martedì 23 maggio 2017

La Repubblica, 23.5.2017
Dopo il boom di Torino da 165.746 visitatori,
gli editori ripensano il rapporto tra le due fiere rivali
Di Simonetta Fiori
Torino

L'ultima cartolina dal Salone non è solo quella dei numeri, che pure sono grandi e altisonanti, per l'affluenza di pubblico e per fatturati: cifre mortificanti per la concorrente Rho. L'album del Lingotto non fotografa solo una città ferita nell'orgoglio, che per senso civico schiera i suoi cittadini come sulle rive del Piave, pronta a difendere la sua festa patrona che porta a Torino oltre cinquanta milioni di euro di indotto. L'immagine più significativa del "Salone dei record" è quella che mette a fuoco un soggetto che resta sempre slabbrato, la fisionomia del lettore colto, il "pazzo malinconico" che allo scintillio televisivo preferisce un seminario sul califfato, alle seduzioni dello chef un dibattito sul populismo. E, al bestseller preceduto da grancassa, il romanzo avvolto nel silenzio. Eccola qui la stirpe dei lettori veri, una specie che al Salone appare popolare ma non necessariamente pop. Un'Italia sempre pianta come pressoché estinta, tristemente minoritaria, isolata nell'arcipelago dei resistenti, di chi non ha mollato e passa per brontosauro. Il lettore come ultimo dei mohicani? La fiera torinese è riuscita a demolire un luogo comune radicato. «Qui al Salone c'è l'élite potenziale, un ceto poco rappresentato assai più vitale delle nostre classi dirigenti», dice Giuseppe Laterza che tira fuori dalla tasca un foglietto spiegazzato. «È il raffronto nei vari paesi europei tra indici di lettura, investimenti nella ricerca, indici di sviluppo. Svezia e Danimarca ai primi posti, in fondo al l'Italia, povera anche perché culturalmente poco agguerrita». La folla che invade il Lingotto è l'immagine d'un Paese che alla notizia in centoquaranta battute preferisce il saggio sull'Europa di Guetta, allo scrittore mediatico un altro più solitario. Nello stand di Voland va a ruba un autore come Zachar Prilepin, non la solita Amélie Nothomb. Nella piccola cattedrale con le copertine blu di Sellerio i ragazzi comprano giustamente Camilleri ma si fermano anche davanti alle collane storiche, quelle inventate da Elvira insieme a Sciascia. «La migliore edizione del Salone», gioisce Antonio Sellerio, solitamente parco di aggettivi enfatici. Non più struscio passivo tra uno stand e un altro, come mandria di turisti allo zoo, ma esplorazione attenta di collane e titoli. «Mi fermano lettori veri, appassionati», dice Carmine Donzelli, editore di saggistica politica e storica. «E lettori fortissimi ho visto l'altro giorno nel carcere delle Vallette, dove Pestelli ha fatto una lezione sulle sinfonie di Beethoven, tra chi mimava il "tatatatan" e chi teorizzava raffronti con compositori slavi sconosciuti anche a me». Le mura carcerarie sono state uno dei simboli scelti per il Salone Off, insieme a tanti altri luoghi storici di Torino dove il neodirettore Lagioia ha costruito il suo programma che concede poco o niente al pop. La qualità può essere popolare, indipendentemente dalle strategie di marketing: a ricordarcelo non sono i musi lunghi e incartapecoriti del secolo scorso, ma la generazione dei trenta/quarantenni che ha guidato il Salone delle meraviglie. E dei paradossi. Può apparire paradossale il trionfo d'un salone dei libri dove manca il quaranta per cento del mercato, gli arcipelaghi di Mondadori& Rizzoli e Gems. Un paradosso che deve indurre tutti a un bagno d'umiltà, come suggerisce Laterza: «La gente viene al Salone non perché attratta dai marchi editoriali, ma perché cerca cose nuove e interessanti». Del vuoto lasciato dai giganti hanno beneficiato i publisher indipendenti, l'editoria cosiddetta di progetto che economicamente non può competere con i colossi né nella compravendita degli autori né nella promozione né nella distribuzione (e collocazione in libreria). «E