La Stampa 29.5.17
Viaggio nei luoghi di Israele dove cinquant’anni fa morì il nazionalismo arabo
Dopo i conflitti con gli Stati ora le minacce arrivano dai gruppi islamici
di Domenico Quirico
Passata
avanti la guerra non si possono riconoscere i luoghi. Ai luoghi restano
i nomi della geografia, e alle battaglie la data.
Quello che
conta non sono le battaglie, ma i giorni e i mesi e gli anni che sono
durate con gli uomini aggrappati alla terra, alla sabbia, alle pietre in
una lotta sepolta. Qui cinquanta anni fa, sei giugno 1967, una data
densa della storia del mondo, tutto durò appena sei giorni. Una guerra
breve, un lampo, eppure in un tempo così breve molte cose che sembravano
eterne morirono: il nazionalismo arabo, innanzitutto, sconfitto e
archiviato. Su quelle rovine l’Islam politico iniziò a costruire i suoi
disegni. E anche Israele cominciò a morire: sì, il trionfatore. Quello
eroico dei pionieri, degli irriducibili sopravvissuti fondatori di uno
Stato, nel momento della vittoria, come spesso il ghigno della Storia
decide, raggiunsero l’apogeo e iniziarono il declino. Israele
invincibile peccò della greca hybris, l’arroganza.
Mezzo secolo fa
Israele sconfisse alcuni Stati, la Siria l’Egitto la Giordania. Oggi
combatte con Daesh, Hamas, Hezbollah, Al Nusra, gente che prescrive e
dogmatizza, perseguita e punisce, dà degli esempi. Messi, investiti,
scomunicatori, giustizieri: l’abiezione fanatica. Con gli Stati, seppure
autocrazie spietate, si poteva trattare, fare la pace come è accaduto,
faticosamente. Ma oggi?
Percorro luoghi delle guerre di ieri per
capire le ragioni di quelle di oggi. Il tempo si vendica come si vendica
di chi non riesce ad adoperarlo o lo usa per uccidersi. La guerra è
purtroppo la cosa più semplice del mondo. Se non fosse così, se i
soldati dovessero conservare a giustificarla un’ombra solo dei discorsi e
delle polemiche, gli resterebbe in mente di aver patito il più grande
sopruso, l’inganno più scellerato. Ma alla guerra si dimentica tutto.
Gli israeliani 50 anni fa, rialzando il capo dopo la mischia breve e
crudele, guardando il Canale e l’Egitto davanti a loro, e il Muro di
Gerusalemme riconquistato, e Damasco laggiù nella bruma calda a un passo
dal monte Hermon, dissero: è finita. E invece le nazioni, vinte e
vincitrici, hanno i loro fornitori di miserie e di illusioni e dopo
quella vennero altre guerre, il ’73 il giorno più lungo di Israele, e
Beirut, e ancora il Libano e l’intifada. La guerra così diventa un
mestiere e una obbedienza.
Salgo dalla Galilea verso il Golan,
sfioro il monte delle beatitudini e il lago di Tiberiade folgorato dalla
luce sciancata dell’alba. Il Golan è paese proprio alla guerra. Non ci
sono distrazioni di cieli, albe e tramonti vi sono lenti, le acque se le
bevono le rocce e i calcari, le quote si allineano per lungo e per
largo guardate dalle nevi ormai minime del monte Hermon e dalla rocca
crociata di Nimrud, castello ariostesco tra boschi fitti e piantagioni. È
un paese che permette soltanto lontani orizzonti di pianura di mare e
di montagne, privo di vicinanze. Quel che fa l’idea di andare sono le
strade. Qui le strade spariscono alle svolte oppure lontane conducono a
quei luoghi di orizzonte, borghi di cui si chiede il nome con cautela.
Lì comincia il Libano laggiù è Siria qui la Galilea con la sua campagna
sfruttata di tutti i suoi succhi. Paese adatto a viverci nelle pietre
fino al mento e che nasconde due eserciti l’uno all’altro. Sembra fatto
da dio con i sassi avanzati dalla fabbrica del mondo, mi ha detto un
kibuzzin guardando soddisfatto l’opera sua che ha corretto e fecondato
quella distratta di dio.
