domenica 22 ottobre 2017

pagina 99 21.10.2017
Tra i migranti nei ghetti al confine con l’Austria 
Pordenone | Nelle città del Nordest vicine alla frontiera gli arrivi non si sono mai fermati. Chi resta fuori dal circuito dell’accoglienza vive in strada. Tra prostituzione, furti, spaccio, tensioni con gli abitanti. Sognando Vienna e Berlino
di Emanuele Confortin

Pordenone. C’è un imam egiziano che chiede in italiano a un operaio del Bangladesh di spiegare in inglese a un rifugiato afgano le modalità di fruizione della moschea. Il giovane afgano capisce poco o nulla l’inglese, perciò il dialogo rimbalza su un giornalista trevigiano che parlucchia la lingua urdu, così il cerchio si chiude. Sembra una barzelletta ma è quello che succede nella moschea di Pordenone. È qui che la comunità islamica locale si incontra, in uno spazio ordinato e pulito, dove l’area di preghiera è condivisa in modo equo tra fedeli di ogni nazionalità e corrente, ovvero sciiti e sunniti. Sì perché, «sunniti e sciiti non sono nemici in Europa, è una questione politica, dei luoghi in cui c’è la guerra», assicurano. Con un po’ di attenzione si sentono lavoratori asiatici scherzare in friulano con distinti africani occupati in qualche impresa locale, al pari di migranti storici del Maghreb. Sono cittadini ambientati, ingranaggi dell’industria pordenonese, partecipi delle sue eccellenze. Malgrado la Bossi-Fini e la necessità di preservare quel benedetto permesso di lavoro, con gli anni si sono garantiti uno stipendio, in parte rimesso a chi sta a casa, in parte immesso nell’economia locale. In cambio il territorio li ha assorbiti sublimando un’integrazione retta dai contratti di assunzione, e dalla resilienza di chi altro non vuole se non farsi una casa e una famiglia. 
• Emergenza continua 
Cosa c’è di diverso oggi? La migrazione in slow motion degli ultimi 30 anni è stata soppiantata dalla pressione che in Friuli giunge dai Balcani, dalla rotta che secondo Frontex tra il 2014 e il 2016 ha visto passare un milione di migranti. Gran parte di loro ha tirato dritto, affrettandosi verso il Nord Europa, a partire dalla Germania, ma il flusso continua malgrado la chiusura dei confini, dall’Ungheria alla Grecia. In Italia via terra arrivano a decine ogni settimana, soprattutto afgani e pachistani, come quel ragazzo che in moschea non capisce l’inglese. O come il pachistano Rashid, che fino a due settimane fa era in Grecia. «Siamo arrivati a Venezia in nave da Patrasso, nascosti in sette nel rimorchio di un camion», dice. Il traffico è gestito dalla mafia afgana, al prezzo di 900 euro a pass. «Ho messo via i soldi in un anno e mezzo. Facevo il contadino, poi in fabbrica. Avevamo due bottiglie d’acqua da farci bastare, null’altro per tre giorni». Dopo lo sbarco hanno atteso un’ora nel camion prima di tagliare il telo del cassone e saltare giù in corsa. 
• Le mete italiane 
I nuovi arrivati preferiscono le città vicine alla frontiera, meglio se esiste già una comunità di connazionali. Città come Bolzano, Trieste, Gorizia, Udine, Pordenone, da cui molti di loro sognano di poter raggiungere l’Austria, dove è appena salita al potere la destra anti-migranti di Sebastian Kurz, e la Germania. Per tutti il primo passo è presentare domanda d’asilo in questura, ottenere un appuntamento per la verbalizzazione della richiesta per poi accedere alla prima accoglienza, nell’hub che qui è all’ex Caserma Monti. Il passo successivo è entrare in progetto, nell’accoglienza diffusa che in città conta già 500 persone, ben oltre la quota prevista di 2,5 rifugiati ogni mille abitanti. 
• Un sistema farraginoso 
Non è lo specchio d’Italia, ma il caso di Pordenone riflette la situazione di molti comuni italiani. Il sistema di richiesta asilo funziona a rilento, le questure sono oberate e questo svantaggia in primis chi arriva via terra. Per settimane a decine vivono in uno stato giuridico che non garantisce alcun diritto, li priva dell’assistenza primaria, eccetto – a Pordenone – per i pasti distribuiti dalla Croce Rossa alla Comina, zona industriale posta a nord della città. «Chi arriva dal confine va in questura per la richiesta d’asilo, ma non viene stilato subito il modulo C3 che dovrebbe formalizzare l’istanza. I candidati sono rimandati a momenti diversi per la presa delle impronte digitali, per la foto o lo screening sanitario», spiega Luigina Perosa, portavoce dell’organizzazione Rete Solidale Pordenone. «Poi un giorno la macchina per le impronte si blocca, l’indomani non funziona il sistema informatico o mancano i vaccini, e questo dilata oltremodo i tempi. Sono mesi e mesi che si va avanti così, è un problema gravissimo». 
• Le tensioni con gli abitanti 
Ecco allora che i candidati devono cavarsela da soli, bivaccando nelle zone d’ombra della città, al parco, al palazzetto dello sport, al teatro Concordia, nei parcheggi coperti rinominati Bronx, poi tra i ruderi del Cotonificio Amman detto Jungle. Accade in pieno centro, da troppo tempo e troppo in vista per quella parte della cittadinanza che non regge più la promiscuità forzata. La tensione crescente ha imposto soluzioni drastiche, a partire dagli sgomberi delle aree e dall’intensificazione dei controlli. Lorena Fornasir, volontaria che dal 2014 lavora sul campo, ritiene si tratti di un atteggiamento al limite del persecutorio: «L’amministrazione comunale manda via queste persone, le spinge a portarsi fuori città, sottrae loro coperte e sacchi a pelo, anche se non potrebbero perché sono beni personali». Opposto il punto di vista di Eligio Grizzo, vicesindaco con delega alle Politiche sociali incluse immigrazione e dialogo interreligioso: «Quando troviamo sacchi a pelo o cose simili noi prendiamo e ripuliamo tutto. Se tu mi lasci un mucchio di coperte al parco, che non so che origine abbiano…insomma io i ragazzi al parco lì non ce li mando». 
• Stop all’ospitalità 
Il caso Pordenone è stato analizzato anche da Medici Senza Frontiere (Msf) nel rapporto Fuori Campo, con diversi casi simili in Italia, dal Nord al Sud. «Una cinquantina di persone in strada, in prevalenza pachistani e afghani in attesa di accedere alla procedura di asilo e costretti a nascondersi come ladri per evitare di essere sgomberati», riporta Msf riguardo alla città friulana. Il comune denominatore dell’indagine condotta in otto regioni italiane è la presenza di evidenti lacune del sistema di accoglienza. Carenze, che secondo l’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione (Asgi) alla lunga rischiano di diventare un problema strutturale, così come emerge in La situazione dei migranti a Bolzano e al Brennero analisi realizzata con Antenna Migranti. Le problematiche altoatesine assomigliano in tutto e per tutto a quelle di Pordenone, dove il clima percepito in città è spiegato dalle parole di Grizzo: «Girano per i parchi, vanno a disturbare la gente, e creano quei problemi tipici della persona che si chiama “nullafacente” in italiano», spiega. «Io ho dato ordine, e il sindaco anche, che nessuno dia più ospitalità all’interno del comune perché quello è un piano di precisa competenza della prefettura e della questura». 
• Da un bivacco all’altro 

