l’Unità 5.11.13
Da Trapani a Rovigo: caos, insulti e denunce
Congressi sdoppiati, tessere gonfiate, persino attacchi omofobi
di Simone Collini
Ci sono state denunce per insulti omofobi, lettere con richiesta di intervento spedite a Guglielmo Epifani con firme dichiarate false dai diretti interessati, congressi svolti in due posti diversi che hanno portato all’elezione di due segretari diversi. E poi ricorsi presentati prima ancora che iniziassero discussione e votazioni, presidenti di commissioni regionali accusati di complicità con lo schieramento avversario, candidati ritirati lamentando la mancanza di trasparenza, iscritti che dichiarano di aver votato ma che non figurano nel registro dei votanti.
Anche nell’ultimo giorno utile per tenere i congressi provinciali non sono mancate le polemiche su tesseramenti gonfiati, impediti, contestati. Casi isolati, spiegano al quartier generale del Pd sottolineando tra l’altro il fatto che tutto questo parlare di iscrizioni di massa, last minute, sospette, mal si concilia con il dato definitivo dei tesserati al partito. Che, stando a quanto risulta in queste ore al Nazareno, per il 2013 non supereranno i 500 mila dello scorso anno (di questi avrebbero votato finora in circa 350 mila). E però quei «casi isolati» andranno affrontati in fretta dagli organismi appositi per evitare che strascichi di polemiche per ora circoscritte a livello territoriale abbiano ricadute negative anche sul piano nazionale.
Non sarà la segreteria convocata per questa mattina da Epifani ad affrontare la questione (all’ordine del giorno c’è la legge di Stabilità e il ruolo della ministra della Giustizia Annamaria Cancellieri nel caso Ligresti), anche se la presenza in questo organismo di esponenti di tutte le anime del partito fa prevedere quantomeno una discussione a latere. Una prima valutazione dei casi sospetti la farà invece oggi la commissione congressuale. La commissione nazionale dei garanti, invece, interverrà soltanto in un secondo momento per decidere eventuali sanzioni, compreso l’annullamento di alcuni congressi (come fu per le primarie di Napoli e di Palermo negli anni passati). Sono alacremente all’opera invece le commissioni regionali, a cominciare da quelle del Piemonte per il caso di Asti (in poco tempo si sono tesserati oltre duecento albanesi) e quella del Veneto per Rovigo, dove da un lato sono stati denunciati tesseramenti di massa e dall’altro non compaiono nel registro dei votanti persone che dichiarano di aver votato. E non sono forse neanche i casi più eclatanti, considerato quanto accaduto ancora ieri.
A Trapani si sono svolti due congressi in due posti diversi e renziani da una parte, sostenitori di Cuperlo e di Civati dall’altra, praticamente hanno eletto due segretari diversi. A determinare questa situazione c’è uno scontro sulle modalità di tesseramento, con contestazioni incrociate su quale sia il vero dato di iscritti di cui tener conto.
A Cosenza l’area che sostiene Renzi ha presentato un ricorso alla commissione nazionale per il congresso in cui si denuncia che a Cetraro il segretario del circolo «ha impedito nuovi tesseramenti». L’area che sostiene Cuperlo ha ironizzato sul «ricorso preventivo», visto che il congresso si sarebbe dovuto svolgere diverse ore dopo l’invio della missiva. Sempre in provincia di Cosenza è successo anche questo: il vicesindaco di Aiello Calabro, Gaspare Perri, ha scritto a Epifani per smentire di aver firmato una lettera inviata al segretario del Pd da Franco Laratta, candidato renziano che si è ritirato denunciando violazioni regolamentari: «La firma del sottoscritto apparsa in calce alla missiva è falsa», si legge nella lettera arrivata a Roma.
Nella quale Roma è successo invece che Tommaso Giuntella ha denunciato pubblicamente alcuni sostenitori di Lionello Cosentino (i due vanno al ballottaggio, con il secondo in testa) per aver rivolto offese «di chiaro stampo omofobo» ad alcuni iscritti che sostengono la sua candidatura. Nella vicina Frosinone, dove il congresso è stato nei giorni scorsi a più riprese sospeso per accuse incrociate di scorrettezze, si attende il voto finale (domenica) e anche il pronunciamento della commissione nazionale per il congresso. Intanto un dato è certo: gli iscritti in questa provincia sono aumentati del 5% rispetto al passato.
In Puglia le critiche hanno coinvolto anche la presidente della commissione congressuale regionale Loredana Legrottaglie, accusata dai sostenitori di uno dei candidati a Lecce di aver offerto la sua «complicità» per uno «scellerato patto in extremis» per loro penalizzante al congresso cittadino di Gallipoli. Il clima è teso anche a Bari, dove ha vinto il renziano vicino a Michele Emiliano Ubaldo Pagano. Renziani sono anche i nuovi segretari di Taranto, Brindisi, Foggia e della provincia Barletta-Andria-Trani, sostenuto unitariamente anche dal fronte pro-Cuperlo. Il quale Cuperlo si dice «letteralemente angosciato» per queste situazioni «abbastanza circoscritte ma non meno allarmanti». E a Renzi, il quale ha fatto sapere che piuttosto che fermare ora le iscrizioni come proposto dall’avversario è preferibile sospendere le convenzioni (passaggio in cui gli iscritti votano il segretario nazionale) e andare direttamente alle primarie dell’8 dicembre, replica che si tratta di una proposta non convincente «perché vuol dire sottrarrare un diritto agli iscritti, quelli che montano i gazebo e che lavorano alle feste, un popolo che va rispettato».
il Fatto 5.11.13
Botte & brogli
Trapani, Pd no limits: i segretari sono due
di Luca De Carolis
qui
l’Unità 5.11.13
Renzi-Cuperlo, guerra dei voti
Scontro sui congressi provinciali. Il comitato Cuperlo: 49 a noi, 35 a Renzi, 1 a Civati
Lo staff del sindaco: dati falsi, noi a 47 loro a 38
Ancora polemiche sulle tessere gonfiate: oggi il caso al Nazareno
di Vladimiro Frulletti
Nel Pd è guerra sui congressi provinciali. Il comitato Cuperlo annuncia: siamo in vantaggio su Renzi 49 a 35, un segretario a Civati. Ma lo staff del sindaco ribatte: dati falsi, siamo avanti noi 47 a 38. Ancora polemiche sulle tessere fasulle. Oggi se ne occupa la commissione congressuale e forse la segreteria.
Un Renzi coi galloni da segretario c’è già. È Tiziano, babbo di Matteo, 62 anni, riconfermato alla guida del Pd di Rignano sull’Arno. Elezione scontata visto che era l’unico candidato in lizza. Per il resto la mappa dei nuovi segretari che sono usciti e stanno uscendo dai congressi di circolo del Pd è assai variegata. Al netto degli scontri e delle polemiche sul tesseramento, i dati non ancora ufficiali, ma sostanzialmente attendibili raccontano anche qui di una «guerra» dei numeri fra cuperliani e renziani. I sostenitori del deputato triestino parlano di un sostanzioso vantaggio per Cuperlo: 49 a 35. Mentre dalle parti del sindaco di Firenze (il coordinatore della campagna Stefano Bonaccini) vengono fornite cifre differenti: 47 segretari per Renzi, 38 per Cuperlo.
È vero che in teoria i numeri dovrebbero risultare uguale per tutti, ma la realtà è diversa. Perché ci sono anche candidati legati ad altri concorrenti alla segreteria: ad esempio a Cuneo il segretario uscente, Emanuele (Momo) Di Caro, legato a Pippo Civati è in testa sul renziano Gianpiero Piola. Perché ci sono candidati «indipendenti» come a Roma dove è in testa Lionello Cosentino (andrà al ballottaggio col cuperliano Giuntella) e Frosinone dove ha vinto (salvo interventi dei garanti) Costanzo. Entrambi legati a Bettini. E infine perché ci sono vari segretari cosiddetti «unitari», cioè concordati da renziani e cuperliani (o pezzi di renziani e pezzi di cuperliani) come nel caso di Bologna col confermato Donini, Firenze con Incatasciato, Prato con Bosi, Arezzo con Dindalini, Empoli con Sostegni, Napoli con Carpentieri e Salerno col segretario uscente Landolfi. In tutto sono poco meno di una ventina che sulle preferenze nazionali (Renzi o Cuperlo) si dividono quasi a metà. Ad esempio in Liguria con l’eccezione di Genova (dove il cuperliano Terrile s’è imposto sul renziano Malfatti) hanno vinto quattro candidature unitarie di cui tre (La Spezia, Savona e Imperia) renziane e una (Tigullio) cuperliana. Mentre gli «unitari» di Alessandria, Como, Lodi e Terni sono cuperliani.
Ecco, distribuendo anche questi neoeletti, i renziani dicono di essere in vantaggio di 9 segretari. I cuperliani di ben 14 pur non conteggiando i «7 segretari ancora non hanno ancora scelto chi sostenere a livello nazionale». È il caso di Ravenna dove il candidato unitario non s’è ancora schierato. «Dati falsi» ribatte il deputato renziano Luca Lotti che chiede allo staff di Cuperlo di tirare fuori oltre ai numeri anche i nomi. Insomma è in corso una nuova battaglia che avviene al netto dei segretari che saranno decisi in questi giorni ai ballottaggi nelle assemblee provinciali. Come a Milano dove ieri notte i circa 150 delegati sono stati chiamati a scegliere fra il renziano Pietro Bussolati e la cuperliana Arianna Cavicchioli. Ballottaggio tra renziani e cuperliani anche Varese e Mantova. A Brescia invece si decide sabato ma sarà una sfida tra due renziani.
Alla commissione per il congresso stanno ancora raccogliendo i dati, ma indicativamente dicono che fin qui hanno votato almeno 300mila iscritti sparsi in quasi 7mila circoli. Comunque dal fronte Renzi (che giovedì sera sarà da Santoro) fanno notare le affermazioni in Veneto (con la sola eccezione di Padova), Marche, Puglia (a Bari determinante il sindaco Michele Emiliano) e Campania. E quelle di Torino con Morri sostenuto dal sindaco Fassino, Vercelli (grazie a Luigi Bobba), Palermo, Pavia e Piacenza. In EmiliaRomagna ai renziani vanno anche Forlì, Ferrara (con Paolo Calvano) e Imola (dove lo scontro è tra renziani dell’ultim’ora sui renziani della prima ora), mentre Cuperlo è in vantaggio a Parma (ma ci sarà ballottaggio), Cesena e Modena. Intanto vince a Rimini. A Reggio-Emilia (dove era sindaco il ministro renziano Delrio) invece si va al ballottaggio e l’ago della bilancia saranno i civatiani. In Toscana sono con Cuperlo Pisa, Livorno, MassaCarrara, Grosseto e Piombino. Con Renzi Pistoia, Lucca e Siena. Va al ballottaggio la federazione della Versilia. Cuperlo è in netto vantaggio anche in Umbria, nel Molise (i renziani vincono solo a Termoli città) e Calabria e vengono sottolineati i successi di Bergamo e Monza in Lombardia.
