anche di sicurezza, dell’Anp di Abu Mazen. I soldati hanno sequestrato computer, documenti, filmati, registrazioni audio negli studi di Pal Media, Ram Sat, Trans Media, Al Quds, Al Aqsa, Palestine Alyoum e di altre due emittenti. «È stata una brutale aggressione. L’occupazione israeliana vuole prevenire la copertura mediatica delle atrocità che compie», ha protestato il portavoce dell’Anp, Yousif Mahmoud. Immediata la replica dell’Esercito: «Le forze di sicurezza continueranno a lavorare contro l’incitamento al terrorismo». Da Londra la Commissione di sostegno ai giornalisti (Journalist Support Committee) ha condannato i raid, sottolineando che sono 33 i reporter palestinesi nelle prigioni israeliane, gli ultimi due, arrestati ieri, sono i fratelli Amer e Ibrahim al Jaabari di Trans Media. Nelle stesse ore sono stati arrestati altri 16 palestinesi.

Il Fatto 19.10.17
Il sacrificio dei Peshmerga e la faida curda
Kurdistan. La cacciata da Kirkuk da parte delle milizie sciite dovuta alle spaccature tra i secessionisti
Il sacrificio dei Peshmerga e la faida curda
di Roberta Zunini

Dopo la chiusura dello spazio aereo e delle frontiere del Kurdistan iracheno imposto da Baghdad, è apparso del tutto evidente il paradosso di questa regione. Nonostante la ricchezza di questa terra zeppa di petrolio e gas, dove si arriva a pagare 300 mila dollari per un numero telefonico vip e, ancora di più, per una targa personalizzata e dorata dell’automobile, la disparità tra ricchi e poveri continua a aumentare, assieme alla corruzione. Inoltre le divisioni tra i Barzani e i Talabani – le due famiglie che, attraverso la finzione dei rispettivi partiti (Pdk e Puk), da decenni governano e controllano la regione, spartendosi i proventi di gas e petrolio – era ormai arrivata a un punto di rottura.
La vedova di Jalal Talabani, il leggendario leader curdo appena deceduto in Germania dopo una lunga agonia, aveva deciso con i figli di sconfessare il risultato del referendum a favore dell’indipendenza del 25 settembre, voluto dal rivale Masud Barzani (presidente a interim della Regione) accettando i desiderata del governo centrale iracheno, leggasi della Guida suprema dell’Iran, l’ayatollah Ali Khamenei. Che controlla il presidente iracheno Abadi.
Dalla sua roccaforte di Sulemanyyah, la vedova e i suoi rampolli hanno intimato ai peshmerga del Puk di non combattere e di lasciare Kirkuk, la città contesa più ricca e perciò importante, che aveva aderito al referendum nonostante il parere contrario della comunità internazionale. Così Kirkuk è stata presa in poche ore dall’esercito iracheno la cui spina dorsale è costituita dalle milizie sciite, costola dei Pasdaran iraniani, Ashd al Shaabi. Il problema è che il presidente Barzani, ringalluzzito dalle parole di Trump contro il terrorismo dei pasdaran iraniani e contro l’accordo sul nucleare voluto da Obama, non accetterà che Ashd al Shaabi si attesti anche in altre zone contese. Tra cui quella vicina a Mosul e Sinjiar dove anche la Turchia non vede l’ora che gli iracheno-iraniani entrino per poter raggiungerli e combattere al loro fianco.
Insomma tutti contro Barzani, colui che ha voluto a ogni costo il referendum, per aver osato sfidare dalla sua piccola ma preziosa Regione tutte le potenze in gioco, alleati americani compresi.
Se i peshmerga si dovessero riunire, eventualità piuttosto remota, per combattere contro le milizie sciite, già autrici di pulizie etniche durante le offensive per liberare dall’Isis città e province come Ramadi, per combattere, non avrebbero comunque alcuna chance di vittoria, essendo mal equipaggiati. È escluso che Kirkuk e Sinjiar possano essere riconquistate dai peshmerga. “Ciò che è successo è un’altra Anfal contro i curdi”, ha dichiarato il vicepresidente del Kurdistan iracheno e numero 2 dell’Unione patriottica del Kurdistan (Puk) Kosrat Rasul Ali, accusando chi, nel suo partito, ha ordinato il ritiro dei peshmerga da Kirkuk.
