venerdì 15 settembre 2017


Corriere 15.9.17
La moglie di Pepe Mujica nuova vicepresidente
Lucía che voleva cambiare il mondo
Ora l’ex guerrigliera trascina l’Uruguay
di Sara Gandolfi

L’ufficio di Lucía Topolansky al Senato di Montevideo è austero, privo di fronzoli e dei classici simboli del potere. Ci sono, però, i ritratti di quattro uomini: l’eroe dell’indipendenza uruguaiana José Artigas, il maestro del tango Carlos Gardel, Che Guevara e una foto del marito, l’ex presidente José «Pepe» Mujica, vestito da guerrigliero, ai tempi della lotta clandestina dei tupamaros.
L’America latina è abituata al potere che si tramanda da marito a moglie. È successo nell’Argentina di Isabelita Perón e di Cristina Kirchner, succede nel Nicaragua degli Ortega, oggi capi di Stato in accoppiata. Ma Lucía, 73 anni di cui 17 in Parlamento, è diversa dalle altre «primeras damas» baciate dalla politica. Lei è «la Tronca», come l’hanno soprannominata i colleghi, una «dura» con alle spalle anni di lotta armata, carcere duro, torture e, infine, sfide democratiche. Da mercoledì scorso è anche vicepresidente, la prima donna a coprire l’incarico in Uruguay, e da domani occuperà per qualche giorno idealmente anche la poltrona che fu di suo marito fino al 2015, come sostituta del presidente Tabaré Vázquez, in viaggio negli Stati Uniti.
Un’ascesa improvvisa che esula dagli «affari di famiglia». L’ex vicepresidente Raúl Sendic si è dimesso per uno squallido scandalo di rimborsi spese: l’incarico, per legge, si trasferisce al senatore più votato, ossia l’inossidabile José Mujica, che però essendo un ex presidente non poteva accettare. Così è entrata in scena Topolansky, moglie e secondo senatore più popolare. Oltre che, si dice a Montevideo, probabile futuro capo di Stato.
Lucía e Pepe non potevano nascere più diversi. Lui in un quartiere operaio di Montevideo, orfano di padre a sette anni; lei figlia di un ricco ingegnere e imprenditore edile, educata dalle suore domenicane. Mujica è già il «comandante Facundo», leader del Movimiento de Liberación Nacional Tupamaros, quando la giovane Topolansky decide di abbracciare la causa di quella guerriglia marxista, ispirata dalla Rivoluzione cubana, che non esita a spargere il sangue dei nemici. «Era una congiuntura diversa, la storia non può essere sempre sottoposta a revisione», taglia corto oggi la senatrice, mai «pentita», nome di battaglia «Ana».
Lucía e Pepe si incontrano, si amano per qualche mese, poi finiscono entrambi in carcere. Riescono ad evadere (lei passando dalle fogne cittadine) ma vengono ricatturati, alla vigilia del golpe militare del 1973. E non escono più, per tredici anni rinchiusi in condizioni estreme, vittime di abusi, torture, vessazioni. Comunque meno peggio di quanto succede oltreconfine. «Almeno non ci uccidevano — ricorda Topolansky —. Una volta vennero in carcere dei militari argentini e chiesero ai nostri secondini: “Perché questi qui sono ancora vivi?”».
Sopravvissuti, Pepe e Lucía si ritrovano soltanto nel 1985, dopo la fine della dittatura: l’amnistia svuota le galere e permette ai guerriglieri di cercare per via democratica quello che non hanno conquistato con le armi. Ci riescono, brillantemente, con il Movimiento de Participación Popular, oggi principale forza politica del Fronte Ampio di sinistra.
Nel 2010 Mujica presta giuramento come presidente dell’Uruguay proprio nelle mani della moglie, già allora secondo senatore più votato. Nei cinque anni di governo che seguono, la coppia vara alcune delle misure più progressiste al mondo, come la legalizzazione della marijuana («anche se io non ne conosco neppure l’odore», mette in chiaro lei), dell’aborto e delle nozze gay.
Si sono sposati soltanto nel 2005, dopo una lunga convivenza. Senza figli, «perché dovevamo cambiare il mondo e abbiamo perso tempo». Vivono in modo molto spartano in una piccola fattoria, alla periferia di Montevideo, coltivando la terra. Il 90% del loro stipendio va ai poveri. Pepe sorride quando gli dicono che la moglie è meno carismatica di lui. «Può darsi, però è sistematica: come le api, o una goccia d’acqua. Una lavoratrice instancabile. Non una di quelle persone che fanno gesta storiche, ma una che costruisce».

Corriere 15.9.17
Il messaggio (Politico) della Chiesa
di Ernesto Galli della Loggia

Può il messaggio cristiano, oggi in Occidente, prestarsi come un tempo a una qualche forma di specifica mediazione politica? Cioè può quel messaggio essere ancora tradotto in indicazioni praticabili dalla politica in una società come la nostra? E in tal modo, per esempio, dare luogo a uno specifico impegno politico dei cattolici?
La risposta va cercata nei nuovi indirizzi pastorali che non senza forti discussioni al suo interno vedono oggi impegnata la Chiesa cattolica. Indirizzi che sono forse la più eloquente testimonianza di quella nuova epoca storica che si sta aprendo e che agli occhi della Chiesa (e non solo dei suoi) si caratterizza per un vero e proprio terremoto dei rapporti di forza: vale a dire la fine dell’egemonia sul processo storico mondiale da parte sia dell’area euro-atlantica e forse, almeno tendenzialmente, da parte addirittura dell’intero emisfero settentrionale.
Ha certamente a che fare con questa visione la scelta della Chiesa — voluta con forza da papa Francesco — di assumere come direttiva cardine ed esclusiva per la propria presenza sociale il comandamento della «misericordia»: deponendo con ciò l’ipotesi di ogni diverso ruolo propriamente politico. Il che in qualche modo appare peraltro come la logica conclusione di quel processo iniziato da tempo, che dapprima ha visto il rifiuto di qualsiasi collateralismo (tipo quello che una volta caratterizzava il rapporto tra la Chiesa e la Democrazia cristiana), e in seguito l’eguale rifiuto di far svolgere alla religione cristiana la parte di una «religione civile».
La parte, cioè, per dirla con Enzo Bianchi, di «intonaco per il muro cadente dell’Occidente, percepito come inerente al Cristianesimo». Al Cristianesimo — a quello cattolico in specie — inerisce il mondo, non certo l’Occidente.
Tutto porta dunque a concludere che alla domanda iniziale la risposta sia negativa: in questa parte del pianeta non sembra esserci più spazio alcuno per una specifica mediazione politica del messaggio cristiano e per uno specifico impegno politico dei cattolici.
Le cose non appaiono così semplici, però, se si considera il modo in cui la Chiesa cattolica, proiettandosi sulla scena mondiale, intende concretamente il comandamento della misericordia. Nella prassi e nel discorso quotidiano tale comandamento, come è noto, viene tradotto nella tematica dei «diritti umani»; significa i «diritti umani»: sicché questa in pratica è la sola presenza «politica» ( beninteso fra virgolette) che oggi la Chiesa sembra volersi concedere. Ora, tuttavia, proprio rivestendosi della tematica dei «diritti umani», la presenza della Chiesa, lungi dal manifestarsi con contenuti propri ed esclusivi riferibili a lei specificamente, si sovrappone ampiamente però ad altre presenze organizzative, ideali e politiche, che nulla hanno a che fare con la sua tradizione. A cominciare ovviamente dalla presenza delle grandi agenzie internazionali come l’Onu o la Fao le quali trovano per l’appunto nei «diritti umani» un loro ambito e un loro presupposto decisivi. Un’analoga ampia sovrapposizione esiste poi rispetto a componenti per così dire laico-progressiste proprie dell’universo ideologico-politico dei Paesi occidentali: componenti che anch’esse nulla hanno a che fare specificamente con la tradizione cattolica. Tra l’altro con una particolarità di non poco conto: e cioè che sempre più spesso tali componenti annoverano tra i «diritti umani», e rivendicano come tali, un certo numero di diritti — riguardanti ad esempio gli stili di vita sessuali, i rapporti matrimoniali, il fine vita, la genitorialità artificiale o quella medicalmente assistita — che di certo sono estranei a qualunque prospettiva condivisa o prevedibilmente condivisibile dalla Chiesa di Roma.
Non basta. Sempre nominalmente infatti (ma i nomi non sono mai frutto del caso) la tematica dei «diritti umani» — stavolta nella sua versione laicissima se non laicista dell’«umanitarismo» — è pure quella che oggi anima la straripante presenza pubblica di alcune ricchissime e influentissime figure di «filantropi mondialisti» — non saprei come altro chiamarli: tipo Soros o Zuckerberg o Bezos — ormai assurti al rango di veri e propri profeti mediatici: anch’essi non solo estranei ma senz’altro ostili al cristianesimo cattolico.
Ci si trova di fronte, insomma, a una triplice sovrapposizione tanto più potenziale fonte di equivoci in quanto molto spesso i diritti umani sembrano essere intesi dalla Chiesa con una radicalità che non ammette deroghe né compromessi. O comunque con una estrema varietà di toni che non contribuisce certo alla chiarezza.
Resta il fatto che per un paradosso solo apparente, proprio la radicalità che spesso nell’ambito della Chiesa accompagna il discorso dei «diritti umani» contribuisce — starei per dire quasi naturalmente — non solo a rendere quanto mai «politicamente sensibile» il messaggio religioso che si riveste del discorso ora detto, ma ancora di più: a collocarlo di fatto nel quadrante più estremo dello spettro politico abitualmente presente nei Paesi democratici. Rischiando alla fine, in tal modo, di dar vita a una «religione civile» la quale non è meno tale per il fatto di assumere una forma antagonista, simmetrica anche se opposta, rispetto agli orientamenti oggi prevalenti in Occidente. Il che in ogni caso è la conferma — comunque si cerchi di evitare lo scoglio — di una consustanziale, inevitabile, crucialità politica del Cristianesimo, che lo rende, per chi sappia vedere, il cuore tuttora pulsante e problematico della nostra civiltà.

Corriere 15.9.17
La linea Nardella «Multe e arresto per i clienti delle prostitute»
di Marco Gasperetti

FIRENZE Linea dura contro i clienti delle prostitute: da oggi a Firenze rischieranno l’arresto fino a un massimo di tre mesi. Già, perché con ordinanza urgente — come previsto dal decreto Minniti convertito in legge ad aprile — il sindaco Dario Nardella ha istituito il divieto di chiedere o accettare prestazioni sessuali a pagamento. Le sanzioni e la denuncia per chi viola l’ordinanza (previste dall’articolo 650 del codice penale) scatteranno anche se non c’è stato un rapporto carnale. Chi sarà sorpreso con una prostituta, dunque, non solo pagherà una multa di 206 euro ma rischierà una denuncia e un procedimento penale con pena fino a tre mesi d’arresto. «È un’ordinanza per salvaguardare la dignità femminile — spiega da Palazzo Vecchio il sindaco Nardella — perché non è possibile tollerare un fenomeno che riduce molto spesso le donne in schiavitù e allo stesso tempo arricchisce sfruttatori e malavitosi. Abbiamo iniziato una battaglia di civiltà prima ancora che di legalità e sono convinto che Firenze sarà di buon esempio per tutta Italia». Che qualcosa stesse per essere deciso per arginare il fenomeno della prostituzione, che nel capoluogo toscano non ha proporzioni devastanti ma è comunque presente nel parco delle Cascine e nella zona nord-ovest della città, si era già capito da qualche mese. Da quando una task force di tecnici comunali e esperti di diritto aveva iniziato a mappare il territorio, studiare codici penale e civile e prevedere appunto le sanzioni più appropriate per arginare il fenomeno dello sfruttamento della prostituzione. «Senza avere la presunzione di analizzare il tema da un punto di vista sociologico — spiega l’assessore alla Polizia municipale e sicurezza urbana, Federico Gianassi — ma collegandolo allo sfruttamento delle donne e colpendo gli “utilizzatori finali”, i clienti appunto. Questo è stato possibile grazie e soprattutto al decreto del ministro Minniti che ha dato più poteri in questo campo ai sindaci e dunque ai Comuni». Vigileranno squadre di vigili urbani in divisa e in borghese e le altre forze dell’ordine. Nessuna sanzione contro le prostitute.

il manifesto 15,9,17
Manconi (Campo progressista): «Per un centrosinistra, il rapporto con il Pd è ineludibile»
Alleanze. Il senatore Pd vicino a Pisapia: Giuliano unisce, per governare non basta il 6 per cento. Art.1 sembra d’accordo. E ora nessun ricatto al governo Gentiloni
di Daniela Preziosi

Luigi Manconi (Campo progressista, ndr) Pisapia ha davvero trovato una strada comune con Mdp?
Penso e spero di sì. Certo, non tutti i nodi sono sciolti. Sopravvivono vischiosità e quello spirito di scissione che sembra una pulsione irriducibile della cultura di sinistra. Ma stavolta possiamo farcela.
La possibilità di alleanza con il Pd è chiusa per sempre?
Non si tratta di questo. Nella riunione di martedì sono state condivise tre condizioni: quelle che definiscono l’identità di Campo progressista e che possono costituire il tessuto connettivo del rapporto con Mdp. La prima è il riconoscimento della leadership di Pisapia, basata innanzitutto sulla sua indiscutibile capacità di unire, aggregare e federare. Lo dimostra il fatto di aver guidato una grande città con la più ampia coalizione; e che la sua iniziativa non nasce da una scissione ma dal suo opposto: dalla volontà di superare la frammentazione. La seconda condizione è che si lavori tutti per il centrosinistra. Non spetta certo a noi dimettere un segretario, Renzi, eletto con una procedura democratica come le primarie e il rapporto con il Pd – pur se ora non saprei dire in quale forma – è una condizione ineludibile. Non è questione ideologica, bensì aritmetica: per chi voglia battere le destre vecchie e nuove (M5S compreso) e arrivare a governare, il Pd è un interlocutore essenziale. Si può decidere di investire tutte le energie in uno sforzo titanico per raggiungere il quorum e fare un partito del 6-7 per cento: oppure ci si può confrontare conflittualmente col Pd per condizionarne il programma. È un’alternativa secca, che non consente altre soluzioni. La terza condizione riguarda la fase: oggi è interesse di tutti, in primo luogo degli strati meno tutelati della società, arrivare a fine legislatura. Dunque col governo Gentiloni si deve discutere e anche confliggere, ma guai a esercitare forme più o meno oblique di ricatto. Questa è la sostanza della nostra proposta. Mdp sembra averla accolta. E chiunque voglia lavorare con noi può farlo: a partire da queste tre ragionevolissime condizioni.
Ma lei è del Pd. Resta nel Pd?
Fino a quando le notevoli tensioni con la linea di maggioranza non saranno più sostenibili. Ma in questi anni di legislatura sono stati sempre meno quanti mi chiedevano come mai rimanessi “ancora nel Pd”. Intanto il Pd mi ha eletto e poi non ho trovato fuori da quel partito sedi più utili al fine di attuare la mia politica. E non credo che sarebbe stato meglio rimanere fuori dal parlamento piuttosto che tentare di fare lì, in quella sede, ciò che ho provato a fare.
Dite che Pisapia è il leader del vostro movimento. Ma una leadership può derivare da un gruppo di ‘illuminati’ che conferiscono un ruolo?
Con tempi più lunghi i meccanismi di formazione della leadership sarebbero stati diversi. Ma, ripeto, il ruolo di Pisapia ha una genesi in qualche modo naturale. Tutto, in lui, rivela una rara capacità di mediare e unificare. Lo conosco da più di trent’anni e non ho mai visto uno dotato di quella capacità di stare al tavolo delle trattative, senza mai deflettere dai punti essenziali, e sfinire l’interlocutore per arrivare a persuaderlo. Una dialettica garbata e inesorabile, cortese e tenacissima, che non prevede mai l’umiliazione della controparte. Ma il suo convincimento. Questo metodo non viene capito da tanti. Ma l’idea che la leadership per dirsi tale debba essere almeno un po’ autoritaria e prepotente non è una legge della scienza politica. È solo sintomo di pessimo carattere e acidità di stomaco.
La vostra ispirazione è di sinistra o di centrosinistra?
È di centrosinistra ma, in termini statistici, è di sinistracentro. Ma anche questa rischia di ridursi a una disputa nominalistica.
Lei si occupa da sempre di temi che uniscono la sinistra (e non solo) sui grandi valori, i diritti. L’alleanza per le politiche quale perimetro politico dovrebbe avere a sinistra?
Penso che quei temi, lungi dall’unire la sinistra, possano dividerla: com’è il caso dell’immigrazione e del garantismo. Insomma, qualunque sia la formula che si potrà realizzare – alleanza, coalizione, programma comune – ciò che ci attende è comunque una vita spericolata. Io mi batto per gli obiettivi in cui credo ma non mi allontano portandomi via il pallone se vengo sconfitto. Ribadisco, tuttavia, che l’aritmetica rimane essenziale. Se voglio provare a vincere non posso disinteressarmi del Pd e della sua sorte.

il manifesto 15.9.17
Fratoianni (Si): «Se è alternativo a Renzi, Mdp voti no alla finanziaria»
Alleanze. Il segretario di Sinistra italiana: dicano no alla legge di bilancio, costruiremo insieme il quarto polo anti-dem. Come in Sicilia
di Daniela Preziosi