Da giovedì gli iscritti saranno chiamati a votare per i candidati alla segreteria nazionale: Cuperlo, Civati, Pittella e Renzi. Uno sarà eliminato per le primarie dell’8 dicembre. Ma fare ora un’equazione esatta fra risultato di un segretario provinciale e il corrispondente candidato nazionale è complesso e a volte anche fuorviante. Tanti i fattori locali che incidono su una scelta che nell’idea di «partito da ricostruire dal basso» doveva tenere sganciati i due momenti. Tuttavia entrambi i fronti sono ottimisti. «Su 250mila votanti siamo sopra il 50%» fanno notare dalle parti di Cuperlo. «Loro hanno già fatto il pieno, noi sulle scelte locali eravamo un po’ divisi: renziani della prima ora, nuovi renziani, areadem. Ora non possiamo che crescere» ragionano nello staff del sindaco.
l’Unità 5.11.13
Orfini: ragionevole fermare subito il tesseramento
«Le regole in corsa le abbiamo cambiate. Per Renzi»
L’esponente dei giovani turchi: «Cuperlo ha fatto una proposta ragionevole
Chi rifiuta e poi si lamenta del tesseramento non appare proprio sincero»
intervista di Osvaldo Sabato
Un conto è la voglia di avere la tessera in tasca per scegliere direttamente il segretario del proprio circolo o della propria federazione del Pd. E per poter dire che bello, guardando a cosa succede dall’altra parte della barricata, nel Pdl. «Tanta gente si iscrive per partecipare a questa grande occasione democratica», osserva Matteo Orfini.
Poi però ci sono degli aspetti più inquietanti, che fanno discutere e non poco. «Cioè occasioni in cui c’è un tipo di tesseramento molto diverso, costruito da cordate di persone, truppe cammellate, che appaiono all’improvviso per prendere il possesso di un circolo o di una federazione. E naturalmente questo è preoccupante», aggiunge il parlamentare Pd, uno dei maggiori esponenti dei cosiddetti giovani turchi, insieme ad Andrea Orlando.
Per stoppare queste anomalie Cuperlo ha chiesto a Epifani di fermare il tesseramento il prima possibile.
«Credo che abbia fatto bene di fronte all’aumentare, negli ultimi giorni, di fatti di questo tipo, a proporre lo stop del tesseramento nella seconda fase. Non capisco perché gli altri candidati alla segreteria del Pd lo abbiano rifiutato».
Infatti Renzi dice che sui congressi non è possibile cambiare le regole in corsa. «A parte che lui cambia posizione a seconda delle proprie convenienze, perché le regole in corsa le abbiamo cambiate quando abbiamo dovuto farlo partecipare alle primarie dello scorso anno. In quel caso gli andava bene. Ma è chiaro che quella di Cuperlo è una proposta fatta agli altri candidati, se tutti fossero d’accordo si potrebbero cambiare le regole in corsa, tutti si sono lamentati degli eccessi del tesseramento e Cuperlo ha fatto una proposta ragionevole: finita questa fase, invece di replicare lo stesso meccanismo sull’elezione del segretario nazionale, fermiamoci, tanto poi ci saranno comunque le primarie aperte, per evitare il proliferare di meccanismi di questo tipo. Il fatto che gli altri candidati si siano rifiutati fa pensare abbastanza male sulle ragioni per cui hanno detto di no. Certo se dovesse continuare così non si potrebbero più lamentare».
Perché fa pensare male?
«Se ti lamenti del tesseramento, ti viene proposto di bloccarlo per evitare questi rischi e ti rifiuti, viene da dubitare sulla sincerità delle tue iniziali lamentele».
Ma non crede che tutta questa vicenda possa macchiare l’immagine del Pd? «Spero di no, spero che il partito e gli organismi che controllano la validità del congresso siano inflessibili nel punire fenomeni di questo tipo e nel proteggere, invece, i casi di tesseramento sano che sono la stragrande maggioranza. Bisogna tutelare il partito da comportamenti che rischiano di rovinare tutto».
Quindi per lei non è in gioco la reputazione del Pd?
«Dobbiamo lavorare per difenderla, perché il rischio obiettivamente c’è. Penso che la proposta di Cuperlo andasse in questa direzione: cercare di evitare che questa grande occasione democratica sia sporcata dalle prepotenze di pochi».
Prima ha parlato del rischio di truppe cammellate nelle varie realtà locali. A lei sono giunte segnalazioni di casi particolari?
«Sono quelli che abbiamo letto sui giornali in questi giorni. Mi riferisco ad alcuni episodi accaduti a Torino e ad Asti. Il fatto che ad Avellino sembra che si siano svolti alcuni congressi segreti di cui non erano conosciuti nemmeno il luogo e l’ora della convocazione. Sono tante le cose che in queste ore sono emerse. Sono quelle note ed è chiaro che di fronte a casi come questi bisogna che il partito centrale annulli quei congressi. A Frosinone ancora in queste ore sta accadendo di tutto, sono molti i casi su cui bisogna intervenire e sono sicuro che la commissione nazionale lo farà».
Beppe Fioroni invita Renzi a non minimizzare e si domanda: se con le tessere a pagamento nei congressi succede questo, alle primarie a basso costo che succederà?
«Non mi porrei questi dubbi perché con le primarie eleggi il segretario nazionale, quindi c’è una dinamica di voto anche di opinione, che produce numeri tali da non poter essere inquinati da comportamenti di questo tipo. Quando votano, come spero, tre milioni di persone qualora ci fossero fenomeni di questa natura diventerebbero residuali nella massa di quelli che voteranno. Mi sembra che da questo punto di vista la storia delle primarie è sempre rimasta abbastanza immune da fenomeni di questo tipo».
È la prima volta che il Pd deve fare i conti con il tesseramento gonfiato?
«In passato qualcosa era successo, questa volta il fenomeno mi sembra più eclatante. Ora bisogna vigilare ancora di più per garantire che non venga rovinato il risultato».
In ogni caso Renzi ritiene che a decidere il congresso saranno le primarie e non i congressi degli iscritti.
«Ad eleggere il segretario saranno sicuramente le primarie aperte. Però uno che si candida a guidare il Pd non dovrebbe parlare con questo disprezzo e disinteresse di chi quotidianamente tiene vivo questo partito nei circoli. Questa affermazione di Renzi mi ha stupito vedendo tanta gente nei circoli. Non si dovrebbe dire: tanto a me non interessa perché poi ci sono le primarie».
l’Unità 5.11.13
Cancellieri tra la legge e la coscienza
di Michele Ciliberto
Dispiace che la vicenda Cancellieri stia diventando un affaire politico, ma era prevedibile. Anche se era difficile immaginare fino a che punto sarebbero arrivati gli esponenti del Pdl.
Cioè, mettere sullo stesso piano la telefonata della Cancellieri e quella dell’allora capo del governo, Berlusconi, alla questura di Milano per intercedere a favore di Ruby. In entrambi i casi si sarebbe trattato, a loro parere, di gesti umanitari, anche se andrebbe precisato almeno questo i protagonisti delle due vicende avevano interessi evidentemente diversi. Vale dunque la pena di fare chiarezza, sottolineando alcuni punti elementari.
Il problema del rapporto tra diritto e morale, tra ciò che è «giusto» e ciò che è «buono», è assai antico, risale alla origini della riflessione filosofica. Ad esso sono state date differenti risposte, a seconda degli obiettivi che sono stati scelti e dichiarati primari. Nel Seicento, quando il problema essenziale è quello della sicurezza dello Stato, è teorizzato il prevalere del diritto, della potenza e anche della forza sulle istanze di ordine morale, sui diritti individuali, personali.
Ma è sempre stato così, anche in tempi più vicini a noi e in situazioni affini: quando negli anni Settanta c’è stata in Italia una sorte di «guerra civile», il problema della sicurezza dello Stato è diventato prioritario ed è prevalso sulla garanzia dei diritti individuali, generando anche lo spargimento di sangue innocente, che, ancora oggi, geme e si lamenta perché i «morti», a differenza dei «vivi», non possono dimenticare.
Oggi la situazione è assai diversa, e la difesa dei diritti individuali è considerata con ben altra attenzione di quanto accadesse alcuni decenni fa. Anzi, è stata generata una specifica legislazione che garantisca questa delicata zona del vivere umano, specie quando si tratta di persone collocate in una condizione di debolezza, di fragilità. Del resto, e va sottolineato con forza, sta qui il sigillo di civiltà di uno stato che abbia a cuore, oltre alla sicurezza, la pace e il «ben vivere» dei propri cittadini, specie quando sono emarginati o carcerati. Chiunque conosce, o intuisce, la situazione delle carceri italiane sa infatti che questo è il campo più complesso, più difficile, più bisognoso di interventi efficaci sul piano strettamente legislativo, come si è cominciato a fare. La «cura» dei deboli è la pietra di paragone di uno stato democratico, che anche per questo è il più «naturale», come diceva un grande filosofo moderno.
È stato dunque «giusto» e «buono» procedere nei confronti di Giulia Ligresti come è stato fatto, e di questo occorre compiacersi con i magistrati che hanno gestito, nel modo migliore, questa complessa vicenda. Né è possibile mettersi a fare i «moralisti», ricordando lo stato di grande agiatezza in cui ha vissuto lungamente: i cittadini sono tutti eguali di fronte alla legge e, prima ancora lo sono, di fronte alle sofferenze ultime, quelle che tendono a incrinare, e talvolta a spezzare, la parete che separa i vivi dai morti.
Non è dunque in questione l’operato della magistratura, su cui non si discute, mentre appare discutibile il comportamento del ministro. La domanda che, in genere, si pone è questa: la Cancellieri ha saputo distinguere tra pubblico e privato, tra la sua funzione pubblica e i suoi rapporti privati? Si è comportato allo stesso modo in situazioni analoghe? Tutte domande legittime, alle quali mi ministro deve rispondere. Qui però non intendo porre il problema della opportunità della telefonata della Cancellieri, né di un possibile conflitto di interesse per ragioni familiari. Sono personalmente convinto che il ministro sia in buona fede e sia un integro funzionario dello Stato. Voglio porre un problema che considero più grave, dal punto di vista del nostro vivere civile, repubblicano. Quando il ministro parla di «umanità», cui non intende venir meno, a cosa si riferisce con precisione?
È un temine coinvolgente ma difficile da delimitare e governare. In nome della «umanità» si può pensare di essere autorizzati a qualunque cosa, fino a sostituire il foro della propria «coscienza» intesa come principio fondamentale delle proprie azioni e dei comportamenti al piano della legge che è tale in quanto è, nei limiti del possibile, obiettiva e condivisa, e come tale base, e garanzia, del vivere civile democratico, fondato sulla eguaglianza senza cui non può esserci né repubblica, né democrazia.
Se stessi discutendo tra filosofi o teologi, direi che nel comportamento, e nelle dichiarazioni, della Cancellieri c’è, consapevole o inconsapevole, un elemento proprio della tradizione cristiana di tipo «agostiniano» imperniato sul primato della «coscienza» personale sullo «stato». A questo livello, la dimensione dello stato, del pubblico si dilegua, evapora, non c’è più, qualunque sia la propria intenzione. Ciò che si ritiene giusto nella interiorità della propria coscienza diviene infatti tale anche sul piano oggettivo, dei comportamenti pubblici, istituzionali, e come tale viene proposto e difeso.
Posizione, certo, assai dignitosa e basata su una tradizione così forte e lunga, da diventare una sorta di riflesso condizionato, pronto a scattare, e a rivelarsi, nel momento del pericolo, nelle situazioni di crisi. Ma lo stato moderno, ed anche la nostra Repubblica è fondata su altri fondamenti di ascendenza civile e laica da cui discende il principio, sancito dalla Costituzione, secondo cui tutti i cittadini sono eguali di fronte alla legge, anche i ministri. Questo è dunque il punto in questione, di cui dovrebbe discutere anche il Parlamento, se ne fosse capace: il fondamento ultimo dello stato, della legge, della Repubblica.