Alla fine il problema ricade su chi è costretto a spostarsi da un bivacco all’altro, l’ultimo dei quali ricavato in una struttura industriale alla Comina, tra la mensa della Caritas e la moschea. Area sgomberata e rioccupata, poi risgomberata ancora a inizio ottobre, spostando il problema anziché risolverlo, pertanto a decine restano all’addiaccio. Ciò accade malgrado la vicinanza dell’inverno, quando le condizioni ambientali renderanno necessarie soluzioni concrete, come la creazione di un nuovo hub. Ipotesi impensabile per il vicesindaco: «No, non esiste questa cosa. Se ci sono minori, noi diamo la garanzia che questi vengano prelevati e portato in istituto. Se sono accompagnati dai genitori, ti tieni i figli e li governi e cerchi di fare il possibile». A ciascuno le proprie responsabilità, giusto, ma se i genitori non sono in grado di governare? «Prendo il figlio e lo metto in Istituto. E i genitori cercano un lavoro. Io non posso dire: “do lavoro a te, e magari non lo do a un italiano con famiglia e figli qui”». In fin dei conti, un mese in bivacco è anche sopportabile, soprattutto con la prospettiva di entrare nell’hub. Va peggio a chi subisce la revoca dell’accoglienza da parte della prefettura, magari per via di una rissa o per non aver rispettato le regole. Capita, è il caso di Muhammad, anche lui pachistano, colpevole di essersi azzuffato con un connazionale, meritandosi l’espulsione. Giusto punirlo, lo ammette lui stesso. Ora però si trova senza nessuna protezione, senza soldi, sospeso in un limbo che va dal Bronx alla Jungle. Dorme con una manciata di ragazzi nella stessa condizione su un tavolato ricavato all’interno del cotonificio. Cucinano al suolo, bevono e si lavano usando l’acqua del fiume Noncello. Nessuno sa se sia potabile ma è trasparente e gratuita. Per Muhammad e gli altri abitanti della Giungla la vita è dura. Servono espedienti, il vuoto dell’assistenza perduta è colmato da attività illegali. Qualcuno spaccia, «droghe leggere, ma non tutti, io non approvo», dice. Altri rubacchiano, lo fanno per fame non per diletto. Muhammad né l’uno né l’altro, lui vende se stesso, due volte la settimana: «Mi hanno cercato e io ho accettato». Prostituirsi per lui è una scelta necessaria, ne parla mal volentieri ma senza vergogna, quasi fosse un lavoro qualsiasi. «Sono uomini di una certa età, sui 70 anni. A volte stiamo in giro, a volte mi portano a casa. Mi danno da mangiare, una doccia e 30 o 40 euro, cosa dovrei fare?».