Segretario Nicola Fratoianni (di Sinitra italiana, ndr), ha proposto a Insieme di iniziare a lavorare alla lista per le politiche. Quando vi vedrete?
L’ho proposto anche a Civati e alle forze del Brancaccio, che per noi restano un riferimento centrale. Fin qui stiamo dando un brutto spettacolo. Rendiamo complicato quello che nella testa di tanti è semplice: costruire rapidamente una lista su un programma chiaro, alternativo alle destre, a M5S e al Pd. Un ’quarto polo’ che faccia quello che ci chiedeva Stefano Rodotà: invertire la rotta delle politiche di questi anni. Dunque incontriamoci presto, confrontiamoci da subito sui problemi che restano aperti.
Lei un problema lo ha già indicato. Pisapia, ha detto, ’non è il mio leader’. Ma Pisapia è il leader di Bersani.
Pisapia non ha il profilo adeguato a rappresentare la proposta che ci unisce. E cioè quello di un cambiamento profondo rispetto al recente passato. Non c’è nulla di personale, naturalmente in questo giudizio. Oggi dobbiamo ragionare di leadership collegiali. E comunque nessuno può pretendere di imporre un leader al di fuori di meccanismi democratici. Ma non è questo il punto.
E qual è il punto?
Il punto è il progetto. Il ’compagno Tabacci’ dice una cosa vera: il centrosinistra senza Pd è un ossimoro. Sono d’accordo. Infatti serve una proposta chiara e alternativa al Pd. A quelli che dicono che solo con il Pd si può fare argine contro le destre ricordo che era la tesi della scissione di Gennaro Migliore. Ma spostarsi da una lista all’altra non ha arginato proprio niente, anzi vedo una destra in crescita. Bisogna cambiare rotta. Oggi si approva alla camera la legge Fiano contro i rigurgiti fascisti. Ma se al senato poi si cancella lo ius soli la Fiano rischia di essere inefficace: per combattere l’arretramento e i rigurgiti bisogna costruire elementi di immunizzazione del corpo sociale.
Ma Insieme punta a un qualche centrosinistra, benché «innovativo», non al ’quarto polo’.
Se quel centrosinistra «innovativo» è, come dicono, alternativo al Pd, la questione è di lana caprina. Parlano di “centrosinistra” per dialogare con il mondo cattolico? Molti cattolici, ispirati da papa Francesco, non sono identificabili in politica con il ’centro’. Non siamo più negli anni 90, quel mondo è cambiato e avanza richieste molto radicali. Dobbiamo fuggire da una discussione politicista. E ricostruire una prospettiva che incida nella vita delle persone, nel paese prima che nella rappresentanza politica.
Lei ha proposto a Mdp iniziative comuni sulla legge di bilancio. Le hanno risposto?
Il governo Gentiloni è in piena continuità con quello Renzi e su molte questioni lo ha superato in peggio, dai migranti alle politiche sociali. Credo che Mdp non abbia più ragioni per continuare a appoggiare al governo. Sarebbe difficile alla vigilia delle elezioni costruire credibilmente una proposta alternativa al Pd per chi continua a votarne i provvedimenti. O peggio dando l’idea di volerne poi appoggiare un altro governo con le stesse carattistiche.
Resta che Cp il ’quarto polo’ non lo vuole. Vedasi Sicilia. Lì un insuccesso del Pd potrebbe cambiare le carte in tavola?
Non sono indifferente a quello che succederà al Pd in Sicilia ma il punto non è questo: come abbiamo fatto in Sicilia, a livello nazionale dobbiamo investire in una proposta unitaria, plurale e alternativa.
Ma Pisapia non ci starebbe.
Se la sua scelta alternativa al Pd è definitiva il problema nominalistico si può superare. Inutile mettersi reciprocamente il cappio al collo. La dico così: costruiamo un’alleanza la più larga possibile. Non ho la passione per la purezza ideologica, ma per la vita reale. Usciamo dai confronti fra vertici, recuperiamo la partecipazione. Sabato scorso ero alla manifestazione di Bologna per riaprire il centro sociale Labas, c’erano quindicimila ragazzi e ragazze che ragionavano di beni comuni. Dobbiamo uscire dalle nostre dinamiche e parlare anche a loro.
Quando parla di lista unica include Rifondazione che attacca quotidianamente tanto Pisapia quanto Bersani e D’Alema?
Non mi rassegno all’idea che ci debbano essere più liste a sinistra. Confrontiamoci ancora, nella chiarezza, certo, e senza rimuovere le ragioni delle critiche passate. Ma immobilizzarci in base al passato sarebbe un errore grave.
Volete tornare insieme ai compagni da cui vi siete scissi all’ultimo congresso, quelli di Pisapia? Le ragioni di quella scissione sono superate?
In realtà alcune di quelle ragioni ancora fatico a capirle. Alcuni di loro lamentavano l’impossibilità di contendere la leadership di Sinistra italiana. E oggi vogliono imporre quella di Pisapia definendola indiscutibile e insindacabile. Comunque, mettiamo da parte il rancore. Dobbiamo rappresentare il nostro popolo. La principale cosa che serve è la chiarezza.

il manifesto 15.9.17
Orlando attacca i ‘gruppettari’ ex Pci
Unire il centrosinistra sarà difficile se i potenziali alleati se le suonano. Conflitto d’altri tempi ieri a sinistra. Il ministro Orlando, leader di una delle minoranze del Pd, sulla Stampa ha chiesto un’alleanza con i compagni scissionisti di Mdp, allargandola però «alle forze moderate che hanno rotto col berlusconismo», leggasi Alfano. Mdp dice no, ma «non era questo il ragionamento quando D’Alema fece l’alleanza con Dini e Bersani con l’Udc», dice. Poi l’accusa da vecchio Pci: «Bersani e D’Alema da leader riformisti si stanno trasformando in gruppettari». Critica sanguinosa per la ’Ditta’. Ma soprattutto paradossale visto che ’gruppettaro’ negli anni 70 lo era l’oggi coalizionista Giuliano Pisapia (per la precisione era demoproletario). Replica Arturo Scotto: «Noi ‘gruppettari’? Allora Orlando è trasparente visto che in 5 anni non ha detto una parola di dissenso con Renzi».

Corriere 15.9.17
Calendari tagliati e stand vuoti Il flop delle Feste dell’Unità che mette a rischio le casse dem
di Pierpaolo Velonà

Il vecchio adagio dell’evento bagnato e per questo baciato dalla fortuna non vale per le Feste dell’Unità. A Imola, dove il Pd ha organizzato la sua kermesse nazionale — dal 9 al 24 settembre — le piogge dei giorni scorsi hanno trasformato la manifestazione in un flop. Dibattiti annullati e stand deserti. L’unica eccezione ieri, quando il ministro Minniti, come spesso gli accade, ha registrato il pienone. Un’anomalia. «Qualche sera fa c’erano 13 gradi, chi volete che venga con queste temperature?», ripete il segretario del Pd di Imola Marco Raccagna per farsi coraggio.
Ma nel partito è risaputo che gli acquazzoni non bastano a spiegare la mutazione genetica delle Feste: da prima forma di autofinanziamento del Pd a causa di voragini nelle casse delle federazioni.
Ne sono consapevoli proprio a Imola dove, per evitare rischi eccessivi, hanno organizzato un evento in tono minore evitando gli spazi sterminati dell’Autodromo e puntando sul Lungofiume dove la poderosa macchina emiliana ha partorito un topolino: appena 5 ristoranti e una piazzetta dedicata allo street food.
A Bologna, per dire, i ristoranti sono 15. Ma il capoluogo emiliano è l’esempio più efficace della crisi. L’anno scorso, per la prima volta nella sua storia, la Festa bolognese si è chiusa con un passivo di circa 100.000 euro. Uno smacco per una federazione capace di organizzare fino al 2011 una kermesse da 4 milioni tondi di incasso. Un’era geologica fa. L’anno scorso, in cassa, sono finiti appena 2 milioni e 450.000 euro. E anche allora il partito ha dato la colpa al maltempo oltre che a un passo falso inatteso: l’invito di William Shatner, il capitano Kirk di Star Trek , il cui cachet stellare è diventato il capro espiatorio del buco.
L’altra nota dolente della Festa bolognese sono da tempo i visitatori. Ai tempi dei Ds accorrevano al Parco Nord fino a 2 milioni di persone. Un numero dimezzato negli anni scorsi. Fino a quando, ad agosto, i dirigenti si sono astenuti dal pronosticare il tradizionale milione di visite : «Ci attendiamo 900.000 spettatori». Anche quest’obbiettivo al ribasso, però, a tre giorni dalla chiusura, resta lontano. Colpa anche delle defezioni. La Cgil ha ritirato il suo stand in polemica con il Jobs act . E da tempo Arcigay non si fa più vedere.
Non va meglio nel resto d’Italia. A Bergamo la Festa è stata organizzata a maggio e non d’estate ed è durata solo due giorni invece di 15. A Modena, il ministro Poletti ha parlato in una sala di sedie vuote. A Viterbo i dibattiti hanno registrato una media di venti spettatori. E due sere fa, a Firenze, ad ascoltare Orfini c’erano 19 persone.
Andrea Rossi, reggiano, responsabile Organizzazione del Pd nazionale, non nasconde la polvere sotto il tappeto: «È da 12-13 anni che le feste, al netto della pubblicità, sono in passivo. Non mi preoccupa la partecipazione ma i bilanci. Quando devi allestire una cittadella, con tutte le misure di sicurezza, parti già con un passivo enorme». Perché non cambiare format? «Difficile cambiare schema. Una volta aspettativi il segretario che dettava la linea. Oggi il leader parla di continuo. I dibattiti più partecipati sono con figure extrapolitiche: a Reggio Emilia è andata benissimo Cristiana Capotondi».

il manifesto 15.9.17
Tutte le frecce nell’arco del Consultellum
di Massimo Villone

Un fantasma si aggira nel Palazzo: la legge elettorale. Con la decisione adottata dai capigruppo della Camera – in Aula a fine settembre se saranno conclusi i lavori in Commissione – la legge elettorale esce dagli scenari immediati della politica.
Il tempo è il maggior nemico di una – buona – legge elettorale. In realtà, il copione in cui si va alle urne con i Consultellum Camera e Senato, salvo limature tecniche, è non da ora tra quelli pronti ad andare in scena. Vediamolo, in tre punti.
Il primo. Il mantra della governabilità è letto da qualcuno nel senso che il bicameralismo paritario imporrebbe una stessa maggioranza nelle due camere, da garantire con il sistema elettorale. Ma nel bicameralismo la possibilità di maggioranze diverse è genetica e ineliminabile. Soprattutto se il sistema politico è multipolare – come il nostro – e le camere non coincidono nella base territoriale e nell’elettorato attivo e passivo – come impone la Costituzione. Due sistemi elettorali identici possono comunque produrre maggioranze diverse.
Il secondo. Piace a qualcuno l’idea che sistemi e maggioranze diverse siano un’occasione? Probabilmente sì. Le alte soglie del Consultellum Senato potrebbero cancellare senza colpo ferire una sinistra autonoma a sinistra del Pd. Questo piacerebbe certo al Pd, che vedrebbe esaltato l’argomento del voto utile potendo declinare qualsiasi responsabilità. Per questo l’unità a sinistra del Pd può paradossalmente incentivare una ipocrita inerzia: con soglie alte è più facile sbarrarle il passo. E se alla fine le maggioranze fossero diverse tra Camera e Senato, ci sarebbe un solido argomento per una grande coalizione. Questo potrebbe piacere a pezzi consistenti del centrosinistra e del centrodestra. E gli altri? Di necessità virtù, alti lai e disciplina di gruppo e di partito. E gli elettori? Che importa, se ne riparla tra cinque anni, e intanto si vede. Majora premunt. La grande coalizione potrebbe essere un obiettivo consapevole se pure occulto, che si favorisce con l’inerzia.
Il terzo punto. Chi fa cosa? Mattarella non può andare oltre la moral suasion, già inutilmente spesa, e che perde ancor più efficacia con l’avvicinarsi della fine costituzionalmente insuperabile della legislatura. Si sente dire ora di un nuovo assalto giudiziario. Un tentativo lodevole, ma del quale è arduo prevedere un esito positivo. Comporta infatti che sia la Corte costituzionale a omogeneizzare i sistemi elettorali delle due Camere. Il punto è che se la Corte avesse assunto l’omogeneità come dato costituzionalmente insuperabile, avrebbe già potuto – e forse dovuto – intervenire, orientando la sent. 35/2017, o dichiarando parziali illegittimità in via conseguenziale, o magari sollevando in via incidentale la questione davanti a sé stessa. Non l’ha fatto perché non ha inteso farlo. E se non ha scelto la via dell’omogeneità prima, è assai improbabile che la scelga dopo, riducendo l’ampia discrezionalità che ha riservato nelle sue pronunce (1/2014 e 35/2017) al legislatore, e per di più nell’imminenza del voto. È pensabile che a campagna elettorale avviata la Corte scriva in dettaglio premi di maggioranza e soglie, che di fatto decidono chi va a Palazzo Chigi e in Parlamento, essendosene finora tenuta accuratamente lontana?
La battaglia per la legge elettorale è inevitabilmente politica, e si combatte in due modi. Il primo, chiedendo in ogni sede e momento una legge che garantisca la più ampia rappresentatività e il voto libero e uguale. Il che si ottiene solo con un impianto proporzionale ed eletti scelti da chi vota, per un parlamento che esprima il paese e non sia prono a oligarchie dominanti e poteri forti. È un compito che non si risolve nell’attesa di interventi salvifici. Il secondo modo, a sinistra, con una unità che dia forza sufficiente a entrare nelle assemblee elettive con qualunque legge, fosse anche il Consultellum.
Difficile? Certo. Impossibile? No. Ovviamente, bisogna passare dal calcolo degli interessi personali e di gruppo a una strategia di ampio respiro su progetto politico e leadership, ricordando che il rischio di una subalternità al Pd è sempre dietro l‘angolo. Ce lo ricorda implicitamente il ministro Orlando in un’intervista a La Stampa, per cui Bersani e D’Alema si stanno trasformando in gruppettari. È la battuta dell’anno. Nel Pd si divertono così.

Repubblica 15.9.17
Tre scelte di sinistra per ritrovare un’identità
di Massimo Giannini

APPROVARE la legge sullo Ius soli è un atto di civiltà. Rinviarla è un atto di viltà. Una resa allo “spirito dei tempi”, che vede in ogni diversità una minaccia e che la politica cinica cavalca, invece di addomesticare. «Cosa dovrebbero fare gli onorevoli scettici? Procedere nonostante i dubbi ascrivibili all’incirca a metà della popolazione?», si chiedono tronfi i giornali della destra, brindando con un calice di veleno alla ritrovata “egemonia culturale”. Quella che mescola dolorosamente il riconoscimento del diritto di cittadinanza con il “cedimento all’invasione dei barbari”. Quella che invoca l’abolizione di tutti i permessi umanitari «per liberarci dagli stupratori».
In uno Stato di diritto, il Parlamento non è il luogo della pura e semplice ratifica, né dei voleri del governo né degli umori del popolo. La domanda cruciale, oggi, è se a prescindere “dall’aria che tira” nella pubblica opinione, questa maggioranza spuria e ormai esausta ha i numeri per far passare la legge oppure no. Se è credibile o meno la promessa di Gentiloni che dice «ci riproveremo dopo la manovra economica». Se si possono ricreare le «condizioni che oggi mancano » perché quelle norme possano passare prima della fine della legislatura, con o senza la fiducia.
Purtroppo il principio di realtà non lascia spazio alla speranza. Nonostante le esortazioni di Prodi, le osservazioni di Delrio o le pressioni di Bersani, la “narrazione” social-xenofoba di Salvini infiamma la piazza, e la “moderazione” tardo-dorotea di Alfano paralizza il palazzo. È il prezzo che si paga a un errore politico commesso da Renzi. Da segretario ha avuto il merito di trasformare lo Ius soli in un vessillo identitario per il Partito democratico, ma da premier non si è curato di siglare prima un accordo blindato con i centristi di Alternativa popolare (senza i quali non ci sono i voti al Senato). Oggi sembra troppo tardi, per rinsaldare un patto evidentemente mai sottoscritto. Renzi che “si rimette” alle scelte di Gentiloni è la conferma di un evidente interdetto che appare non superabile. Oggi e forse anche domani.
Eppure proprio in quel superamento sta la chiave che può riaprire le porte a una sinistra rinchiusa nella sua ridotta etica e politica. Può sembrare un paradosso, ma è esattamente questo che chiede lo stesso Minniti, ormai superministro degli Interni e degli Esteri, “gestore unico” delle strategie di contenimento del fenomeno migratorio in Italia e in Africa. La tratta di umani sulla rotta mediterranea si è parzialmente chiusa grazie a lui. Il capo dello Stato gli ha tributato il suo pieno sostegno. Persino Papa Francesco si è convinto a rideclinare qualche passo del Vangelo secondo il Codice Minniti. Ma il responsabile del Viminale è il primo a sapere quanto ancora sia fragile la tregua raggiunta a suon di milioni con i miliziani della Cirenaica e della Tripolitania, con i capi delle tribù locali, con gli schiavisti che gestiscono i lager, con la Guardia costiera corrotta.
Ed è anche il primo a sapere che per una sinistra di governo, capace di non smarrire se stessa limitandosi a far sue le parole d’ordine della destra, una risposta esclusivamente “securitaria” al dramma delle migrazioni non può bastare. Per ogni passo avanti compiuto sul terreno della sicurezza (raggiunta anche a costo di chiudere un occhio di fronte alla violazione dei diritti umani patita dai profughi respinti sulle coste o in transito nei centri di detenzione libici) ne occorre un altro sul terreno della solidarietà. Lungo il sentiero stretto che ci separa dallo scioglimento delle Camere del 2018, Minniti dovrebbe compierne più di uno, di passi del genere.
Non c’è alcuna certezza che la rischiosa scommessa tentata dal governo si possa vincere, senza l’aiuto di un’Europa che non se la può certo cavare ringraziando l’Italia per avergli salvato l’onore e di una Germania che dopo il voto del 24 settembre si decida finalmente ad aprire il “cantiere” della riforma del Trattato di Dublino. Né si può tollerare che quella scommessa, giocata allo stesso tavolo con i trafficanti di morte libici ai quali ora si chiede di riconvertirsi in tutori della legalità, possa prescindere da un intervento sul territorio delle Nazioni Unite e dell’Unhcr, come garanti di fatto di una Convenzione di Ginevra che la Libia non ha mai firmato.
Ma Minniti è consapevole che quella scommessa può diventare politicamente e moralmente accettabile solo a patto che, una volta limitati gli sbarchi, entro la fine dell’anno si compiano tre scelte fondamentali: l’apertura dei corridoi umanitari, il ripristino di un controllo legale dei flussi. E poi la legge sullo Ius soli, che dovrebbe completare questo pacchetto di norme per garantire l’integrazione, al di là della repressione. Ma per compiere questo percorso servirebbe una sinistra all’altezza della sua Storia. Capace di parlare il suo linguaggio. Di spiegare al Paese che non c’è nessuna “invasione” e nessun “nemico alle porte”. Di rassicurare gli italiani, dimostrando loro che una grande e moderna democrazia come la nostra ha tutti gli strumenti culturali e materiali per gestire in modo ordinato il fenomeno migratorio (come fece Merkel un anno fa, quando accolse un milione di siriani dicendo al popolo tedesco «ce la facciamo »). E poi servirebbe anche un centro all’altezza del suo passato. Capace di sfuggire alla “paura della paura”, come fa oggi un piccolo democristiano come Alfano. E di far sue le parole di un grande democristiano come Moro: non abbiate paura di avere coraggio.