In breve, nell’affaire Cancellieri sono coinvolti alcuni importanti questioni di principio concernenti le fondamenta del nostro vivere civile, che travalicano il problema delle dimissioni di un ministro, e su cui converrebbe confrontarsi in modo aperto specie in un momento di crisi dei «principi» repubblicani come quello che stiamo attraversando. Forse si innalzerebbe il livello della vita civile nel nostro Paese e si comincerebbe ad uscire dal fango in cui, come al solito, siamo precipitati.
il Fatto 5.11.13
Le “circolari” di Napolitano e la strada per il bis
La conferma di re Giorgio al Colle nella versione Geloni - Di Traglia (e Bersani) concordata con lo stesso Quirinale: le missive e i colloqui privati
di Wanda Marra
qui
Repubblica 5.11.13
“Ero pronto a candidare Barca premier”
Tra sogni e accuse i giorni amari di Bersani
di Tommaso Ciriaco
ROMA — Poteva finire così. Poteva finire con Franco Marini al Colle e Fabrizio Barca premier. A svelare lo schema è Pierluigi Bersani, timoniere che perse la rotta con l’avvento delle larghe intese. È lui, l’ex segretario dem, a raccontare quel che poteva essere e non è stato: «Pensavo che togliere di mezzo Bersani - dice di se stesso - poteva aiutare qualcuno a cambiare idea senza perdere la faccia. Un nome che avrei fatto io poteva essere Letta. O Barca. Era una possibilità ».
L’infernale trappola nella quale si cacciò il Pd - i giorni maledetti del siluramento di Marini e Prodi - è il fulcro del libro “Giorni bugiardi”. L’hanno scritto Stefano Di Traglia e Chiara Geloni, da anni al fianco dell’ex segretario. Fino allo schianto. Non rinnegano nulla, anzi difendono quella storia. Con qualche recriminazione autoassolutoria - «abbiamo avuto forse un eccesso di fiducia nella volontà di una parte importante degli italiani di uscire dall’inganno populista» - ma senza risparmiare pubblica denuncia di alcuni errori. Uno tormenta Bersani: «Dovevamo staccare la spina a Monti un minuto dopo Berlusconi».
È una cavalcata malinconica. Amara come il parricidio dei 101. E come Bersani, quando ammette: «Un altro nome al posto di Prodi? Segavano anche Papa Francesco». Non per questo si arresta l’“indagine” su chi affossò il Professore. «Chi ha un movente?», si chiedono gli autori. Che subito rispondono: «In nessun modo è possibile raggiungere la cifra di 101 senza includere i 41 renziani».
Si parte dal principio, da Massimo D’Alema che terrorizza Bersani: se accetti la sfida delle primarie di Renzi «arriverai terzo». Poi però il candidato premier e il sindaco lavorano insieme, con profitto: due comizi per le Politiche e addirittura a braccetto allo stadio per Fiorentina- Juve. Sotto di due gol, Renzi soffre: «Perché sono venuto qui, oggi?». Le elezioni sono un trauma, il sogno sfumato di Palazzo Chigi scivola tra le mani dell’allora segretario dem. «Avrei fatto così: avrei convocato il primo consiglio dei ministri dicendo a tutti: “Niente di che, è per conoscerci”. Al mattino dopo, però, le bozze per i provvedimenti dei primi cento giorni - cittadinanza, unioni civili, anticorruzione - sarebbero diventati legge. «Un governo di cambiamento? Sarebbe durato un anno, un anno e mezzo - sostiene Bersani - Ma dicevo: cadremo sul cambiamento».
C’è anche qualche frammento di storia che vale la pena conservare. E rivendicare. Bersani chiama Grasso: «“Fai il Presidente del Senato”. E lui: “Aspetta, fammi sedere. Ma sono in grado?”. “Imparerai” ». Spuntano anche dettagli sulla trattativa mai decollata con Grillo. Si tenta l’impossibile, cercando la mediazione di Renzo Piano e anche quella del dentista del leader pentastellato.
Tutto si incaglia sullo scambio proposto dal Pdl: Palazzo Chigi in cambio delColle. Napolitano, intanto, fa sapere con una lettera recapitata ai leader della maggioranza - le ragioni che impediscono la sua rielezione. La missiva è firmata “GN”. Bersani, nel frattempo, si avvicina al burrone dei 101. Tratta con Gianni Letta, lavora seriamente per Sergio Mattarella al Quirinale, incontra Silvio Berlusconi. Gli staff riescono a evitare che anche solo un’immagine arrivi ai media. Il Cavaliere, come al solito, scherza. Sulla condizione di neofidanzato con suocera, sull’allenatore del Milan: meglio Seedorf di Allegri, profetizza.
Poi tutto precipita. Salta Marini «avrebbe stupito tutti - giura Bersani ma qualcuno voleva rompere il giocattolo » - si infrange Prodi. In mezzo, secondo gli autori, si intravede qualche ambizione frustrata di D’Alema e la manovra dei nemici interni per evitare le primarie dei parlamentari sul Professore.
Spazio all’epilogo, dunque. Bersani si dimette e chiede a Napolitano di accettare il bis. Perché? «Serve uno choc. È in gioco il Pd». Il Presidente accetta, «forse» dopo il pressing di Mario Draghi, «forse anche» della Casa Bianca. Si vola verso le larghe intese. «Presidente - ammette sconsolato lo sconfitto al Colle - sono andato due volte sotto un treno».
l’Unità 5.11.13
La denuncia: «Medici-torturatori nelle carceri Cia»
Hanno collaborato agli interrogatori e all’alimentazione forzata a Guantanamo
di Sonia Renzini
Professionisti della sanità trasformati in agenti dei servizi segreti in nome della sicurezza nazionale. In barba all’etica medica e al giuramento di Ippocrate. Lo dice uno studio condotto dall’Institute on Medicine as a Profession e dalla Open Socity Foundation del finanziere George Soros.
Secondo il rapporto stilato da venti esperti della «Task-force per il mantenimento della professionalità medica nei centri di detenzione per la sicurezza nazionale», dopo gli attentati dell’11 settembre, medici e psicologi in servizio per l’esercito americano e la Cia hanno violato il codice etico della loro professione per partecipare a «torture e a trattamenti degradanti, crudeli e inumani» contro presunti terroristi. E si sono adoperati per fornire informazioni cliniche utili per gli interrogatori ai detenuti nelle prigioni americane in Afghanistan, a Guantanamo o nei siti segreti della Cia.
Certo, è necessario ricordare quel contesto storico e ricostruire quel clima da caccia alle streghe per capire come tutto questo possa essere avvenuto. Fu all’indomani della catastrofe dell’11 settembre 2001, quando cominciarono a venire catturati alcuni personaggi sospettati di appartenere ad Al Qaeda, che ai medici militari americani fu raccomandato di prendere parte a certe pratiche. Si trattava di un’emergenza, fu detto, di una questione di sicurezza nazionale, questa e non altro era la posta in gioco che fece violare il patto esistente tra la professione medica e la società, denuncia Gerald Thomson, uno degli autori del rapporto.
E i medici, decine, forse meno, finirono per spalleggiare interrogatori e trattamenti disumani dei prigionieri, dalla privazione del sonno all’alimentazione forzata, certo non in linea con i loro principi professionali. L’inchiesta, che va sotto il titolo «L’etica abbandonata: professionalità medica e abusi sui detenuti nella guerra contro il terrorismo», sollecita un’inchiesta della commissione sui servizi segreti del Senato Usa, comprese visite mediche dei detenuti e la verifica di stralci di interrogatorio.
Dura la reazione del dipartimento alla Difesa e dell’Agenzia centrale di intelligence, il primo ha definito i risultati del rapporto «assurdi», la seconda ha parlato di conclusioni «erronee». Per il direttore della comunicazione dell’agenzia di intelligence Dean Boyd «è importante sottolineare che la Cia non ha più prigionieri e che il presidente Obama ha messo fine al programma di detenzione e di interrogatorio con un decreto del 2009». Mentre il portavoce del Pentagono Todd Breasseale ci tiene a precisare che le accuse non sono nuove e che tali affermazioni sono state oggetto di numerose indagini negli ultimi anni senza produrre nessun riscontro.
È vero che le peggiori violazioni citate nella relazione si sono verificate prima del 2006, basti pensare che più di 100 detenuti sono morti tra il 2002 e il 2005 e ben 43 di questi casi sono stati classificati come omicidi. Ma è innegabile che l’alimentazione forzata a cui sono stati sottoposti i detenuti che hanno fatto lo sciopero della fame a Guantanamo Bay è in netto conflitto con le norme internazionali sul trattamento per i detenuti, sottolinea Thomson. In più di 100 hanno rifiutato il cibo in estate e almeno in 30 sono stati nutriti attraverso tubi spinti giù attraverso il naso nei loro stomaci, racconta ancora Thomson alla Cnn. E continua: «Quegli scioperi della fame sono in corso, è necessario cambiare le linee guida per i medici, in modo da non costringerli a violare l’etica medica». Secca la risposta di Breasseale: «Il programma di alimentazione punta esclusivamente a preservare la vita e la salute dei detenuti ed è in linea con le leggi degli Stati Uniti».
il Fatto 5.11.13
Addestratori da Roma, metodi libici sicurezza e orrore contro i migranti
di Stefano Pasta
qui
Repubblica 5.11.13
Fra i dannati del carcere di Herat dove la giustizia è un miraggio
Gli italiani hanno portato aiuti e attrezzature: ma non basta
di Adriano Sofri
HERAT IL CARCERE di Herat è terribile, e non fa niente per nasconderlo. Capienza 800, effettivi 3.500. «Non c’è spazio per la preghiera, per star seduti e per mangiare», dice, nell’ordine, il comandante. Per i bisogni c’è un secchio, l’impianto idrico è disastrato e le fogne intasate, si portano fuori – chissà dove, il carcere è in piena città – i bidoni.
GLI “arrestati”, non ancora giudicati, sono 490, gli altri condannati per omicidi, sequestri, traffico di droga, furti, e i Taliban, che dovrebbero essere separati, in un “blocco 6”, ma non si riesce. «Però non fanno proseliti, aglialtri detenuti non piacciono».
Stanno portando decine di detenuti ai processi, attaccati a una lunga catena. L’insieme è miserabile e, all’apparenza, non violento, come se anche la violenza fosse un lusso in una condizione simile. Nel fabbricato centrale c’è un piano sopraelevato «dagli italiani», ancora senza arredi — i letti a castello, cioè. Un agente prende 80 euro al mese. «Dopo due mesi se ne vanno». Settanta detenuti sono condannati all’impiccagione, l’ergastolo non esiste, la pena massima è di vent’anni.