«Il confine è a un passo» mi hanno
avvertito, venti minuti a piedi e sei davanti alla Siria. E pure quando
il dirupo finisce e mi affaccio sulla pianura siriana mi manca il
respiro. La valle a perdita d’occhio ben spezzata di campi segnati e
macchie di verde e di giallo, è piena di aria cruda, di estraneità e di
sofferenza. In quello spazio stanno palesi le ragioni di una tragedia
infinita. Sotto di me, li tocco, due villaggi con grida di bimbi e
minareti. E poi, di colpo, in mezzo a un gregge, un uomo comincia a
gridare e a fare segni verso di me, sì verso di me, agita uno straccio
per richiamare l’attenzione, le sue parole arabe me le porta via il
vento. Rispondo agitando la mano e allora lui grida grida con gioia e
ripete, e stavolta lo sento, in inglese grazie grazie.
In quei
villaggi, nel mistero che li avvolge, non c’è l’esercito siriano ma le
sigle nere del califfato. Ogni tanto qualche colpo che scambiano con i
soldati di Bashar Assad cade per errore nella zona controllata di
Israele. Per sbaglio: non hanno tempo per occuparsi dei sionisti, devono
regolare i conti tra loro. E forse il calcolo israeliano è questo e non
so se sia segno di lungimiranza. Ogni guerra sosta di tanto in tanto.
Il sole accolto risale e trabocca dai sassi del Golan. Colonne di
blindati candidi, i mezzi della annosa missione Onu di interposizione,
risalgono le strade degli escursionisti e dei gitanti, salutano con
larghi cenni chi accosta per lasciarli passare.
Oltre questa
frontiera di guerra sospesa è diventato indebito il mio contegno con gli
uomini e le cose di questa parte di mondo. L’appello di quel pastore
siriano oltre la griglia di questo confine di odio mi spoglia di guerra e
di passione, anzi di umanità di qua e di là del fronte troppo stanca.
Come loro non saprei dire cosa mi duole, come loro, ebrei e arabi, ho
nella mia costituzione il dolore.
Appena dentro la frontiera
dell’armistizio c’è il moshav, che è una versione addolcita del kibbuz,
di Majdal Shams. Religiosi, anche se non ultra-ortodossi che ormai hanno
in ostaggio la politica di Israele. Questa era Siria fino al ’67,
l’unico confine dove la guerra non è mai finita con un accordo di pace.
Ci aspetta Rifka, Rebecca, che è arrivata bambina da Parigi. E ha
vissuto prima in una colonia a Hebron, terra dura e feroce di scontro.
Mi parla con entusiasmo goloso del fatto che sta per iniziare la
raccolta delle fragole, la stagione è buona e ricca, e dice che non
lascerà mai questo posto perché qui può ascoltare gli uccelli e il
vento. E capisci che non potrebbe mai accettare la relegazione in un
altro posto che la escluda dalla cornice dei frutteti, dei poggi e delle
casette del moshav con il suo rifugio antibombe. Poiché ha compreso che
quei contorni sono i soli, gli unici a poter racchiudere i suoi giorni
futuri.
Ora pieghiamo di nuovo verso Ovest e questa è frontiera
del Libano, che ormai per gli israeliani equivale a Hezbollah, il
partito-esercito sciita. Siamo al punto 105, ogni sezione della
frontiera è segnata per consentire in caso di infiltrazione ai soldati
di intervenire più rapidamente. Solo qui ho sentito voci preoccupate,
sguardi farsi attenti scrutando i villaggi sciiti sulle colline di
fronte. Hezbollah è l’unico nemico di cui Israele ha rispetto, forse
paura: più dell’Isis, più dei siriani. Davanti a me c’è Marum Harash
dove nel 2006 i combattimenti costarono a Israele molti inutili morti.
Le montagne fitte di boschi impenetrabili sono come scalpate dalle
scavatrici, affiorano ferite larghe, lingue di terra rossa e nuda al
sole. Non sono cave o disboscamenti. Israele scoperchia gli angoli morti
della frontiera dove possono passare gli uomini di Hezbollah senza
essere scorti, li costringe al terreno aperto. Un muro anche questo,
fatto di amputazioni e non di reticolati o blocchi di cemento.
