mercoledì 5 luglio 2017

La Stampa 5.7.17
Tanta voglia di imperialismo
Mario Liverani racconta gli esordi della politica di potenza in Assiria Il suo saggio suggerisce il confronto col presente: dagli Usa al Califfato, non si tratta più di dividere ma di unificare e imperare

di Domenico Quirico

È arrivato il momento di riprender in mano la parola: imperialismo. Eppure non sembran proprio tempi adatti: dopo tante conquiste e tanti successi di ogni tipo, l’Occidente comincia a passare di moda. Merita attenzione in quanto è braccato e con le spalle al muro, in quanto affonda sempre più. Altro che imperialismo. Perfino l’ultimo impero aggressivo e invincibile, quello per antonomasia, l’America, ridotta a Trump, se perdura, se lancia ancora missili, è perché non ha la forza di capitolare, si regge sull’automatismo del declino. Gli imperi sembrano intaccati nella sostanza, marci alle radici. Perché più l’uomo acquista potenza più diventa vulnerabile. Sotto l’azione delle appartenenze (nazionali ma non solo) le Unità andavano in frantumi.
E invece torna la voglia di imperi per regolare gli sconquassi inestricabili del mondo, questa frenesia della fine di cui siamo tutti preda. La tolleranza è sentita ormai come un sintomo di debolezza e di dissoluzione, gli imperi rassicurano perché restaurano un passato vissuto come età aurea, sono l’antidoto alla lebbra delle tribù, troppo piccole per confortare paure immense. Vivere in un impero ci rende decisi, ci offre una causa. Ci permette un quarto di nobiltà. Gli imperi, è il loro segreto, non sono costruzioni politiche, sono una condizione.
Una parola infangata
Certo: questa tendenza al dominio con connesso sfruttamento è stata vittima dell’abuso che ne fecero, per infangarla, Lenin e Rosa Luxemburg e, a ruota, i terzomondisti. Fu il profeta dell’Ottobre a coniare una definizione perfino per l’espansionismo rimessiticcio del duce, l’imperialismo dei pezzenti… Morta quella stagione vulcanica di politici e profeti sovvertitori, bravissimi a metter ogni cosa in subbuglio e repentaglio, e a divenire a loro volta imperialisti di successo, circolavano formule più mellifue. Finita insomma la fase guerresca e conquistatrice degli imperi, era l’età, come dire, amministrativa, economica ovvero il governo pacifico e regolare, ordinato e legale che chiamiamo mondializzazione.
Un fecondo, scintillante libro, Assiria, la preistoria dell’imperialismo, saggio di storia antica anzi antichissima di Mario Liverani pubblicato da Laterza, apparentemente dedicato ai bellicosi e indolenti signori di Nimrud e di Ninive, ci suggerisce interessanti contemporanee voragini: a noi che folleggiamo su modernissimi precipizi.
Liverani individua il cuore eterno, obbligatorio della voglia di imperi nella volontà di una «missione imperiale», quella che un tempo si chiamava ideologia. E questa ideocrazia, se si scende all’osso, è il progetto di conquistare tutto il mondo, sulla base di una teoria politica o teleologica: la diffusione della civiltà tra i barbari o la conversione al vero dio ovviamente unico. Raggiungere la fine della Storia in fondo è l’utopia di tutti i sistemi totalitari (le democrazie credono o dovrebbero credere nel virtuoso continuo disfarsi e rifarsi).
Questo principio cosmologico varia nel tempo e si nobilita volentieri dal lato spirituale a quello economico (agli antichi tributi degli Assiri e dei Romani subentrano i privilegi commerciali e finanziari degli imperi moderni e modernissimi), ma è alla base di ogni impero. Come diceva uno dei più grandi imperialisti di tutti i tempi, Cecil Rhodes (che sognava di annettere anche la Luna all’impero britannico!), bisogna «combinare il commercio con l’immaginazione, ovvero creare una immagine altruistica dell’impero».
Il capolavoro inglese
Non si può dire che avesse fallito questa propaganda se la maggior parte degli inglesi era convinta che la guerra boera, pulizia etnica, Lager e massacri compresi, fosse servita a aumentare il prestigio morale del Regno Unito! L’imperialismo inglese: 20 milioni di elettori detenevano il destino di 450 milioni di persone! Un capolavoro.
Le tentazioni comparative che il libro di Liverani solleva sono moltiplicate da consonanze geografiche. Riappaiono le parusie unificatrici, le idolatrie semplificatorie, il dispetto per i confini. Nella Terra tra i due fiumi dove fiorirono le sofisticate strategie assire (misto modernissimo di brutalità guerriera e di comunicazione terroristica) oggi si estende il progetto di un impero in culla, quello islamico. Gli avventurieri del jihad salafita lavorano e uccidono per costruire il Califfato universale: distruggere i piccoli Stati inventati dall’Occidente per dividere gli uomini della vera Fede, un impero di uomini puri. Ecco la scorciatoia per risanare l’islam, tradito dai nazionalismi panarabi, dai socialismi e dagli islamisti tiepidi e pudibondi. Alcune strategie dei jihadisti, terribile a dirsi, sembrano affondare indietro nel tempo degli Assiri: ad esempio lo sgozzamento dei prigionieri, come espediente di guerra psicologica. Sargon e Salmanassar facevano minuziosamente scolpire queste atrocità sui bassorilievi, i boia di Abu Bakr le filmano, stessa necrofilia della guerra. Identico lo scopo, diffondere il sentimento della impossibilità di battersi contro di loro: «… ai superstiti che non avevano colpa né peccato, imposi il pesante giogo della mia signoria...».
La scommessa di Putin
Spezzettati in piccole nazioni fallite, i sunniti sognano dunque questo impero teocratico, il più assoluto. Sul piano teologico replica l’Iran che aspira (con la bomba atomica!) a una ricomposizione «imperiale» unitaria dello spazio sciita, che assorba una parte dell’Iraq, la Siria e il Libano degli Hezbollah. Un contro-impero nel Vicino Oriente. Non più dunque il dividere e imperare degli antichi, ma semmai unificare e imperare.
La scommessa politica di Putin, ad esempio, si basa esplicitamente sulla ricostruzione di uno spazio imperiale ora defunto, quello dell’Urss. La Crimea e il Donbass riconquistati: ma anche la Siria, pedine iniziali della ricomposizione imperiale di uno spazio «sovietico» andato in mille pezzi. Non a caso l’industria degli armamenti e la sua modernizzazione è il settore economico in cui la Russia ha più investito la rendita petrolifera. Strumento di potenza certo, anche se guardando le cifre non è in grado di gareggiare con gli Stati Uniti su un piano globale; ma soprattutto un modo per sedurre e intimidire movimenti e Paesi impegnati in guerre civili o etniche.
E gli Stati Uniti, potenza decadente? Il suo manifesto imperiale, esplicito, restano le novanta pagine del Re-building America’s defenses, settembre del Duemila prima dell’avvento di Bush alla Casa bianca. Manifesto neoconservatore e passaggio appunto dal pragmatismo alla ideologia, invita ad agire affinché la realtà venga uniformata alla idea imperiale: l’egemonia americana deve durare il più a lungo possibile per creare le condizioni di una pace americana. Globale.