Se al carcere maschile si prova la ripugnanza di sé e di tutto, che prende in certi zoo malmessi, al femminile si è sopraffatti dalla commozione. È stato costruito «dagli italiani», le detenute sono 171, i locali spogli ma decenti, i colori vivaci quanto erano castigati al maschile. Però ci sono i bambini, e ti corrono addosso, ti avvinghiano come se ti stessero aspettando e non ti lasciano più. Stanno con le madri fino ai sei anni, poi li passano all’orfanotrofio. Oggi sono 67, sembrano mille. Il delitto più comune per le donne è la “prostituzione”, da uno a 10 anni: che vuol dire l’adulterio, o l’aver fatto l’amore prima di sposarsi. Ci sono stanzoni di lavoro, grandi telai verticali per i tappeti, macchine da cucire antiche, parrucchieria. Nel cortile donne giovani e vecchie e bambini stanno accampate come a una fermata di corriera che non arriva.Le condannate per sequestri di persona sono nove, per spaccio due, per omicidio 49, hanno ammazzato «il marito, o la moglie del figlio». Direttrice, dottoresse e personale ispirano fiducia, non fanno che ringraziare e mostrare quello che serve con più urgenza. C’è una stanzetta per i parti, lascio che la racconti la fotografia.
Il comandante è un generale, Abdul Baghi Bessoudi, è arrivato da poco, il precedente è stato travolto da un lungo sciopero della fame. «I detenuti per spaccio sono pesci piccoli. La mafia della droga ha influenza molto in alto, ma qualcuno grosso lo prendiamo. A Kabul ne avevo sette o otto. Se un contadino coltiva il grano si paga un mese, col papavero tre anni. Lo spazio per un carcere rispettoso dei diritti umani lo troveremmo. Abbiamo 10 ettari, se ce li lasciassero vendere potremmo andare fuori città, con una struttura nuova. In alcuni distretti i giudici non vanno, perché hanno paura. A parte questo, la giustizia amministrata dagli anziani, l’omicidio compensato da un riscatto o dalla consegna di una ragazza, sta finendo: è un progresso necessario e anche una spiegazione del sovraffollamento. Senza gli italiani e la Croce Rossa non sapremmo come fare».
“Gli italiani” qui e altrove ripetuti per essere ringraziati e subito dopo richiesti di qualcos’altro di essenziale, sono il Prt, team di ricostruzione provinciale, ora guidato dal colonnello Vincenzo Grasso, che in sette anni ha impiegato 46 milioni di euro della Difesa per la provincia di Herat in progetti messi a concorso e gestiti dalle autorità locali, anche in comune con la Cooperazione, la Ue o le ong: ospedale pediatrico e ospedale per le tossicodipendenze, scuole, agricoltura. Ieri è stato inaugurato un centro per persone povere con gravi disabilità, che vivono in strada. Anche l’orfanotrofio, che ha 300 bambini e tre sedi: noi visitiamo quello per le 90 femminucce. Dovunque, bambine e bambini hanno imparato a dire «Ciao» e si divertono a ripeterlo all’infinito, e noi con loro, come si fa coi merli indiani, e i merliindiani siamo noi. Il programma del Prt finisce il prossimo 31 marzo. Che cosa succederà poi non si sa, e non solo per il Prt.
Mawlawi Khodadad, 65 anni, due mogli e 12 figli, dirige una scuola con 12mila studenti, 3mila ragazze, e detesta i «falsi Taliban» («il Corano non dice di tagliare la testa alla gente») ed è la più alta autorità religiosa sunnita di Herat. Dice seccamente: «Il nostro problema si chiama Pakistan e Iran. Appena le truppe internazionali saranno partite, l’Afghanistan ridiventerà il centro di Al Qaeda. Soldi e sacrifici buttati». Però una giovane graduata del Genio, reduce da un servizio di prima linea, mi ha detto: «Quando la gente comincia a mettere la freccia per curvare, è difficile che accetti di tornare indietro».
l’Unità 5.11.13
Scambi di terra, a gennaio il piano Usa per la Palestina
Le anticipazioni sul quotidiano israeliano Haaretz
Resta il nodo delle colonie
Il rapporto di Peace Now: insediamenti cresciuti del 70% in sei mesi
Il governo Netanyahu: «No a diktat»
di U. D. G.
Barack Obama forza i tempi. E scopre un nuovo terreno di scontro con Netanyahu. «Gli americani vogliono passare dal coordinamento fra le due parti ad una fase di intervento attivo. Questo succederà a gennaio»: con queste parole, riferite al quotidiano israeliano Haaretz dalla leader del partito di sinistra Meretz, Zahava Gal On, si è diffusa la notizia secondo la quale l’amministrazione Obama avrebbe intenzione di presentare a gennaio 2014 il proprio piano per uno schema d’accordo su base permanente tra Israele e i palestinesi, basato su «uno scambio di terre concordato». Secondo la stessa fonte, il segretario di Stato americano John Kerry lo avrebbe illustrato al primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu durante il loro incontro di sette ore a Roma lo scorso 23 ottobre.
Il piano diplomatico secondo quanto riferito da Gal-On al quotidiano si svilupperà attraverso una «graduale tabella di marcia e si rivolgerà alla dimensione di una pace regionale, basata sull’iniziativa di pace araba». Vi sarà anche una parte economica con investimenti nei territori palestinesi (tre miliardi di dollari). I negoziati di pace tra israeliani e palestinesi sono ripresi lo scorso luglio e da allora ci sono stati 15 incontri tra le due parti. Fino ad oggi, sottolinea il quotidiano israeliano, non ci sono stati passi avanti sostanziali e le due parti rimangono distanti. Le rivelazioni di Haaretz sono accolte con fastidio dall’entourage del primo ministro. Netanyahu affida la sua risposta ad una nota, nella quale mette i paletti alla eventuale iniziativa Usa: «Siamo pronti a valutare qualsiasi ipotesi di pace ma non accetteremo alcun diktat», avverte.
Se le anticipazioni di Haaretz saranno confermate da Kerry, oggi in visita in Israele, ci troveremmo di fronte ad una svolta sostanziale, concordano gli analisti a Tel Aviv. Perché il piano americano si fonderebbe su un principio fondamentale: quello della reciprocità nella definizione dei confini dei due Stati: a cessione di territorio da parte palestinese corrisponderebbe un’analoga cessione da parte israeliana.
RAMALLAH ATTENDE
Di diverso tenore le prime valutazioni palestinesi. «Ascolteremo con attenzione quanto ci dirà il segretario di stato Usa afferma Saeb Erekat, capo negoziatore dell’Anp -. A lui ribadiremo la nostra convinzione che occorra non solo accelerare i tempi del negoziato, ma anche ancorarlo ad una prospettiva chiara, che per noi resta quella di un accordo di pace fondato sul principio “due popoli, due Stati”». «Ma aggiunge Erekat le iniziative unilaterali portate avanti da Israele rischiano di vanificare questa prospettiva».
Il riferimento del capo negoziatore palestinese è all’annuncio da parte del governo israeliano del via libera per la costruzione di altre migliaia (almeno 5mila) unità abitative negli insediamenti in Cisgiordania e a Gerusalemme est. «È la negazione dei diritti dei palestinesi, un duro colpo agli accordi internazionali già firmati. È un fallimento che sta distruggendo gli sforzi degli Stati Uniti sostiene Ahmed Assaf, portavoce di al Fatah, il movimento palestinese di cui Abu Mazen è il leader -. Ciò di cui abbiamo bisogno ora è di sentire la reazione americana, abbiamo bisogno di una reazione chiara per impedire a Israele di portare a termine i suoi piani».
Una risposta indiretta da parte israeliana non si fa attendere. «I palestinesi sapevano che avremmo costruito nel corso dei negoziati» e stanno cercando di creare «una crisi artificiale». Così Netanyahu ha difeso la decisione dello Stato ebraico di avviare la costruzione di nuove case nelle aree che i palestinesi reclamano per il loro futuro Stato. Le dichiarazioni del premier sono state riportate ieri da un funzionario, rimasto anonimo, che ha partecipato all’incontro avuto l’altro ieri dal premier israeliano con alcuni membri del partito Likud. In un rapporto pubblicato il 17 ottobre, Peace Now, il movimento pacifista israeliano, ha rivelato che la costruzione negli insediamenti è aumentata del 70 per cento negli ultimi sei mesi, aggiungendo che per la maggior parte dei casi si è trattato di costruzioni avviate negli avamposti coloniali.
il Fatto 5.11.13
Moni Ovadia
“Comunità ebraica ufficio propaganda di Israele: vado via”
L’artista escluso dal festival organizzato a Milano: “Dico no alla colonizzazione dei territori palestinesi, qualcuno ha posto il veto su di me. Ma hanno per amici i La Russa: che importa se, col braccio teso, inneggiavano a chi ci ha sterminati?”
intervista di Silvia Truzzi
qui
il Fatto 5.11.13
Israele e le colonie: il messaggio al mondo
di Maurizio Chierici
qui
Corriere 5.11.13
La Cina verso il sorpasso sull’America
Nei prossimi mesi riviste le stime sul Pil a parità di potere d’acquisto
di Danilo Taino
La Cina è già la maggiore economia del mondo, o lo sta per diventare, in termini di parità di potere d’acquisto. È un secolo e mezzo di dominio americano che arriva alla fine. Non significa che gli Stati Uniti siano in un declino strutturale: il dinamismo e la capacità d’innovazione della loro economia rimangono incomparabili. Piuttosto vuole dire che gli equilibri nel mondo cambiano più velocemente di quello che si pensasse. Secondo calcoli condotti sulla base di una nuova elaborazione statistica effettuata da un organismo che lavora sotto l’egida della Banca mondiale, alla fine del 2013 il Prodotto interno lordo (Pil) cinese dovrebbe essere attorno ai 16.400 miliardi di dollari: quello degli Stati Uniti a poco meno di 16.200.
L’organismo in questione — l’International Comparison Program (Ipc) — è una partnership statistica internazionale che periodicamente effettua uno studio ponderoso sulle parità di potere d’acquisto: in sostanza conteggia beni e servizi prodotti in ogni Paese usando lo stesso prezzo, immaginando che un telefono cellulare o una manicure abbiano lo stesso valore in Cina, in Italia, in Brasile. Usare questo metodo «invece dei tassi di cambio di mercato — spiega l’Ipc — rende possibile paragonare la produzione delle economie e il welfare dei loro abitanti in termini reali (cioè controllando le differenze nei livelli di prezzo)».
Il problema è che a livello internazionale c’è una certa insoddisfazione per lo studio Ipc realizzato nel 2005, sul quale si basano le principali classifiche dei Pil: parecchi esperti sostengono che ha sopravvalutato il livello dei prezzi in Cina, con ciò abbassando il Pil del Paese di circa il 20% (nel caso di altre economie emergenti come India e Bangladesh anche del 40%). Ora, l’Ipc sta conducendo un nuovo studio che tiene conto di quelle critiche.
I risultati saranno presentati in dicembre. Branko Milanovic, un lead economist della Banca mondiale, sostiene che, sulla base dei risultati preliminari, «si ritiene che il nuovo round dell’Ipc rovescerà in una certa misura, per quel che riguarda la Cina, i risultati del 2005. Questo implica che il Pil della Cina può all’improvviso fare un balzo di qualcosa come il 20%». Significa che, con i nuovi numeri, il Pil cinese in termini di parità di potere d’acquisto del 2012 (dato Fondo monetario internazionale, Fmi) passerebbe dagli attuali 12.471 miliardi di dollari a 14.965. Che si confronta con quello americano di 15.685 miliardi di dollari. Se si suppone che quest’anno l’economia cinese cresca, sempre a parità di potere d’acquisto, del dieci per cento e quella americana del tre, risulta che Pechino potrà segnare sulla lavagna circa 16.460 miliardi di dollari di Pil, Washington qualcosa tra i 16.150 e i 16.200.