Il Fatto 15.9.17
Oggi è il V-Day. Scatta il vitalizio per tutti
Traguardo - Da stamattina, essendo passati 4 anni e 6 mesi dall’inizio della legislatura, anche i neo parlamentari hanno diritto alla pensione al compimento dei 65 anni
di Tommaso Rodano

Per i Cinque Stelle è il vero V-Day: il giorno dei vitalizi, in cui la classe politica incassa l’ultimo privilegio. Scocca il quarto anno e mezzo di legislatura: oggi maturano le pensioni di tutti i parlamentari al loro primo incarico (tranne 33 che sono subentrati in corso d’opera). Sono 558 su 945, il 59% di chi siede a Montecitorio e Palazzo Madama (dati Openpolis). Tra di loro c’è anche il senatore del Pd Vincenzo Cuomo, sindaco di Portici. Incompatibile da luglio, ha sfruttato ogni occasione per rallentare la rinuncia al seggio e arrivare così alla pensione. Mercoledì la Giunta gli ha concesso tre giorni per decidere se lasciare il Senato, lui ovviamente li sta usando tutti: il vitalizio da oggi è realtà.
Questi assegni – è bene sottolinearlo – non sono quelli ricchissimi del passato. Dopo la riforma del 2011 le pensioni di onorevoli e senatori si calcolano col metodo contributivo: chi è stato eletto nel 2013 avrà diritto a un mensile di circa 1.000 euro netti a partire dal 65esimo compleanno. Dalla seconda legislatura in poi, invece, gli basterà aver compiuto 60 anni.
Si tratta ancora di un regime molto favorevole rispetto a quello dei cittadini comuni. Innanzitutto per l’età pensionabile: dopo la riforma Fornero i normali contribuenti devono aspettare i 66 anni e 7 mesi per maturare il diritto all’assegno, e per ottenere una pensione da lavoro servono almeno 20 anni di contributi (mentre l’anzianità contributiva minima dei parlmentari, come detto, è di appena 4 anni e 6 mesi). Ai lavoratori comuni, peraltro, si applica un tetto massimo di base imponibile: il reddito oltre i 100 mila euro non contribuisce ad accumulare la pensione. Per deputati e senatori questo limite non esiste, altrimenti – ha calcolato Roberto Perotti su Repubblica – la loro pensione si ridurrebbe del 25 per cento.
Il Movimento 5 Stelle – dicevamo – ha individuato la questione vitalizi/pensioni come uno dei cavalli di battaglia in vista delle elezioni politiche. A marzo il candidato in pectore Luigi Di Maio aveva presentato una delibera in ufficio di presidenza della Camera per “dare ai deputati lo stesso trattamento dei comuni mortali”, ovvero sottoporre anche i parlamentari al regime Fornero. La maggioranza guidata dal Pd aveva respinto la proposta grillina per approvare una firmata dalla dem Sereni: un contributo di solidarietà sui vitalizi già in essere con un taglio progressivo sulle pensioni superiori ai 70 mila euro. Un piccolo intervento (2,5 milioni di euro l’anno di risparmi per la Camera) su cui si sono già scatenati i ricorsi degli ex onorevoli. Lo stesso Pd era così poco convinto della delibera Sereni che si è dimenticato di applicarla anche al Senato, dove il contributo di solidarietà non ha ancora visto la luce: attualmente i vitalizi di Montecitorio e Palazzo Madama sono sottoposti a due regimi diversi.
Quel giorno, dopo che fu bocciata la sua proposta, Di Maio raggiunse la folla che si era raccolta di fronte a Piazza Montecitorio per un comizio improvvisato: “Il 15 settembre, quando scatteranno i vitalizi per tutti, sarà l’armageddon dei partiti. C’è un clima da fine impero in cui tutti quanti arraffano e scappano”. Ora il 15 settembre è arrivato. I parlamentari si preparano a raccoglierne i benefici economici, i Cinque Stelle quelli politici. In queste ore stanno studiando un meccanismo che consenta ai loro eletti di rinunciare alla pensione. La proposta sarà presentata questa mattina alle 11 in sala stampa alla Camera.
Poi – una volta ribadita l’estraneità a un privilegio che altrimenti riguarderebbe pure tutti i suoi 123 parlamentari – il Movimento passerà alle proteste. Saranno organizzate tra lunedì e martedì e saranno, promettono, piuttosto plateali, sia dentro che fuori le aule.
È un tema su cui l’opinione pubblica rimane particolarmente sensibile. Lo sanno i grillini e lo sa anche Matteo Renzi. Fu una delle sue prime preoccupazioni dopo la scoppola del referendum. Resa pubblica con un sms inviato in diretta a DiMartedì, la trasmissione di Giovanni Floris, il primo febbraio: “Per me votare nel 2017 o nel 2018 è lo stesso, l’unica cosa è evitare che scattino i vitalizi perché sarebbe molto ingiusto verso i cittadini. Sarebbe assurdo”.

La Stampa 15.9.17
La Commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche
Quella miccia che mette in difficoltàil governo
di Marcello Sorgi

Nata dopo lunga, troppo lunga, secondo alcuni, gestazione, la Commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche avrà poco tempo, di qui a febbraio, scadenza finale della legislatura, per circoscrivere il largo campo di indagini che s’è assegnata, e dovrà scongiurare il rischio di trasformarsi in cassa di risonanza della campagna elettorale in corso.
Dei due partiti che più fortemente l’hanno voluta, Pd e M5s, il primo - spinto in direzione della Commissione soprattutto da Renzi, quand’era ancora a Palazzo Chigi, per desiderio di liberare il governo dai miasmi del caso Etruria - s’è abbastanza raffreddato, prova ne siano i numerosi rinvii e il ritardo, fino a ieri, con cui ha comunicato i nomi dei prescelti designati a far parte del nuovo organismo bicamerale. Non a caso negli ultimi giorni Grillo ha accusato Renzi di non voler più in realtà la Commissione per timore di ritrovarsi a fare i conti con le rivelazioni dell’inchiesta parlamentare alla vigilia del voto siciliano e poi di quello nazionale.
Tra i primi che saranno chiamati a parlare davanti a senatori e deputati, dotati di poteri inquirenti pari a quelli della magistratura, ci sarà infatti l’amministratore delegato di Unicredit Ghizzoni, che secondo le rivelazioni contenute nel libro di Ferruccio de Bortoli avrebbe ricevuto pressioni da Maria Elena Boschi per dare una mano a risolvere i guai di Banca Etruria, di cui il padre dell’allora ministra era vicepresidente. Boschi, che ha dovuto difendersi da una mozione di sfiducia legata proprio a questo caso, ha smentito. Ghizzoni s’è trincerato nel «no comment»: ma potrebbe continuare a tacere se convocato in Parlamento? Prima ancora di fornire un responso sulla situazione degli istituti di credito italiani, la Commissione rischia dunque di accendere una miccia che va verso il governo.
Quanto alla possibilità che dal lavoro di senatori e deputati possa uscire una sorta di scagionamento del governo dalle sue eventuali responsabilità per la crisi delle banche, o per il tempo perduto prima di intervenire nei salvataggi, è tutto da vedere. Al momento in cui il caso esplose, ormai più di due anni fa, era intuibile l’intenzione di Renzi di far emergere un deficit di attenzione della Banca d’Italia, a cui istituzionalmente è rimessa la vigilanza bancaria. Oggi, con Gentiloni alla guida del Governo, e il Governatore Fazio sulla strada di una riconferma nel suo incarico, anche questo obiettivo s’è appannato. Così che il leader del Pd rischia di aver caricato un arma il cui grilletto non è più nelle sue mani.

Il Fatto 15.9.17
La Commissione Banche è in mano al Giglio Magico
Renzi mette i suoi fedelissimi a gestire l’inchiesta parlamentare. Si tratta sul presidente: difficile Casini, forse sarà il ‘verdiniano’ Zanetti
La Commissione Banche è in mano al Giglio Magico
di Marco Palombi

Ci siamo quasi. Dopo quattro anni e mezzo dalla proposta di istituzione e a tre mesi dal varo definitivo, la prossima settimana la commissione d’inchiesta parlamentare sul sistema bancario potrà iniziare a lavorare. Peccato che, anche a leggere i 40 nomi che la comporranno, ci sia da aspettarsi poco e niente: al massimo qualche operazione in chiave elettorale contro questo o quel partito, questa o quella fazione del Pd o che fu del Pd.
Ieri, dopo le ultime 24 ore di passione, i capigruppo hanno finalmente comunicato i nomi dei commissari democratici: Renzi ha piazzato parecchi suoi fedelissimi tipo Francesco Bonifazi, Matteo Orfini, Susanna Cenni, Franco Vazio, Mauro Del Barba, Gianni Dal Moro, Andrea Marcucci, eccetera. Quest’ultimo nome, peraltro, ha sollevato più di un’obiezione tra i dem: nomi di peso, ed esperti di settore bancario, come i membri della minoranza dem Massimo Mucchetti e Francesco Boccia sono stati esclusi dalla commissione con la scusa che avevano già importanti incarichi parlamentari da assolvere; Marcucci, però, è presidente di commissione (la Cultura al Senato) esattamente come i due esclusi.
Resta aperta la questione che ha preoccupato Renzi in questi ultimi giorni: chi farà il presidente? La scelta caldeggiata da Maria Elena Boschi – che dall’inchiesta ha parecchio da temere per via dei tentativi, esercitati quand’era ministra, di salvare la Popolare Etruria cara a suo padre Pier Luigi – era proprio di mettere a capo della commissione Marcucci: per gli altri partiti, però, sarebbe stata una dichiarazione di guerra, il segnale che i renziani non solo invadono l’organo parlamentare, ma si preparavano a usarlo ai loro fini.
Abbandonato, pare, Marcucci, l’ideona dei democratici è stata quella di rivolgersi all’usato sicuro: un presidente “istituzionale”, così si diceva, rispondente al nome di Pier Ferdinando Casini, accettabile anche da Forza Italia. Ipotesi tramontata anche questa, si dice nel palazzo: l’interessato non è molto convinto di lasciare la presidenza della commissione Esteri del Senato, Forza Italia non è poi così convinta di votarlo e, soprattutto, il nostro ha messo a verbale in passato parole sulla commissione banche non proprio compatibili con l’alto ufficio di presidente (“ho un’idiosincrasia per le inchieste parlamentari e questa rischia di avere effetti nefasti”), tanto che uscì dall’aula piuttosto che votare la legge che la istituiva.
La trattativa con Casini, ieri, pareva arenata al punto che gli alfaniani di Ap non hanno neanche comunicato il nome del loro senatore in commissione d’inchiesta (manca pure Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni). Di questa incertezza potrebbe beneficiare l’uomo che non ti aspetti: Enrico Zanetti, una vita all’ufficio studi dei commercialisti, arrivato in Parlamento con Mario Monti e da lì al governo, viceministro dell’Economia fino al tracollo renziano del 4 dicembre. Il nostro, che da qualche tempo ha fatto casa comune con Denis Verdini, da allora non ha un posto al sole e pure le sue memorabili apparizioni tv si sono diradate assai: la presidenza dell’inchiesta sul sistema del credito gli ridarebbe visibilità e quel po’ di fiducia nell’equità del destino che gli era venuta a mancare dopo essere divenuto l’unico uomo di governo di Renzi non confermato da Gentiloni.
Un “verdiniano” a capo di una commissione piena di renziani non è proprio il miglior viatico per un’inchiesta parlamentare sulle banche, ma per Zanetti non è ancora il momento di festeggiare: la maggioranza è risicatissima e per di più in questo genere di commissioni contano assai i rapporti personali tra i membri. Il nostro ha ancora qualche giorno, forse persino una settimana, prima della convocazione e dell’elezione del presidente: sarà campagna elettorale matta e disperatissima.

Repubblica 15.9.17
La commissione di inchiesta sulle bancheUna via istituzionale
di Stefano Folli

LA COMMISSIONE bicamerale d’inchiesta sulle banche arriva in ritardo a causa dei timori e dell’eccesso di prudenza del partito di maggioranza relativa. Il dente che doleva e che duole ancora è sempre lo stesso: la banca dell’Etruria. Ma proprio per questo occorreva avere più coraggio, anche perché le iniziative del governo Gentiloni nel corso dell’anno hanno avuto il merito di disinnescare la crisi.
RIMANE — e certo non è poco — la frustrazione di un notevole numero di risparmiatori, come pure una tensione politica cresciuta nel tempo. Oggi la questione delle banche si prospetta come uno dei principali temi dell’imminente campagna elettorale dei Cinque Stelle e della Lega (quest’ultima non priva, come è noto, di qualche scheletro nel suo armadio).
Tuttavia istituire una commissione parlamentare non significa aggiungere altra legna al fuoco acceso dai partiti cosiddetti anti-sistema. Al contrario, dovrebbe servire a riportare una confusa vicenda nell’alveo istituzionale, rispondendo con chiarezza alle domande di un’opinione pubblica perplessa. Il Parlamento aveva da tempo il dovere di avviarsi lungo questa strada, fronteggiando le proprie responsabilità. Lo fa solo adesso che mancano quattro o cinque mesi alla fine della legislatura e naturalmente il rischio è che la commissione riesca a fare poco. C’è anche un’altra eventualità: che si trasformi in una tribuna elettorale permanente a favore delle due forze prima citate.
Sono due pericoli che solo la scelta di un presidente autorevole può evitare. Un presidente “di garanzia”, come si dice in questi casi, capace di costruire intorno all’inchiesta — per quel poco o tanto che sarà possibile fare nei prossimi mesi — una solida cornice istituzionale. Non certo un presidente “insabbiatore” o che dia alla pubblica opinione l’impressione di esserlo. Ma nemmeno una figura che consenta il tripudio della demagogia pre-elettorale. Nessuno può negare che sia questo il passaggio più delicato, ora che si conoscono i nomi dei commissari. Non può ovviamente essere un personaggio espresso dal Pd e deve raccogliere il consenso di una maggioranza il più possibile ampia all’interno dell’organismo.
Il nome su cui ci si sta orientando sembra essere quello dell’ex presidente della Camera, Casini. Non piacerà ai Cinque Stelle, naturalmente, che vedranno in lui una sorta di anticipatore delle “larghe intese”. Eppure non sono molte le figure che possono vantare un’analoga esperienza e conoscenza della macchina parlamentare, unita all’indispensabile sensibilità politica. Del resto, la commissione non può essere il palcoscenico dove va in scena il regolamento di conti fra i partiti. Magari all’interno dello stesso partito, nel segno di vecchi e nuovi rancori. Nè può essere il luogo dove di celebrano processi sommari e si consumano vendette. Al tempo stesso, come si è detto, ci si attende che la commissione dia risposte il più possibile complete alle domande che i cittadini si pongono. E indichi gli strumenti da adottare affinché in futuro non si ripeta il tradimento dei risparmiatori. È singolare, ad esempio, che non esista a tutt’oggi un settore della magistratura dedicato ai reati finanziari, cosicché la procedura a seguito di una denuncia sia rigorosa e rapida come la gravità della vicenda imporrebbe.
C’è un altro rischio che un presidente “di garanzia” dovrà contribuire a spazzar via dal tavolo. Fra un paio di mesi viene a scadenza il mandato del governatore della Banca d’Italia, Visco. Rendere un servizio alle istituzioni oggi significa anche questo: impedire che due vicende nettamente separate si mescolino per ragioni di bottega politica. Sarebbe un elemento di grave destabilizzazione alla vigilia delle elezioni. Senza dubbio l’attenzione del capo dello Stato sarà massima, come sempre quando le tensioni sfiorano la Banca d’Italia. Ma anche il Parlamento e le forze politiche che governano il paese, o che aspirano a governarlo nella prossima legislatura, dovranno fare la loro parte. La logica suggerirebbe la conferma di Visco per evitare qualsiasi strumentalizzazione e per consolidare quella stabilità istituzionale che il presidente Mattarella indica spesso come un valore prioritario.