Il riferimento è alla famigerata “campagna Anfal” del 1988-89, quando Hassan al-Majid, detto “Alì il Chimico”, cugino di Saddam, ordinò lo sterminio con gas nervino della popolazione inerme nel nord dell’Iraq, causando la morte di circa centomila curdi. “Quello che davvero brucia la ferita è che alcuni apostati hanno abbandonato la dottrina del Puk e sono diventati aiutanti degli invasori per ottenere vantaggi personali. Con questo atto disgustoso, hanno portato loro stessi nelle pagine nere della storia della nostra nazione”, ha aggiunto Ali. Il vicepresidente curdo ha poi ricordato che “la nazione del Kurdistan ha affrontato per tre anni il gruppo terroristico più barbaro e messo fine ai loro complotti disgustosi ai danni dell’umanità pacifica. I traditori del Puk devono rispondere di tutto quello che sta accadendo a Kirkuk e Duz, la perdita di vite umane e danni materiali. Credo che siamo alla fine”, ha aggiunto Ali, sostenendo però che il Kurdistan ha già subito numerosi duri colpi e rialzarsi “non sarà difficile”.
Intanto il ministro iracheno del Petrolio, Jabar al-Luaibi, ha chiesto alla multinazionale Bp di “pianificare rapidamente i progetti per sviluppare i campi petroliferi di Kirkuk”.

Il Fatto 18.10.17
Raqqa è presa, curdi felici solo a metà
Il Califfato - L’Isis perde la “capitale” ma chi ha vinto la battaglia per l’Iraq è sempre un nemico
Raqqa è presa, curdi felici solo a metà
di Giampiero Gramaglia

Raqqa è caduta, Raqqa è libera: dopo Mosul, la capitale irachena, l’Isis, perde pure la capitale siriana. Ma il cubo di Rubik mediorientale è lungi dall’essere risolto. I curdi, protagonisti della battaglia di Raqqa, s’attendono d’essere ricompensati dagli Stati Uniti e – divisi fra di loro – sognano l’indipendenza; ma si ritrovano sotto attacco in Iraq.
I miliziani integralisti, foreign fighters e guerrieri locali, non hanno più un territorio da difendere, ma restano capaci di azioni terroristiche. E le scelte contraddittorie del presidente Trump, che lusinga le monarchie sunnite, dove i jihadisti hanno appoggi e da dove traggono finanziamenti, e contrasta l’Iran, in prima linea in Iraq e con i suoi alleati in Siria contro l’Isis, non favoriscono una composizione pacifica dello scacchiere. L’assalto finale a Raqqa era partito sabato scorso. La presa è stata ieri annunciata dalle Sdf, le Forze democratiche siriane, a predominanza curda, sostenute dalla Coalizione internazionale a guida Usa. Fonti umanitarie parlano di tremila caduti a Raqqa in un anno.
Le milizie curde hanno issato la propria bandiera all’interno dello stadio, ultimo bastione dell’Isis, mentre ancora tutto intorno proseguivano sporadici combattimenti. Tremila civili, ma anche centinaia di jihadisti – in merito, le informazioni sono contrastanti – erano stati evacuati da Raqqa domenica, dopo un accordo raggiunto tra le Sdf e lo Stato islamico con la mediazione di capi tribali locali. L’intesa non è stata avallata dagli Stati Uniti e dagli alleati occidentali: in Europa, c’è preoccupazione per l’onda d’urto del ritorno dei foreign fighters. Lanciata l’azione finale, i miliziani dell’Isis rimasti a resistere, fra cui numerosi foreign fighters – qui c’erano i cervelli degli attentati a Parigi nel novembre 2015 – s’erano asserragliati in un’area molto ristretta del centro cittadino, praticamente distrutto. Ieri mattina, i curdi avevano conquistato piazza al Naim, tragicamente celebre perché teatro delle esecuzioni pubbliche dei boia integralisti, e erano poi andati all’attacco dello stadio, divenuto luogo di detenzioni e uccisioni.
Ma proprio in parallelo alla battaglia di Raqqa, più a Est, in Iraq, le forze irachene stanno svolgendo un’offensiva per impadronirsi della città di Kirkuk, centro petrolifero nevralgico in mano ai curdi. È la risposta al referendum per l’indipendenza svoltosi a fine settembre nel Kurdistan iracheno, che già gode di larga autonomia. L’esercito iracheno e le forze curde sono tutti armati ed equipaggiati da americani e occidentali.