Le statistiche sul valore comparato dei Prodotti lordi internazionali variano parecchio proprio perché trovare dati paragonabili in tutti i Paesi è complicato. Classifiche usando il Pil di ogni Paese in valuta locale non si possono fare, essendo le unità di misura diverse. Quando invece i Pil vengono espressi in una sola valuta — di solito il dollaro — tutto viene distorto dai tassi di cambio, che possono anche avere variazioni consistenti di anno in anno. In più, non si tiene mai conto che un taglio di capelli o il famoso Big Mac hanno valori diversi in ciascun Paese. Con questo metodo, il Pil americano del 2012, per dire, sarebbe stato quasi doppio rispetto a quello cinese: 16.244 miliardi contro 8.221 (ancora dati Fmi). Confrontare i Pil sulla base della parità di potere d’acquisto sembra dunque più corretto, se si vuole avere un raffronto realistico della dimensione delle economie: in questo modo, le differenze sono differenze di volumi di beni e servizi.
Anche se la revisione che sta conducendo l’Ipc non avvenisse, il sorpasso della Cina all’America non sarebbe comunque lontano. Se ci si basa sulle tabelle dell’Fmi e sui ritmi di crescita previsti dal Fondo stesso, avverrebbe nel giro di un paio d’anni anche considerando i valori delle parità di potere d’acquisto calcolati nel 2005. Sulla base dei dati Penn World Tables della Pennsylvania University, invece, Milanovic ha calcolato che il sorpasso avverrebbe tra circa un anno. Secondo il Maddison Project, che cerca di ricostruire a ritroso i Pil mondiali (e non usa i valori Ipc del 2005) sarebbe addirittura già avvenuto nel 2009.
Messi in politica, i dati pongono una sfida non da poco a Washington. E una forse più grande, in termini di responsabilità globale, ai leader comunisti riuniti a discutere di economia nello smog da crescita di Pechino.
Corriere 5.11.13
Il leader Xi Jinping alla prova delle riforme Modello Andropov: perestrojka senza libertà
di Guido Santevecchi
PECHINO — Sono settimane che sulla stampa cinese si rincorrono titoli ed editoriali sulle «riforme che verranno». Il momento è arrivato. Sabato si apre a Pechino il Terzo Plenum del Comitato centrale del partito comunista: circa 370 dignitari ascolteranno il discorso del segretario generale Xi Jinping. Ci vorranno giorni, se non mesi per decifrarlo, sia all’estero sia in Cina. Dalle riunioni a porte chiuse è stato fatto filtrare che sarà lanciata una «riforma omnicomprensiva». Il numero 4 del Politburo ha assicurato che si tratterà di un progetto «senza precedenti».
Ma dietro gli annunci, tutti si chiedono se Xi Jinping sia un vero riformista o no. Il sessantenne Xi è arrivato al vertice un anno fa: i suoi primi slogan sono stati dedicati alla lotta contro la corruzione, mentre il nuovo premier Li Keqiang, 57 anni, prometteva una crescita più equilibrata, non più all’inseguimento di incrementi a due cifre del Prodotto interno lordo, ma diretta ad aumentare i consumi interni e incrementare il reddito della fascia più debole della popolazione (si calcola che ci siano ancora circa 100 milioni di cinesi sotto la soglia della povertà). Poi, negli ultimi mesi, Xi ha cominciato ad usare slogan e tattiche maoisti. Chi è dunque Xi?
«Certamente non è un Gorbaciov, piuttosto un nuovo Andropov», dice al Corriere una fonte che conosce il dibattito interno al partito comunista. E spiega: «Yuri Andropov, l’ultimo leader sovietico prima di Gorbaciov, era disposto a promuovere una perestrojka economica ma era deciso a chiudere ogni spiraglio di glasnost, trasparenza e apertura politica». Quindi, Xi non vuole correre il rischio di distruggere il sistema come fece Gorbaciov, che lanciò le due svolte insieme e perse insieme il potere, il partito e l’Unione Sovietica.
Un’altra tesi è che Xi stia «lanciando segnali alla sinistra maoista, ordinando arresti di blogger e liberi pensatori, parlando di «linea di massa», di «rettifica» di ogni pensiero deviante dall’ortodossia, ordinando sedute di autocritica che ricordano i sistemi brutali della Rivoluzione culturale per poi muovere verso destra: «Perché solo un leader forte può mettere mano alle riforme economiche».
In effetti, in Cina si dice che il segretario generale del partito, nonché capo dello Stato, prima viene «eletto» nel segreto di riunioni dominate da poche decine di persone, molte delle quali discendenti dei rivoluzionari della prima ora. Poi il nuovo leader deve «candidarsi» a guidare davvero il Paese, creandosi una base di consenso solida. Se, come sembra, Xi è riuscito ad elevarsi al di sopra dei suoi compagni del Politburo, dal discorso di sabato al Terzo Plenum ci si possono aspettare le direttive che guideranno la Cina per i prossimi cinque-dieci anni: per l’ammorbidimento dei monopoli delle industrie statali e a favore della concorrenza di mercato; liberalizzazione dei tassi d’interesse per mettere sotto controllo il debito; l’avvio del processo per la piena convertibilità dello yuan; forse svolte sociali come l’abbandono della politica del figlio unico. Ma tutto questo sarà avvolto dal linguaggio tradizionale del potere. E poi gli ordini dovranno essere messi in pratica dall’enorme burocrazia imperiale della Cina. Ci vorranno anni.
il Fatto 5.11.13
Il maestro Zubin Mehta
L’olocausto della cultura “Uccisa da questi politici”
intervista di Jesus Ruis Mantilla
qui
l’Unità 5.11.13
La riforma del Mibac
Ecco le linee guida per trasformare e riorganizzare i Beni Culturali in Italia
di Luca del Frà
Anticipiamo la relazione che verrà presentata oggi alla stampa: tra le novità suggerite dalla Commissione al ministro Bray ci sono la riduzione delle direzioni regionali con conseguente ridimensionamento dei compiti. Un capitolo dedicato anche a precari e sponsor
ROMA SONO OTTANTOTTO LE PAGINE CHE LA COMMISSIONE PER LA RIFORMA DEL MINISTERO PER I BENI, LE ATTIVITÀ CULTURALI E IL TURISMO (L’IMPRONUNCIABILE MIBACT) ha consegnato al ministro Massimo Bray: l’intero settore viene profondamente ridisegnato da una Relazione che tuttavia ha solo valore consultivo e oggi viene presentata alla stampa nella sede del Collegio Romano.
Per comprendere a fondo il documento occorre considerare che, tenendo fuori il turismo, il Mibac ha una struttura spesso definita abnorme, perché ubbidisce a logiche opposte: quella dello Stato, portata avanti dalle direzioni generali, e quella della riforma in senso federalista, che ha fatto esplodere il numero delle direzioni regionali, con la crescita esponenziale dei ruoli dirigenziali, ed effetti non sempre benefici.La Spending review impone a tutti i ministeri un taglio dei dirigenti: la Commissione suggerisce al Mibac di ridurre il numero delle direzioni regionali, accorpandole ma non precisandone il numero, e ridimensionandone anche il ruolo, puntando invece sulle direzioni generali, dunque sullo Stato, ma ridisegnandone profondamente le funzioni e riducendole.
Questo è un aspetto positivo che, qualora ben articolato all’atto pratico, potrebbe portare allo snellimento di molte incongrue sovrapposizioni, con le direzioni regionali che svolgerebbero un ruolo di semplice coordinamento, controllo amministrativo e raccordo con gli enti territoriali, ma sarebbero estromesse da quello tecnico scientifico –rilasciare permessi, fare tutela, e così via–, funzione che per la pressione degli interessi locali non sempre hanno svolto in maniera ineccepibile.
Sorprendete è invece come siano ridisegnate le direzioni generali: due, gemelle, si dovrebbero occupare una dell’innovazione, della digitalizzazione, dell’informatizzazione concessione ad argomenti cari al ministro -, l’altra del personale, con specifiche competenze sulla formazione. Una, va da sé, per il bilancio e l’amministrazione, con competenze specifiche in materia di bandi e appalti. Tre infine sono riservate alle funzioni proprie del ministero: una elefantiaca e detta al Patrimonio con competenze su tutti i beni culturali e del paesaggio (attualmente sono 2), la seconda, detta degli Istituti culturali, riservata alle biblioteche, gli archivi e i musei (sono 2 ma con i musei affidati ad altre direzioni), la terza allo spettacolo dal vivo e al cinema (oggi 2).
Scorporare i musei dalla direzione al Patrimonio potrebbe apparire contraddittorio, ma obbedisce a una logica che vuole renderli autonomi e con direzioni dotate di maggiori poteri decisionali nel nostro ordinamento i musei sono considerati poco più che uffici.
La relazione invita poi a creare una non meglio definita Unità di controllo, che dovrebbe vigilare sulla realizzazione delle direttive a tutti i livelli del Mibac sarebbe augurabile anche nei rapporti non sempre limpidissimi tra Mibac e privati. Meno chiara la Relazione sul Segretariato generale: potrebbe essere abolito, ma anche no. Qui la sovrapposizione è palese, o l’Unità di controllo o il segretariato Generale ma dopo vedremo perché.
La Commissione ha poi preso di petto alcuni nodi dolenti: primo fra tutti la presenza, in questi anni di blocco delle assunzioni pubbliche, di lavoratori atipici, con contratti professionali o a tempo determinato, che prestano servizio per il Mibac, cui si aggiungono quelli delle fin troppo numerose società «in house», vale a dire di cui il Mibac è proprietario e di cui si avvale per numerosi servizi e mansioni. Un modo evidente di eludere le regolari assunzioni per concorso, come sarebbe di legge nella pubblica amministrazione. La Commissione non fa mistero della singolare scarsità di dati messi a sua disposizione dal Mibac, raccomandando una ricognizione puntuale in un settore che, aggiungiamo, non di rado è caratterizzato da vaste praterie di nepotismi, raccomandazioni, funzionali a creare consenso.
Intriganti anche le pagine dedicate agli appalti e alle sponsorizzazioni: emerge una giungla legislativa forse volutamente confusa poiché da una parte permette al livello politico di operare in modo arbitrario, dall’altra incentiva i mille ricorsi ai tribunali amministrativi che, per usare le parole della relazione, «sono diventati una prassi» che costa cara alle casse dello Stato e alle tasche del contribuente. La commissione suggerisce la via francese, una forte deregolamentazione degli appalti, soprattutto se ad alto contenuto tecnico, cioè destinati al restauro, agli scavi o alla manutenzione, con una forte capacità decisionale del museo o della soprintendenza appaltante.