Corriere 15.9.17
Capolinea Tripoli: i migranti che tornano E quelli che spariscono
dal nostro inviato a Tripoli Lorenzo Cremonesi
Tra i giovani africani rilasciati dai centri e rimpatriati
di Lorenzo Cremonesi

Al capolinea di un lungo calvario. Eccoli qui quelli che sono finalmente riusciti a prendere il volo gratuito per tornare alle loro case in Africa. Per una volta puliti, con le magliette colorate, i pantaloni e le scarpe nuovi donati loro ieri sera alla vigilia della partenza. Qualcuno ha una vecchia borsa a tracolla, uno zainetto sgualcito, o un sacchetto di plastica con qualche vestito, ma la maggioranza non porta alcun bagaglio. «Erano settimane che i guardiani libici non mi lasciavano fare una doccia. Non posso comunicare con l’esterno. La mia famiglia non sa neppure che sto tornando. Non li vedo da quattro anni», dice tra loro Ibrahim Latifo, 24 anni, di cui gli ultimi quattro in Libia come operaio edile. Due volte ha provato a prendere i gommoni per l’Italia, a oltre 800 dollari per viaggio: i risparmi di mesi e mesi di lavoro buttati via nel primo tentativo a causa di un guasto al motore e il secondo fallito per il mare grosso e perché «ci siamo presi paura e siamo tornati alla spiaggia». Lui è uno dei 52 giovani del Niger che la Iom (International Organization for Migration, dipendente dalle Nazioni Unite) è riuscita a coordinare nel centro di detenzione libico di Triqsiqqa ed unire ad altri circa 150 raccolti individualmente nelle vie della capitale. Non un lavoro facile.
La rotta all’indietro
Molti sono irraggiungibili, chiusi nelle carceri delle milizie che li usano come merce di scambio, o tenuti schiavi per le campagne in qualche azienda agricola, oppure in uno scantinato in attesa dei riscatti pagati dalle famiglie d’origine. Questi partono in aereo per il Niger, finalmente con il lasciapassare fornito dalla loro ambasciata a Tripoli. Domani ci sarà un charter da 180 posti per il Sudan e il giorno dopo per il Burkina Faso. Per qualcuno l’intero processo burocratico ha impiegato anche quattro mesi.
In media tre ore di volo per un viaggio in senso inverso a quello di arrivo, che invece era durato mesi e mesi di sofferenze, l’incertezza di chi emigra da illegale con pochi soldi in tasca, alla mercé di bande criminali che appena li fermano si prendono denaro, cellulare e passaporto da rivendere sul mercato nero.
La novità per tutti è però giunta negli ultimi due mesi. Prima infatti era chiaro che tante sofferenze potevano essere sopportate con la speranza di raggiungere le coste italiane e quindi trovare lavoro in Europa. Ma adesso la rotta è chiusa. Per mare non si passa quasi più, i piani del governo italiano stanno funzionando. Con una conseguenza fondamentale: non solo il popolo dei gommoni è ridotto al lumicino, ma soprattutto sono diminuiti enormemente gli arrivi dal deserto verso la Libia. Il punto diventa allora capire in che modo rimpatriare i migranti che intendono farlo. Come riportarli ai loro Paesi? Il rischio è che possa rinascere un nuovo racket: quello dei ritorni clandestini, alimentato dalle stesse bande che prima favorivano gli arrivi in Libia.
Le cifre
Quanti sono dunque quelli che potrebbero essere rimpatriati? Non esistono numeri ufficiali. La stima che abbiamo potuto faticosamente raggiungere attraverso lunghe conversazioni informali con i dirigenti Iom qui e all’estero, oltre che con i funzionari delle altre agenzie di aiuto Onu e i dirigenti del ministero degli Interni libico, sfiora i 350 mila. È infatti valutato che al momento siano ben oltre 700 mila i lavoratori africani in Libia, di questi almeno la metà fa parte della comunità storica che da sempre risiede nel Paese (ai tempi di Gheddafi superavano abbondantemente il milione e mezzo) e non ha intenzione di imbarcarsi per l’Europa. Un recente documento Iom rivela che al 31 agosto 7.084 migranti volontari sono stati rimpatriati nel 2017 grazie alla collaborazione delle loro rappresentanze diplomatiche, con in testa quelle a Tripoli (tra cui Nigeria, Niger, Gambia, Mali, Burkina Faso, Ghana). Più difficile, ma non impossibile, è il rimpatrio dei cittadini di Paesi che non hanno qui una rappresentanza, quali per esempio la Costa d’Avorio, il Senegal, il Cameroon, l’Etiopia, l’Eritrea, l’Uganda. «Ormai possiamo trattare via Skype con i ministri degli Esteri di qualsiasi Paese», dicono rassicuranti i funzionari Iom a Tripoli. Il loro lavoro si sta facendo più febbrile. «Sino a qualche mese fa organizzavamo a malapena due o tre voli al mese. Adesso stiamo arrivando a tre o quattro per settimana. Se procede così, entro la fine dell’anno potremmo giungere a 15 mila rimpatri. E nel 2018 aumentarli di molto. Ma il problema non sta nel preparare i voli, quanto nelle procedure burocratiche per stabilire l’identità dei migranti», aggiunge uno di loro all’aeroporto di Tripoli, il 30enne Juma Ben Hassan. A conferma delle sue parole sta il calvario di 33 marocchini da noi incontrati ieri nella capitale. Dopo essere stati fermati in mare la notte del 29 agosto dai guardacoste libici al largo di Sabratha e aver subito rapine e pestaggi dalle milizie, adesso per ammissione degli stessi funzionari locali dovranno penare «almeno un mese e mezzo dietro le sbarre», prima di tornare in Marocco.
Chi manca all’appello
È soprattutto la natura anarchica, tribale e violenta del panorama politico libico a complicare le operazioni. I funzionari Iom, tra loro il dirigente per l’Europa Eugenio Ambrosi, mettono l’accento sul problema degli «scomparsi»: «Sappiamo che negli ultimi tre mesi, sino al 6 settembre, i guardacoste libici aiutati dal governo italiano hanno recuperato in mare circa 14 mila migranti che cercavano di arrivare alle coste italiane. Ma nei centri di detenzione libici abbiamo registrato solo la metà di quel numero. Dove sono finiti gli altri 7 mila?». Un altro problema sta nelle tensioni tra autorità libiche e organizzazioni internazionali. «Noi vorremmo che tutti i migranti rimpatriati venissero rilasciati dai nostri centri di detenzione. Tocca a noi censirli. Ma la Iom fa di testa sua e viola la sovranità libica. Una strategia che si presta a corruzione e illegalità. Che esista già un racket dei posti sui voli?», protesta Abdul Nasser Azzam, direttore del centro di Triqsiqqa. La stessa Iom ammette che almeno il 65% dei rimpatriati non passa dai centri libici, ma esclude qualsiasi racket.

Il Fatto 15.9.17
I migranti e l’ipocrisia dell’accoglienza
di Maurizio Pallante

Nei Paesi di partenza le migrazioni sono causate da sconvolgimenti delle attività produttive, dei rapporti sociali e delle condizioni ambientali, che impediscono alle popolazioni di continuare a ricavare da vivere nei luoghi in cui vivono. Nei Paesi d’arrivo generano tre tipi di reazioni: una di rifiuto, che si concretizza nel sostegno ai partiti xenofobi; una di accoglienza interessata per i contributi che i migranti danno alla crescita economica e alla ricchezza monetaria dei nativi; una di accoglienza disinteressata e generosa, basata sulla solidarietà nei confronti delle persone più provate dalla vita. I partiti xenofobi enfatizzano i problemi creati dall’arrivo di un numero sempre maggiore di migranti senza risorse professionali ed economiche, mettendo in evidenza l’insicurezza e il degrado che inevitabilmente si genera nei luoghi in cui si arrangiano a sopravvivere. I sostenitori dell’accoglienza interessata li minimizzano, insistendo sui vantaggi economici che deriverebbero dalla loro regolarizzazione: crescita del prodotto interno lordo, aumento del gettito fiscale, pagamento delle pensioni. I sostenitori dell’accoglienza disinteressata fanno leva sui sentimenti di fraternità che, persistono nell’animo umano nonostante i decenni di consumismo ed egoismo che hanno caratterizzato le società industriali. E dedicano le loro energie ad aiutare i migranti a trovare un alloggio e un lavoro dignitosi.
Nei coni d’ombra tra queste dinamiche, agiscono due categorie di approfittatori: quelli che speculano sulla disperazione dei più deboli, sfruttando la loro forza lavoro in maniere ignobili, fino a farli morire; e quelli che, agendo nel sottobosco della politica, riescono a impadronirsi dei fondi stanziati per le strutture d’accoglienza, lasciando solo le briciole ai disperati cui erano destinati.
Tutti gli attori in campo si limitano a prendere in considerazione, ciascuno dal proprio punto di vista, le conseguenze dei flussi migratori, ma nessuno si domanda per quale motivo negli ultimi trent’anni le migrazioni abbiano coinvolto numeri sempre maggiori di persone in tutto il mondo. Nei Paesi africani i contadini sono costretti a lasciare le campagne a causa delle guerre tra le etnie e gli Stati fomentate dai Paesi occidentali, e di quelle combattute direttamente da loro per tenere sotto controllo i territori in cui insistono i giacimenti di minerali e fonti fossili necessari alla loro crescita economica. A ciò si aggiunge la riduzione della fertilità dei suoli e la perdita dell’autosufficienza alimentare causate dagli aiuti allo sviluppo, che li hanno indotti ad abbandonare la biodiversità e l’agricoltura di sussistenza per dedicarsi alla monocoltura di prodotti esotici richiesti dal mercato mondiale. E, da qualche decennio, gli acquisti di enormi estensioni di terreni agricoli non accatastati effettuati da cinesi e coreani per un tozzo di pane con la complicità di governanti corrotti.
Premesso che nessuno è obbligato a emigrare e chiunque ha diritto di andar via dai luoghi in cui non vuole o non può più vivere, la storia delle migrazioni è contrassegnata dalle sofferenze: di dover lasciare i luoghi in cui si è nati e i propri affetti familiari, di dover accettare lavori faticosi, pericolosi e poco pagati nei luoghi in cui ci si trasferisce, di vivere in abitazioni malsane in quartieri ghetto tra l’ostilità delle popolazioni autoctone. Possibile che i sostenitori dell’accoglienza per ragioni umanitarie sappiano solo dire che emigrare è un diritto che va tutelato e agevolato, ma non riescano nemmeno a immaginare che se ci si limita ad agevolare l’accoglienza dei migranti si rafforzano le cause che li inducono a emigrare e le sofferenze che ne conseguono? E non si rendano conto di fare inconsapevolmente il gioco dei sepolcri imbiancati dell’accoglienza interessata?
“I migranti – si legge nel rapporto Caritas 2015 – costituiscono una ricchezza per l’Italia, perché producono l’8,8 per cento del Prodotto interno lordo, pari a oltre 123 miliardi di euro. E vengono pagati meno dei lavoratori italiani: un italiano guadagna in media 1.326 euro al mese, un cittadino comunitario 993, un extracomunitario 942”. Secondo un rapporto del Credit Suisse dello stesso anno, le spese per i migranti sono destinate a ripagarsi sotto forma di benefici alla crescita e quindi di aumenti delle entrate fiscali. Per sostenere il suo sistema di welfare l’Europa avrà bisogno di 42 milioni di immigrati entro il 2020, di 250 milioni entro il 2060. Il presidente dell’Inps, Tito Boeri ha più volte affermato che se chiudessimo le frontiere ai migranti non saremmo in grado di pagare le pensioni. Ogni anno gli stranieri versano otto miliardi di euro in contributi e ne prelevano tre. È vero che un giorno avranno la pensione pure loro, però molti torneranno al loro Paese d’origine e i loro versamenti saranno a fondo perduto. Perché dovremmo respingerli?
Premesso che alleviare una sofferenza è un dovere etico da compiere tempestivamente, capire le cause che la provocano è un dovere intellettuale a cui consegue l’impegno politico di provare a rimuoverle. È il nostro stile di vita consumistico a impedire che i migranti possano continuare a vivere sulle terre dei loro padri, perché li priva del necessario per alimentare il nostro superfluo. Il nostro modo di vivere, che non è compatibile con la biosfera, non è l’unica alternativa alle privazioni del loro modo di vivere. Non s’immagina nemmeno che ce ne possa essere un altro diverso dal nostro e dal loro. Per esempio, una società in cui la tecnologia sia finalizzata a ridurre l’impronta ecologica e non ad aumentare la produttività; in cui il benessere s’identifichi con la possibilità di garantire a tutti di far fruttare i propri talenti. Se non si pongono queste domande, i sostenitori limpidi dell’accoglienza rischiano di diventare i cavalli di Troia dei sepolcri imbiancati, che si fanno paladini dell’accoglienza per trasferire al servizio delle società opulente coloro ai quali le società opulente hanno già tolto il necessario per vivere nella loro terra.

Repubblica 15.9.17
“Il sabato si va a scuola” Il Tar adesso boccia anche la settimana corta
Accolto il ricorso dei genitori di un liceo scientifico di Roma Il consiglio d’istituto aveva preso la decisione a maggioranza
di Liana Milella

ROMA. Due righe, in una decisione del Tar del Lazio, rivoluzionano l’anno scolastico del liceo scientifico Aristotele di Roma, notissimo istituto dell’Eur. Sei giorni a scuola, dal lunedì al sabato, anziché solo cinque, dal lunedì al venerdì, la settimana corta. Come, da oltre un triennio, avviene ormai in moltissime scuole italiane, per risparmiare sulle spese e per consentire ai ragazzi di garantirsi un week end lungo con la famiglia. Invece al liceo Aristotele, per tutto quest’anno, i giorni di lezione saranno sei, perché il Tar, solo sospendendo una decisione del Consiglio d’istituto, ha bloccato le lezioni spalmate in 5 giorni. Una novantina di famiglie avevano fatto ricorso, ma ovviamente la decisione varrà per tutta la scuola, anche per chi non è affatto d’accordo con i ricorrenti.
Ancora una volta i Tar – che l’ex premier Renzi aveva giurato di voler riformare radicalmente dopo la bocciatura dei direttori stranieri dei più importanti musei – diventano protagonisti di una storia di ordinario contrasto che potrebbe essere risolta anche senza ricorrere alla giustizia amministrativa.
Un potere eccessivo e invasivo? Un’inevitabile e obbligatoria tutela garantita dalla legge? Fatto sta che al liceo Aristotele il caso è diventato esplosivo, soprattutto per le sue conseguenze.
Ma stiamo ai fatti, considerando che il Tar del Lazio, il 31 agosto, con quattro paginette firmate dal presidente Giuseppe Sapone, dal consigliere estensore Pierina Biancofiore, e dal consigliere Antonino Masaracchia, sospende – senza portare alcuna motivazione – la scelta del Consiglio d’istituto, assunta l’11 luglio a maggioranza, di limitare i giorni di scuola a cinque.
Ma perché il Tar sospende la decisione? L’esigua ordinanza non lo dice. Per conoscere nel merito le ragioni bisognerà aspettare il 16 gennaio, quando i giudici amministrativi si riuniranno ed esamineranno nel merito il corposo ricorso – ben 45 pagine – presentato dall’avvocato Alfredo Del Vecchio, a nome di 94 genitori di altrettanti alunni, che contestano soprattutto una scelta assunta solo a maggioranza dal Consiglio d’istituto, che cambia le regole in corso d’opera, all’interno di un ciclo di studi, quando magari le famiglie degli alunni avevano scelto l’Aristotele, anziché un’altra scuola, proprio perché lì i giorni di lezione alla settimana erano sei, e non cinque.
Peccato che a quel punto – e anche se la decisione dovesse essere favorevole a chi opta per la settimana corta – l’anno scolastico dell’intero liceo scientifico Aristotele sarà obbligatoriamente spalmato sulla settimana lunga. Una volta decisa la scansione delle lezioni, gli orari, l’intreccio dei professori, sarà praticamente impossibile rivoluzionare tutto e passare ai cinque giorni.
Senza contare che i tempi del Tar saranno sicuramente più lunghi. Fatta l’udienza il 16 gennaio, bisognerà attendere la decisione, che coincide con la scrittura dell’ordinanza. E c’è da scommettere che, in un caso divenuto così delicato, e per giunta su un tema che va ben oltre il singolo liceo romano, i giudici romani del Tar non vorranno perdere l’occasione per scrivere una sentenza ben motivata e argomentata. Che “faccia scuola”. E che magari richiederà anche un paio di mesi per essere redatta. A quel punto saremo giunti a marzo, a tre mesi dalla fine delle lezioni, e comunque vada avranno vinto i 94 genitori ricorrenti che sono contrari ai cinque giorni, anche se magari, nel merito, il Tar dovesse invece dar ragione a chi, all’interno del Consiglio di istituto, aveva scelto l’opzione dei cinque giorni.