Le forze irachene stanno inanellando successi, profittando della rotta dell’Isis: controllano ormai Hawija, 65 chilometri a sud-ovest di Kirkuk, una ridotta dei miliziani, e Tal Afar, nel nord, roccaforte dell’Isis nella provincia di Ninive. In Siria, muovono contro l’Isis i lealisti a Dayr az Zor e i qaedisti ad Hama. Il Califfato si sgretola, anche se ciò non significa la fine della jihad.
Lo scontro in atto tra curdi e iracheni in Iraq; i fermenti fra i curdi di Siria, che sognano anch’essi d’uno Stato curdo; l’ostilità ai curdi dei governi centrali di Damasco e Baghdad e, ancora di più, Ankara e Teheran; tutto ciò complica il quadro della regione, ulteriormente liso dal deterioramento dei rapporti tra Usa e Iran. E mentre Washington deve gestire un dissidio armato fra suoi alleati, altri suoi alleati, i sauditi e i turchi, fanno shopping d’armi a Mosca, mentre, in funzione anti-curda, si parlano persino Teheran e Ankara.

Il Fatto 19.10.17
Il “desaparecido di Macrì” ucciso nelle terre dei Benetton
Il cadavere ritrovato in Patagonia potrebbe essere quello dell’attivista Maldonado
di Guido Gazzoli

Nelle acque del Rio Chubut, in località Pu Louf (Patagonia), a 300 metri dal luogo dove il 1° agosto, partecipando a una manifestazione per ottenere la liberazione del leader del movimento guerrigliero Ram degli indigeni Mapuche Facundo Jones Huala, Santiago Maldonado venne visto per l’ultima volta. Ieri è stato trovato un cadavere che dalle prime descrizioni (specie sul vestiario) parrebbe quello dell’artigiano e attivista argentino.
Dato lo stato di decomposizione del corpo e il lungo tempo trascorso in acqua non è stato ancora possibile procedere all’identificazione, anche se la mancanza di altre denunce per sparizione restringe le possibilità che possa trattarsi di un’altra persona. Secondo le autorità che hanno operato il ritrovamento, esistono però punti non chiari che potrebbero far sorgere degli interrogativi sulla scoperta: in primo luogo il cadavere è stato rinvenuto sott’acqua a una certa profondità, fatto che rapportato alla data della scomparsa lo rende impossibile. Poi, c’è da rilevare che le ricerche che dalla data della scomparsa sono state intraprese, sono state ostacolate da gruppi Mapuche che hanno impedito l’accesso delle squadre di soccorso in quello che considerano loro territorio. Una ipotesi lanciata in queste ultime ore da parte degli inquirenti, parla di un possibile annegamento della persona trovata, anche se l’avvocato della famiglia Maldonado, Veronica Heredia, ha sostenuto l’ipotesi che il corpo ritrovato sia stato messo apposta nel Rio Chubut ed escluso, dopo una riunione con il giudice federale Gustavo Lleral e il magistrato Silvina Avila, che il cadavere sia quello di Santiago. Continua così una vicenda che, seppur abbia colpito l’opinione pubblica non solo Argentina, presenta fin dall’inizio diversi punti oscuri ed è stata utilizzata come arma politica dall’opposizione al governo Macri, specie da parte del kirchnerismo, in vista delle elezioni che si terranno domenica per una percentuale rilevante di seggi alla Camera e al Senato.La manifestazione del 1º agosto era stata repressa dalla Gendarmeria con uno scontro che aveva provocato feriti da ambedue le parti e soprattutto la sparizione di Maldonado. Da subito battezzato “il primo desaparecido del governo Macri” da parte di esponenti di alcune organizzazioni dei diritti umani legate al kirchnerismo che hanno esageratamente paragonato l’attuale esecutivo alla genocida dittatura militare degli anni Settanta, le indagini hanno presentato diversi punti oscuri sia da parte dell’azione della Gendarmeria che di appartenenti a sedicenti gruppi Mapuche.