La Relazione contiene molti aspetti positivi, ricordiamo anche la creazione di una Scuola Nazionale del Patrimonio, e il ministro Bray ha molto materiale su cui meditare, tuttavia alcuni aspetti non appaiono del tutto lineari. La Commissione non mette in discussione la «Spending review», quando la sua applicazione al Mibac è stata piuttosto crudele a causa dell’allora ministro Ornaghi, senza considerare i precedenti tagli operati in epoca Bondi. Tra le due impostazioni del Ministero, regionale o statale, occorreva forse una scelta più univoca, invece si è optato per quella statale, mantenendo però le direzioni regionali invece di trasformarle in uffici. È il segno di una mediazione, una vocazione al compromesso che ritroviamo anche nell’incerto giudizio sulla sorte del Segretariato generale, e la creazione del suo doppio, l’Unità di controllo. Non sfugge come le direzioni generali oggi 8 di cui 6 a carattere tecnico scientifico, passino a 6 di cui solo 3 a carattere tecnico scientifico: non si rischia di trasformare un Ministero di competenze in un ministero di burocratico? L’autonomizzazione dei musei, in sé auspicabile, li scorpora dalle soprintendenze territoriali: un modello che il mondo ci invidia, nato dalla peculiarità italiana di avere nei luoghi espositivi materiale proveniente dal territorio. L’adozione di modelli museali stranieri dovrebbe partire da un profondo e creativo adattamento al nostro di modello, non da emulazione.
l’Unità 5.11.13
Salviamo la storia
Il museo della Liberazione di Roma in via Tasso è a rischio chiusura
di Stefania Miccolis
IL MUSEO STORICO DELLA LIBERAZIONE IN VIA TASSO A ROMA È IN SERIE DIFFICOLTÀ ECONOMICHE: «SE NON RIUSCIAMO AD APPROVARE IL BILANCIO PREVENTIVO DEL 2013 DICE IL PRESIDENTE ANTONIO PARISELLA IL MUSEO VERRÀ COMMISSARIATO». Nella legge istitutiva che risale al 1957, è scritto che il Museo deve rappresentare la lotta di liberazione a Roma dall’8 settembre 1943 al 4 giugno 1944, «ma si occupa di totalitarismi, di lotte di Resistenza, di antifascismo; nella nostra biblioteca, nell’archivio, nella mediateca c’è materiale a tutto campo su tali argomenti, e comprende anche documentazione di paesi esteri: vi sono diari della campagna in Russia, fotografie sul fronte greco. Ha il compito di fornire, raccogliere e conservare materiale su tutta l’esperienza di antifascismo».
Numeroso è il pubblico che ogni anno lo visita, dalle 13mila alle 15mila persone, e sempre più crescente è quello straniero. Le scuole vengono in visita con le loro classi gratuitamente. Gli studenti universitari fanno ricerche per le loro tesi e studiosi italiani e stranieri usufruiscono della biblioteca e degli archivi. Per citare solo due casi: Mario Avagliano ne ha tratto il libro Il partigiano Montezemolo (Dalai editore, 2012) e Robert Katz vi scrisse Roma città aperta: Settembre 1943 Giugno 1944 (Il Saggiatore) presentato in anteprima al Museo in segno di gratitudine.
«Ma tutto questo e i progetti ancora da realizzare verrebbero vanificati se ci fosse il commissariamento prosegue Parisella -. Un commissario non può contare su quelle solidarietà che sono legate al nostro modo di essere: noi abbiamo relazioni di vertice e di base, non solo a Roma; abbiamo contatti con decine di gruppi, di associazioni di quartieri, centri sociali, centri per anziani, scuole, e collaborazioni con tutte le regioni italiane. E un commissario, per quanto bravo, non ci riuscirebbe: questa rete non si improvvisa! Anche il gruppo di volontari che lavora con noi di fronte a una situazione commissariale si troverebbe a disagio».
Diciotto sono i volontari di alta qualificazione, insegnanti in pensione, persone che si dedicano con grande passione, e ogni anno il gruppo si aggiorna anche con giovani. Poche le cifre simboliche date per incarichi di amministrazione, per l’archivio e la biblioteca; le risorse servono o per investimenti di ricerca o per il funzionamento della struttura.
«Due anni fa la Regione con una legge si impegnò con 25mila euro e il Comune con 12mila euro. Questi soldi erano stati messi in bilancio per il 2013, ma non sono stati erogati e le attuali amministrazioni, per le note vicende finanziarie, non sono in grado di fare fronte alle necessità entro il 31 dicembre». Il Museo deve trovare 37mila euro in poco più di un mese. Nel loro sito vi è una sottoscrizione aperta «e i nostri amici in Italia sono molti e si mobilitano sempre; ma se facessero una sottoscrizione fra i parlamentari e i consiglieri regionali del Lazio, il contributo sarebbe consistente, anche dal punto di vista morale: sarebbe un esempio».
Il presidente Parisella sa benissimo che in questo momento gli istituti non possono soccorrersi l’un l’altro con il poco che viene dato loro. Inoltre è difficile coinvolgere qualsiasi ufficio ministeriale o dell’amministrazione locale con i grossi problemi finanziari e politici che hanno. Spera che il governo rifaccia una legge di rifinanziamento del Museo per ottenere l’autonomia economica: «Abbiamo inviato una richiesta al Ministro della cultura per sistemare la situazione futura del Museo e per fare una legge che permetta almeno di stare tranquilli. Ma bisognerà aspettare».
Hanno un importante progetto da realizzare nel 2014 per conto della Presidenza del consiglio dei ministri: si chiama «museo diffuso della Resistenza italiana» e si tratta di «un coordinamento, tramite un portale, degli oltre 160 musei della Resistenza che esistono in Italia. Si realizzeranno collegamenti, percorsi, un modo di comunicare in Italia e all’estero». Hanno poi progetti di pubblicazioni: un album con testi e fotografie della mostra di donne R-esistenti, perché venga usato nelle scuole; e un volume con il diario della campagna in Russia e i documenti autobiografici sulla Resistenza, lasciati dall’ex direttore del Museo Arrigo Paladini. «Le risorse per il 2014 ci sono, ma non quelle per quest’anno».
Il Museo storico della Liberazione di Roma va salvato; Calderoli lo aveva barbaramente inserito nell’elenco degli enti inutili, ma è una preziosa fonte di storia, e non va né persa, né dimenticata.
l’Unità 5.11.13
Un investimento per il futuro
di Paolo Di Paolo
MENTRE CI AVVERTONO CHE LA RIPRESA È MENO FORTE DEL PREVISTO, CHE I TEMPI DI «COPERTA CORTA» non sono finiti, è sempre più difficile definire le urgenze. Ce ne sono di lampanti, le abbiamo sotto gli occhi, magari in casa o appena fuori. Quelle che riguardano la cultura vengono spesso rubricate come marginali o, nel peggiore dei casi, finiscono nel silenzio. Il fatto che il Museo della Liberazione di via Tasso a Roma rischi il commissariamento e non abbia più ossigeno economico, è un’urgenza. Ma quanti sono disposti a definirla tale? Soltanto gli storici, gli studiosi, gli ex partigiani? Il punto è che sta uscendo dalla mentalità collettiva la lunga crisi economica e una pseudo-cultura manageriale non hanno aiutato a trattenerla l’idea che la cultura sia un costo necessario. La difesa della cultura, della nostra memoria comune, del patrimonio storico e artistico sono un costo, una voce di spesa. Passa invece la cinica e ottusa convinzione che questo non sia il momento di spendere per la cultura, e che se qualcosa si vuole fare bene, lo si faccia gratis. D’altra parte è praticamente a costo zero che continuano a resistere molti enti culturali, affidandosi alla generosità e alla buona volontà dei singoli. Un «volontariato culturale», diffuso più di quanto si sappia.
Gente che tiene vivo qualcosa un progetto, una rassegna culturale, uno spazio, senza averne nessun vantaggio. Ed è raro che qualcuno, dalle istituzioni più in alto, gli dica almeno grazie. Forse qualunque assessore alla cultura da Milano a Roma a Palermo dovrebbe mandare di suo pugno una lettera a tutti coloro che nel proprio territorio continuano a fare qualcosa. Questa lettera dovrebbe dire semplicemente grazie: grazie perché non ci sono soldi, ne abbiamo spesi un mucchio per idiozie o per scandalosi benefici personali, non ci sono soldi, ma voi non vi fermate lo stesso, e talvolta li rimettete di tasca vostra. Grazie perché non dovreste essere lasciati soli, ma spesso lo siete, e nonostante questo non vi arrendete, per via della passione che vi anima. Grazie perché tenete in vita non il nostro passato, come molti credono, ma il nostro futuro.
Credo che sia qui il cuore del problema: se difendiamo e teniamo in piedi un museo storico come quello di via Tasso, non lo facciamo per il passato. Il passato è nelle cicatrici di chi l’ha vissuto. Il futuro, invece, se smettiamo di portare in salvo tracce, di custodire la verità, di tenere viva la memoria, rischia di essere una terra deserta. Uno spazio senza più punti di riferimento alle spalle, con un vuoto vertiginoso che inghiotte qualunque consapevolezza. È il terreno più arido di memoria che diventa quello fertile non solo per i negazionisti di turno la frangia più estrema degli idioti ma più in generale per individui che vivono come eterni sonnambuli, abitano solo l’istante e ne restano, senza saperlo, prigionieri. Prigionieri ciechi. Quei «granai dello spirito» che sono le biblioteche, gli archivi, i musei silenziosamente cooperano alla sopravvivenza non del passato, ma di un futuro che non sia, appunto, il deserto. La famosa frase dell’ex ministro Tremonti «con la cultura non si mangia» non è solo qualunquista e sbagliata, è peggio: è liquidar la necessità di investire sulla cultura e di intenderla, a ogni livello, come investimento. Di considerarla un costo necessario, non un orpello. Non possiamo permetterci lussi né sprechi, ma la cultura non è né un lusso né uno spreco. La sorte del museo di via Tasso ci riguarda e tanto più in vista di un tempo che sarà privo di testimoni diretti della Resistenza. Saranno piccole roccaforti come quelle a tenere il filo di una continuità fra noi e la storia che ci precede. Lasciarle morire nell’indifferenza sarà come sacrificare due volte chi ha lottato per la libertà di oggi, per la libertà con cui anche adesso posso scrivere.
La Stampa 5.11.13
Bobbio & Sartre
Quando la pagina erotica è un mezzo necessario
Nel 1947 l’edizione italiana del Muro fu denunciata per oltraggio al pudore
La memoria difensiva del filosofo torinese in sostegno del collega francese
di Bruno Quaranta
qui
Corriere 5.11.13
La storia si scrive sempre usando il tempo presente
Paolo Mieli a confronto con un tema caro a Croce
di Luciano Canfora
Sotto il titolo I conti con la storia. Per capire il nostro tempo , Paolo Mieli ha raccolto per Rizzoli gli interventi e i saggi pubblicati negli ultimi anni su questo giornale, come a suo tempo ne aveva selezionati altri in analoghi volumi (La storia, le storie e La goccia cinese ). Questa volta però ha voluto dare una cornice e far risaltare il filo conduttore, in una introduzione della quale qui diremo. Il filo conduttore è il tema formulato per primo esplicitamente e teoreticamente da Benedetto Croce: «Ogni vera storia è storia contemporanea». Con ciò intendendosi che lo sforzo — sempre in fieri — di comprensione del passato parte dalle nostre categorie e risponde a nostre esigenze attuali e, non da ultimo, per ciò che un fatto storico diviene contemporaneo nell’atto mio medesimo di pensarlo.
Chi abbia esperienza della storiografia sa che non vi è storico, di cui sia rimasta significativa memoria, che non abbia preso le mosse da un impulso o bisogno intellettuale radicato nel presente, nel suo presente etico-politico: da Erodoto a Giuseppe Flavio, da Livio a Eginardo, da Guicciardini a Gibbon, da Droysen a Croce medesimo, da Albert Mathiez a Evgenij Tarle. E si potrebbe seguitare con gli esempi includendovi, in dissenso rispetto ad una celebre partizione dovuta ad Arnaldo Momigliano, anche gli eruditi e gli antiquari, pur essi mossi — da Eusebio di Cesarea a Baronio ai Centuriatori di Magdeburgo — da fortissimi impulsi tratti dal presente.
