il manifesto 24.9.17
Livio, il narratore smaliziato ha spodestato lo storico ‘taglia e cuci’
Bimillenario
liviano. Da trent’anni in qua l’opera liviana viene letta e studiata in
modo radicalmente nuovo sia dai filologi sia dagli storici. Ne emerge
uno scrittore consapevole, che fa interagire molte istanze diverse
di Luca Beltramini
Nel
libro 21 delle sue Storie, Livio racconta come all’inizio della seconda
guerra punica, durante la battaglia del Ticino, un giovanissimo Publio
Cornelio Scipione, futuro Africano, si tuffò in acqua e salvò il padre,
ferito in combattimento. L’aneddoto è concluso da un intervento di
Livio, che ricorda al lettore che sarà proprio questo Scipione il
fatalis dux, il comandante inviato dai Fati che condurrà Roma alla
vittoria. Sette anni dopo, Scipione viene eletto comandante del fronte
spagnolo, a soli ventiquattro anni e senza alcuna esperienza di comando;
in quell’occasione Livio spiega come quell’exploit sia stato
determinato dal mito personale che il giovane si era costruito presso le
masse, alimentando false dicerie sul suo rapporto privilegiato con gli
dèi e su suoi supposti poteri oracolari. Il seguito del racconto offre
molti esempi di quest’opera propagandistica, che trasforma fenomeni
naturali in miracoli, informazioni di intelligence in segni del Fato.
Nel lettore si insinua così il dubbio: davvero Scipione è stato il
comandante della provvidenza? O Livio ci sta forse suggerendo che la sua
fama di fatalis dux potrebbe non essere altro che il risultato di una
scaltra opera di promozione personale?
La vasta opera di Livio è
costellata di interrogativi irrisolti come questi, di ambiguità e
inquietudini che solo in anni recenti la critica ha cominciato a
illuminare. Tito Livio ha sempre goduto e insieme sofferto gli effetti
di una statica gloria ‘scolastica’. Il denso stile narrativo, la
ricchezza della lingua, lo slancio morale degli episodi più celebri lo
hanno reso il perfetto autore «da manuale», lo storico «esemplare»,
fonte sommersa di gran parte del nostro immaginario collettivo sulla
Roma repubblicana, saldamente ancorato a figure come Romolo, Orazio
Coclite, Muzio Scevola e così via. Livio l’amico di Augusto ma
nostalgico della repubblica, Livio della patavinitas e del
romanocentrismo.
Prospettive viziate
Paradossalmente, a
questo radicamento nella memoria e nei curricula scolastici non è
corrisposto nel mondo degli studi specialistici un altrettanto vivace
approfondimento scientifico. Livio è, fino agli anni novanta del
Novecento, un autore sorprendentemente poco studiato. O, meglio,
studiato secondo prospettive viziate da pregiudizi che hanno lasciato la
critica liviana ai margini dell’evoluzione metodologica vissuta dagli
studi di letteratura antica nel secolo scorso. Gli Ab urbe condita libri
sono una fonte vitale per molte aree dell’antichistica: filologi e
storici, archeologi e giusromanisti da sempre ne attraversano le vastità
traendo informazioni vitali per i rispettivi campi di indagine. Ma il
loro valore in quanto opera storiografica e la statura intellettuale del
loro autore sono stati a lungo sottovalutati: Livio è stato ritenuto
uno storico disattento e naïf, dedito più che altro a tagliare e cucire
pezzi di fonti senza un reale vaglio critico. La critica non ha esitato a
riconoscere le sue abilità di retore e narratore, ma ha spesso
considerato il suo punto di vista storiografico poco degno di nota e
severamente limitato dal noto moralismo filoromano. Questi pregiudizi,
credo, hanno a lungo dissuaso i critici dall’impegnarsi in uno studio
approfondito dei caratteri intrinseci dell’opera, che andasse al di là
dell’analisi stilistica o della desunzione di dati utili alla
ricostruzione storico-archeologica (non mancano, ovviamente, vistose
eccezioni, ancora oggi illuminanti per completezza e profondità di
indagine).