Un’etnia di origine cilena che, dopo aver massacrato la tribù Tehuelce originaria di quelle zone posteriormente appartenenti all’Argentina, ha da anni iniziato una lotta per il possesso delle stesse, in parte acquisite dalla famiglia Benetton quando nel 1999 le comprò da un gruppo di estancieros che ne erano proprietari dopo la ripartizione seguita alla conquista operata dal Generale Roca nella tristemente famosa “Guerra del desierto” tra il 1878 e l’85 che segnò una strage delle etnie originarie . In questi anni ci sono state diverse proteste in particolar modo nei confronti dei Benetton e della famiglia Lewis, altra proprietaria terriera, sia pacifiche da parte di famiglie, alcune delle quali hanno cause in corso per il possesso delle terre che violente (con omicidi e incendi di estancias) operate da un gruppo chiamato Ram che, stranamente, ha sede a Londra e molti dei suoi appartenenti con cognomi inglesi.

Corriere 19.10.17
I divorzi «stranieri»
La richiesta al giudice per poter ripudiare la moglie o il ricorso sulla validità di nozze in videoconferenza
Ecco cosa succede nelle aule di tribunale italiane quando si applica il diritto di famiglia di altri Paesi
di Giusi Fasano

C’è il tizio che per sua moglie avrebbe tanto voluto il Talāq , il ripudio, secondo i vecchi precetti della sharia. C’è la coppia che ha chiesto al tribunale civile di applicare la Kafala prevista dalla legge islamica. C’è la moglie che invece ha ottenuto il Mout’a , dono di consolazione, e l’ Iddà, indennizzo per la «vedovanza» post-divorzio, stabiliti dal codice di famiglia marocchino, il Mudawwana Al’Usra . Un giudice ha dovuto decidere se fosse valido o no un matrimonio celebrato in videoconferenza fra l’Italia e il Pakistan, altri si sono pronunciati su nozze decise per gioco a Las Vegas ma diventate reali quando poi uno dei due partner le ha registrate.
La legge del 1995
Paese che vai, divorzio che trovi. Ma la domanda è: quando e come — in caso di coppie miste o di coniugi entrambi stranieri — i giudici italiani tengono conto del diritto di altri Paesi nel decidere le loro sentenze di divorzio? La risposta segue percorsi complicatissimi partiti da una legge del 1995 — la 218 che disciplinava il diritto internazionale privato — e approdati a più regolamenti europei che sono un’evoluzione di quella legge (in particolare il nr. 1259 del 2010, applicato dal 2012 in poi).
In materia di divorzio un punto fermo importantissimo dal quale partono i tribunali civili italiani è che i giudici debbano rifiutare di applicare una legge contraria all’ordine pubblico: che contrasti, cioè, con i valori fondamentali della società civile o non tenga conto della parità di diritti dei coniugi. Per questo nel tempo sono stati respinti vari tentativi di introdurre in Italia il concetto islamico del ripudio. Non è accettabile un marito che dica a un giudice italiano: l’ho ripudiata quindi non le pago gli alimenti, nemmeno se lei accetta quell’accordo.
Altro principio chiave: il regolamento europeo attivo dal 2012 non ha i confini dell’Europa. È universale, quindi non vale soltanto per gli Stati Ue ma è applicabile a qualunque legge straniera purché il giudice sia di uno Stato che aderisce al regolamento.
Giuseppe Buffone, ex giudice civile a Milano e ora alla Direzione generale della giustizia civile, dice che «purtroppo non sono molti i magistrati e gli avvocati che si muovono con disinvoltura fra le norme che regolano questo genere di questioni. Così capita che molte volte la coppia non sia informata, e ne avrebbe diritto, sulle possibilità che renderebbero tutto più semplice e veloce. Mi è capitato di sentirmi dire che il regolamento europeo fosse escluso perché lui era ecuadoriano, lei cilena. Sbagliato: devi chiederti di che nazionalità è il giudice, non loro». È fondamentale sapere che, quando sono d’accordo, i divorziandi possono scegliere la legge da applicare e magari rivolgersi allo Stato che prevede il divorzio diretto senza passare dalla separazione. È di questo genere l’ultimo caso registrato dalle cronache, a Padova.