Corriere 15.9.17
Boeri: surreale cambiare le pensioni
intervista di Federico Fubini

«Sui vitalizi i politici sono stati poco trasparenti» dice al Corriere il presidente dell’Inps, Tito Boeri. «Bene gli sgravi per i neoassunti» mentre è «surreale cambiare le pensioni». Per gestire «l’Ape sociale devo impiegare 225 funzionari» .
Tito Boeri, presidente Inps, non vede nella sua carica un mandato a esercitare l’ipocrisia sui problemi italiani.
Presidente, si parla di sgravi contributivi ai giovani neoassunti. Che ne pensa?
«Sono efficaci se sono significativi e visibili. E se vengono percepiti come duraturi, strutturali. I tagli limitati o troppo complessi alla fine sprecano risorse».
Dunque condivide l’impostazione del governo?
«Mi pare corretto utilizzare tutte le risorse disponibili su questo fronte. In Italia abbiamo il problema del mercato del lavoro, in particolare dei giovani; dovremmo portare lì anche gli altri interventi. Se ad esempio vogliamo spingere le imprese a fare più investimenti sulle tecnologie di Industria 4.0, e abbiamo una dote per farlo, la potremmo usare all’interno del pacchetto lavoro».
Come pensa di riuscirci?
«Troviamo un modo in cui le due misure, sgravi ai giovani e incentivi agli investimenti in tecnologie, si parlino: le imprese che investono in formazione, per esempio, possono aver diritto a una decontribuzione più forte. È un modo di promuovere la complementarietà fra lavoro e capitale, anziché spingere le imprese a sostituire il lavoro con i robot».
In Italia salari e stipendi sono legati all’anzianità e il costo del lavoro dei giovani è crollato con la crisi. Cambierà qualcosa riducendolo ancora?
«Se si riesce a unire la decontribuzione sui giovani neo-assunti al piano per rafforzare la competitività in impresa, ciò non può che incoraggiare la formazione e la produttività. Questo a sua volta renderà i salari, in prospettiva, meno rigidamente legati all’anzianità e più basati sulla produttività dei singoli».
Dunque il passo successivo quale dovrebbe essere?
«Una riforma della contrattazione».
Come seconda gamba del Jobs Act?
«È assolutamente necessario. E una revisione dei meccanismi della rappresentanza. Non solo dei sindacati, anche dei datori di lavoro».
Quale è l’obiettivo di questa secondo gamba del Jobs Act?
«Abbiamo dei giovani molto qualificati che hanno potenzialmente un mercato internazionale e in Italia sono pagati molto meno che altrove. Di qui la fuga all’estero. Dovremmo permettere che la contrattazione valorizzi queste competenze e riduca il mismatch: abbiamo il record dei lavoratori sbagliati al posto sbagliato».
Invece si punta alle pensioni di garanzia per chi ha il contributivo e a ridurre i requisiti per le donne.
«Un dibattito surreale. E lo è proprio perché parte dalla presa d’atto che ci sono aree di enorme difficoltà sul mercato del lavoro per i giovani e per le donne. I problemi pensionistici nascono da qui. È una questione che si riverbera sulle pensioni future, certo, ma va affrontata oggi facilitando l’accesso al lavoro di questi giovani e delle donne. Bene che la legge di bilancio si impegni su questo obiettivo. Non per cambiare le regole pensionistiche».
L’Ape sociale rivista costerà molto?
«Per l’Inps, il costo amministrativo di gestire questo strumento è pari al lavoro a tempo pieno per un anno di 225 funzionari con laurea magistrale».
E per il sistema?
«L’impatto del breve periodo è limitato, ma possono esserci effetti molto importanti a lungo andare. Noi all’Inps ci siamo impegnati a dare alla politica economica informazioni su ciò che accade al cosiddetto debito implicito, ossia agli impegni previdenziali assunti dal sistema. Abbiamo trasmesso al governo le stime del debito implicito nei vari scenari. E faremo lo stesso con il parlamento, se queste opzioni entreranno nella Legge di bilancio».
Di che cifre si tratta?
«Siamo vincolati alla riservatezza».
Vede aumenti del debito implicito?
«Ci sono effetti importanti».
Teme che, pezzo a pezzo, si smonti la riforma Fornero?
«Mi preoccupa che continui ad aumentare il debito implicito, perché lo stiamo lasciando alle generazioni future. Se poi facessimo operazioni come quelle del mancato adeguamento dell’età di pensionamento alla speranza di vita, dopo aver venduto a tutti che abbiamo un sistema delle pensioni stabile... Aumenterebbe il premio al rischio Italia e ci toglierebbe risorse per politiche per lo sviluppo, anche perché le banche sono imbottite di nostri titoli pubblici».
Davvero si possono finanziare politiche sociali rivedendo i vitalizi?
«Fra parlamentari e consiglieri regionali, si possono trovare 150 milioni».
Da dove partirebbe?
«Dalla trasparenza: trovo davvero grave che il Parlamento non abbia reso pubbliche le cifre sui contributi versati dai diversi parlamentari. Solo le Camere le hanno e non vengono date neanche all’Inps. Volessimo fare ricalcoli precisi sui contributi versati, non potremmo».
Ma li avete chiesti quei dati?
«Sì, attraverso il ministero del Lavoro. Addirittura ci veniva chiesto di fare valutazioni tecniche di proposte di ricalcolo dei vitalizi, come quella di Matteo Richetti (Pd, ndr), senza fornirci i dati per farlo. È grave perché impedisce all’opinione pubblica di capire se certe posizioni dei parlamentari sono dettate da interesse personale».
Che intende dire?
«Alcuni parlamentari dicono: ‘Sono contrario al taglio dei vitalizi, anche se non mi riguarda’. Bene, vogliamo capire se è vero? Se non ci fornite i dati non possiamo saperlo. Inoltre moltissimi di questi percettori di vitalizi ricevono anche una pensione Inps importante».
Probabilmente viene dal lavoro svolto in altri momenti, no?
«Be’, in moltissimi casi negli stessi anni in cui quelle persone sedevano in un’assemblea elettiva, l’Inps accreditava per loro gli oneri contributivi figurativi per un’altra attività di lavoro. Quindi alcuni di loro godono di trattamenti molto importanti. Non sempre è vero che tagliando i vitalizi si lasciano le persone senza pensione. Spesso non è così».
Sulle pensioni di invalidità, la salute varia con la regione. La Calabria è nociva, il Veneto no... da certificati Inps.
«Oggi servono quattro visite per il riconoscimento dell’invalidità: medico di base, Azienda sanitaria locale, medico Inps, e in alcuni casi la visita specialistica. È un processo traumatico per chi ha un’invalidità. Grazie ad una convenzione è però possibile accentrare tutto all’Inps. L’obiettivo è alleggerire il peso per le famiglie, ridurre i tempi e avere valutazioni più uniformi. Siamo pronti a sottoscrivere il patto con tutte le regioni. Partendo dalle disabilità dei minori, sui cui abbiamo già un protocollo sperimentale con i maggiori ospedali pediatrici: Gaslini, Meyer, Bambino Gesù».
Da questo mese l’Inps fa le visite mediche per malattia degli statali. Come sta andando?
«In dieci giorni abbiamo fatto 5 mila visite. In molti casi abbiamo riscontrato idoneità al lavoro».
L’Italia oggi vede nette revisioni al rialzo delle stime di crescita. Quanto è strutturale questa ripresa?
«È bello rivedere tassi di crescita all’1,5% dopo anni. Ma non dimentichiamo che siamo sotto la media Ue di mezzo punto, anche se prima lo eravamo di uno. L’economia italiana resta nettamente sotto ai suoi livelli del 2008, mentre l’Europa è nettamente sopra».
Siamo di circa il 6% sotto, l’Europa in media di sei sopra.
«C’è un ritardo di 12 punti che si è accumulato, quindi un rimbalzo doveva arrivare. Ora la situazione bancaria è rasserenata, le imprese hanno molta più liquidità grazie a questo e alla Banca centrale europea. C’è stata una ripresa degli investimenti e l’aumento dei contratti stabili sostiene i consumi. Poi si fanno sentire il turismo e altri fattori. Questo ci dice che la parte strutturale della ripresa è limitata e che i rischi di deragliamento sono sempre presenti. Evitiamo i messaggi sbagliati».
Quali sono i messaggi sbagliati?
«Delle pensioni le ho già detto».

Corriere 15.9.17
Perché l’assassino di Noemi non è stato fermato
di Andrea Pasqualetto

Ha rischiato di essere linciato l’assassino 17enne di Noemi Durini (16), che ha salutato e sorriso alla folla di un migliaio di persone davanti alla caserma di Specchia, nel Salento. Ci si chiede perché un giovane tanto violento non sia stato fermato in tempo. Ma gli inquirenti: «Di denunce così ne arrivano a decine».

LECCE I lividi sul volto, le fughe da casa, i problemi a scuola. Mamma Imma era molto preoccupata per Noemi e per la tormentata relazione con quel ragazzo che considerava la causa prima dei suoi mali. «È violento, sbandato e pericoloso, fate qualcosa per favore».
A maggio dai carabinieri
Era lo scorso maggio quando bussò alla porta del comandante dei carabinieri di Specchia, Giuseppe Borrello, chiedendo che venisse allontanato da Noemi.
Lo fece formalmente, presentando una denuncia contro di lui e in qualche modo anche un po’ contro Noemi, visto che lei continuava a frequentarlo, prigioniera forse di un vortice dal quale non usciva. «E non stupitevi se siamo ancora qua, abbiamo detto per sempre e per sempre sarà», scriveva il 12 agosto per festeggiare il primo anno di fidanzamento. Contro tutto e contro tutti. Nonostante le botte, le furiose litigate e i tre Tso (trattamento sanitario obbligatorio) a cui è stato sottoposto il diciassettenne di Alessano negli ultimi sei mesi. La madre aveva però capito che Noemi era entrata in un tunnel pericoloso e con lei l’aveva capito anche la sorella di Noemi, Benedetta, entrambe unite nella condanna del ragazzo.
A luglio nel Tribunale dei minori
Oltre alla denuncia finita alla procura per i minorenni di Lecce, Imma Rizzo aveva chiesto anche l’intervento dei servizi sociali perché sentiva che la situazione poteva sfuggire al suo controllo. Il primo luglio è stata convocata da un assistente del Tribunale dei minori. «Se è un problema, se può essere d’aiuto a mia figlia, intervenite anche su di lei», aveva implorato quel giorno. E il tribunale ha chiesto al Comune di Specchia una relazione sulla situazione familiare di Noemi. «Sulla base di questo documento e di valutazioni autonome dei magistrati, il Tribunale ha emesso un provvedimento di presa in carico della ragazza da parte dei servizi sociali», ha spiegato il sindaco di Specchia, Rocco Pagliara.
Il provvedimento sarebbe però giunto sul tavolo degli operatori sociali solo il 6 settembre. Troppo tardi. Noemi era già stata uccisa e sepolta sotto un cumulo di pietre nelle campagne di Castrignano del Capo.
«Di segnalazioni così ne arrivano decine»
Le domande sono naturalmente quelle: perché si è perso tanto tempo? Perché non si è fatto nulla per bloccare un giovane violento? Gli inquirenti rispondono in modo univoco: «Perché dalla denuncia non emergeva una situazione gravissima. Alla ragazza erano stati dati pochi giorni di prognosi per lesioni da schiaffeggiamento: di denunce come quella ne arrivano a decine». E i Tso? E il fatto che il ragazzo scorrazzasse in macchina senza patente? «Sui trattamenti stavamo facendo delle verifiche», rispondono alla Procura per i minorenni. «Quanto alla patente, se solo l’avessimo scoperto una volta…», conclude amaro il comandante dei carabinieri.
Dietro alla tragedia emerge un ambiente di forte degrado. Due famiglie che si odiavano: quella di lei e quella di lui, entrambi a rifiutare ferocemente i fidanzati dei loro figli. Dopo la denuncia della madre di Noemi è stata la volta dei genitori di lui, che hanno puntato il dito sulla ragazza presentando una controdenuncia. La madre del giovane ha caricato le parole con la polvere da sparo: «È stata lei a farlo diventare un mostro, hanno mandato gente da Taviano per ucciderlo». Senza pietà.
«Follie», ha tagliato corto l’avvocato che assiste la famiglia di Noemi, Mario Blandolino. Con lui, mamma Imma ha indagato per prima sulla scomparsa della figlia. Sapeva che era sparita fra le 2 e le 7 del mattino del 3 settembre. Ha cercato una telecamera nella zona, l’ha trovata, ha visionato il filmato e ha scoperto che Noemi era uscita alle cinque di notte per incontrare il suo fid

Il Fatto 15.9.17
Insulti e calunnie: le due americane ora hanno paura
di Davide Vecchi

Hanno paura. E sono ancora sotto choc. Non solo per la violenza che hanno denunciato di aver subito. Anche per le insinuazioni sul loro conto circolate dopo essersi rivolte alla questura per indicare due carabinieri come loro stupratori. Persino il sindaco di Firenze, Dario Nardella, ha rilasciato una dichiarazione a dir poco infelice: “Gli studenti stranieri devono imparare che questa non è la città dello sballo”. C’è poi voluto l’intervento del legale di una delle due, Gabriele Zanobini, per smentire la bufala dell’assicurazione antistupro sottoscritta in vista del soggiorno in Italia e quello del procuratore capo di Firenze, Giuseppe Creazzo, per negare con fermezza un altro dato falso diffuso da alcuni giornali secondo il quale a Firenze le americane denunciano con frequenza di essere violentate ma le indagini rivelano che si tratta di casi inesistenti.
A distanza di una settimana esatta, le due ragazze statunitensi di 19 e 21 anni si sentono quasi prigioniere più che vittime. Portate fuori Firenze, in campagna, in un ambiente protetto, sono state entrambe raggiunte dai familiari e vogliono rientrare il prima possibile a casa. In Italia erano arrivate appena dieci giorni prima di incontrare i due carabinieri. Per studiare. L’Accademia degli stranieri alla quale si erano iscritte per un corso di sei mesi si era raccomandata: “Fidatevi solamente delle forze dell’ordine”. Loro hanno seguito il consiglio. E si sono ritrovate a denunciare di essere state violentate proprio da due uomini dell’Arma. I due, Pietro Costa e Marco Camuffo, si sono presentati da indagati in Procura ed entrambi hanno sostenuto che le ragazze erano consenzienti. Il più giovane, Costa, ha aggiunto di essersi adeguato a quanto faceva Camuffo, più alto di grado, spingendosi ad affermare – stando a quanto riporta il Corriere – che sono state “loro a insistere”. La Procura ha chiesto l’incidente probatorio e ora le giovani dovranno essere sentite. L’avvocato Zanobini ha chiesto che l’incontro con il giudice per le indagini preliminari avvenga in maniera “protetta”, ma si dovrà attendere che le condizioni delle giovani migliorino e che le due se la sentano. Secondo il personale sanitario che le sta assistendo non sarebbero ancora in grado di affrontare di nuovo il ricordo di quella notte. La 19enne, inoltre, è italo-americana, quindi comprende bene la nostra lingua. Per questo i familiari e le persone che le stanno accanto cercano di non farle usare internet né leggere i giornali.
Ieri il magistrato titolare del fascicolo, Ornella Galeotti, ha sentito le coinquiline delle due americane. Poco è trapelato. A quanto si apprende le giovani hanno raccontato lo stato confusionale delle ragazze la mattina di venerdì, i dubbi sul da farsi: aggredite da due carabinieri, in uniforme, armati. Una denuncia difficile da presentare. La conferma dell’avvenuto rapporto sessuale è poi arrivata dai due presunti aggressori. Giorni dopo l’accaduto. Insieme a quella difesa, che per le americane è come un nuovo stupro: “Erano consenzienti”. Gli inquirenti attendono l’esito del test del Dna sui reperti prelevati nel palazzo e dell’esame probatorio. Per domani intanto, proprio in solidarietà delle due ragazze americane, l’associazione “Nonunadimeno” ha organizzato un presidio in piazzale Michelangelo dalle 20.30 davanti alla discoteca Flo. Proprio dove una settimana fa esatta le due studentesse salivano sulla gazzella dei carabinieri.

Il Fatto 15.9.17
I valorosi servi dello Stato e le due donne tentatrici
Indulgenza - Nessuno condanna la condotta dei carabinieri. Qualcuno spieghi perché sono ancora a piede libero
di Daniela Ranieri

Vorremmo che uno bravo in codice penale ci spiegasse perché i due carabinieri denunciati per stupro da due studentesse americane a Firenze non sono in stato di fermo in galera, mentre i quattro africani (noti alle cronache come “le belve di Rimini”) accusati dello stesso reato, sì. In tutta evidenza, c’è ancora una possibilità che la versione fornita dai due tutori dell’ordine – “le ragazze erano consenzienti” e “non ci eravamo accorti che fossero ubriache” – possa rappresentare un’attenuante e non un’aggravante del loro comportamento.
In una nota ufficiale, il comandante generale dell’Arma dei carabinieri Tullio Del Sette ha definito la condotta dei gendarmi – che si chiamano Marco Camuffo e Pietro Costa – “un’onta grave per l’Arma”; come se non bastasse un comandante generale indagato per rivelazione del segreto d’ufficio e favoreggiamento (nei confronti del clan dell’allora presidente del Consiglio Renzi). Ma, soprattutto, come se il danno più grave fosse quello commesso contro la reputazione dei carabinieri e non contro due giovani donne in stato di minorità fisica e psicologica; come se il preteso stupro fosse solo un’infrazione da punire con una sospensione e non un atto di violenza perpetrato al riparo della divisa.
A più di una settimana dal doppio rapporto sessuale accertato (di cui uno sulle scale di casa e uno in ascensore), non risulta che nessuno abbia chiesto scusa alle vittime: né i due maschi incontinenti, né i generaloni (nemmeno l’altro indagato con Del Sette e il ministro Lotti per lo stesso reato, il comandante dei carabinieri in Toscana Saltalamacchia), né il sindaco ereditario Nardella, che ha anzi approfittato dello spiacevole episodio per fare una ramanzina agli studenti gozzoviglianti di notte per le strade di Firenze (sottinteso: poi non andate a lamentarvi se i carabinieri vi stuprano). Per una concomitanza alchemica di cose, quindi, i due valorosi servitori dello Stato sono tuttora a piede libero e nessuno li accomuna al regno animale, nonostante abbiano ammesso i fatti dando però la colpa, come tutti i vili dalla Bibbia in poi, alle donne tentatrici. Come se anche soltanto abbandonare il servizio per abbordare due ragazze, usare l’auto di servizio per accompagnarle a casa senza che ce ne fosse necessità (non erano sobrie?) e sottoporle a un rapporto sessuale in seguito al quale una delle due è svenuta, fosse tutto sommato una caduta di stile, “una leggerezza” da farfalloni.
Il clima di indulgenza attorno a questi due nostri nuovi marò non deriva soltanto dal loro essere maschi caucasici, ma anche dal fatto che le due ragazze, come ha perspicacemente rilevato Nardella, si erano date allo “sballo” nella sua città priva di servizi notturni. Ne consegue che per una donna essere violentata di notte sul pianerottolo di casa da quelli che dovrebbero difenderla è meno grave che dai “marocchini stupratori” per strada o in spiaggia.
In fondo, gli è andata bene. Stavolta i giornali non hanno pubblicato i verbali coi dettagli delle violenze subìte, come ha fatto Libero ai danni della donna polacca violentata a Rimini perché fosse ben chiaro di cosa sono capaci le “belve disumane”. Salvini, sempre pronto a invocare la castrazione chimica contro gli stupratori stranieri, ha parlato di “vicenda molto strana”. Gli amici renziani dei carabinieri a vario titolo indagati si confermano ultra-garantisti. Il Costa ha riciclato la scusa che tante volte deve aver raccolto nei verbali di stupri: “Sono state loro a invitarci, hanno insistito perché salissimo a casa”… e l’uomo, si sa, è debole. E così due indagati, che possono, loro sì, inquinare le prove, sono liberi come l’aria, sostanzialmente protetti da pm, politica e forze dell’ordine, e delle due vittime poco importa. Devono essere i famosi “nostri valori”.

