giovedì 25 maggio 2017

La Stampa 25.5.17
Se Moody’s declassa la Cina
di Mario Deaglio

Non succedeva dagli albori della globalizzazione finanziaria, ossia da ventotto anni, che venisse espresso un giudizio autorevole e pesantemente negativo sulla tenuta dell’economia cinese - e, per conseguenza, sui suoi titoli di debito - accompagnato da un abbassamento («downgrade») della valutazione dei titoli stessi.
A dare questo giudizio e a effettuare questo abbassamento è Moody’s, una delle maggiori agenzie di valutazione finanziaria del mondo. Dopo aver aspettato ventotto anni, Moody’s ha deciso di rendere pubblico questo giudizio pochi giorni prima della riunione del G7 di Taormina, nella quale i capi di Stato e di governo dei maggiori Paesi occidentali non potranno fare a meno di (pre)occuparsi anche delle prospettive economiche di Pechino, negli ultimi anni il più importante «motore» della crescita economica mondiale.
Non va del resto dimenticato che una decina di giorni fa è stata lanciata dalla Cina una delle maggiori iniziative industriali di sempre, ossia un enorme programma investimenti in una nuova «Via della Seta» in grado di collegare la Cina con l’Europa e con il resto dell’Asia. Quest’iniziativa è stata definita da Fox News, una rete televisiva americana vicina al partito repubblicano, come una «minaccia alla leadership degli Stati Uniti».
Nella «terra di nessuno» tra economia e politica globale, occorre domandarsi quanto ci sia di vero nella prospettiva di un indebolimento economico cinese nei prossimi anni. La risposta è che qualcosa di vero certamente c’è ma anche che, nel panorama finanziario mondiale pressoché tutti i Paesi, con l’eccezione della Germania, si sono in vario modo indeboliti. Il rallentamento della crescita cinese va quindi collocato nel più vasto quadro di un possibile peggioramento delle prospettive mondiali, con la sola Europa che cerca timidamente di andare controcorrente.
Se Moody’s utilizzasse per gli Stati Uniti gli stessi criteri usati per la Cina, anche il debito pubblico americano dovrebbe essere valutato meno favorevolmente, specie dopo il progetto di bilancio che il presidente Trump ha inviato al Congresso prima di partire per il suo attuale viaggio internazionale. Tale progetto prevede un forte aumento del deficit pubblico e sta già provocando un certo indebolimento del dollaro.
Le riserve valutarie cinesi hanno toccato il massimo nel 2014 e da allora hanno cominciato a scendere moderatamente, anche a seguito dei numerosi prestiti e programmi di investimento all’estero lanciati da Pechino. Con quest’uso «dinamico» delle proprie riserve, Pechino propone un mondo nuovo, la cui moneta base non sarebbe più rappresentata dal dollaro, ma dai Dsp (Diritti Speciali di Prelievo, una moneta artificiale come era l’Ecu per l’Europa). Washington, al contrario, vuol mantenere indefinitamente la supremazia e il «potere di indirizzo» della sua moneta.
Alla crisi economico-finanziaria mondiale sta così subentrando uno scenario dominato dall’incertezza, anche perché, dietro all’ardito progetto della Via della Seta, l’economia cinese non è solida come si vorrebbe: non preoccupa tanto la finanza pubblica quanto quella delle grandi imprese, pubbliche e private, il cui debito è aumentato fortemente. Va considerata anche la crescente posizione debitoria delle famiglie cinesi che stanno scoprendo, oltre all’interesse per il calcio, anche quello gli strumenti finanziari del capitalismo che consentono loro un indebitamento per acquistare l’abitazione o anche solo per speculare in Borsa.
Per conseguenza, nello stato attuale dell’economia mondiale non prevale un’astratta razionalità. L’incertezza (non misurabile) ha soppiantato il rischio (misurabile) e richiede scelte di campo che vanno al di là dell’economia, così come l’Europa del dopoguerra scelse l’«Occidente» anziché il «comunismo» non tanto o non solo per un tornaconto economico di breve periodo, come succede per la finanza attuale, ma anche per motivi ideali.
Tutto ciò chiama in causa anche l’Italia, i cui legami con la Cina sono cresciuti sia in termini di commercio estero, sia per l’interesse cinese a investimenti in Italia che vanno dalle squadre di calcio alle autostrade e ai porti (elementi non trascurabili della futura «Via della Seta»). A questo punto occorre formulare una domanda che nessun politico e pochi imprenditori o banchieri sembrano volersi porre davvero: in che tipo di mondo vogliamo vivere tra 10-20 anni?