Di questa fondamentale intuizione si possono dare diversi inveramenti. Lo stesso Croce ne intuisce un possibile uso strumentale in quella che chiama «storiografia di partito» (La storia come pensiero e come azione , 1938, parte V) e addita uno iato tra «gli scrittori di storia, disadattati o alieni alla politica» e gli uomini politici, i quali «ancorché ignorantissimi delle cose della storia, pur menano le cose del mondo».
Al contrario, chi dell’agire politico ebbe un’idea più alta e meno riduttiva poté ribaltare questa visione, pur partendo dalle stesse premesse. Mi riferisco alle considerazioni di metodo che Palmiro Togliatti premise alla sua lezione torinese (aprile 1962) su Le classi popolari nel Risorgimento , dove indicò appunto nel politico, distinto in ciò dallo storico professionale (e in ciò sbagliava), colui che invera il principio della ineluttabile contemporaneità della storia. E concludeva, forse intimidito dall’apparente neutralità degli storici di professione: «Soltanto per il politico ogni storia è sempre storia contemporanea» (ed. postuma in «Studi storici», settembre 1967).
Nel Croce del 1938 operava la forzata lontananza dalla politica e l’esperienza rattristante della qualità intellettuale dei politici di quel tempo; ma Croce stesso si tuffò nella politica già con l’avvio della Liberazione (si pensi al memorabile suo intervento al Congresso dei Cln di Bari all’inizio del 1944). E in Togliatti nel 1962 operava forse la soggezione verso l’apparente apoliticità del ceto accademico di quel tempo, ma soprattutto l’orgoglio di appartenere egli stesso alla specie, oggi quasi estinta, dei politici che erano anche grandissimi intellettuali e in quanto tali studiosi di storia.
Un’altra importante declinazione del tema della contemporaneità della storia è quella, cara a Paolo Mieli, della necessità del revisionismo, inteso — va da sé — non come banale paradosso, ma come costante ripensamento del passato (dei momenti soprattutto nodali del passato), che è frutto al tempo stesso dell’ampliarsi della documentazione e del nuovo presente in cui via via gli studiosi di storia si trovano a vivere e a pensare il passato.
Mieli parte, nelle pagine introduttive, dalla difesa del cardinale filoustascia Stepinac da parte di Alain Finkielkraut e sembra accogliere gli argomenti addotti da costui in favore della wojtyliana beatificazione del cardinale a suo tempo fatto arrestare da Tito con l’accusa di collaborazionismo. Mieli spiega il mutamento di giudizio intorno all’azione politica dell’ingombrante prelato con le parole di Finkielkraut, il quale rampogna «gli attuali difensori degli ebrei» cui «interessa soprattutto riflettersi al meglio nello specchio dell’antifascismo»; e commenta: «Per cinquant’anni, sotto il regime comunista (in Jugoslavia) il male era stato identificato col fascismo». La stessa considerazione però si può esprimere anche nel modo seguente: non sono cambiate retroattivamente le compromissioni di Stepinac con il regime filofascista degli ustascia, ma è il passato ustascia che è stato rivalutato, e con esso Stepinac, dalla Croazia di Tudjman (campione di razzismo antiserbo, antisloveno e antimusulmano: si pensi alla Costituzione croata del 1997 da lui voluta).
L’altro grande esempio che Mieli adduce del processo di revisione, frutto, come s’è detto, della incessante contemporaneità del passato, è il giudizio storico espresso da Norberto Bobbio, in uno scritto del 1986, su Stalin. Era una molto articolata lettera a Paolo Spriano, in cui Bobbio non solo respingeva «fermissimamente» l’insulso accostamento tra stalinismo e nazismo, ma invitava Spriano — richiamandosi al XVII capitolo del Principe — a considerare la grandezza «del vostro, e potrei dire anche nostro, Stalin», «venerando e terribile» al pari di Annibale, in quanto è lecito al Principe violare le regole della morale comune se fa «gran cose». E soggiungeva Bobbio: «La costruzione di una società socialista è gran cosa».
Machiavelli, formulando quell’aspro criterio di giudizio, evocava Annibale. Dunque non introduceva, accanto al criterio della grandezza, anche quello della durata. Machiavelli frequentava poco il greco e forse perciò non gli era presente il celebre giudizio di un grande storico greco, contemporaneo di Filippo il Macedone, creatore della Macedonia come grande potenza e percepito poi nella Germania dell’Ottocento come archetipo di Bismarck. Scriveva Teopompo che «Filippo fu il più grande uomo che l’Europa avesse generato» e contestualmente lo descriveva come violento, fedifrago, sopraffattore. Ciò sbandava il povero Polibio, ma questo non toglie valore all’intuizione di Teopompo.
A quasi un secolo dalla rivoluzione d’Ottobre, a sessant’anni dalla morte di Stalin, a ventidue anni dalla dissoluzione dell’Urss, il fenomeno Stalin è finalmente un grande problema storico, piuttosto che un veicolo di eccitazioni superficiali di vario segno. Il diagramma di come questo problema ci ha accompagnati ed è stato valutato nel tempo — cioè nei vari presenti del nostro passato — è un buon indicatore. Seguiamolo per sommi capi. Nel memorabile discorso al teatro Brancaccio di Roma (23 luglio 1944) Alcide De Gasperi, senza mai attenuare, in nessuna parte di quel discorso, la antitesi sua nei confronti del socialismo sovietico pur da lui definito «eminentemente cristiano», inneggiava al «genio di Giuseppe Stalin» e al «merito immenso, storico, secolare delle armate da lui organizzate» (Discorsi politici , ed. Cinque Lune 1956, p. 15). E di «genio politico» parlò Croce a proposito di Stalin su «La città libera» del 23 agosto 1945. Dell’opera sua come costruttore di uno Stato capace di reggere al micidiale attacco tedesco del giugno 1941 parlò su questo giornale Mario Missiroli nel fondo scritto in morte di Stalin (6 marzo 1953): «Quando suonò l’ora della prova suprema, l’uomo si mostrò pari a se stesso e ai grandi compiti che aveva cercato e che la storia gli aveva assegnato». E Pietro Nenni, commemorando Stalin alla Camera in quello stesso giorno, disse: «La guerra del 1941-45 fu, nel suo barbaro orrore, la prova suprema» e concludeva che, in quella terribile circostanza , «Stalin e il sistema ricevettero il collaudo della storia». E si potrebbe seguitare ricordando la biografia di Stalin scritta da un avversario acerrimo come Deutscher, culminante nel giudizio degno di attenzione: «Scacciò la barbarie dalla Russia con metodi barbari» (Stalin, una biografia , 1949). E Deutscher non aveva certo bisogno, per orientarsi, della drastica demolizione di Stalin attuata dalla parte alla fine vincente dei suoi successori nel XX e XXII Congresso del Pcus.
Poi vennero la crisi dell’Urss e la sua dissoluzione, avvenuta circa quarant’anni dopo la morte di Stalin. E la fine della sua costruzione comportò la revisione, il ridimensionamento e la rozza equiparazione con «gli altri dittatori». Ma le «gran cose» di cui diceva il Machiavelli vanno misurate col metro della durata? Forse no, se si pensa che l’impero creato da Filippo e Alessandro si sgretola neanche quindici anni dopo la morte di Filippo e poco dopo la morte di Alessandro. E lo stesso potrebbe dirsi di Tamerlano, che tanto aveva affascinato lo storico Ibn-Haldun, suo antagonista e ammiratore. Fu dunque l’ipotesi che quella storia novecentesca legata alla figura di Stalin fosse «finita nel nulla» (come scrisse, errando, François Furet nel Passato di un’illusione ) a suscitare non solo la insostenibile equazione Hitler/Stalin, ma più in generale il ridimensionamento di ciò che Bobbio ancora nell’86 definiva «grandi cose».
Ora però il punto di osservazione è cambiato ancora una volta. Gli ultimi vent’anni — di cui bene Mieli scrive che «sono già storia» — hanno imposto, soprattutto in Russia, una ulteriore revisione: una revisione che non può non interessare qualunque storico rifletta su quella vicenda, cioè sull’azione dello statista Stalin nei venticinque anni di potere assoluto (1927-1953) che avevano fatto della Russia una grande potenza rimasta tale anche dopo la fine dell’Urss. Lo segnalò subito, con la consueta sensibilità storica, Vittorio Strada su questo giornale (11 novembre 2004). E del ritorno di Stalin come grande figura della sua storia nazionale c’è ben poco da stupirsi, se si considera che si tratta dello statista al cui nome è legata l’unica guerra (e quale guerra!) vinta dalla Russia in tutta la sua storia, a partire dall’altra epopea, quella contro Bonaparte del 1812. Senza dimenticare la icastica sentenza di Deutscher che s’è prima ricordata.
Credo dunque che Mieli saprebbe ben riconoscersi nella sintetica diagnosi crociana: «Se la storia contemporanea balza direttamente dalla vita, anche direttamente dalla vita sorge quella che si suol chiamare non contemporanea». Altrimenti — scrisse Voltaire nella voce Histoire per l’Encyclopédie — cosa ci importerebbe che un tale sovrano è succeduto ad un altro sulle rive del fiume Oxos o dello Iaxarte?
Repubblica 5.11.13
La fantasia è al centro delle tracce delle prove “Cerchiamo di capire la vera identità dei candidati”
Creatività “Vorresti per papà un alieno o un robot?” il talento si scopre così
di Massimo Vincenzi
NEW YORK I dogmi sembrano muri impossibili da abbattere sino a quando si incrina la prima crepa che porta al crollo.
Così negli Stati Uniti inizia a sbriciolarsi la fede granitica nei test scolastici, una sorta di totem che accompagna (e terrorizza) gli studenti dalle elementari sino all’università. Hanno sigle e modalità diverse ma li unisce l’oggettività di giudizio e la garanzia di un livello di qualità alto, o almeno questo hanno sempre ripetuto i sostenitori ad oltranza del metodo. Ma adesso il clima sta cambiando. La rivista “The Atlantic” è tra le prime a porre il problema: siamo ancora sicuri che sia il modo giusto per valutare i ragazzi? E ancora: in un’epoca come la nostra sempre più complessa è davvero questa l’unica strada per realizzare la meritocrazia? Nel dibattito che segue i “no” sono una valanga inaspettata: i genitori e igiovani sono i primi a scagliarsi contro l’istituzione, ma anche molti professori si accodano.
Tanto che adesso molte università, vero tempio dei test, cominciano la retromarcia. A partire dalle “applications” le domande che gli studenti delle superiori mandano, in questo periodo dell’anno, ai college per farsi ammettere. Oltre al curriculum scolastico bisogna comporre una sorta di tema: in alcuni casi è libero in altri la traccia viene scelta dalla facoltà. Ed è qui che arrivano le sorprese. Le indicazioni suonano quanto meno strane: scrivi la tua barzelletta preferita senza rovinarne il finale, oppure preferiresti essere allevato da un robot, un alieno o un dinosauro? E ancora: se devi passare il prossimo anno nel passato e nel futuro dove vorresti andare e perché?
È una svolta storica: a motivarla la scoperta degli esperti che trovano sempre più spesso studenti brillanti ma scarsamente dotati di creatività, preparati ma poco inclini ad uscire dagli schemi. Da qui la necessità di introdurre dosi massicce di fantasia nel sistema: «Vogliamo valutare oltre all’intelligenza la capacità degli studenti di rischiare, di cercare risposte non standard ai problemi»: racconta al New York Times Andrew Flagel della Brandeis University e aggiunge: «Vogliamo che i nostri allievi abbiamo una forte identità personale».