Corriere 15.9.17
I risarcimenti negati a Sollecito «Troppe bugie»
Raffaele Sollecito fornì «affermazioni menzognere e contraddittorie»; le sue dichiarazioni hanno «trovato smentite puntuali sotto ogni aspetto». Con questa motivazione la Cassazione ha respinto il 28 giugno la richiesta di risarcimento per ingiusta detenzione, negato anche in Appello, per i 4 anni di carcere (dal 6 novembre 2007 al 3 ottobre 2011) nell’ambito del procedimento per la morte a Perugia della studentessa inglese, nel quale Sollecito è stato poi assolto in via definitiva il 27 marzo 2015.

Il Fatto 15.917
Dai postini ai magistrati. Madrid blocca la Catalogna
Al via la campagna per l’indipendenza tra nuove tensioni con il governo autonomista
Dai postini ai magistrati. Madrid blocca la Catalogna
di Elena Marisol Brandolini

La notizia è arrivata nel tardo pomeriggio di ieri, poco prima dell’apertura della campagna elettorale a Tarragona dei partiti e movimenti indipendentisti per il referendum del 1° ottobre: c’è l’accordo tra la sindaca di Barcellona Colau e la Generalitat per consentire il voto ai barcellonesi in condizioni di normalità. Non ne hanno svelato i dettagli per impedire l’intervento di giudici e polizia, ma la soddisfazione è grande tra gli indipendentisti e la sinistra sovranista dei Comuns.
Continua infatti l’escalation di iniziative nella strategia del governo spagnolo per fermare il referendum sull’indipendenza. L’atto di apertura della campagna referendaria di Junts pel Sí e Cup è stato seguitissimo, alla presenza della presidente del Parlamento catalano Forcadell e del presidente e vicepresidente della Generalitat Puigdemont e Junqueras, organizzato dall’Assemblea Nacional Catalana e Òmnium Cultural.
Fino all’ultimo l’incognita era se la manifestazione si sarebbe potuta mantenere dopo le minacce del delegato del governo spagnolo Millo, secondo cui sarebbero illegali tutti gli atti collegati al referendum.
Tono molto duro da parte della vicepresidente del governo spagnolo Sáenz de Santamaría che ha insistito sul fatto che non ci sarà alcun referendum e che il dialogo è impossibile a meno che Puigdemont non faccia marcia indietro su tutto.
Mentre i 712 sindaci , rappresentanti il 75% dei primi cittadini catalani, sono in attesa di ricevere la notificazione dalla procura generale a presentarsi a dichiarare come indagati, una nuova dose di querele si è abbattuta questa volta sulla sindaca di Vilanova i la Geltrú, presidente dell’Associació de Municipis per la Independència, Lloveras e sul presidente dell’Associació Catalana de Municipis, Buch; nonché sui 7 componenti della Giunta elettorale catalana.
Per ostacolare la logistica del referendum, l’azienda pubblica delle poste, Correos, ha trasmesso ai suoi impiegati in Catalogna una direttiva con l’ordine di non inviare missive contenenti materiale referendario. Le 4 principali associazioni di rappresentanza dei magistrati hanno invitato la cittadinanza a disobbedire alla Generalitat, perché questa ha deliberatamente attuato contro la legalità costituzionale. Per quanto riguarda la politica spagnola, il leader di Podemos Iglesias ha denuncianto che “re, governo, partiti monarchici e procura generale, insieme, non proiettano la loro forza ma la loro debolezza e paura per la democrazia”. Per poi insistere che “negoziare un referendum con garanzie è la via più democratica”. Il Psoe, invece, ha sottolineato che non bisogna partecipare ai tavoli elettorali per un referendum illegale.
Puigdemont, in un’intervista sulla tv catalana, si è riferito al giorno successivo il referendum, affermando che “il 2 ottobre, i politici del PP saranno inabilitati a gestire qualunque risultato emerga dalla consultazione”. La Generalitat ha acquisito un collaboratore d’eccezione nelle ultime ore: Julian Assange, confinato da anni nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, l’aiuterà a proteggere la nuova pagina web del referendum, dopo la chiusura per ordine giudiziario di quella del governo.

il manifesto 15.9.17
Netanyahu campione dell’indipendenza curda
Medio Oriente. Il premier offre il sostegno di Israele alla creazione di uno Stato curdo. Sa che la frantumazione dell'Iraq e, in futuro, forse anche della Siria indebolisce gli avversari di Israele e mette in difficoltà anche Turchia e Iran
di Michele Giorgio

GERUSALEMME I riflessi del referendum per l’indipendenza del Kurdistan iracheno, previsto a fine mese, continuano ad infiammare il dibattito regionale e a tenere in fibrillazione gli Stati coinvolti direttamente, l’Iraq, e indirettamente, Siria, Turchia e Iran. La consultazione però interessa anche gli Stati Uniti – artefici della “piena autonomia curda” quando al potere in Iraq c’era il nemico Saddam Hussein – la Russia e diversi altri Paesi. Tra questi Israele, da sempre vicino alla causa dei curdi iracheni. Così mentre sono in corso intensi negoziati e movimenti dietro le quinte per affondare il referendum – l’alleanza che la Turchia di Erdogan sta provando a stringere con l’Iran ne è una dimostrazione – o per imporre il rinvio della consultazione, il premier israeliano Netanyahu è stato il primo leader “occidentale” a pronunciarsi apertamente a favore della proclamazione di uno Stato curdo. I palestinesi sotto occupazione israeliana invece dovranno aspettare, forse per sempre. L’uomo alla guida del governo più a destra della storia di Israele ha tuttavia precisato che per lui il Pkk di Abdallah Ocalan è un’organizzazione «terroristica», prendendo le distanze dalle affermazioni di senso opposto fatte di recente dall’ex vice capo di stato maggiore Yair Golan.
Tanta passione per i diritti dei curdi si spiega con la lettura israeliana dell’attuale quadro politico e strategico della regione. Il referendum curdo, se il voto come si prevede sarà a favore della separazione dall’Iraq, avrà un effetto domino a partire dalla Siria. Qui i curdi, con l’appoggio americano, di fatto già controllano e governano gran parte del nord del Paese, ed è opinione diffusa che subito dopo il Kurdistan iracheno sarà il Rojava a votare per l’indipendenza, forse la prossima primavera. Non sorprende che negli ultimi mesi Damasco abbia usato toni più duri nei confronti delle intenzioni dei curdi siriani, anche perché sono sostenute da Washington. La nascita di entità separate in Iraq e in Siria va nella direzione auspicata dal governo Netanyahu che punta all’indebolimento degli avversari di Israele, a cominciare dalla Siria. Senza sottovalutare che l’indipendenza curda in Iraq metterebbe in difficoltà anche il “nemico numero uno”, l’Iran. Israele ha tutto da guadagnare dall’acuirsi della crisi tra curdi e arabi e il suo premier gioca sui tavoli della diplomazia tutte le carte che ha in mano. In questi giorni sta riallacciando buone relazioni in America latina dove, fino a qualche tempo fa, si tifava apertamente per i diritti dei palestinesi. Netanyahu è stato accolto con entusiasmo dal presidente argentino Mauricio Macri e ha rafforzato i legami (storici) tra Israele e Colombia.
L’attivismo diplomatico del premier israeliano punta molto anche sullo sport. Israele ora aspetta il Giro d’Italia 2018 che per la prima volta nella sua centenaria storia partirà al di fuori dell’Europa, grazie anche ai milioni di euro che gli sponsor israeliani hanno messo sul piatto. La corsa prevede tre tappe in Terra Santa e sarà presentata lunedì prossimo a Gerusalemme, alla presenza di due campioni: Ivan Basso e Alberto Contador. Obiettivo principale è fare in modo che il ciclismo internazionale celebri a Gerusalemme i 70 anni dalla nascita dello Stato di Israele.
Netanyahu non raccoglie solo successi. Ufficialmente è solo un rinvio eppure la decisione del presidente del Togo, Faure Gnassingbè, di rimandare a data da destinarsi il vertice Africa-Israele che si sarebbe dovuto tenere dal 23 al 27 ottobre prossimo a Lomè, rappresenta un duro colpo per il premier israeliano. Al rinvio ha contribuito in maniera decisiva l’opposizione al vertice da parte di alcuni Stati africani-arabi, in particolare l’Algeria, la Mauritania, il Marocco e la Tunisia (esplicitamente ringraziati dall’Olp). Netanyahu – che nel 2016 aveva visitato Ruanda, Kenya, Uganda, Etiopia – punta al riavvicinamento con diversi Paesi africani per sottrarli al sostegno alla causa palestinese, soprattutto in sede Onu. E per questo potrebbe organizzare il vertice in Israele nel 2018 con gli Stati africani che non fanno parte della Lega araba.

il manifesto 15.9.17
16-18 settembre, per non dimenticare Sabra e Shatila
Israele-Palestina. Quel massacro, più di tanti altri, fu odioso, realizzato con lo stratagemma di lasciar partire il contingente internazionale e di aver imposto l’esilio dei fedayin, i giovani combattenti guidata da Arafat, verso la Tunisia
di Stefania Limiti

Mentre a Roma si litiga per la targa intestata alla grande figura di Yasser Arafat, in Libano oltre 500 mila profughi palestinesi, nei loro poveri campi, ospitano i rifugiati di altre guerre e di altre occupazioni militari.
È il paradigma tragico, diremmo grottesco, di un popolo dimenticato, che si ostina, tuttavia, contro forze enormi, a vivere e a rivendicare la propria appartenenza nazionale. Inascoltati, dimenticati, sempre scacciati: anche dalla toponomastica. Il vice sindaco di Roma Luca Bergamo, che ha avuto la delega dalla sindaca Raggi a gestire la spinosa (pazzesco!) faccenda della targa, riferisce che l’attuazione delle delibera (la n. 165 del 28 luglio, prevede che sia intitolato un parco ad Yasser Arafat, nella zona di Centocelle, e una piazza al Rabbino Capo Emerito Elio Toaff a Colle Oppio) è ferma e rimandata a data da destinarsi. Non si farà.
Nonostante la richiesta di una ventina di associazioni e l’opportunità di aprire un dibattito pubblico destinato, invece, a morire qui. Troppe le pressioni della comunità ebraica per impedirlo, troppo forti per essere respinte dalla giunta Raggi. Piccole meschinità accanto a una grande tragedia dall’altra. Per capire la questione palestinese è molto importante andare in Libano e conoscere la realtà di quel pezzo di umanità scacciata dalle proprie case nel 1947 e poi venti anni dopo.
Uomini e donne che non sono tornati indietro e che non possono guardare il futuro perché non hanno patria, cittadini di serie b in un paese ospitante. Il Comitato Per non dimenticare Sabra e Chatila, da quando è stato fondato nel 2001 da Stefano Chiarini e grazie all’impegno de il manifesto e del giornale indipendente libanese As Safyr, fa proprio questo: si reca lì ogni anno, in occasione dell’anniversario del massacro di Sabra e Chatila, due poverissimi campi profughi alla periferie di Beirut, dove i macellai falangisti sotto la regia dell’occupante israeliano e le direttive del falco Ariel Sharon fecero scempio dei corpi di duemila persone.
Un orrore che si consumò dal 16 al 18 settembre del 1982 e che svegliò l’umanità dormiente: i palestinesi ancora massacrati! Anche la sinistra italiana, affascinata dal mito dei kibbutz e dalle esperienze ‘socialisteggianti’ del neo-stato di Israele, dovette guardare in faccia la realtà dell’occupazione militare e dei suoi crimini.
Quel massacro, più di tanti altri, fu odioso, realizzato con lo stratagemma di lasciar partire il contingente internazionale e di aver imposto l’esilio dei fedayin, i giovani combattenti guidata da Arafat, verso la Tunisia. Fu fatto per dare una lezione ai palestinesi: non esistete e noi vi schiacceremo. Ma i palestinesi da allora hanno continuano a lottare: tanti gli errori, tragiche le loro divisioni ma di certo hanno avuto la straordinaria forza di rivendicare la loro volontà di essere un popolo e di non permettere all’ occupante di annientarli.
Si conosce da vicino tutto questo andando in Libano, visitando i campi, parlando con le forze politiche sociali, ricordando che il Diritto al ritorno è sancito dalla Legge internazionale. Anche quest’anno in molti hanno scelto di andare insieme al Comitato Per Non dimenticare Sabra e Shatila dal 16 al 23 settembre. Dobbiamo tutto questo all’impegno e alla intelligenza di Stefano Chiarini e di Maurizio Musolino. Dicono i poeti che non si muore finché altri ti portano nel cuore: entrambi scomparsi prematuramente, sono nel nostro cuore e vivono tra noi con la loro passione per il Medio Oriente e la solidarietà, l’amore, verso il popolo palestinese.

il manifesto 15.9.17
Non Stop Apartheid
Ridefinizione di un crimine. In Sudafrica i limiti di una liberazione che non libera dal capitalismo razziale sono evidenti. E spiegano il modo in cui opera oggi il dominio israeliano sulla Palestina
di Haidar Eid, Andy Clarno

La Convenzione Internazionale Onu sulla soppressione e la punizione del crimine di apartheid definisce l’apartheid un crimine che comporta «atti disumani commessi al fine di stabilire e mantenere il dominio di un gruppo razziale su ogni altro e la sua sistematica oppressione». Lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale parla di «un regime istituzionalizzato di oppressione sistematica e di dominio di un gruppo razziale su qualsiasi altro gruppo razziale».
Pur riconoscendo l’importanza del diritto internazionale, è necessario notarne i limiti. Una specifica preoccupazione riguarda la definizione internazionale di apartheid. Focalizzarsi solo sul regime politico non fornisce basi forti per la critica degli aspetti economici e apre la strada a un futuro di post-apartheid in cui dilaga la discriminazione economica.
NEGLI ANNI ’70 E ’80, i neri sudafricani furono impegnati in urgenti dibattiti su come intendere il regime di apartheid che combattevano. Il blocco più potente all’interno del movimento di liberazione – l’African national congress (Anc) – riteneva che l’apartheid fosse un sistema di dominio razziale e che la lotta dovesse incentrarsi sull’eliminazione delle politiche razziste e sulla richiesta di uguaglianza di fronte alla legge. I neri radicali rigettavano questa analisi. Il dialogo tra il Black Consciousness Movement e i marxisti indipendenti diede vita a una definizione alternativa di apartheid, intesa come sistema di «capitalismo razziale». La lotta avrebbe dovuto confrontare simultaneamente lo Stato e il sistema capitalista razziale o, dicevano, il Sudafrica del post-apartheid sarebbe rimasto diviso e ineguale. La transizione degli ultimi 20 anni ha dato sostegno a questa tesi. Nel 1994 l’apartheid legale è stata abolita e i neri sudafricani hanno ottenuto uguaglianza di fronte alle legge: diritto di voto, diritto a vivere ovunque, diritto di movimento senza permessi.
Ma nonostante la democratizzazione dello Stato, la transizione sudafricana non ha affrontato le strutture del capitalismo razziale.
Durante i negoziati, l’Anc ha fatto importanti concessioni per ottenere il sostegno dei bianchi sudafricani e l’élite capitalista. Ha accettato di non nazionalizzare terre, banche e miniere e ha riconosciuto protezione costituzionale all’esistente distribuzione della proprietà privata, nonostante la storia di espropriazione coloniale. Ha adottato una strategia economica neoliberista promuovendo libero mercato, industria orientata all’export e privatizzazione degli affari dello Stato. Come risultato, il Sudafrica post-apartheid rimane uno dei paesi più diseguali al mondo.
LA RISTRUTTURAZIONE neoliberista ha condotto all’emersione di una piccola élite nera e una crescente classe media nera in alcune parti del paese. La vecchia élite bianca controlla ancora la stragrande maggioranza di terre e ricchezze.
La deindustrializzazione e la crescente porzione di popolazione costretta a lavori casuali hanno indebolito il movimento dei lavoratori, intensificato lo sfruttamento della classe operaia nera e prodotto un crescente surplus razziale di popolazione che vive in una disoccupazione permanente e strutturale.
Il tasso di disoccupazione raggiunge il 35%, includendo chi si è arreso e non cerca più lavoro. In alcune aree supera il 60% e i posti di lavoro disponibili sono precari, a termine e con salari bassi. I neri poveri si trovano di fronte anche alla mancanza di terre e case. Invece di redistribuire la terra, il governo dell’Anc ha adottato un programma basato sul mercato: lo Stato aiuta i clienti neri ad acquistare terra di proprietà dei bianchi. Questo ha fatto crescere una piccola classe di proprietari neri ricchi, ma solo il 7,5% delle terre sudafricane è stato redistribuito.
Allo stesso modo, il costo crescente delle case ha moltiplicato il numero di persone che vive in baracche, edifici occupati e insediamenti informali, nonostante i sussidi statali e le garanzie costituzionali ad un’abitazione dignitosa.
LA RAZZA CONTINUA A DEFINIRE l’accesso diseguale a casa, educazione e lavoro nel Sudafrica post-apartheid. E determina la rapida crescita di security privata, l’industria con lo sviluppo più veloce dopo gli anni ’90. Le compagnie di sicurezza privata e le associazioni dei residenti benestanti hanno trasformato i sobborghi storicamente bianchi in comunità fortificate, con muri lungo le proprietà private, cancellate intorno ai quartieri, ronde, sistemi d’allarme e team armati per la risposta rapida.
Secondo il diritto internazionale, l’apartheid termina con la trasformazione dello Stato razziale e l’eliminazione della discriminazione razziale legalizzata. Eppure anche un esame superficiale del Sudafrica dopo il 1994 rivela le insidie di tale approccio e l’importanza di un ripensamento della definizione di apartheid. L’uguaglianza legale formale non ha prodotto una reale trasformazione sociale ed economica. Al contrario, il neoliberismo del capitalismo razziale ha consolidato la diseguaglianza creata da secoli di colonizzazione e apartheid.
In una parola, l’apartheid non è finita, è stata ristrutturata. Fare riferimento esclusivamente alla definizione legale internazionale di apartheid potrebbe condurre a problemi simili in Palestina.
GUARDARE ALL’APARTHEID attraverso queste lenti permette di capire che il colonialismo di insediamento israeliano opera oggi tramite il capitalismo razziale neoliberista. Negli ultimi 25 anni Israele ha intensificato il progetto coloniale di insediamento sotto le spoglie della pace. Oslo ha reso Israele in grado di frammentare ulteriormente i Territori Occupati e di integrare il dominio militare diretto con aspetti di dominio indiretto. La Striscia di Gaza è stata trasformata in un «campo di concentramento» e in un modello di «riserva per nativi» attraverso un assedio mortale e medievale descritto da Richard Falk come «preludio al genocidio» e da Ilan Pappe come un «genocidio incrementale». In Cisgiordania la strategia neocoloniale israeliana prevede la concentrazione della popolazione palestinese nelle aree A e B e la colonizzazione dell’Area C.
La riorganizzazione del dominio israeliano si è realizzata insieme alla ristrutturazione neoliberista dell’economia. Dagli anni ’80, Israele è passato da un’economia guidata dallo Stato e focalizzata sul consumo interno a un’economia guidata dalle corporazioni e integrata nei circuiti del capitale globale. Tale ristrutturazione ha generato immensi profitti privati mentre si smantellava il welfare, si indeboliva il movimento dei lavoratori e si aumentavano le diseguaglianze. Riducendo di molto la necessità di forza lavoro palestinese.
LA VITA DELLA CLASSE OPERAIA palestinese è diventata via via più precaria. Con accesso limitato al mercato del lavoro in Israele, povertà e disoccupazione si sono moltiplicate. Sebbene l’Autorità palestinese (Anp) abbia sempre sostenuto una visione neoliberista dell’economia guidata dal settore privato, rivolta all’export e al libero mercato, ha dapprima risposto alla crisi creando migliaia di posti di lavoro pubblici.
Dal 2007, tuttavia, l’Anp segue un duro programma economico neoliberista che punta al taglio dei posti di lavoro nel pubblico e all’espansione del settore di investimento privato. Ma il settore privato è rimasto debole e frammentato e le politiche neoliberiste hanno ulteriormente peggiorato le condizioni di vita della classe bassa palestinese, contribuendo alla crescita di una piccola élite nei Territori Occupati composta dalla leadership dell’Anp, capitalisti palestinesi e funzionari delle ong. Chi visita Ramallah resta sorpreso nel vedere ville, palazzi, ristoranti di lusso, hotel a 5 stelle. Non sono i segni di un’economia prospera ma della crescente divisione di classe.
gaza tunnel reuters
Un tunnel clandestino tra Gaza e l’Egitto (foto Ap)
Allo stesso modo una nuova borghesia affiliata a Hamas è emersa a Gaza dal 2006. Il suo benessere dipende dalla calante «industria dei tunnel», il monopolio dei materiali di costruzione contrabbandati dall’Egitto e dei pochi beni importati da Israele.
IL NEOLIBERISMO insieme al progetto di colonialismo di insediamento ha tramutato i palestinesi in popolazione usa e getta. Ne I dannati della terra, Frantz Fanon avverte dell’insidia di un movimento di liberazione che termina con uno Stato indipendente governato da un’élite nazionale che imita il potere coloniale. Muoversi dall’indipendenza politica alla trasformazione sociale e la decolonizzazione è la sfida che oggi affronta il Sudafrica del post-apartheid. Evitare questa trappola è la sfida di fronte al movimento di liberazione palestinese.
* Docente di Letteratura postcoloniale e postmoderna all’università al Aqsa di Gaza
** Docente di Sociologia e Studi african american e direttore dell’Istituto di giustizia sociale dell’Università dell’Illinois a Chicago
La versione integrale originale di questo articolo è stata pubblicata dal network Al Shabaka ed è disponibile qui in lingua inglese