Applicato il codice marocchino
Le avvocatesse Ghita Marziano e Barbara Gerardo hanno ottenuto il divorzio immediato per i loro assistiti — lui marocchino, lei italiana di origini marocchine — chiedendo al giudice l’applicazione del codice di famiglia del Marocco che lo prevede. Ma più del divorzio immediato la novità di quella sentenza è stata l’applicazione della legge marocchina anche ai rapporti patrimoniali. La moglie si è vista riconoscere il Mout’a (dono di consolazione stabilito in base alla durata del matrimonio e alla situazione finanziaria del coniuge) e il Sadaq , la dote nuziale che l’uomo (secondo i riti del suo Paese) si era impegnato a pagare per poterla sposare. L’avvocatessa Marziano ha studiato il Mudawwana Al’Usra e dice che con quel codice «il legislatore marocchino si è sforzato di conciliare il diritto positivo con quello musulmano che prevede come ancora possibili, a certe condizioni, il ripudio e la poligamia. Due concetti — chiarisce — che non esistono e non possono entrare nel nostro sistema giudiziario anche se mi sono capitati casi in cui la controparte ha provato invano a farli riconoscere come validi».
I ricorsi in Europa
A parte la certezza su termini come poligamia e ripudio, le regole del gioco non devono essere poi così chiare se capita che di tanto in tanto i divorzi arrivino fino alla Corte di Giustizia europea. Per esempio è pendente il caso di una causa di separazione aperta in Italia alla quale è seguita una causa di divorzio aperta successivamente da uno dei due partner in Romania. Qual è il giudice che «vince», diciamo così? Di norma quello arrivato per secondo dovrebbe sospendere il procedimento e invece stavolta non è successo e il magistrato romeno ha concesso il divorzio facendo così cessare la separazione in Italia. Un errore? O l’oggetto in discussione è diverso quindi è tutto corretto? La questione è aperta e i nodi non saranno sciolti in fretta.
È stato piuttosto complicato venire a capo anche di un’altra storia singolare. Distretto giudiziario di Bologna. Lei italiana, lui pachistano. Si sono sposati in videoconferenza senza essersi mai conosciuti di persona, come consentono le leggi del Pakistan, ma poi è arrivato il tempo dell’addio, in Italia. La causa, fra ricorsi e controricorsi, è approdata in Cassazione. Risultato: il matrimonio era valido perché non in contrasto con i nostri valori fondamentali. Come non lo era in un’altra vicenda (e anche in quel caso c’è voluto l’intervento delle Sezioni unite) l’applicazione della kafala , la regola che in alcuni Paesi islamici stabilisce che, in accordo fra loro, i genitori separandosi possono affidare un figlio che viva laggiù a parenti o amici.

il manifesto 19.10.17
Incontri Gramsci nello spazio europeo
Si conclude oggi Gramsci in translation: crisis, hegemony and revolution’s in today’s Europe, organizzato dal gruppo Gue/Ngl in collaborazione con la International Gramsci Society Italia presso la sede del Parlamento europeo di Bruxelles
di Eleonora Forenza e Guido Liguori

Gramsci entra nel Parlamento europeo, o meglio «fa irruzione» nelle aule di Bruxelles, a partire dall’urgenza di una rottura nel presente: dalla necessità di ripensare la rivoluzione nello spazio europeo contemporaneo e di reinventare il progetto europeo rompendo la governance neoliberista e i processi di passivizzazione di massa che connotano l’architettura economica e istituzionale dell’Unione europea.
Radicare un lavoro di traduzione delle parole di Gramsci nello spazio europeo e a partire dalle domande dal presente, ripensare le forme di una lotta per l’egemonia nella crisi del neoliberismo (o nel capitalismo come continua crisi-ristrutturazione): è una sollecitazione che ci viene dall’America latina, dove l’utilità teorica e politica di Gramsci nella conoscenza-trasformazione del presente è diffusamente praticata, così come nel dibattito politico spagnolo. Ed è una sollecitazione che emerge soprattutto da un pensiero politico, quello gramsciano, che ha fatto della traduzione e della traducibilità un suo architrave: a partire dalla traducibilità del metodo della rivoluzione tra Oriente e Occidente, tra passato e presente.
Gramsci in translation: crisis, hegemony and revolution’s in today’s Europe, organizzato dal gruppo Gue/Ngl in collaborazione con la International Gramsci Society Italia presso la sede del Parlamento europeo di Bruxelles (nelle giornate di ieri e oggi), è un primo esperimento di un lavoro di traduzione di Gramsci tra passato e presente nello spazio europeo che la Igs Italia intende promuovere.
