il manifesto 1.7.17
La paura di dirsi osservatori
Libri. Ernesto Galli Della Loggia, Credere Tradire Vivere, il Mulino
di Alessandro Barile
Galli
Della Loggia è intellettuale che suscita emozioni, e per tale motivo
ogni confronto col suo pensiero non può che essere caldo, appassionato,
forse anche viscerale. Lungi dal giocare di fino, la grande qualità
dell’editorialista del Corriere della Sera sta nel mettere sul piatto
sempre un realismo spogliato da mistificazioni deformanti. E’ il pregio
d’altronde di ogni posizione forte (e che un tempo si sarebbe detta
reazionaria): si può non condividere, ma non si può ignorare né,
tantomeno, banalizzare. Quest’ultima fatica editoriale, Credere tradire
vivere, segue in perfetta continuità la posizione che da decenni
l’intellettuale romano si è ritagliato nel discorso pubblico: la voce
della coscienza di una borghesia in crisi d’identità. Della grande
borghesia, attenzione. Quella capace, nell’ottica dell’autore, di
costruire un’etica pubblica, dei valori universali; in altre parole: una
Cultura nazionale. Non è la nostalgia vittimista, né l’ironia
post-moderna, a guidarne i ragionamenti, quanto un’arcigna
interpretazione del corso della storia.
Si chiede Stefano Feltri
dalle colonne del Fatto quotidiano perché il libro di Galli Della Loggia
sia stato accolto con tanta plateale indifferenza, concedendosi una
risposta forse troppo accomodante: perché chi avrebbe dovuto parlarne è
anche l’oggetto delle invettive del libro. Una sorta di coscienza
sporca, potremmo definirla, di gran parte del mondo intellettuale
accusato di aver “tradito” certi furori giovanili. Permettiamo di
avanzare un’altra ipotesi. Il prolifico autore ci sembra scrivere da un
ventennio abbondante sempre lo stesso libro. Sempre uguali i
protagonisti, identiche le invettive e i “conti da regolare” con la
presunta (sotto)cultura dominante. Eppure Galli Della Loggia fa
ampiamente parte, anzi ne è uno dei membri onorari, di questa cultura
dominante che ha contribuito a plasmare. Da dove deriva questa coscienza
infelice allora? Dove la discrasia tra le idee professate in ogni dove e
la direzione di questa presunta cultura dominante? Troppo distante
questo lamento dalla realtà quotidiana per non somigliare ad una posa
studiata, che Della Loggia assume per veicolare meglio il suo discorso.
Il
libro intreccia la propria biografia con quella della nazione, dagli
anni Sessanta agli anni Novanta. Seguendo un genere ormai abusato,
relaziona le vicende personali a quelle di una Repubblica nata dal vizio
originario dell’antifascismo, usato come fonte di legittimazione
politica. D’altronde, per buona metà del testo l’autore mira alla
demolizione scientifica di ogni retorica antifascista, di ogni mitologia
costituente. L’antifascismo è, per l’autore, il grimaldello ideologico
che ha reso accettabile l’anomalia politica del Pci. Ma questo
sotterfugio retorico smaschera le ben più prosaiche intenzioni di Galli
Della Loggia. Non si può essere hegeliani a corrente alternata. Drastico
nel ridurre la storia a totalità quando si tratta di sottoporla a
critica impietosa (lo “spirito dei tempi” ci ricorda costantemente
l’autore, autoassolvendosi dall’onta di essere stato “di sinistra”),
questa cessa di colpo di essere sintetizzata quando si tratta di
demolire il senso della legittimazione antifascista. Cosa rimane una
volta fatta la tara degli errori dell’antifascismo? Quale l’alternativa
all’antifascismo in un paese “di confine” come quello della Prima
Repubblica? Pur nei suoi innumerevoli errori, nelle sue mitologie
distorte, nelle sue retoriche consociative, quale “terza via” era
concretamente ipotizzabile per un paese uscito dalla lotta contro il
fascismo, impregnato di fascismo nella sua burocrazia post-bellica,
cedevole a pulsioni autoritarie, queste sì legittimate dallo spauracchio
comunista?
Alla fine, quando a crollare insieme al Muro è questa
Repubblica deformata, portandosi dietro la vituperata “vigilanza
antifascista”, cosa rimane allora di questa Italia che finalmente si è
liberata dei suoi lacci ideologici? Ben poco di edificante. Talmente
poco che neanche l’autore riesce a gridare: “finalmente!”, perché,
proprio in quanto autore intelligente, si rende conto per primo che
quella tanto deprecata legittimazione politica fondata sull’antifascismo
teneva unito un discorso pubblico che oggi si è rotto in mille pezzi,
non più ricomponibili perché non comunicanti tra loro. Il problema è che
Galli Della Loggia ha vinto; è il paese che ha perso, scoprendosi
improvvisamente a-fascista.