giovedì 19 ottobre 2017

il manifesto 19.10.17
Il chavismo vince la prova della democrazia
Venezuela. La scelta dell’Assemblea nazionale costituente e del presidente Maduro di dialogare con l’opposizione e di puntare sulle urne ha pagato. Ha dimostrato che la maggioranza dei venezuelani vuole la pace sociale come premessa a una ripresa economica del paese. E quella maggioranza ha dato fiducia al movimento bolivariano
di Roberto Livi

In agosto, dopo due mesi di violentissimi scontri organizzati dall’opposizione che hanno causato 125 vittime, il Venezuela era sull’orlo della guerra civile. Con gli Stati uniti di Donald Trump – in buona compagnia in America latina e in Europa – a soffiare sul fuoco.
Domenica scorsa, dopo due mesi senza scontri di piazza, il 61,14 % dei venezuelani – una percentuale mai raggiunta in precedenza nelle elezioni locali – si sono recati alle urne senza che siano stati segnalati incidenti significativi.
La scelta dell’Assemblea nazionale costituente (Anc) e del presidente Nicolás Maduro di dialogare con l’opposizione e di puntare sulle urne per fare un bilancio democratico dei rapporti di forza nel paese ha pagato. Ha dimostrato che la maggioranza dei venezuelani vuole la pace sociale come premessa a una ripresa economica del paese.
Delusa e sfiduciata dalla linea di scontro frontale violento e inconcludente praticata dall’opposizione, questa maggioranza ha dato fiducia al movimento bolivariano del presidente Maduro. Il Partito socialista unificato del Venezuela (Psuv) ha ottenuto il 54% dei voti (9 punti in più dell’opposizione) e 18 governatori sui 22 in ballo.
Ha conquistato la «gioia della corona», lo Stato di Miranda, e lo Stato di Bolivar (petrolio, oro e minerali non ferrosi), anche se ha perso tre ricchi Stati di confine con la Colombia, Zulia, Merida e Tachiria. Il chavismo, termine usato sprezzantemente dall’opposizione, ha dimostrato di avere una base minore di quella dei tempi del presidente Hugo Chavez ma una base solida.
Se è chiaro chi è il vincitore delle elezioni di domenica, altrettanto evidente è chi ha perso. I partiti di opposizione raccolti nella Mud (Tavolo dell’unità democratica), dopo aver scatenato una rivolta contro Maduro in nome della «grande maggioranza del popolo venezuelano», sostenuti dai maggiori mass media nazionali e internazionali e appoggiati e finanziati dai potenti dell’Occidente, si sono ritrovati minoritari.
Come al solito, l’opposizione non ha accettato il risultato contrario delle urne. Ha accusato il Comitato nazionale elettorale di aver condizionato le elezioni con mezzi fraudolenti e con «monumentali» brogli (non dimostrati). Ma anche alcuni commentatori vicini alla Mud hanno ammesso che la coalizione di opposizione ha perso perché si è dimostrata divisa e litigiosa, senza un programma credibile che non fosse «abbattere il regime di Maduro» e indecisa tra il dialogo politico e la lotta di strada.
Anche due candidati della Mud, lo sconfitto Henri Falcon (stato di Lara) e la vittoriosa (nello stato di Tachira) Leidy Gomez, hanno riconosciuto la vittoria del Psuv e la necessità che la Mud «abbia il coraggio» di trarne le conseguenze politiche.
È difficile però che la Mud segua tali consigli e scelga di riprendere il dialogo con il governo. Quella parte, fino a domenica minoritaria, dell’opposizione che si era rifiutata di partecipare alle elezioni locali «perché avrebbe significato dare credibilità alla fraudolenta Assemblea costituente» ha alzato la voce, minacciando una netta frattura con la Mud.
L’ex deputada María Corina Machado e il sindaco metropolitano (incarcerato) di Caracas, Antonio Ledezma hanno accusato il vertice della Mud «di non aver capito la disillusione, l’amarezza e la sfiducia» di chi nella base, dopo aver creduto che l’unico modo per farla finita col chavismo era conquistare il palazzo Miraflores con la lotta di strada, ha poi visto i propri leader mettersi in lista per una poltrona di governatore.
Denunciare i risultati delle elezioni, smettere ogni tentazione di dialogo, riprendere la lotta dura contro «il regime dittatoriale» è la ricetta dei radicali riuniti in nella coalizione dei radicali, Soy Venezuela.
È questa la linea che ha l’appoggio di Trump e del suo «ministro delle colonie», come a suo tempo Fidel Castro definì il segretario dell’Osa (Organizzazione degli Stati americani), Luis Almagro. E purtroppo anche della maggioranza dell’Ue.
Una linea che prevede il ritorno alla situazione di netta polarizzazione, con il paese spaccato in due (il 45% dell’opposizione contro il 54% del governo) che sceglie non di dialogare ma di farsi guerra. La fotografia di questa situazione si ha nei 18 governatori del Psuv che hanno giurato di fronte all’Assemblea nazionale costituente e i cinque dell’opposizione di fronte alle giunte elettorali dei rispettivi Stati. Come due poteri che non si riconoscono.
Già circolano voci su un progetto di unire i tre Stati confinanti con la Colombia, dove ha vinto l’opposizione, in una sorta di Fronte occidentale pronto a federarsi e a proclamare la secessione. E si può scommettere che in questo caso, a differenza della Catalogna, le «grandi democrazie» occidentali saranno pronte a dare il loro appoggio.