Un’occasione che sta mettendo a dialogo studiose e studiosi di Gramsci, parlamentari eureopee/i di diverse delegazioni e partiti (Altra Europa, Izquierda Unida, Partito della sinistra europea, Rifondazione comunista, Unità popolare, Bloco de Izquierda, Die Linke, Podemos). Abbiamo pensato a questo incontro e a questo metodo anche perché ci pare necessario ritradurre la diade gramsciana specialista + politico: sottrarci oggi alla riduzione della politica a tecnicalità specialistica che amministra l’esistente e alla riduzione della ricerca a un iper-specialismo che la neutralizza.
La domanda che proveremo a tradurre nella Europa di oggi è quella alla base della riflessione carceraria: «come si forma il movimento storico sulla base della struttura?», articolando la discussione in quattro panel. Come si può interpretare e combattere l’intreccio tra restaurazione neoliberista e la forma di gigantesca rivoluzione passiva che essa assume in Europa, dove la governance agisce sia sottraendo il progetto europeo all’azione delle classi subalterne sia continuando a dispiegare i propri apparati egemonici attraverso lo Stato-nazione? Come possono le classi subalterne praticare autodeterminazione: rideclinando il popolare-nazionale, interpretando la ragione populista o immaginando un cosmopolitismo di tipo nuovo nello spazio europeo? Come si forma il senso comune oggi? E, dunque, come si può costruire un nuovo senso comune alla luce della inedita pervasività della disciplina neoliberista e del suo apparato massmediatico?
Infine, ottanta anni dopo la morte di Gramsci e cento anni dopo l’Ottobre, come ripensiamo la rivoluzione nella crisi dell’Unione europea? Come si combatte una lotta per l’egemonia sul significante Europa?
Nel ritradurre il problema della rivoluzione tra Oriente e Occidente come guerra di posizione, Gramsci riflette sui processi di formazione della personalità, sulla formazione delle volontà collettive, sulla materialità della lotta per l’egemonia qualificandoli spesso con un aggettivo: molecolare. Molecolare è oggi il lavoro politico che dobbiamo compiere per connettere condizione e coscienza, sociale e politico, lotte e conflitti contro la disgregazione (altra parola chiave nel lessico gramsciano, non a caso a partire dalla Questione meridionale, che oggi ha assunto anche una dimensione continentale) che il neoliberismo produce sempre più intensamente.
Infine, partire dal presente significa anche confrontarsi col movimento che oggi con più forza tenta una traduzione tra dominio di classe, di genere, di razza: il movimento trans-femminista, soggetto di una trans/lation che ha dimensione mondiale. La vita è sempre rivoluzione: è una frase che Gramsci ha scritto nel 1917 e ha praticato durante tutta la sua esistenza. Ora sta a ciascuna e ciascuno di noi tradurla nel presente, nelle nostre vite.

La Stampa 19.10.17
Ulisse o della collaborazione, un eroe diverso da tutti gli altri
In un mondo ancora dominato dalla forza fisica e dal coraggio, un nuovo modello di giustizia e autocontrollo. L’intervento di Eva Cantarella per le Lezioni Laterza
di Eva Cantarella

Scomparsa la struttura politica, finanziaria e amministrativa accentrata nei palazzi dei sovrani micenei, la vita continuò nelle comunità locali, dislocate nel territorio, composte da gruppi familiari la cui struttura sociale, in mancanza di un’autorità sovraordinata, rimase basata sulla competizione tra le famiglie, basata su un’etica in cui non esistevano comportamenti leciti e comportamenti illeciti. Esistevano comportamenti che offendevano, mettevano in dubbio la timé, l’onore di chi li subiva (e del suo gruppo familiare), rendendo la vendetta un dovere sociale. Sennonché, con il tempo, all’interno di questi gruppi si determinò l’esigenza (per non dire l’assoluta necessità) di limitare lo stato di incessante belligeranza cui la competizione sociale dava luogo, affidandone la speranza all’affermarsi di nuovi valori di tipo collaborativo, dei quali i poemi descrivono la prima comparsa e il progressivo diffondersi. E con i nuovi valori cambiò, ovviamente e inevitabilmente, anche il modello dell’eroe.
Le virtù dell’eroe del mondo della vendetta erano la forza fisica e il coraggio, di cui l’eroe doveva dar prova in primo luogo in guerra. E nella vita comunitaria l’abilità di parola, percepita sin dall’inizio della storia greca come strumento di potere. Se era «buon parlatore», l’eroe riusciva a imporre la propria opinione.
