Il Fatto 2.10.17
Che, guerriero festoso che previde la sua fine
L’Avana,
31 dicembre 1960: Fidel parla alla folla nel primo anniversario della
Revolution. Una storica festa di popolo che io vivo accanto a Guevara
di Furio Colombo
Cuba
è diventata subito leggenda. Questo spiega perchè la mattina del 31
dicembre 1960, primo anniversario della rivoluzione giovane e allegra
che aveva messo in fuga il dittatore Fulgencio Batista, mentre
festeggiava il capodanno all’Hotel Nacional, c’erano Jean Paul Sartre,
Simone de Beauvoir, Francoise Sagan, accanto alla scaletta dell’aereo
che veniva dal Messico.
Io, che venivo da New York (allora c’era
ancora un collegamento) da giornalista sono stato richiesto, da un
soldato non giovane in divisa da Sierra e con la barba, di accostarmi al
gruppo perché qualcuno sarebbe venuto a incontrarci. Per quanto si
poteva vedere tutto era immobile all’aeroporto e non sembrava che una
folla fosse in arrivo o in attesa per un anniversario di cui intanto si
stava scrivendo e discutendo ovunque nel mondo. Fidel Castro, con la
presa di Cuba e lo spandersi della leggenda, stava già cambiando il
paesaggio politico e toccando anche la cultura del mondo.
Nessuno,
tranne Castro ha contribuito a costruire la leggenda di Castro, e la
vasta simpatia che si stava diffondendo nel mondo, quanto l’ostilità
angolosa e cattiva di Richard Nixon, per molti decenni il meno amato dei
leader politici americani.
Il nostro gruppo era strano. Sartre
era stato invitato personalmente da Fidel. Io arrivavo con un visto a
matita scritto sul passaporto da Raulito Castro, figlio di Raul,
ventenne che faceva parte della delegazione cubana (quattro ragazzi)
inviata in fretta all’Onu dopo la vittoria della rivoluzione, e amico di
amici.
È in questa scena immobile e imbarazzata che arriva,
troppo veloce, la jeep che sgomma e inchioda e pochi centimetri da noi.
Un po’ lo sapevamo già che Guevara era Guevara. Un po’ lo sapeva anche
lui, che a quel tempo non aveva ancora rodato il suo modo
deliberatamente “rebelde” di presentarsi. Era gentile di indole, e
cortese per buona educazione, irrequieto come un ragazzo, non come un
soldato, come se non fosse appena tornato da anni di guerra sulle
montagne (la Sierra) e non fosse il protagonista di una collezione di
episodi che non avevano ancora fatto il giro del mondo e si raccontavano
solo a voce.
A me ne aveva parlato per settimane il giornalista
americano Herbert Mathews, nella mitica lounge del Palazzo di Vetro.
Matthews aveva seguito e raccontato la “revolution” dalla parte di
Castro e l’aveva resa popolare in Usa sul New York Times che Nixon
chiamava “la Gazzetta di Cuba”).
Non voglio dire che “in su
querida presencia” (cito la celebre canzone) il comandante Che Guevara
cercasse di non essere il personaggio della storia. Certo occupava
spazio e cambiava le proporzioni della scena il fatto che lui fosse li, a
un passo, anzi ti stava stringendo la mano con un bel sorriso un pò
mondano (la barba a ciuffi, il viso già disegnato nella nostra memoria
dagli eventi, ma più bianco e “upper class” delle immagini da
combattimento, creava una tensione che era anche la sua. Sentivi
l’intento un po’ teso di un uomo allo stesso tempo estroverso e timido,
celebre ma anche sconosciuto (a quel tempo) di non farsi chiudere nella
parte dell’eroe famoso.
Guidava lui e gli piaceva correre. Un
lembo del cappotto grigio spigato di Sartre, che sbatteva al vento, le
mani sulla testa della Beauvoir (come per tenere ferma qualcosa),
l’aggancio sportivo e saldo della Sagan alle sbarre protettive troppo
basse di una jeep di quel tempo, sarebbero stati una bella immagine se
ci fossero stati fotografi. Un gruppo (non tutti in divisa, non tutti
con la barba) aspettava i Sartre per portarli subito da Fidel o forse,
prima, dal presidente della Repubblica, Dorticos. Noi invece siamo
arrivati, con sobbalzi che ti facevano saltare sul sedile, in una corsa
nervosa e allegra, all’Hotel National, che era stato per decenni il
celebre ritrovo della mondanità americana e caraibica, non sempre pulita
ma molto narrata .
Me lo ha indicato da fuori con un gesto da
regista, le finestre chiuse delle stanza vuote, i cornicioni slabbrati,
qualche segno di spari sulla facciata bianco avorio su cui cominciavano a
comparire i segni delle grandi piogge. Non c’erano chiavi, non c’era
personale, solo un soldato giovane a cui Guevara ha dato la mano. Il
salone d’ingresso, rettangolare e lunghissimo, era illuminato da
lampadine che pendevano dal muro. Solo un lampadario spezzato dondolava
lievemente. Degli altri restavano i fili. Con la mano sulla spalla mi ha
incoraggiato, mi ha detto di non preoccuparmi. Alcune stanze erano in
ordine, ma avrei dovuto rifarmi il letto la mattina e portarmi in camera
acqua da bere. Quella dei rubinetti non era sicura.
Lui tornava a
prenderci la sera, per la gran fiesta e il discorso di Fidel. La camera
era grande e bellissima, anche se non c’erano tende alla grande
finestra, anche se l’intonaco bianco e il legno bianco e laccato dei
mobili non erano privi di segni di qualche evento che aveva richiesto
rudezza.
