martedì 30 maggio 2017

Corriere 30.5.16
Trump e i palazzi vuoti nel viale della politica
di Sergio Romano

Anche nelle metropoli moderne, come nelle città medioevali, le persone che fanno lo stesso mestiere tendono a raggrupparsi nella stessa strada o nello stesso quartiere. Mentre a Milano esiste un quadrilatero della moda e a Londra un quartiere delle banche, a Washington, capitale degli Stati Uniti, esiste un Viale della politica internazionale. È la Massachusetts Avenue, una larga strada che taglia diagonalmente la città. Qui, o nelle immediate vicinanze, vi sono quaranta ambasciate. Tutte hanno un pennone su cui sventola la bandiera nazionale e molte esibiscono, come insegna, il busto bronzeo o marmoreo del loro padre fondatore: Masaryk per la Repubblica Ceca, Gandhi per l’India, O’Higgins per il Cile e così via. Le rappresentanze degli Stati più giovani, nati dalla disintegrazione della Unione Sovietica e della Repubblica Jugoslava, sono state verosimilmente attratte dalla presenza nel Viale di un numero considerevole di istituti accademici e culturali, noti in America come brain trust: la Heritage Foundation, tradizionalista e conservatrice; il Centro Islamico, composto da un istituto culturale e da una moschea, nato dopo la Seconda guerra mondiale per iniziativa del governo egiziano; l’Istituto Catone, una associazione libertaria che è stata molto critica della presidenza Bush, ma anche di quella di Barack Obama, e trae il suo nome dallo pseudonimo di un saggista anglo-irlandese fra il Seicento e il Settecento; la Scuola Paul Nitze per gli Studi internazionali avanzati, intitolata dalla Università Johns Hopkins al nome di un celebre diplomatico che le donò i suoi archivi; la Brookings Institution, casa madre del pensiero liberale; il Carnegie Endowment for International peace, una delle più antiche fra le istituzioni pacifiste del secolo scorso; l’American Enterprise Institute, vivaio di intellettuali neoconservatori.
James Mann, uno dei maggiori esperti di affari cinesi e oggi professore alla «Paul Nitze», mi ricorda che queste istituzioni sono state per molti anni il serbatoio intellettuale della Casa Bianca, il luogo dove il nuovo presidente, democratico o repubblicano, andava a pescare i suoi collabori all’inizio del mandato. A ogni cambiamento di presidenza, quindi, Massachusetts Avenue assisteva a una sorta di trasloco collettivo incrociato. Quando il presidente uscente era democratico, gli intellettuali democratici tornavano nel grande viale per impartire lezioni e scrivere libri; e quando il presidente entrante era repubblicano, i loro posti venivano presi dagli intellettuali di Massachusetts Avenue che simpatizzavano per il suo partito. I traslochi nei due sensi erano sempre numerosi perché il presidente degli Stati Uniti, all’inizio del suo mandato, ha il diritto di chiamare al servizio dello Stato, con nomine discrezionali, circa 4000 funzionari e magistrati.
Non tutti i nuovi presidenti sono solleciti (Jack Kennedy e Bill Clinton procedettero molto lentamente), ma il primato della lentezza sarà indubbiamente vinto da Donald Trump. I traslochi di Massachusetts Avenue, in questo momento, sono alquanto rari e gli sterminati corridoi dell’Executive Office Building (il palazzo dei ministeri) sono pressoché vuoti. Alla fine dei primi cento giorni della sua presidenza (una data convenzionale usata per far i primi bilanci), Trump aveva riempito soltanto 50 delle 553 caselle indispensabili per le posizioni dirigenti del solo potere esecutivo. Un secondo bilancio, fatto il 20 maggio, non è più incoraggiante. Trump continua a nominare con grande lentezza e la questione è ulteriormente complicata dal fatto che parecchie nomine (557) richiedono la conferma del Senato Al 20 maggio le persone nominate erano soltanto 56 e quelle confermate 34. Mancano ancora dozzine di ambasciatori, e un numero particolarmente elevato di quelli che noi chiameremmo vice-ministri, sottosegretari, segretari generali e direttori generali.
Dietro queste cifre vi è un «problema Trump» che non è facilmente risolvibile. Il nuovo presidente non è un uomo politico. Ha passato una buona parte della sua esistenza, sino alla campagna presidenziale dell’anno scorso, fabbricando e vendendo lusso e svago: grandi condomíni, alberghi, casinò, campi da golf, gare di mondanità e di bellezza. Quando ha voluto soddisfare il suo narcisismo e misurare la sua capacità di attrarre e sedurre, lo ha fatto con un programma televisivo in cui recitava la parte del giudice che premia il successo e condanna inesorabilmente l’insuccesso. Per fare e aumentare la sua fortuna Trump si è mosso, sin dalle sue prime iniziative, nel mondo di coloro di cui aveva bisogno: sensali d’affari, avvocati specializzati in divorzi e bancarotte, investitori, pubblicitari, procacciatori di licenze edilizie, impresari di spettacolo, modelle di successo. Non sorprende che, dopo una vita trascorsa in questi ambienti, un presidente settantenne (il più vecchio di coloro che hanno varcato la soglia della Casa Bianca), poco incline allo studio e con una capacità di concentrazione che non supererebbe i 30 secondi, sia privo dei collaboratori a cui può ricorrere un uomo politico cresciuto fra elezioni, congressi e seminari di partito.
Gli Stati Uniti, in questa situazione, rischiano di non avere un’amministrazione all’altezza delle loro responsabilità e dimensioni. Kissinger disse un giorno ironicamente che se avesse voluto parlare con l’Europa non avrebbe saputo a chi telefonare. Con chi dovremo parlare quando avremo bisogno di parlare con l’America?