sabato 13 maggio 2017

WIRED.IT 12.05.2017
L'Homo naledi era un nostro contemporaneo
La specie di ominide scoperta di recente in Sudafrica continua a stupire gli antropologi: è relativamente giovane e costringe, almeno in parte, a rivedere il modo in cui pensiamo all'evoluzione umana. Perché?
di Anna Lisa Bonfranceschi


È un parente speciale e il suo arrivo in famiglia, annunciato neanche due anni fa, era stato salutato come uno dei più grandi eventi del secolo nel campo dell'antropologia. Homo naledi, in effetti, ha da subito catalizzato l'attenzione degli antropologi da tutto il mondo, per quel misto di caratteristiche primitive e moderne che lo rendono unico. Ma prima ancora per l'enorme quantità di resti rinvenuti. Resti che sono ancora di più di quel che si credeva. Sulle pagine di eLife, infatti, oggi arrivano una serie di paper che annunciano il ritrovamento di altri fossili di Homo naledi – tra cui un cranio praticamente completo – in una camera (quella di Lesedi) diversa da quella che ha ribattezzato la specie (Dinaledi Chamber), sempre all'interno del labirintico sistema di grotte di Rising Star, presso la Culla dell'Umanità (Cradle of Humankind), in Sudafrica. Già questa di per sé è una notizia: rinvenire una grande quantità di resti fossili di ominidi non è un fatto comune. Ma c'è di più. Il team di Lee R. Berger della University of the Witwatersran, che firma altri due paper su eLife, è riuscito a datare anche la specie di Homo naledi. Nel 2015 l'età dei fossili della nuova specie era tutt'altro che chiara: sarebbe potuta risalire a oltre due milioni di anni fa come a centomila anni fa. Un arco temporale troppo grande per capire appieno il significato della scoperta. Oggi però sappiamo che Homo naledi risale a circa 200 mila anni fa (tra i 335 mila e i 236 mila anni fa). Un periodo importante nella storia dell'evoluzione umana, lo stesso in cui si sarebbero cominciati ad affermarsi, tra gli altri, gli antenati della nostra specie, gli uomini moderni Homo sapiens. In sostanza, con naledi siamo stati, almeno per un periodo della nostra storia evolutiva, contemporanei. Un dato che, secondo i ricercatori, porta a riconsiderare la storia dell'evoluzione degli ominidi. Perché? Lo abbiamo chiesto a Damiano Marchi, paleoantropologo del all'Università di Pisa, tra gli scienziati che hanno partecipato alla scoperta della nuova specie di ominide e autore, per Mondadori, de "Il mistero di Homo naledi".
Professor Marchi, perché i reperti di Homo naledi vanno considerati straordinari?
"I motivi sono diversi. In primo luogo l'eccezionale quantità di reperti che sono stati rinvenuti [John Hawks della University of Wisconsin-Madison, tra gli antropologi a capo degli studi, parla di circa 2000 campioni, nda]. Una ricchezza simile è stata rinvenuta solo presso una zona del sito archeologico di Atapuerca, in Spagna, dove però i resti sembrano essersi accumulati per caduta all'interno di una sorta di pozzo. In questo caso invece, l'accumulo di resti fossili sembra essere intenzionale, lasciando intendere abilità cognitive in qualche modo moderne per questa specie. Inoltre la straordinarietà dei reperti risiede anche nel fatto che abbiamo praticamente tutte le parte anatomiche del corpo di questa specie, con rappresentanti di diversa età, maschi e femmine. Una ricchezza che ci permette di tracciare con un buon grado di dettaglio le caratteristiche anatomiche e non solo di Homo naledi, scoprendo che si trattava di una specie molto omogenea, con poche variabilità inter-individuali e anche tra maschi e femmine".
Homo naledi va considerata una specie più moderna o più primitiva?
Uno degli aspetti più peculiari di questa specie è la presenza in contemporanea di caratteristiche tipicamente primitive con altre più moderne. Per esempio: il cervello era piccolo, con un volume di 500 centimetri cubici, una grandezza paragonabile a quella di un gorilla o della australopitecine sebbene con una morfologia moderna. Anche il torace, le dita curve della mano, il bacino, la forma delle spalle erano alquanto primitive, adatte a una specie abituata ad arrampicarsi. Eppure, allo stesso tempo, i polsi mostrano caratteristiche moderne che lasciano pensare – anche se non ne sono stati trovati – che Homo naledi utilizzasse utensili. Questo ominide aveva inoltre denti piccoli, a suggerire che probabilmente consumasse cibo processato, cotto. Le gambe sono snelle, adatte a camminare in posizione eretta per lunghe distanze. Quindi nel complesso Homo naledi non è né una specie strettamente moderna né primitiva". Gli ultimi dati però sembrano suggerire che Homo naledi fosse moderno, almeno da un punto di vista cronologico. Cosa significa?
“Sì, i dati pubblicati da Berger e colleghi collocano questa specie più o meno in contemporanea alla comparsa dell'Homo sapiens, grazie alla datazione dei sedimenti intorno ai fossili e dei denti dell'ominide. Questo significa che, circa nella stessa zona geografica erano presenti specie del genere Homo con caratteristiche molto diverse tra loro: da una parte quelli più moderni, come i primi sapiens, dall'altra individui come Homo naledi. Questo ci obbliga in parte a rivedere le dinamiche evolutive del genere Homo: tradizionalmente siamo abituati a considerare alcune delle caratteristiche che ci rendono umani moderni – come l'abbandono della vita arboricola, l'aumento della statura, l'adattamento alle lunghe camminate – come corollari rispetto all'aumento delle dimensioni cerebrali. Dovremmo ricordare sempre l'evoluzione del genere Homo come una storia a più rami: una direzione è stata quella marcata dal grande cervello, un'altra quella tracciata da specie come naledi, più primitive, ma con altre caratteristiche moderne non necessariamente corollari di un grande cervello".
Possiamo fare delle ipotesi sulle capacità intellettive di questa specie?
"La collocazione dei resti, in luoghi remoti, abbastanza difficili da raggiungere, suggerisce che la loro deposizione fosse intenzionale. Non stiamo affermando che Homo naledi avesse dei rituali funerari, ma che probabilmente deponesse i morti lontano dai luoghi dove si trovavano i vivi. Forse perché avevano capito che i resti a lungo andare avrebbero cominciato a marcire, puzzare, attirare i predatori. Un comportamento del genere – non veri e e propri rituali funerari – sarebbe stato plausibile anche per una specie con un cervello così piccolo come quello di Homo naledi. D'altronde, basta guardare agli scimpanzé, che hanno un cervello ancora più piccolo e che hanno fatto loro il concetto della morte come qualcosa di irreversibile. In quest'ottica, un cervello piccolo come quello di Homo naledi non è una limitazione a credere che i rappresentanti di questa specie deponessero i morti in luoghi lontani da quelli dei vivi".