domenica 31 maggio 2015

Repubblica 31.5.15
Nello stadio di Berlino dove Hitler iniziò a perdere
E’ ancora lì il vecchio e storico Olympiastadion
di Gabriele Romagnoli


La città tedesca si aspettava tutta la meglio gioventù europea, alla fine degli Anni Ottanta
Si è agghindata a dovere, richiamando arte e design, offrendo equo canone e lavoro per tutti. Non è venuto quasi nessuno

SI GIOCA lì, ancora una volta: sabato prossimo. Berlino, Olympiastadion, finale di Champions League tra Juventus e Barcellona. Nove anni fa, ultimo atto dei mondiali, tra Italia e Francia, testata di Zidane, raggio di sole sulla fronte di Materazzi, decide (e svanisce) un terzino cometa di nome Grosso. Entusiasmo, festa e ora: vigilia elettrica.
«Non avresti voluto tornare in quello stadio per raccontare un’altra grande partita?».
No.
Tornerei a Berlino. Possibilmente in treno. Perché di tutti gli edifici della città quello che più ho amato è la stazione. Ci andavo perfino a pranzo, al sushi bar con il nastro rotante. Sbrigativo e illuso, dicevo a me stesso che stavo partendo o tornando. Uscivo nella gloria del pomeriggio e scendevo alla riva del fiume, addobbata come una spiaggia nordica, manco fossero le isole Sylt, dove villeggiava Ulrike Meinhof ragazzina. Generazione innocua, questa contemporanea: gioca alla rivoluzione con gli ologrammi, per interposta elettronica persona. Berlino si aspettava tutta la meglio gioventù europea, alla fine degli Anni Ottanta e di un capitolo di storia. Si è agghindata a dovere, dandosi tempo e spazio, richiamando l’arte e il design, offrendo equo canone e lavoro per tutti. Non è venuto quasi nessuno. Dov’è l’errore?
Le cattedrali di vetrocemento, vuote, sono ancora più belle, ma resta una capitale di Ucronia: era avveniristica vent’anni fa. E adesso? È semplicemente vivibile: dovrebbe essere un traguardo, ma sembra un passo indietro, compiuto restando fermi mentre il resto avanza. La ricostruzione è finita, si torna a lezione. Non ho mai sopportato l’ora di storia. La geografia procura sogni, la storia incubi. È un’inerte cronologia di massacri, galleria di folli ritratti da un dilettante, interpretazione capricciosa. Ogni nuovo potere si appropria del passato e lo tarocca per convincerci che stiamo vivendo qualcosa di conseguenziale, addirittura inevitabile: non una creazione, ma un effetto. Il futuro, quello ci viene lasciato per giocare alla speranza, come portarti via i risparmi in cambio di un biglietto della lotteria.
A Berlino ci sono metri di Muro in un cimitero, torrette dei vopos gestite dal fratello di una loro vittima che non le apre se non per ricaricarci le sue batterie. E c’è lo stadio. Prova a entrarci senza conoscerla, la sua storia, senza aver letto niente, della prima versione, o dell’ultima, senza sapere quante volte è stato ritoccato, ignaro del campanile abbattuto o risollevato. Non accettare nessuna sensazione precostituita. Guardati intorno e dimmi se non è, ancora, lo stadio di Albert Speer, l’architetto di Hitler. Se la tribuna, le colonne, i bagni non è di quello che ancora ti parlano, a quello che alludono, settant’anni dopo la fine della guerra. In Germania, da allora, hanno organizzato due mondiali, perché non ne hanno costruito uno nuovo?
C’è una mostra permanente degli eroi di Olimpia che hanno trionfato, il loro Zeus è Jesse Owens, ma diciamoci la verità: la vittoria di Jesse Owens rileva in quanto fu la sconfitta di Hitler, la prima. Quando la rievochi nella mente non è a lui che spacca il filo di lana che pensi, non al suo sorriso da conquistatore, piuttosto alla smorfia del Führer, al suo inedito smacco. Senza Hitler in tribuna, fuori da quello stadio, non sarebbe mai stata la stessa cosa. Il contenitore è, in questo caso, il contenuto. Quando l’hai svuotato, perché lo tieni? Ci sono due visioni del mondo e della vita che si affrontano in questo dopo corsa. Una sostiene che bisogna preservare le prove, i dati, l’evidenza del trauma: solo la sua continua consapevolezza consente di superarlo. È la ragione che convoca la figlia di Jesse Owens per posare tra le architetture di Albert Speer. L’altra preferisce la cancellazione di ogni traccia, il falò purificatore che annulla qualsiasi pretesa di durare nel tempo di chi abbia voluto e attuato il male. E avrebbe realizzato la stessa inquadratura davanti alla stazione di vetrocemento. Per la prima si vince anche con la memoria. Per la seconda soltanto con l’azione. Scatole di ricordi contro fabbriche di ricordi. Vecchia Europa contro Nuovi Continenti.
Anni fa, con mia sorpresa, mi è stato assegnato un premio che porta il nome di Gianni Brera, nientemeno, riservato a giornalisti non sportivi che si erano occupati di calcio. Pensai fosse per le rubriche sul campionato scritte per questo giornale, ma chi lesse le motivazioni precisò: «In realtà: per essersi comportato da ultrà nella tribuna stampa della finale mondiale a Berlino ». È vero, sono salito sulla sedia a gridare. Non ero appassionato di Buffon o Cannavaro, non ce l’avevo con la Francia di Zidane. Dall’altra parte dello stadio c’era una diversa e inaccettabile visione del mondo per la cui sconfitta gioivo da prima di nascere, in nome e per conto. Fantasmi sfrattati. A che serve la casa?