Repubblica 15.9.17
Rohingya
Il rischio che il jihadismo possa cavalcare la crisi
Con i musulmani nel ruolo di vittime, una causa finora marginale se non ignorata può trasformarsi in elemento di mobilitazione propagandistica dello Stato islamico contro “gli infedeli”. Al silenzioso opportunismo del Nobel San Suu Kyi si somma il controsenso di una violenza scatenata su una minoranza nel nome del buddismo, religione “di pace”
di Roberto Toscano

Un libro di Steven Pinker pubblicato negli Stati Uniti sei anni fa, rapidamente diventato un best seller mondiale, portava il titolo: “Il declino della violenza. Perché quella che stiamo vivendo è probabilmente l’epoca più pacifica della storia”. Può darsi che i dati quantitativi che l’autore cita a sostegno della propria tesi siano inconfutabili ( anche se venendo dopo il XX secolo, quello di due guerre mondiali e della Shoah, l’inizio del XXI secolo risulta ovviamente meno micidiale), ma forse sarebbe più interessante e più significativo andare oltre i numeri e focalizzarsi sulle modalità della violenza e sul contesto politico- culturale in cui essa oggi si svolge.
Nel tempo che stiamo vivendo, che potremmo definire della “globalizzazione imperfetta”, le guerre non finiscono (pensiamo ai sedici anni del conflitto afgano, che non sembra alla vigilia di una soluzione), ma si aggiungono l’una all’altra. E soprattutto non sono guerre nel senso di scontri organizzati fra eserciti, ma piuttosto conflitti interni in cui intervengono soggetti esterni, di solito contribuendo a renderli interminabili.
Da qualche tempo all’elenco di violenze e atrocità che caratterizzano il nostro tempo, che con tutto il rispetto per Pinker si fa molta fatica a definire il più pacifico della storia, si è aggiunta la crisi del Myanmar ( il paese che fino al 1989 si chiamava Birmania), dove il governo ha scatenato una violenta pulizia etnica nei confronti dei rohingya, circa un milione di musulmani che vivono nella regione, Rakhine, che confina con il Bangladesh. I rohingya - anche se la loro presenza sul territorio del Myanmar, la Birmania delle innumerevoli etnìe, si è configurata gradualmente nei decenni se non nei secoli – dal 1982 vengono ufficialmente considerati immigranti illegali dal Bangladesh, gli è negata la cittadinanza e vivono in condizioni di profondo sottosviluppo e mancanza di diritti. Ma come si è passati dall’esclusione alla violenza di massa? L’innesco è costituito da atti di guerriglia messi in atto a partire dal 2012 da gruppi di militanti rohingya contro posti di polizia e uffici governativi. Azioni condotte con armi rudimentali e non certo capaci di mettere in crisi le agguerrite forze armate del Myanmar, ma che hanno suscitato una durissima reazione del governo appoggiato dalla maggioranza della popolazione, buddista e particolarmente sensibile alla prospettiva di una minaccia del radicalismo islamico, che come noto si è ultimamente esteso al Sud-est asiatico, dal Bangladesh all’Indonesia alle Filippine.
Una minoranza senza diritti e repressa che si ribella, scatenando una feroce reazione da parte del governo centrale: una storia che abbiamo visto più volte, e in varie parti del mondo. Ma se oggi il caso birmano attrae tanta attenzione a livello mondiale è per la presenza di una protagonista della causa dei diritti umani, Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace nel 2012, liberata nel 2010 dal domicilio coatto in cui la giunta militare al governo l’aveva relegata per quindici anni e dal 2015 primo ministro di fatto ( anche se con il titolo di “consigliere di Stato”), nonché ministro degli Esteri. Ebbene, quella che per anni è stata una vera e propria icona della causa della libertà e dei diritti, oggi non solo si trova al vertice di un governo repressivo, ma definisce prodotto di “ disinformazione” le denunce che vengono formulate contro la repressione indiscriminata e la pulizia etnica nei confronti della minoranza musulmana. Non è solo l’opinione pubblica mondiale ad essere colpita e delusa, ma anche personalità che hanno avuto lo stesso riconoscimento, il Nobel per la pace. Malala, la giovane pachistana oggetto di un attentato talibano per la sua lotta a favore dell’istruzione delle donne e Premio Nobel nel 2014, ha espresso tutta la sua delusione per una grave, inspiegabile incoerenza, e Muhammad Yunus, il bengalese Premio Nobel nel 2006, è stato lapidario: «Ha perso le sue qualità». Ma le parole più forti e al tempo stesso commoventi sono quelle di Desmond Tutu, il vescovo anglicano protagonista della lotta pacifica contro l’apartheid in Sudafrica e Premio Nobel nel 1984: « Mia cara sorella: se il prezzo politico della tua ascesa alla più alta carica del Myanmar è il tuo silenzio, allora il prezzo è troppo alto».
Il silenzio come prezzo pagato per la “ realpolitik” in un paese in cui le forze armate rimangono, nonostante la formale sovrastruttura politica, al centro del potere reale: un’interpretazione possibile, ma forse non corretta, o quanto meno non esauriente.
Il problema potrebbe essere di altra natura, e riflettere, invece di un adattamento opportunista ai rapporti di forza, convinzioni reali e profonde. Si tratta del nazionalismo. Non andrebbe dimenticato che il padre della dissidente diventata primo ministro era Aung San, la figura di eroe nazionale considerata centrale nella storia dell’indipendenza birmana. Sua figlia ha coraggiosamente lottato, pagando un fortissimo prezzo personale, per la libertà del suo popolo, ma la questione di fondo, etica prima che politica è su dove venga tracciato il perimetro all’interno del quale si riconoscono diritti e doveri. Chi è il tuo popolo?
Nel caso del Myanmar va anche ricordato che dal 1962, data del colpo di Stato che ha portato al potere i militari, le carte di identità dei cittadini portano l’indicazione sia del gruppo etnico che della religione. Questa duplice appartenenza determina chi appartiene e chi non appartiene, chi è incluso e chi è escluso. I rohingya sono doppiamente esclusi in quanto bengalesi e musulmani. Sembra difficile a questo punto escludere che, anche se da un lato ci sono militari fascistoidi e dall’altro una liberal-democratica, su questa definizione di inclusione/ esclusione non esista fra loro una divergenza di fondo.
Ma a colpire l’opinione pubblica non sono solo la sorpresa e la delusione per l’atteggiamento della premio Nobel per la pace diventata complice della repressione. Si aggiunge anche il controsenso della violenza scatenata contro una minoranza sulla base di un vasto consenso popolare in un paese profondamente identificato con il buddismo (che dal 1961 è religione di Stato), una religione di pace e compassione. Un controsenso al quale si è riferito il Dalai Lama quando, riferendosi alla situazione in Myanmar ha ammonito che «in circostanze analoghe Buddha avrebbe aiutato quei poveri musulmani».
Se ci fosse stato bisogno di confermare che nessuna religione costituisce di per sé garanzia di umanità, basterebbe considerare alcuni fatti, purtroppo non episodici. In Myanmar sono monaci buddisti - e in particolare un religioso estremamente violento e razzista, Wirathu – a ispirare le squadracce che coadiuvano militari e polizia nelle operazioni repressive. Fra l’altro i buddisti- nazionalisti birmani risultano in contatto con partiti e gruppi analoghi attivi soprattutto in Sri Lanka, dove il movimento Bbs (Buddhist Power Force) ha un notevole peso politico a sostegno del governo in carica. Anche in Thailandia vi sono monaci buddisti che dirigono movimenti nazionalisti violenti, senza contare il “ buddismo guerriero” della antica tradizione giapponese, l’ampio appoggio buddista al militarismo nipponico del XX secolo e, attualmente, l’esistenza in Giappone di gruppi buddisti di orientamento chiaramente nazional- fascista. Al paradosso del premio Nobel per la pace quanto meno connivente con la repressione si aggiunge quindi il paradosso di un buddismo violento- una versione che certo è storicamente esistita, ma che oggi risulta particolarmente virulenta e purtroppo in crescita. Se i buddisti birmani appoggiano la repressione contro i rohingya non è a causa di “odi atavici,” o di interpretazioni distorte del messaggio del Buddha, ma perché la questione viene vista nel contesto del radicalismo jihadista e delle sue proiezioni sempre più inquietanti in Asia.
Non è vero che le azioni di guerriglia nel nord-ovest di Myanmar siano state ispirate e tanto meno armate da Al Qaeda o dallo Stato Islamico, ma il fatto è che potremmo trovarci di fronte a una profezia che si auto-avvera, nel senso che sono già evidenti i segnali del tentativo del jihadismo internazionale di fare della “causa rohingya”, finora sostanzialmente marginale se non ignorata, un elemento di mobilitazione propagandistica (come riprova della persecuzione dei musulmani da parte degli “ infedeli”) e anche oggetto di intervento sul piano di appoggio ad azioni armate, soprattutto di tipo terrorista.
È di questi giorni l’intervento sulle pagine della rivista online del suo movimento, il Jaish- e- Mohammad, del pachistano Masood Azhar, ex combattente mujahiddin contro i russi in Afghanistan e responsabile di azioni terroriste condotte lo scorso anno sul territorio indiano. Alle parole di Azhar, seguace non pentito di Bin Laden, si sono aggiunte quelle di Abu Ibrahim al- Hanif, capo della “ franchise” dello Stato Islamico in Bangladesh, che ha chiamato a “lanciare operazioni in Myanmar appena saremo pronti”, nonché l’appello del “Fronte di difesa islamica” indonesiano a lanciare una jihad a difesa dei rohingya. Il jihadismo non poteva chiedere di meglio: una causa fresca, una situazione in cui i musulmani sono indiscutibilmente le vittime.
Il locale si connette al globale, l’interno all’esterno, e soprattutto le identità vissute in modo tribale, siano esse etniche o religiose, producono interminabili e feroci conflitti e tendono alla frammentazione settaria di entità statuali che, visto che non sono capaci di essere di tutti, possono finire con essere di nessuno. Visto che non sanno produrre integrazione, scivolano in processi di disgregazione difficilmente reversibili, Dopo Somalia, Afghanistan, Iraq, Libia e Siria, vi è il rischio che ora tocchi al Myanmar.

Repubblica 15.9.17
Rohingya
L’esodo di un popolo e le ragioni ( antiche) dell’odio
di Raimondo Bultrini

Quali sono le verità, quale la storia e quali le origini dell’esodo di massa della minoranza musulmana dei rohingya? Quale complesso intreccio di vicende storiche e politiche v’è dietro la disperata fuga di intere famiglie verso il vicino Bangladesh, un Paese che già di suo esplode di profughi fuggiti da precedenti attacchi e controattacchi tra soldati del Myanmar buddista e gruppi sempre più aggressivi di guerriglieri, che dicono apertamente di battersi per i musulmani perseguitati nel nord ovest dell’Unione? Per esempio: l’ultima delle tante informazioni inverificabili - l’Esercito di salvezza dei Rohingya dell’Arakan (Arsa) che nega ogni legame con i gruppi del terrore globale - giunge da un fronte militare in gran parte serrato al mondo esterno. Verità o mistificazione? Ma procediamo per tappe.
La diplomazia “impossibile”
Ogni approccio diplomatico per salvare i civili innocenti è ostacolato non solo da esercito e militanti, ma perfino dalla più venerata e rispettata paladina dei diritti civili, la Nobel della pace Aung San Suu Kyi, oggi a capo “de facto” di un governo controllato nei posti chiave dal comandante in capo delle forze armate Min Aung Hlaing. San Suu Kyi ha fatto sapere che non si presenterà all’assemblea delle Nazioni Unite, dove proprio della crisi dei rohingya si discuterà, mentre il Segretario generale Antonio Guterres ha attaccato senza sconti la complicità politica del premio Nobel nella persecuzione delle comunità islamiche dell’Arakan, o Rakhine, dove si usa la lingua delle armi e non quella del dialogo. Guterres ha parlato di una «pulizia etnica», e di una «catastrofica crisi umanitaria per la minoranza dei musulmani eohingya», con «380 mila persone costrette a fuggire in Bangladesh». Se è vera, questa cifra porta a più di 800 mila i rohingya senza cittadinanza né identità già esuli da anni e decenni in Bangladesh, ma anche in Malesia e nei Paesi che li impiegano spesso come schiavi.
La posizione di San Suu Kyi
Molti sostengono che se la Lega nazionale di Suu Kyi si rifutasse di avallare le mosse dell’esercito, questa crisi potrebbe facilmente riportare indietro le lancette della storia ai precedenti regimi militari. Ma la Lady è disposta anche a sopportare le ramanzine degli altri Nobel della Pace contro il suo comportamento non etico, pur di non mettere a rischio la difficile transizione verso la democrazia dopo tanti anni di dittatura militare, costi quel che costi, soprattutto dopo che i gruppi ribelli in nome dei rohingya si sono fatti più aggressivi e hanno preso ad attaccare nell’ottobre scorso postazioni militari e di polizia dentro l’Arakan.
I buddisti oltranzisti
Gli innumerevoli e violenti rigurgiti del conflitto in corso sono sempre stati motivati come adesso dalla paura vera o presunta della comunità buddista locale di dover cedere spazio, affari, e magari le proprie donne, al numero crescente di musulmani trasferiti nell’Arakan dal “Bengala” in varie ondate di immigrazioni mai registrate e censite. Monaci come U Wirathu del movimento ultraortodosso “Ma Ba Tha” furono lo strumento della campagna d’odio del 2012 favorita dai generali per mettere sotto controllo – anche con leggi matrimoniali ad hoc - un numero crescente di “immigrati illegali” definiti semplicemente “bengalesi”, figli dei figli di generazioni di frontalieri. Ma ne pagarono il prezzo gli stessi musulmani residenti da generazioni e integrati anche nella lingua.
Odio anti-immigrati, linciaggi, vendette
La convivenza senza armonia tra le due comunità era già compromessa da annunci veri o falsi di una concessione della cittadinanza a migliaia di “kalar” – termine dispregiativo per gli scuri islamici bengalesi - e da voci di nuovi afflussi di migranti, quando circolò la notizia apparentemente “no fake” dello stupro di una ragazza buddista, Ma Thida Htwe, uccisa e sfregiata nel villaggio di Kyauknimaw il 28 maggio 2012. L’odio anti-immigrati esplose senza freni, e a Taunggup un autobus gremito di passeggeri – tutti musulmani, certamente innocenti – venne bloccato e dato alle fiamme. Dieci i morti.
Il linciaggio fece insorgere i devoti della moschea di Kyaut, a Maung Daw, dove la comunità rohingya è in maggioranza. Da qui partirono in diverse direzioni folle di giovani che incendiarono centinaia di case dei buddisti (definiti spregiativamente “mugs”) e molti monasteri, prima dell’intervento dell’esercito che separò le due comunità e impedì ai Rohingya di spostarsi dal loro angolo di nord ovest e dai campi tenda di Sittwe, dove sono ancora relegati 140 mila esuli.
Dagli anni ‘20 a oggi
Difficile stabilire a quale crisi precedente – negli anni ’ 20, nel ’ 42, nel ’ 48 quando alcuni rohingya volevano annettere l’Arakan al nascente Pakistan, oppure nel ’ 78 durante analoghe rivolte popolari anti rohingya con 200mila esuli – siano legate le cause dell’ultima fiammata.
Di questa popol\\ azione islamica considerata tra le più perseguitate della terra si ricercano le origini alle prime migrazioni di musulmani dall’Africa secoli addietro, altri ne attribuiscono l’arrivo ai re arakanesi per usarli come manovalanza, o agli inglesi che li impiegavano nelle piantagioni di tè. Nella realtà è un’umanità sotto shock che si ritrova di nuovo sballottata di qua e di là del confine di due Paesi che non vogliono concedergli la propria nazionalità e i diritti annessi, anche se il Bangladesh per ora ne contiene il maggior numero, ben 800 mila sommando gli ultimi profughi ai 500mila dei precedenti esilii. Ma quanti sono i rohingya rimasti dentro le province di frontiera birmane? Secondo alcuni report il 40 per cento dei villaggi attorno a Maung Daw e agli altri di maggioranza islamica sono stati completamente evacuati.