dire che i grandi gruppi avevano profetizzato: senza di noi il Salone fallirà…», sorride Carlo Gallucci, felice del successo dei suoi libri per bambini. Sandro Ferri, timoniere di e/o e fin dal principio solitario paladino del Salone (insieme a pochi altri marchi) si prende la sua rivincita: «Nessuno ha sentito la mancanza di Mondadori e Gems. E se il Salone è stato vitalissimo, si deve anche agli editori indipendenti che ci hanno creduto fin dal primo momento: contro ogni previsione nefasta». Tutto vero. Ma non c'è da augurarsi certo che tra gli editori resti la lacerazione, con due fiere contrapposte tra grandi e piccoli, colossi e indipendenti. E un ripensamento è già in atto dentro l'Aie, che domani dovrà indicare un nuovo candidato presidente. I nuovi equilibri lasciano pensare che potrebbe farcela Ricardo Franco Levi, giornalista, politico del centro-sinistra, autore dell'omonima legge sugli sconti, indicato da Stefano Mauri (dominus di Gems) in sostituzione di Federico Motta. Uomo delle tessiture contro uomo degli strappi. È implicita in questa possibile successione il giudizio che i grandi gruppi danno della loro fiera milanese, voluta sì da Gems e Mondadori – soprattutto da Gems – ma gestita con piglio non proprio diplomatico da Motta, che si è mosso in guerra contro tutti: contro il Salone torinese, contro il ministro Franceschini che aveva tentato una mediazione, contro gli editori dissidenti liquidati come economicamente irrilevanti e dunque irrilevanti tout court. Levi potrebbe garantire una gestione più illuminata, con una fiera milanese pensata non in lotta fratricida con Torino ma mossa dalla necessità di allargare il pubblico dei lettori, in un'altra stagione e con diversa formula. Il Lingotto ha vinto, sul piano dei numeri e dell'identità. Difficile però estorcere una riflessione dai giganti editoriali, refrattari alle percussioni di petto. L'unico accenno di rimpianto si scorge nello sguardo di Luigi Brioschi, protagonista dell'editoria colta e oggi presidente di Guanda (un marchio di Gems): ma preferisce dare una testimonianza personale, non vuole coinvolgimenti aziendali. Più facile oggi parlare con i piccoli marchi che l'estate scorsa votarono "sì" alla fiera di Rho, un pugno di indipendenti nella lista dei diciassette che dentro l'Aie risultò maggioritaria (una lista composta prevalentemente dalle galassie potenti). Da Antonio Monaco (edizioni Sonda) a Emanuele Di Giorgi di Tunuè, la critica alla fiera di Rho è radicale. Ne contestano la formula, il luogo e le date. Si augurano che la manifestazione milanese acquisti un profilo più professionale, attento alle diverse componenti della filiera dei libro. Ne denunciano il clima da guerra fredda. «Ci si spiava a vicenda: Milano guardava cosa faceva Torino, però era reciproco», confessa Monaco. «E, una volta avviata la macchina organizzativa, noi indipendenti poco abbiamo potuto fare». Insomma, un sostanziale "indietro tutta". Monaco l'ha anche pagata cara. Il suo voto favorevole a Rho ha provocato la fuoruscita dall'Aie di marchi culturalmente rilevanti come e/o, Iperborea, Voland, minimum fax, Sur. Nei mesi scorsi ha deciso di dimettersi da presidente dei piccoli, «per dare un segno di discontinuità». Però ora ha uno scatto d'orgoglio: «Io pentito? Non direi. Senza la fiera a Rho, non ci sarebbe stato il miracolo del Salone. Il nostro voto l'ha scosso dall'appannamento dell'ultima stagione». Gli scissionisti come salvatori del Salone? La storia può essere raccontata in molti modi, e quella narrata dai vinti anche se non convince merita rispetto. Però è innegabile che la competizione abbia giovato. Un editore raffinato lo dice in modo spiccio, traducibile con «Gli abbiamo messo il fuoco nel motore». Su questo concordano anche i "salonisti". Da qui, forse, è possibile ripartire. E in molti che, guidati da Gems, avevano votato per trasferirsi a Milano, adesso tornano indietro