Ma nel nuovo mondo che andava profilandosi (e perché avesse compimento) erano necessarie altre virtù. Era necessario un nuovo modello di eroe, che avesse carattere e virtù diverse: il modello rappresentato da Ulisse. Un personaggio, a ben vedere, assai più complesso di quanto non si tenda abitualmente a pensare, e sotto alcuni aspetti (e non a caso) contraddittorio.
Ulisse, infatti, da un canto possedeva tutte le qualità necessarie per essere un eroe nel mondo della vendetta, dall’altro possedeva qualità, virtù (e di conseguenza teneva comportamenti) nuovi e diversi. Non alludo qui alla sua proverbiale l’astuzia, la metis. Ci interessano altre sue caratteristiche: la giustizia e la capacità di autodeterminarsi, di controllare emozioni e impulsi al punto da riuscire ad autocontrollarsi. [...]
Ulisse dichiara: «Mai un uomo dovrebb’essere ingiusto» (Od., XVIII, 141); approdato a Scheria, per prima cosa si preoccupa di essere giunto nella terra di uomini «agri e senza giustizia» (Od., VI, 120). La stessa preoccupazione lo assale quando, finalmente, si risveglia, senza sapere dov’è, sulla spiaggia di Itaca (Od., XIII, 201.
Sotto questo profilo Ulisse è unico. Anche altri eroi, infatti, vengono a volte definiti giusti: Nestore, ad esempio, o Sarpedone, capo dei Lici. Ma si tratta di riferimenti sporadici, che non tornano a caratterizzare un personaggio, come nel caso di Ulisse.
Per quanto riguarda la capacità di autodeterminarsi e controllare i propri impulsi, a conferma del fatto che non era virtù «eroica» basta ricordare il carattere e il comportamento di Achille, la cui ben nota ira funesta non conosce limiti, non conosce ragionamento, non calcola le conseguenza a lungo termine. Nella logica eroica dell’onore e della vendetta, di cui Achille è il perfetto esponente, è evidente che il controllo di sé non è una qualità necessaria. Ma Ulisse, più di una volta, dimostra di possederla.
Primo esempio: Ulisse è chiuso nell’antro del Ciclope Polifemo, che ha appena divorato due dei suoi compagni. Il suo primo impulso è quello di avventarsi sul Ciclope per ucciderlo. Ma non lo fa. Se lo facesse, non riuscirebbe più a uscire dalla spelonca nella quale Polifemo lo ha rinchiuso.
Secondo esempio: tornato a Itaca e entrato nella sua reggia in veste di mendicante, Ulisse si sistema per la notte, facendosi un giaciglio nell’atrio. E mentre medita la vendetta che sta per compiere, scopre che alcune delle sue ancelle lo hanno tradito, passando dalla parte dei Proci, con i quali tra l’altro si accoppiano. Inutile dire che Ulisse vorrebbe reagire immediatamente, punire come meriterebbero le ancelle. Ma se lo facesse farebbe fallire il piano organizzato per uccidere i Proci.
Ancora una volta, è l’autocontrollo che consente a Ulisse di raggiungere i suoi obiettivi. E il momento in cui realizza questi obiettivi è quello in cui mostra, con i fatti, di essere diverso dagli altri eroi.

il manifesto 19.10.17
Il chavismo vince la prova della democrazia
Venezuela. La scelta dell’Assemblea nazionale costituente e del presidente Maduro di dialogare con l’opposizione e di puntare sulle urne ha pagato. Ha dimostrato che la maggioranza dei venezuelani vuole la pace sociale come premessa a una ripresa economica del paese. E quella maggioranza ha dato fiducia al movimento bolivariano
di Roberto Livi

In agosto, dopo due mesi di violentissimi scontri organizzati dall’opposizione che hanno causato 125 vittime, il Venezuela era sull’orlo della guerra civile. Con gli Stati uniti di Donald Trump – in buona compagnia in America latina e in Europa – a soffiare sul fuoco.
Domenica scorsa, dopo due mesi senza scontri di piazza, il 61,14 % dei venezuelani – una percentuale mai raggiunta in precedenza nelle elezioni locali – si sono recati alle urne senza che siano stati segnalati incidenti significativi.