Repubblica 15.9.17
Rohingya
La fuga di Fatma “Ho visto l’esercito bruciare il villaggio”
di Laura Höflinger

Gli elicotteri, i soldati con i fucili, i vicini di casa che gridavano “Allah è grande”, la fossa comune, il fuoco. Poi la fuga attraverso i boschi, insieme ai suoi cinque figli. Il racconto di Fatma, trent’anni, arrivata qui in Bangladesh come altre centinaia di migliaia di rohingya in fuga dalle persercuzione in Myanmar. Ora è in un campo a Cox’s Bazar, a bere acqua putrida e senza prospettive. “Ma non torneremo mai, lì ci sparano addosso”
COX’S BAZAR ( BANGLADESH)
Seduta su un sacco di riso vuoto, Fatma Katu, una donna che non ha mai avuto molto, riordina ciò che le è rimasto: una testa d’aglio, un barattolo di sale, una pentola di riso. Poi avvolge i suoi beni in un sacchetto di plastica con grande delicatezza, quasi stesse riponendo dei diamanti. È arrivata qui da due giorni con il marito e i cinque figli e d’allora non si è mossa da questa collinetta fangosa a sud della città Cox’s Bazar in Bangladesh.
Quando è stanca, Fatma Katu si sdraia all’aperto mentre i figli dormono ben stretti uno all’altro sotto un tendalino. Quando deve andare in bagno aspetta che sia buio. Quando ha sete, beve l’acqua puzzolente e putrefatta che estrae da un buco nella terra. È un posto orribile, ma questa donna trentenne è felice di essere qui: «Abbiamo fame, ma da noi ci sparano addosso».
La sua patria, il Myanmar, è lontana solo pochi chilometri, eppure è inaccessibile. Lì, le persone come lei da qualche tempo rischiano la vita. Solo nelle ultime due settimane sono fuggite nel Bangladesh più di 120.000 persone e quotidianamente cresce il numero dei rifugiati che ogni giorno attraversa il fiume di confine Naf su minuscole imbarcazioni. Molte si capovolgono, di continuo affiorano dall’acqua cadaveri di bambini. Altri rohingya emergono a piedi dalla foresta dove sono rimasti nascosti per sfuggire all’esercito birmano.
I rohingya, che sono musulmani e una piccola popolazione in Myanmar, sono considerati la minoranza più perseguitata al mondo. Sono discriminati da decenni e vittima di ondate di violenza dalle quali trovano rifugio nel Bangladesh o attraversando il mare, fin nella Malesia e in Australia. Nello scorso autunno almeno 70.000 persone sono fuggite in questo modo. Ora si tratta di un vero e proprio esodo.
Nella foresta, con i piedi insanguinati
La settimana scorsa, Fatma è stata svegliata dal suono di un’esplosione. Poi ha udito dei colpi di arma da fuoco. Racconta di essere corsa in strada e di aver visto i vicini che affrontavano i soldati urlando «Allah è grande», come se il loro credere in Dio potesse fermare le pallottole. Fatma indica con un dito sul petto i punti dove i proiettili hanno colpito uno degli abitanti del villaggio. Con i figli è corsa subito a nascondersi nella foresta. Prima gli elicotteri hanno sparato dall’aria, poi i soldati hanno rastrellato i sopravvissuti e li hanno costretti a scavare una fossa per i cadaveri. Infine hanno sparato anche a loro e cosparso i corpi di benzina. Da dove Fatma era nascosta ha visto l’esercito bruciare il villaggio.
Con la famiglia è rimasta lì in attesa della notte. Poi hanno seguito altri i rohingya diretti a nord, verso il Bangladesh. Hanno camminato con i piedi insanguinati e senza cibo, salvo quello che trovavano lungo il percorso, in pratica niente. All’inizio ricoprivano chi crollava con foglie, ma dopo un po’ hanno smesso per procedere più in fretta.
Il racconto di Fatma Katu è dettagliato e inesorabile. Non è possibile verificare se la sua storia sia vera, perché la Birmania non permette la presenza di osservatori indipendenti dopo Rakhine. Neanche le organizzazioni umanitarie hanno accesso alla zona in cui vivono i rohingya. Tuttavia, ogni giorno centinaia di rohingya cacciati arrivano a Cox’s Bazar e tutti riferiscono storie simili. Di morti. Di villaggi in fiamme. Di fughe disperate. Analizzando immagini satellitari, Human Rights Watch ha contato 17 villaggi rasi al suolo col fuoco. In uno erano state bruciate ben 700 case.
Il governo della Birmania nega tutto: i rohingya avrebbero dato alle fiamme le proprie case per suscitare la compassione della comunità internazionale. L’esercito starebbe combattendo dei terroristi islamici nel territorio rohingya. Negli scontri, sostiene, sarebbero rimasti uccisi finora 400 persone, di cui 370 estremisti.
Aung San Suu Kyi, capo di governo informale - nel senso che formalmente non può esercitare le proprie funzioni - finora non si è quasi pronunciata. Quando lo ha fatto, ha parlato quasi sempre di attacchi da parte di estremisti islamici e mai delle atrocità commesse dall’esercito birmano. A suo avviso, le immagini di rohingya morti sono fasulle e se qualcuna è vera si tratta di un’eccezione.
Che ci siano ribelli in Birmania che l’esercito combatte è vero, ma molti segnali portano a far pensare che così facendo i soldati sistematicamente uccidano anche dei civili. Alcuni operatori umanitari hanno riferito di prime vittime di mine antiuomo – stando alle ferite – messe probabilmente al confine dai soldati dell’esercito del Myanmar per colpire i fuggitivi – e fare in modo che non tornino. Le Nazioni Unite parlano già di un «rischio di pulizia etnica». Che vi si potesse arrivare era prevedibile.
Il padre di Fatma Katu, racconta lei, è nato in Birmania, come suo nonno e probabilmente anche i loro genitori e nonni. Tuttavia, il paese che Fatma Katu chiama suo non la vuole come cittadina. Agli occhi del governo birmano è un’immigrata clandestina. La cittadinanza le è negata, non ha documenti, non può votare né viaggiare e può lavorare solo in determinate circostanze. In ogni caso, il lavoro quasi non c’è nella poverissima Rakhine. Anche se la regione è stata abitata da musulmani già dal XV secolo, i rohingya sono ad oggi un popolo senza terra. E Fatma Katu una donna senza diritti.
Quando ancora non era una rifugiata e viveva in una modesta capanna di argilla, qualche volta passavano i soldati, e con l’accusa di aver dato rifugio a terroristi la buttavano a terra e la picchiavano. A volte gli uomini si portavano via delle ragazzine, sempre le più belle.
L’Onu ha pubblicato a febbraio un rapporto secondo il quale « è probabile » che le forze governative abbiano commesso dei crimini contro l’umanità. Si parla di tortura, di plotoni di esecuzione, di stupri, dell’omicidio mirato di bambini.
Un motivo c’è per la fuga di massa di queste settimane: i rohingya hanno cominciato a difendersi. Il 25 agosto l’organizzazione ribelle Arakan Rohingya Salvation Army ( Arsa) ha assalito alcune stazioni della polizia e dell’esercito. Attacchi simili c’erano stati un anno fa. Guidata da Ata Ullah, un leader rohingya cresciuto in Arabia Saudita, l’Arsa ha reclutato giovani uomini e li ha armati di fucili e bombe a mano. Non si sa quanti siano. In un’intervista a marzo, Ullah ha annunciato che l’Arsa continuerà a combattere finché il governo non proteggerà i rohingya «anche se prima ne dovrà morire un milione».
Alcuni rifugiati riferiscono però anche della crudeltà dei ribelli: costringerebbero uomini che vorrebbero fuggire a unirsi a loro e ucciderebbero presunti informatori. L’attacco di agosto ora è usato dall’esercito come motivazione della propria vendetta.
Non sono mancate in questi giorni le parole di condanna per le uccisioni in Myanmar. Il ministro degli Esteri britannico, il commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, il presidente turco: tutti hanno avuto parole di condanna. Ma c’è una voce che manca: dov’è Aung San Suu Kyi?
Suu Kyi è stata una sorta di eroina, un faro della resistenza pacifica, una erede di Mahatma Gandhi e Nelson Mandela, e non solo in Birmania ma in tutto il mondo. Per 15 anni è vissuta in Birmania agli arresti domiciliari e nel 1991 ha ricevuto il Premio Nobel per la Pace. È stata soprattutto lei a guidare la Birmania alle prime elezioni libere due anni fa dopo quasi tre decenni e ad avere fatto sperare a molti in un passaggio pacifico dalla brutale dittatura militare alla democrazia.
I militari, tuttavia, hanno ancora una grande influenza sulla politica. È possibile che Suu Kyi non si pronunci a favore dei rohingya per non adirare i potenti nazionalisti buddhisti birmani e perché teme per la fragile democrazia. Comunque sia, da questa donna che ha subito in prima persona la repressione dei militari ci si aspettava più empatia. Le organizzazioni per i diritti umani che a suo tempo hanno lottato per la sua libertà ora sono tra i suoi più feroci critici. È improbabile che Suu Kyi non si renda conto delle implicazioni del suo atteggiamento. Nelle interviste ha sempre precisato di occuparsi di politica e di non essere un’attivista – e in Birmania le elezioni non si vincono se ci si schiera con una minoranza musulmana che non ha diritto di voto. Forse il suo silenzio si spiega così: il calcolo cinico di un politico navigato.
Quali che siano le motivazioni di Suu Kyi: in questo momento sembra che in Myanmar vengano commessi crimini contro l’umanità sotto gli occhi di un Nobel per la Pace. E sembra che lentamente si muti in realtà ciò che da tempo chiedono i nazionalisti e i monaci radicali: una Birmania senza musulmani. Negli anni settanta i musulmani erano due milioni. Oggi non superano il milione su una popolazione di 54 milioni. Sono già 400.000 i rohingya che vivono da anni come rifugiati in Bangladesh. Entro la fine di questa settimana saranno diventati ben più di mezzo milione. Dopo molta resistenza, il Bangladesh ha riaperto la frontiera con il Myanmar, ma nessuno sa come il loro nuovo paese debba occuparsi dei rifugiati o quale possa essere il loro destino o futuro qui. Il Bangladesh è povero e sovrappopolato e subisce già gli effetti del cambiamento climatico, come le vaste inondazioni di questi giorni.
Le capanne col tetto di lamiera
Dalla collina dove ora si trova, a poche centinaia di metri, Fatma Katu vede la prospettiva per la sua famiglia: il campo dove si sono stabiliti i rifugiati rohingya negli ultimi anni. Le loro capanne sono ricoperte da lamiera invece che da fogli di plastica, c’è qualche servizio igienico e le organizzazioni umanitarie consegnano cibo regolarmente. Il lavoro però non c’è, come non c’è alcuna prospettiva di sfuggire alle condizioni del campo. I rohingya sono cittadini di seconda classe anche in Bangladesh: tollerati ma indesiderati. In passato, il governo ha cercato di deportarli ma, come Fatma Katu e gli altri rifugiati sanno per esperienza, in Myanmar non li vogliono. « Non torneremo mai a casa. Lì ci uccidono».
Nei suoi sogni immagina la casa che vuole costruire qua in Bangladesh: con una stanza per ogni figlio. Sogna un futuro in cui uno di loro impari l’inglese, un altro forse il Corano. Fatma ha uno sguardo pieno di desiderio e agita il mestolo nella pentola.
Poi offre ai visitatori un po’ del suo riso. Anche se non si ha una casa e solo un piatto di riso, un barattolo di sale e una testa d’aglio, Fatma Katu ritiene che gli ospiti debbano essere accolti bene.
- (Traduzione di Guiomar Parada) © 2017 Der Spiegel

Repubblica 15.9.17
Rohingya L’intervista
“La Nobel San Suu Kyi non ha il controllo del governo birmano”
di Raffaella Scuderi

“Il suo obiettivo è una transizione pacifica dalla dittatura alla democrazia. Per questo ha bisogno di mantenere buone relazioni con la giunta militare. Ma tutto ha un limite” Parla il professor Matthew Walton, docente a Oxford ed esperto del Myanmar
“Finora Aung San Suu Kyi ha scelto di sacrificare i diritti umani dei rohingya a favore di una facile transizione dal regime militare a uno Stato democratico. La sua è una strategia cinica”. Il professor Matthew Walton non fa giri di parole nel definire la posizione del premio Nobel per la pace discutibile e ai limiti dell’accettabile. Docente di studi all’università di Oxford sul Myanmar contemporaneo e sulla storia del buddismo birmano, Walton esprime comunque qualche riserva rispetto all’attuale crisi sul dramma dei Rohingya.
Professor Walton, cosa sta succedendo a una delle protagoniste più rappresentative della difesa dei diritti umani?
“ Per Suu Kyi, come d’altra parte per la maggior parte della popolazione birmana, la vicenda dei rohingya non è fondamentale, non è in cima alle priorità. E non la reputano né una questione umanitaria, né una difesa dei diritti umani. Per i birmani e per i loro governanti, la sicurezza del Paese è al primo posto. Così come la sovranità del Myanmar. Secondo loro i rohingya non sono birmani e quindi non è una questione che li riguarda”.
Ma qui c’è un’evidente emergenza umanitaria. Le Nazioni
Unite parla di pulizia etnica. Come può San Suu Kyi essere indifferente a un tale abuso?
“Lei ha zero controllo sul governo. Il suo obiettivo è una transizione pacifica dalla dittatura alla democrazia. Per questo ha bisogno di mantenere delle buone relazioni con la giunta militare. Ma riconosco che tutto ha un limite. Se dovesse riuscire nel suo intento, cosa su cui non scommetterei, potremmo definirla una democrazia di successo? Sulle spalle dei rohingya? No sicuramente”.
Nel suo unico intervento dall’inizio della crisi, San Suu Kyi ha denunciato disinformazione su quello che sta succedendo. Cosa vuol dire?
“Sia lei che tutta la popolazione birmana vede che tutto il mondo è contro di loro e solo a favore dei rohingya, Una percezione che rinforza il pensiero che la stampa sia di parte. Questo non aiuta a mediare i conflitti all’interno del Myanmar. D’altra parte è vero che la decisione di ostacolare l’accesso di aiuti e osservatori internazionali non aiuta affatto”.
Perché questa persecuzione nei confronti dei rohingya? Nessuno li vuole. Anche l’India li vuole cacciare.
“Quello che sta accadendo è tragico e noi non possiamo, come comunità internazionale, tollerarlo. I rohingya sono una minoranza stretta tra due Paesi poveri e autoritari. La loro cultura non ha nulla a che fare con nessuno dei due e la richiesta di legittimazione di un territorio di appartenenza è arbitraria. Non ci sono prove evidenti che i rohingya di adesso siano gli stessi discendenti di quei musulmani che vissero in questa area secoli e secoli fa. La mancanza di prove certe dà ai birmani più forza e diritto nella decisione di rifiutare le loro richieste”.
Che ne è stato della rivoluzione zafferano dei monaci buddisti birmani contro la dittatura militare?
“Il movimento della rivoluzione zafferano non si può definire democratico. Ne facevano parte tantissimi monaci, con diversi obiettivi. C’era chi voleva una democrazia morale rispettosa dei diritti umani, e chi invece reclamava una sorta di dittatura morale spirituale. Una cosa è certa: non tutti avevano la stessa idea di chi appartenesse o no allo Stato del Myanmar”.
C’è una soluzione secondo lei?
“ Io sono sempre stato molto deluso dalle azioni di Aung San Suu Kyi come politica, sia quando era all’opposizione sia adesso che è al potere. Però io penso che la rabbia che si sta scatenando su questo Paese da tutto il mondo non aiuta il Paese a trovare una soluzione pacifica. Anzi, li stiamo spingendo a chiudersi sempre di più”.