Scendiamo
di nuovo verso il mare, si sente la cadenza delle onde del
Mediterraneo, delle onde che battono contro la Palestina come contro una
parete, il bordo estremo della grande vasca d’acqua fra Europa Asia e
Africa. Penso che non ci sia Paese al mondo lungo come Israele, lungo
nel tempo intendo, non nello spazio. Non esiste Paese i cui lineamenti
abbiano la lunghezza di tempo che va dalla nascita di Abramo alle
biotecnologie. Lineamenti concreti limpidi vivi da toccare con il dito:
vivo il vecchio Testamento con le sue valli coperte di erbe e di fiori,
con le colline fitte di agrumeti e di viti; e viva la modernità più
avanzata e audace. Mi raccontano di un progetto di quindici miliardi di
dollari per costruire l’auto robot, di ricerche per creare serre dove
per risparmiare energia si scalderanno solo le radici delle piante e
ahimè anche di nuovi carri armati e cannoni. Se il tempo è davvero una
dimensione non esiste paese più esteso di Israele. Dove la fisica e la
biologia fino alla partenogenesi convivono con chi vuole ricostruire il
sinedrio e il terzo tempio di Salomone (spianando le moschee
musulmane!).
Il deserto nasconde i fatti di guerra, il tempo fa
alla memoria quello che gli anni fanno al vino. Nasconde i morti. La
sabbia è gialla e monda, come la cenere, come la polvere antica. I morti
son troppo lontani e vicini qui, al confine con Gaza e Hamas.
Al
kibbuz di Nirim oggi è iniziata la stagione dei bagni, ha aperto la
piscina, incontri ragazzi forti. Come tutti i contadini del mondo hanno
il viso bruno, meta carne e metà cuoio, lo sguardo duro, le mani nodose,
come tutti i contadini del mondo parlano con frasi corte secche e hanno
risate profonde.
Adel, americana, fragile e antica, con un gran
cappello di paglia contro il sole mi racconta la regola dei dieci
secondi: il tempo in cui bisogna esser pronti a fuggire, in caso di
allarme per il lancio di razzi di Hamas, nella stanza blindata di casa o
rannicchiarsi a terra come le mani serrate attorno ala testa. Sono
gesti che conosco, come conosco luoghi dove le vittime non hanno nemmeno
la possibilità dei dieci secondi perché nessuno farà mai suonare la
sirena o un appello sul telefonino. Gaza è lì, appena oltre il
reticolato e i campi di grano: due minareti come matite verdi puntate
verso il cielo. Gaza con i suoi ventimila combattenti ormai ben
addestrati e armati, dove il radicalismo politico religioso si insinua e
fa proseliti e non rispetta la tregua tacita con Israele: la prova di
come la guerra di 50 anni fa non risolse nessun problema.
Sui
confini Israele dei pionieri che esportavano il comunismo, un comunismo
puramente empirico al di fuori di ogni enunciato razionale, anche se le
punte di collettivismo integrale sono state uccise dal tempo, pare
ancora vitale. Giovani famiglie,a decine, fanno domanda per venire nel
kibbuz. Nel resto del Paese, invece, ho l’impressione di una sorta di
smobilitazione dell’animo degli ebrei in Israele: alla fine della loro
alta tensione. Non so quanto sia giusto rimproverarli per non essere
rimasti se stessi come avremmo voluto, quelli della epopea del 1948,
quelli che abbiamo ammirato increduli nel ’67: rimproverarli per
l’arroganza, per aver scambiato la potenza per virtù. In fondo la
perdita della loro eccezionalità per forza maggiore, al loro ingresso
nella media di virtù e difetti comuni a tutti i popoli che hanno una
patria, è inevitabile. Il male di cui soffrono, la mediocrità della
classe politica rispetto alla vivacità della società e alla grandezza
dei problemi, è il difetto di tutto quello che un tempo chiamavamo
Occidente.
Adele, che mi racconta come è sopravvissuta ai razzi,
aggiunge: «Perché dovrei odiare i palestinesi? Non sono miei nemici sono
miei fratelli». L’eterna, splendida ragionevolezza delle minoranze che
sono ahimè! minoranze.
Se devii dalla autostrada che porta al Mar
Morto verso il tranquillo confine giordano in pochi minuti arrivi alla
tomba di Ben Gurion, sul ciglio di una montagna che guarda il deserto.
Gazzelle brucano l’erba senza paura, un battaglione di giovani soldati
seduti all’ombra ascolta la lezione di storia del suo ufficiale.
Tagliato dal sole a picco il paesaggio offre il fascino triplo della
bellezza, del mistero e della minaccia. Forse qui si comprende che la
forza di questo popolo, con i suoi innumerevoli errori, è in questa
pazienza inesauribile, tessuta, intrecciata nel corso dei secoli con il
destino nemico, le sue ombre, il suo frastuono che ritmano l’esistenza.
Una pazienza di cui nessuno è riuscito ad avere ragione, che niente ha
potuto incrinare. Sanno soffrire come nessun popolo ha sofferto e sanno
sperare contro ogni speranza.