Corriere 11.10.17
Il declino degli stati europei
di Ernesto Galli della Loggia
Quelli
che sto per citare sono certamente fenomeni di natura nuova e assai
diversa tra di loro. Ma le grandi rotture storiche nascono per l’appunto
così: da una molteplicità di cause quasi sempre nuove, all’apparenza
slegate, che a un tratto per qualche ragione si sommano convergendo
verso un solo risultato. Ora, ho l’impressione che qui in Europa — in
particolare nella sua parte occidentale — proprio una cosa del genere
potrebbe forse oggi essere in incubazione: una rottura storica. Una
rottura che va producendosi sotto i nostri occhi ma senza che noi ce ne
rendiamo conto.
Si tratta solo di un’impressione, come ho detto,
suffragata da null’altro che da indizi, e alla quale concorre di certo
in misura notevole l’atmosfera che si respira intorno a noi:
un’atmosfera di declino, di sfilacciamento, dove si mischiano assenza di
prospettive individuali e pubbliche, vincoli sociali non più accettati
né riconosciuti, classi dirigenti incolte e inconsapevoli del proprio
ufficio, ceti sociali privi d’identità — il tutto all’insegna di una
crescente inquietudine destinata a rafforzarsi se si pone mente, per
l’appunto, ai fenomeni di cui dicevo all’inizio.
Innanzi tutto
alla diffusa presenza in molti Paesi di combattive minoranze più o meno
«nazionali» che ambiscono a staccarsi dallo Stato di cui finora facevano
parte per costituirne un altro per conto loro. Non si tratta solo della
Catalogna, come si sa.
Un po’ dappertutto nell’Europa occidentale
— dai Paesi Baschi, alla Bretagna e alla Corsica, al Fronte fiammingo
in Belgio, alla Scozia, alle Isole Fær Øer in Danimarca, fino al più
casereccio autonomismo leghista di casa nostra — sono sorti e prosperano
movimenti del genere, mentre si nota un diffuso appannarsi del senso di
appartenenza allo Stato unitario tradizionale. Gli antichi cementi
ideali di questo si sono un po’ dovunque grandemente indeboliti, e così
un po’ dovunque gli effetti della globalizzazione, uniti a quelli della
crisi economica e alla liquefazione della Ue, stanno producendo un
rilancio in chiave difensiva della dimensione locale subnazionale. La
quale, rispetto al sentimento difensivo su scala nazionale — facilmente
risucchiato a destra verso lidi identitari reazionari — ha il vantaggio
di potersi presentare con sembianze comunitario-democratiche, e dunque
di apparire molto più accettabile.
Ma su una siffatta statualità
europea, già indebolita dall’autonomismo e dal localismo, nonché corrosa
da una crescente perdita di legittimità (e che probabilmente lo sarà
sempre di più in futuro), si stanno rovesciando gli effetti di due
fenomeni nuovi, uno più inquietante dell’altro perché minacciano di
inquinare surrettiziamente il meccanismo del consenso elettorale.
Il
primo è rappresentato dal lavorio sotterraneo ma non troppo a cui
sembra dedicarsi ormai come prassi la Russia di Putin, al fine di
orientare secondo i propri interessi la vita politica interna dei Paesi
che essa giudica di suo «interesse». Un lavorio che ha avuto una prima
clamorosa (e parrebbe ormai accertata) manifestazione nell’hackeraggio
dei sistemi informatici messo in opera durante le elezioni americane
dello scorso anno. Ma che molti elementi portano a credere che possa più
o meno ripetersi o essere permanentemente all’opera in un certo numero
di situazioni chiave, avvalendosi anche di altri e, diciamo così, più
semplici e convincenti strumenti. La recentissima nomina dell’ex
cancelliere tedesco Schröder a presidente di Rosneft (il maggiore
produttore russo di petrolio), dopo la sua virtuale messa a libro paga
del Cremlino già da anni, dà un’idea dei metodi spregiudicati che Putin è
disposto a usare per estendere e consolidare l’influenza russa. E che è
difficile pensare usi solo in Germania.
Su una linea analoga,
mirante per così dire a «lavorare» dal di dentro gli equilibri della
vita pubblica e politica europeo-occidentale, molti indizi indicano che
si stia muovendo anche una parte del mondo arabo. Agendo su molti
tavoli, avvalendosi anch’essi delle proprie enormi disponibilità
finanziarie nonché di apposite «Fondazioni», spesso dall’esibito fine
«caritatevole» e «non profit», alcuni Paesi islamici inquadrano e
organizzano i fedeli delle comunità emigrate in Europa, incamerano quote
massicce di partecipazioni industriali e finanziarie, acquistano
immobili , catene di magazzini, grandi alberghi e interi isolati delle
città del continente. C’è bisogno di sottolineare come, anche senza
pensare a usi esplicitamente corruttori di una tale influenza economica,
essa tuttavia rappresenti/possa rappresentare in quanto tale un
formidabile strumento di pressione dai mille possibili risvolti?
Infine,
in modo analogo specialmente in ambito economico si muove nella misura
che sappiamo anche la Cina, la quale «per esempio» ha già messo gli
occhi, e in qualche caso anche le mani, su quel delicatissimo ganglio
del sistema europeo degli approvvigionamenti di materie prime che sono i
porti del continente.
Da tutto quanto ho appena detto è difficile
evitare di trarre due conclusioni, perlomeno indiziarie. La prima è che
sulle società dell’Europa occidentale, in specie sulla loro vita
pubblica, sta cominciando a gravare l’ipoteca di un potenziale, ambiguo
condizionamento esterno sempre più vario e penetrante. La seconda
concomitante conclusione è che nella stessa area si è messo in moto — in
parte consapevolmente voluto, in parte no — un processo di erosione dal
di dentro dell’intero sistema della sovranità, e dunque un progressivo
indebolimento della statualità. Gli Stati di questa parte del
continente, insomma — ricchi oltre ogni misura di tutto: di saperi, di
agi, di fortune di ogni genere, di una qualità di vita eccezionale,
quanto poveri però di un particolare spirito combattivo — danno la
crescente impressione di costituire compagini fragilissime con cui gli
stessi loro cittadini s’identificano ben poco, e dunque alla fin fine
accaparrabili da chiunque disponga di decisione e mezzi nella misura
necessaria. E magari sappia anche condurre le cose in maniera non
traumatica.
Non si tratta di alcuna «guerra di civiltà» sia
chiaro, è tutta un’altra faccenda. È semplicemente un problema di
«pieno» e di «vuoto», di un «pieno» che tende a riempire un «vuoto».
Nessuna «guerra di civiltà», dicevo. Ma a proposito di «pieno» e di
«vuoto» è impossibile non considerare che mentre dietro il «pieno» si
stagliano i profili di due grandi tradizioni teologico-politiche —
quella dell’ortodossia russa della Terza Roma da un lato, e quella dell’
Islam dall’altro — dietro il «vuoto», invece, c’è solo la progressiva
evanescenza della coscienza cristiana dell’Occidente europeo.