La sera (per prudenza, non sapendo definire gli orari
della sera, ho aspettato a lungo nel salone ormai semi buio) due grandi
auto americane (credo fossero Buick) ci aspettavano. Nella mia guidava
un militare barbuto, felice di parlare al mondo, ma solo dei suoi figli e
di come erano cresciuti durante la revolucion. Che Guevara guidava il
gruppo Sartre, ma ben presto la folla, che ormai occupava tutto il
centro dell’Avana, ha imposto di rallentare a passo d’uomo. Il luogo era
l’ex Hotel Hilton, ora diventato il palazzo della gioventù cubana.
Ho
ritrovato Guevara sulla grande terrazza che dominava il dodicesimo
piano. Il parapetto era troppo alto, e una pedana era stata costruita
tutta intorno. Erano arrivati tutti i comandanti e i compagni che
avevano conquistato a una a una le roccaforti, le caserme, le città
controllate dai “fascisti” (era la parola) del dittatore Batista, i
treni di armi, i convogli di rinforzi. Di ognuno, facendomi fare il giro
della terrazza Guevara mi diceva il nome di un luogo quello che aveva
dato il nome al loro gesto più audace, più pazzo, più eroico.
Erano
arrivati tutti tranne Fidel Castro, che la folla dal basso invocava.
C’era un solo microfono su una pedana appena un poco più alta. E nel
momento in cui Che Guevara mi teneva il braccio per guidarmi dall’altra
parte della terrazza a conoscere Camillo Cianfuegos (a quel tempo, e
prima della sua morte giovane, il terzo eroe della rivoluzione) un uomo
piccolo e magro, con la fisarmonica e una gran voce, ha iniziato a
cantare sotto il microfono (troppo alto per lui) destinato a Fidel, una
canzone che finiva sempre, quasi in un acuto, con le parole “Yankee go
home” ripetute come in un rito dalla folla.
Era certo il segnale
di una risposta sempre più dura a Nixon che, alcuni mesi prima, a
Washington, aveva impedito o dichiarato “tradimento”, ogni incontro con
Fidel Castro, (prima e unica visita di Fidel a Washington) molto prima
della “svolta comunista” di Cuba. Ho fatto in tempo a conoscere
Cianfuegos e poi Raul Castro, il fratello legatissimo e in ombra (che
aveva autorizzato il figlio a darmi quello strano visto a matita) e dopo
una esplosione d’entusiasmo della folla, il grande silenzio. Parlava
Castro. E io mi sono dovuto fermare nel punto in cui ero quando il
discorso è cominciato, fra Raul Castro e Che Guevara. Il discorso ha
annunciato l’inizio di un lunghissimo scontro (eppure mancavano
settimane all’evento della “Baia dei Porci”) e il continuo rombo di
partecipazione della folla era affetto e sostegno al liberatore Fidel,
molto più che una dichiarazione di odio all’America. I giorni seguenti
Che Guevara mi ha parlato molto di economia. Non era il suo forte ne il
mio, ma lui stava per essere nominato (ne parlava con un pò di sarcasmo)
governatore della Banca Centrale di Cuba. A lui interessava non la
gestione dei soldi ma la distribuzione dei soldi, e benchè fosse
cresciuto agiato, la sua attenzione era sul come diminuire la povertà,
non come proteggere la ricchezza anche se di Stato. A parte una corsa di
vera felicità lungo il Varadero e una vista alla casa di Hemingway, gli
interessava fermarsi e farmi vedere dove e come si viveva a Cuba. Era
crollata un’economia ma non ne era nata un’altra.
Guevara aveva un
progetto, le “Tiendas del Pueblo (ciò che nascerà in molte città
americane anni dopo con il nome “Farmer market”, in cui si stabilisce un
rapporto diretto e senza mediazioni fra chi produce e chi vende, l’idea
meno comunista e più solidaristica a cui si possa pensare. A differenza
del primo giorno, rideva spesso e si entusiasmava.
La sua non era
conversazione, e non era monologo, perchè diceva sempre “vedi?”,
“capisci?”. Era un pensare ad alta voce, vitale e isolato. Parlava ma
non a un vicino e non a se stesso. Parlava a una presenza collettiva che
non erano i compagni e non era la rivoluzione. Erano tutti quelli
intorno al nostro andare e venire per l’Avana. Vedeva benissimo che si
domandavano, come dei ragazzi che si sentono liberi dopo la rivoluzione:
e adesso come vivo?
Per capire dove siamo (il tempo, molto più
del luogo) e che cosa sta accadendo, immaginatevi un grande gruppo di
gente giovane, molti sotto i trenta, che hanno combattuto dal niente e
hanno vinto, che sono tutti vivi, tutti legati da un vincolo, da una
euforica persuasione di vincere ancora, Anche se l’embargo americano
sbarra la strada. È qui, in questo punto che Guevara si stacca dal
gruppo. Mantiene l’affetto. Ma lo allontana la rivoluzione che diventa
comando e burocrazia.
Questo spiega perchè in fondo alla sua
esuberanza, che sembra allegra, senti malinconia. Appare nelle parole
(la lunga descrizione del rapporto fra produrre e distribuire che è allo
stesso tempo ideale e impossibile) e appare nelle immagini in cui
Guevara (prima della Bolivia) è sempre più chiuso e pensoso. C’è
differenza fra il momento in cui è avvenuto l’incontro all’aeroporto
Josè Martì e le lunghe riflessioni sul che fare. A quel tempo ne ho
scritto un lungo resoconto per la rivista Problemi del Socialismo di
Lelio Basso e su Il Mondo. Adesso so che Ernesto Che Guevara, festoso e
gentile, quando ti saresti aspettato uno sbrigativo guerriero, sapeva
come sarebbe finito e perché. E che la sua sarebbe stata una
testimonianza, non un’altra vittoria.