giovedì 25 maggio 2017

Corriere 25.5.16
Big Sur
Strade interrotte e turisti scomparsi, la costa ritorna alle origini
Viaggio nella California dei santuari della Beat Generation
di Massimo Gaggi

BIG SUR (California) I capricci del «Niño», un inverno di piogge torrenziali dopo quattro anni di siccità, cascate di fango, qualche ponte crollato: Big Sur torna ad essere quella di poco meno di un secolo fa, prima della costruzione, negli anni Trenta, della Highway 1, l’unica strada che attraversa questa costa impervia di canyon a montagne a picco sul mare. Quarantacinque miglia di costa, compresi i santuari della «beat generation» come l’Esalen Institute, il Ventana, e luoghi celebri della letteratura e della controcultura americana degli anni Cinquanta e Sessanta, privi di collegamenti da mesi. Semidistrutti i bungalow di legno in stile norvegese del Deetjen’s nei quali alloggiarono pittori, scultori e poeti: da Robinson Jeffers a Lawrence Ferlinghetti.
«Chi è venuto a vivere qui — siamo solo un migliaio spasi in un territorio vasto — ama la quiete, la meditazione. Ora stiamo un po’ tornando alle origini: senza il rumore del turismo riscopriamo suoni dimenticati, la natura torna padrona» mi dice Tom Birmingham, un fotografo, lunghi capelli grigi, che vive al «Nepenthe»: un sperone di roccia proteso sull’oceano, il ritrovo più celebre della costa.
Mi ha fatto avere un permesso dei «ranger» per salire a Big Sur percorrendo il sentiero riservato ai residenti che è stato aperto dalle guardie forestali in un bosco di altissimi «redwood».
Più in basso, nel parco Pfeiffer, gli operai sono al lavoro per ricostruire il ponte crollato a febbraio, ma quello nuovo non sarà pronto fino a ottobre. «Sentiamo di nuovo gli animali, il rumore dell’acqua. È tornata la natura selvatica: linci e volpi ovunque» dice Tom mentre saliamo. «Vedi quella lassù? È un’aquila. C’erano anche prima, ma non si facevano vedere quasi mai« aggiunge ansimando perché mentre io salgo con uno zainetto, lui ha sulle spalle un grosso «backpack» da campo pieno di provviste. Nessun trasporto via terra? «No, per le emergenze ci sono gli elicotteri. E, poi, una specie di trattore usato per portare i bimbi di Big Sur attraverso il bosco, fino al ponte crollato dove viene a prenderli l’autobus scolastico. Ma per le provviste, salvo casi rari, ci arrangiamo da soli. È un bell’esercizio mentale. Impari a comprare solo l’essenziale».
Il Nepenthe fa uno strana impressione: mentre tutto sulla costa è chiuso, anche l’ufficio postale, qui bar e ristorante sono aperti, ma viene solo quale residente. Deserta la pedana a scacchi dei balli notturni scatenati, resa celebre da Liz Taylor e Richard Burton che qui nei primi anni Sessanta girarono «The Sandpiper« («Castelli di Sabbia»). Sopra al ristorante c’è la «log cabin», la baita di tronchi d’albero comprata da Orson Wells nel 1944, poco dopo aver sposato Rita Hayworth. Doveva essere il loro nido d’amore, lontano da Hollywood. Ma lei scappò quasi subito: divorziarono dopo due anni. Poi in questa capanna venne a vivere Henry Miller, già celebre e controverso per il «Tropico del Cancro» e il «Tropico del Capricorno».
«Qui scrisse “Big Sur e le arance di Hieronymus Bosch”, ma in queste stanze sono passati tanti altri artisti, anche Jack Kerouac» racconta Erin Gafill, che mi fa visitare la baita nella quale vive. Fa anche lei parte del clan del Fassett, la famiglia che nel 1947 acquistò questa proprietà dal grande attore e regista. I suoi cognati gestiscono il ristorante, lei dipinge.
«Per me» racconta, «è una stagione da sogno. Giorni fa ero qui con la mia tela. Mi sembra di sentire un battito d’ali. Mi giro e vedo sul tetto un condor che mi fissa, tranquillo e incuriosito. Sono emozioni uniche. Ma capisco che per chi vive di turismo tutto questo è una vera disgrazia. Il Nepenthe aveva 115 dipendenti: ne sono rimasti 15».
Per Erin qualche mese di isolamento non è un problema: «Dialoghiamo coi social network, io vendo i miei quadri online. E poi, come ogni anno, sto organizzando un viaggio in Italia con un gruppo di artisti. Roma e Toscana. Torno sempre a Roma: vado sulla tomba della mia bisnonna, anche lei pittrice. Visse a Capri ed è sepolta dal 1944 nel cimitero degli acattolici, vicino alla Piramide Cestia».
Le poche persone che incontri sembrano rilassate. L’isolamento comincia a pesare, ma più per il lavoro perduto che altro. In fondo qui l’elettricità è arrivata negli anni Cinquanta e la televisione negli anni Ottanta.
Vorrei salire ancora, fino al monte più alto della costa dove vive l’unica colonia di condor del Nord America e dove sorge il Camaldoli Hermitage. Ma non è possibile: i monaci camaldolesi dell’eremo che intervistai anni fa per il Corriere sono isolati. È franata anche la stradina che sale al monastero. Pure qui ci si affida a Internet: i frati organizzano una colletta digitale per riparare il sentiero che è privato.
Storie di un luogo che per un anno è tornato a meritarsi il suo nome: furono gli spagnoli, che avevano aperto le loro missioni sulla costa pianeggiante più a nord, a fermarsi davanti a queste regione impervia, rispettosamente battezzata Big Sur: un Grande Sud aspro, impenetrabile, misterioso.