Ma gli ultimi trent’anni hanno visto un’evoluzione
radicale e generalizzata nell’approccio critico all’opera liviana,
derivante, credo, dal mutamento dei presupposti metodologici, tanto
degli studi storici quanto di quelli filologico-letterari. Nel primo
ambito si è smesso di misurare l’opera di Livio secondo gli standard
della moderna storiografia o di quelle opere antiche che ai nostri occhi
più si avvicinano al metodo storico-scientifico odierno, volgendosi
piuttosto a una più precisa comprensione dei fondamenti programmatici
della storiografia liviana, che soli possono illuminare i meccanismi più
profondi dell’opera. I secondi hanno superato un approccio puramente
retorico-stilistico, in favore di una concezione ‘olistica’ del testo,
in cui forma e contenuto, contenuto narrativo ma anche dato storico, si
influenzano e determinano reciprocamente.
Gli Ab urbe condita
libri si rivelano così non soltanto un grande monumento della
letteratura latina, ma soprattutto un oggetto di studio di enorme
complessità, di fronte al quale l’applicazione delle più avanzate
metodologie di indagine – narratologia, intertestualità, reader-response
criticism – si rivela proficua e, direi, necessaria. Nei tre ambiti
appena citati si muove oggi la critica liviana più produttiva, che ci
restituisce un’immagine dell’autore ben lontana dallo storico ingenuo e
un po’ sbadato delineato nei decenni passati: Livio emerge, al
contrario, come un narratore estremamente consapevole, a tratti
smaliziato, capace di far interagire nel proprio resoconto una grande
quantità di istanze letterarie, storiche e culturali.
Sgomberato
il campo dalla fama di storico «taglia e cuci», gli studiosi hanno
potuto verificare la sua abilità nel rielaborare le fonti alla luce di
un preciso credo storiografico, e di tessere all’interno della propria
opera un’intricata rete di richiami inter- e intratestuali, grazie ai
quali il lettore è chiamato a orientarsi nel racconto e a dotarlo di
senso. La stessa complessità comincia a essere ravvisata nel punto di
vista di Livio sulla storia romana: giudicato in passato una mera
celebrazione della potenza di Roma sui popoli, a una più attenta analisi
si rivela sorprendentemente sensibile nel cogliere i processi
evolutivi, anche traumatici, che hanno segnato la storia della
repubblica, primo fra tutti l’imporsi di una politica imperialistica
spregiudicata.
Morale ed esemplare
La stessa natura «morale»
ed «esemplare» della storiografia liviana, annunciata dall’autore fin
dalla Praefatio, è stata oggetto di studi approfonditi che ne hanno
precisato i termini: più che mera pedagogia patriottica, una lente
attraverso la quale rappresentare gli eventi e mostrare al lettore i
processi incessanti attraverso i quali gli attori della Storia fanno
propri modelli passati e li riplasmano. In questo senso Livio non offre
semplicemente una galleria di exempla da imitare o da evitare, ma
illumina i meccanismi che regolano i fenomeni storici nel loro concreto
farsi, in una narrazione non monolitica, ma attraversata da forze
endogene potenti, che creano crepe, faglie, linee di frizione. La
storiografia liviana perde così i tratti più rassicuranti del racconto
apologetico, e si impone come articolata rappresentazione del potere
politico e militare di Roma, visto in tutta la sua grandezza e
ambiguità.
Da qui la difficoltà a dirimere l’eterno problema
dell’aderenza di Livio al programma politico-culturale di Augusto, nel
cui ambito i sostenitori dell’una e dell’altra ipotesi – un Livio
storico di regime o di opposizione repubblicana– devono fare i conti con
argomenti contraddittòri. Da un lato i riferimenti all’opera politica
di Augusto, dall’altro il disprezzo verso la contemporaneità, che stride
con l’idea di una celebrazione del nuovo ordine del princeps. Anche in
questo caso, arroccarsi su posizioni esclusive non giova alla
comprensione della figura di Livio. Più proficuo sarebbe forse concepire
il problema in termini discorsivi: verificare se è in che misura Livio
possa essere stato un interlocutore del potere augusteo, il
rappresentante cioè di istanze culturali con cui il princeps doveva
confrontarsi per dare forma e legittimità al proprio programma.