La scelta dell’Assemblea nazionale costituente (Anc) e del presidente Nicolás Maduro di dialogare con l’opposizione e di puntare sulle urne per fare un bilancio democratico dei rapporti di forza nel paese ha pagato. Ha dimostrato che la maggioranza dei venezuelani vuole la pace sociale come premessa a una ripresa economica del paese.
Delusa e sfiduciata dalla linea di scontro frontale violento e inconcludente praticata dall’opposizione, questa maggioranza ha dato fiducia al movimento bolivariano del presidente Maduro. Il Partito socialista unificato del Venezuela (Psuv) ha ottenuto il 54% dei voti (9 punti in più dell’opposizione) e 18 governatori sui 22 in ballo.
Ha conquistato la «gioia della corona», lo Stato di Miranda, e lo Stato di Bolivar (petrolio, oro e minerali non ferrosi), anche se ha perso tre ricchi Stati di confine con la Colombia, Zulia, Merida e Tachiria. Il chavismo, termine usato sprezzantemente dall’opposizione, ha dimostrato di avere una base minore di quella dei tempi del presidente Hugo Chavez ma una base solida.
Se è chiaro chi è il vincitore delle elezioni di domenica, altrettanto evidente è chi ha perso. I partiti di opposizione raccolti nella Mud (Tavolo dell’unità democratica), dopo aver scatenato una rivolta contro Maduro in nome della «grande maggioranza del popolo venezuelano», sostenuti dai maggiori mass media nazionali e internazionali e appoggiati e finanziati dai potenti dell’Occidente, si sono ritrovati minoritari.
Come al solito, l’opposizione non ha accettato il risultato contrario delle urne. Ha accusato il Comitato nazionale elettorale di aver condizionato le elezioni con mezzi fraudolenti e con «monumentali» brogli (non dimostrati). Ma anche alcuni commentatori vicini alla Mud hanno ammesso che la coalizione di opposizione ha perso perché si è dimostrata divisa e litigiosa, senza un programma credibile che non fosse «abbattere il regime di Maduro» e indecisa tra il dialogo politico e la lotta di strada.
Anche due candidati della Mud, lo sconfitto Henri Falcon (stato di Lara) e la vittoriosa (nello stato di Tachira) Leidy Gomez, hanno riconosciuto la vittoria del Psuv e la necessità che la Mud «abbia il coraggio» di trarne le conseguenze politiche.
È difficile però che la Mud segua tali consigli e scelga di riprendere il dialogo con il governo. Quella parte, fino a domenica minoritaria, dell’opposizione che si era rifiutata di partecipare alle elezioni locali «perché avrebbe significato dare credibilità alla fraudolenta Assemblea costituente» ha alzato la voce, minacciando una netta frattura con la Mud.
L’ex deputada María Corina Machado e il sindaco metropolitano (incarcerato) di Caracas, Antonio Ledezma hanno accusato il vertice della Mud «di non aver capito la disillusione, l’amarezza e la sfiducia» di chi nella base, dopo aver creduto che l’unico modo per farla finita col chavismo era conquistare il palazzo Miraflores con la lotta di strada, ha poi visto i propri leader mettersi in lista per una poltrona di governatore.
Denunciare i risultati delle elezioni, smettere ogni tentazione di dialogo, riprendere la lotta dura contro «il regime dittatoriale» è la ricetta dei radicali riuniti in nella coalizione dei radicali, Soy Venezuela.
È questa la linea che ha l’appoggio di Trump e del suo «ministro delle colonie», come a suo tempo Fidel Castro definì il segretario dell’Osa (Organizzazione degli Stati americani), Luis Almagro. E purtroppo anche della maggioranza dell’Ue.
Una linea che prevede il ritorno alla situazione di netta polarizzazione, con il paese spaccato in due (il 45% dell’opposizione contro il 54% del governo) che sceglie non di dialogare ma di farsi guerra. La fotografia di questa situazione si ha nei 18 governatori del Psuv che hanno giurato di fronte all’Assemblea nazionale costituente e i cinque dell’opposizione di fronte alle giunte elettorali dei rispettivi Stati. Come due poteri che non si riconoscono.
Già circolano voci su un progetto di unire i tre Stati confinanti con la Colombia, dove ha vinto l’opposizione, in una sorta di Fronte occidentale pronto a federarsi e a proclamare la secessione. E si può scommettere che in questo caso, a differenza della Catalogna, le «grandi democrazie» occidentali saranno pronte a dare il loro appoggio.