Accordi europei
Ricollocamenti, i numeri di un fallimento

Il 26 settembre si è concluso il programma di relocation obbligatorio approvato dal Consiglio dell’Unione europea a settembre 2015. Il meccanismo di ricollocamento dei richiedenti asilo tra i vari Paesi membri dell’Unione era stato adottato sulla base dell’articolo 78, paragrafo 3, del trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Tfue) che recita: «Qualora uno o più Stati membri debbano affrontare una situazione di emergenza caratterizzata da un afflusso improvviso di cittadini di Paesi terzi, il Consiglio, su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento europeo, può adottare misure temporanee a beneficio dello Stato membro o degli Stati membri interessati». Venendo ai numeri, dei 106 mila ricollocamenti previsti da Italia e Grecia in due anni, secondo il Consiglio Europeo ne sono stati effettuati 29.529 (dati aggiornati alla fine del mese scorso), 20.329 dalla Grecia e 9.267 dall’Italia. Un risultato insufficiente se si considera che la quota prevista era di 106 mila relocation totali, 39.600 dall’Italia e 66.400 dalla Grecia. Con 3.641 richiedenti asilo accolti, la Germania è la principale destinazione dall’I t alia, ma a livello complessivo finora ha accolto il 28% delle persone previste dalla sua quota (vedi il grafico). Seguono a quota 800 Svezia, Svizzera, Norvegia, Olanda e Finlandia, mentre i francesi si sono fermati a 377. Porte sbarrate per l’Italia da Bulgaria, Repubblica Ceca, Estonia, Irlanda, Liechtenstein e Slovacchia. L’Ungheria (che si è autoesclusa dal piano) e la Slovacchia avevano presentato ricorsi contro il meccanismo di redistribuzione, bocciati il 6 settembre dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea. Per l’Ungheria, la Repubblica Ceca e la Polonia sono in corso procedure di infrazione per non aver rispettato gli obblighi previsti. Gli scarsi risultati del piano per l’Italia dipendono senz’altro dalla riluttanza dei Paesi di destinazione a rispettare le quote, ma secondo la Commissione europea anche dalla lentezza delle procedure di registrazione. «L’Italia deve disporre sforzi per identificare e registrare velocemente tutti i richiedenti eleggibili per la redistribuzione». Dall’Alto commissariato Onu per i rifugiati è giunto nei giorni scorsi un appello affinché il piano prosegua anche dopo la scadenza. 

E .C .