E un professore spiega all’Huffington Post: «Quando chiedo una data di un evento storico si alza una selva di mani e le risposte sono quasi sempre puntuali. Ma se poi domando il perché quella cosa è accaduta e che conseguenze ha avuto la classe si zittisce ». Sempre il New York Times racconta che un gruppo di scuole materne della città sta pensando di abolire i test di ammissione: «Sono dannosi e provano inutili stress nelle famiglie e nei bambini ». Subito sul sito si accende la discussione. Un preside della Pennsylvania non ha dubbi: «Insegno da oltre trent’anni e sono costernato nel vedere come i test abbiano accresciuto la loro importanza sino a diventare l’unico metro di giudizio in qualsiasi grado del percorso scolastico. È un errore grave, si creano ragazzi meccanicizzati, lineari incapaci di elaborare un pensiero autonomo ». E Victoria Goldem, autrice di una guida agli istituti di New York, è ancora più netta: «Bisogna ritrovare un metro di giudizio soggettivo».
La fantasia, il coraggio, l’indipendenza di giudizio iniziano ad entrare nel vocabolario dei professori e la novità ricade sugli studenti che reagiscono a umori alterni. Alcuni postano sui social commenti ansiogeni: «Ma cosa vogliono adesso? Non basta più essere bravi e avere ottimi risultati per essere ammessi, adesso devo pure essere creativo: non è giusto».
Ma c’è anche chi, come Sam dall’Oklahoma, si entusiasma: «Nella mia domanda all’università di Chicago io ho scritto il tema sulla barzelletta: spero di averlo fatto bene. Sono felice che provino a misurare anche la mia creatività, penso che nel lavoro mi sarà utile».
Lo credono i professori: «Le sfide che aspettano questi ragazzi non sono più quelle di appena vent’anni fa, la situazione è cambiata in maniera drastica. Avere una voce originale, saper trovare una soluzione creativa ad un problema sono capacità fondamentali ». E così, come spesso accade, il muro crolla sotto i colpi della fantasia.
Repubblica 5.11.13
O la banca o la vita
Così la finanza parassitaria ci ha portati nella crisi
di Federico Fubini
Quando è arrivato Hibernia Atlantic, era da oltre dieci anni che non si osava prendere un’iniziativa del genere. Da quando la bolla della new economy era scoppiata al giro di boa del millennio, nessuno aveva più posato un cavo a fibre ottiche sul fondo dell’Atlantico. Poi nel 2011 è stato fatto, qualcuno ha depositato “ventimila leghe sotto i mari” Hibernia Atlantic: ma non era un cavo come gli altri, quelli percorribili da centinaia di milioni di persone che hanno qualcosa da comunicare da una sponda all’altra dell’oceano. No, quella era un’infrastruttura per pochi: per gli operatori del cosiddetto “high frequency trading”, gli scambi “ad alta frequenza” che puntano a registrare guadagni sul mercato azionario o sui cambi grazie alla rapidità delle operazioni misurata in millisecondi. Sono operazioni dietro le quali non c’è alcun calcolo razionale sulla qualità di una certa azienda, sui tassi d’interesse o la forza di un’economia o sul modo migliore di allocare il capitale in modo che sia più produttivo, crei più posti di lavoro, porti crescita per tutti. La sola cosa che conta è la velocità, a costo di perdere il controllo e destabilizzare l’intero listino principale di Wall Street come accadde per il 6 maggio 2010. E Hibernia Atlantic è un cavo che può far guadagnare “ben cinque millisecondi”, scrive Federico Rampini senza riuscire a trattenere il sarcasmo.
Corrispondente diRepubblica a New York, Rampini nel suo ultimo libro (Banchieri. Storie dal nuovo banditismo globale, Mondadori) racconta una gran quantità di storie come questa. Lo fa per guidarci fra i paradossi dell’Occidente sei anni dopo il giorno in cui qualcosa di spezzò per sempre con il fallimento di Lehman Brothers. «Se rinasco, in un’altra vita vorrei insegnare l’economia ai bambini – confessa l’autore – . Perché crescano armati degli utensili giusti, perché nessuno li possa ingannare con il linguaggio dei tecnocrati». E forseBanchieri non è un libro scritto nell’idea di farlo distribuire nelle scuole elementari o medie, ma fin dalle prime pagine si avverte il tentativo di parlare ai non addetti ai lavori. Il messaggio di fondo del libro, nello stile prima ancora che nei contenuti, è che non devono essere sempre e solo gli esperti a poter parlare con cognizione di causa delle assurdità del sistema finanziario globale. Tutti devono poter capire.
A sei anni dall’esplodere della crisi (“la Grande Contrazione”), Rampini non fa che trovare conferme di quella che per lui è la natura parassitaria delle banche. Ovunque getti lo sguardo, in Italia come negli Stati Uniti. A New York, nota come i banchieri di Wall Street siano diventati più arroganti e i loro istituti più esposti a rischi scriteriati dopo che la Federal Reserve e il governo americano sono intervenuti per salvarli. La sindrome del Too Big to Fail, “troppo grande per fallire” (o meglio: perché si possa lasciar fallire) è diventato la realtà finanziaria delle megabanche salvate nel 2008-2009 e implicito ricatto di Wall Street nei confronti di una nazione intera. Il bilancio di Lehman era di 637 miliardi di dollari quando la banca saltò. Quello di Jp Morgan oggi è di 2.300 miliardi, cresciuto a dismisura proprio perché i manager dell’istituto sanno che il governo americano dovrà comunque aiutarli in caso di difficoltà, pena un’altra detonazione nucleare ancora peggiore.
Neanche l’Italia sfugge alla critica. «Nel corso del 2012 le banche hanno tagliato alle imprese italiane 44 miliardi di euro di finanziamenti», constata Rampini. Quelle stesse case finanziarie, spesso dai nomi blasonati, hanno assorbito in silenzio la loro parte dei 500 miliardi netti – o mille miliardi lordi – di prestiti straordinari della Bce. «I banchieri si sono incamerati gli aiuti di Draghi – accusa l’autore – ma non hanno restituito nulla al paese. Hanno negato agli imprenditori veri le risorse indispensabili per produrre, esportare, assumere».
Non c’è però solo l’indignazione, nel discorso di Banchieri. C’è anche una buona dose di (amara) riflessione, per esempio sul ruolo sempre più scomodo che hanno dovuto assumere le banche centrali nelle società occidentali. Quando hanno sospeso tutte le cautele e si sono messe a stampare denaro, la Federal Reserve americana o la Bank of Japan hanno sì salvato il mondo avanzato da una spirale depressiva simile a quella degli anni ’30. Ma lo hanno fatto dopo aver mancato di vedere che si sarebbe arrivati a un punto di rottura e producendo nuove distorsioni e vantaggi per i più ricchi in seguito. La creazione di liquidità tiene a galla l’economia, ma lo fa premiando chi può investire di più nei mercati finanziari. Draghi alla Bce o Ben Bernanke alla Fed hanno assunto un ruolo che Rampini definisce di “onnipotenti”. Ma proprio l’aver bisogno di eroi del genere dà la misura della nostra fragilità. «Il culto della personalità – dice l’autore a questo proposito – può raggiungere talvolta delle vette imbarazzanti».
La terza vena che attraversa il libro, forse la più sentita, è quella personale. Più che un saggio, Banchieri è il diario di una vita vissuta attraverso la crisi. La moglie Stefania che abbandona la professione di trader a San Francisco a passa a contratti a tempo, anno dopo anno, a New York. Il fastidio all’apprendere che Kathy, l’insegnate di yoga kundalini, dia lezioni speciali per i banchieri di Goldman Sachs. Il frastuono di New York che ti insegue fino al 31 esimo piano, da cui si riesce a fuggire solo nei concerti di Bach in una chiesetta evangelica luterana vicino a Central Park. Anche questo forse èdownshifting,scalare alla marcia più bassa, odownsizing, ridimensionare il tenore di vita: espressioni passate di colpo dal gergo dei grandi gruppi industriali a quello delle famiglie. E se qualcuno alla fine chiedesse dov’è lapars construens, la via d’uscita, la risposta è pronta: «Insegnate l’economiaai bambini».
Il libro Banchieri di Federico Rampini (Mondadori pagg. 189 euro 16,50) In libreria da oggi
Repubblica 5.11.13
L’arte di Hitler
Da Michelangelo a Boklin, il bello secondo i nazisti
di Siegmund Ginzberg
A qualcuno di loro non dispiaceva affatto nemmeno quella che bollavano come “arte degenerata”: dall’“ebreo spagnolo” (sic!) Picasso, e dall’ebreo russo Chagall, alle “mostruosità” di Munch, Max Ernst, Klee e Kokoschka. Qualcosa bruciarono in piazza dopo averli esibiti al ludibrio, la maggior parte li misero da parte, per far cassa o scambiarli con arte più confacente ai gusti ufficiali del Reich nazista.
La cosa curiosa è che i gerarchi nazisti erano tutti collezionisti compulsivi. Di porcate kitsch, di simbolismi grevi, di propaganda insulsa. Ma anche di grande arte. Hitler, si sa, avendo cercato di fare il pittore da giovane, amava farsi passare per grande intenditore di arte. Adorava L’isola dei morti di Böcklin, di cui comprò un esemplare, nel 1933.
Quando la Wermacht occupò Parigi, si fece accompagnare al Louvre e fece un comizio sul genio di Michelangelo Buonarroti, ma nessuno ebbe ovviamente il coraggio di fargli notare che stava commentando un’opera di Michelangelo Merisi, detto Il Caravaggio. Goebbels, pare fosse un appassionato di arte moderna. Ma poi fu proprio lui a farsi venire l’idea del linciaggio pubblico dell’“arte degenerata”. Aveva evidentemente cambiato idea, per adeguarsi ai gusti del suo capo, Hitler.
Hermann Göring, il ministro degli Esteri Von Ribbentrop, il capo della Gioventù hitleriana Baldur Von Schirach, persino il capo delle SS Himmler erano tutti collezionisti d’arte accaniti. Facevano a gara ad accaparrarsi cose belle, e soprattutto cose di valore. Era una dimostrazione di status, di prestigio relativo nella nomenclatura, una questione di esibizione del proprio potere. Un po’ come esibire ville o amanti.
Lo sfizio se lo tolsero saccheggiando sistematicamente i musei e le proprietà degli ebrei. Prima in Germania, poi nei Paesi occupati dalle loro truppe. È vero, talvolta, per salvare le apparenze, facevano finta di comprarle. Ma con offerte irrisorie, che i destinatari «non potevano rifiutare». «Doveste decidere di non vendere, sarei costretto a ritirare la mia offerta, e le cose procederebbero per conto loro, senza che io possa fare nulla per impedire il corso degli eventi»: questa la lettera tipo che Göring indirizzava ai collezionisti presi di mira. Ma anche l’accettazione del ricatto spesso non impediva che seguissero arresto e persecuzione. Anzi, l’organizzazione meticolosa delle “acquisizioni” andava, specie all’Est, di pari passo con l’organizzazione scientifica del massacro.
Tra le collezioni più strepitose andrebbe ricordata quella esibita da Adolf Eichman all’hotel Majestic, la sua residenza a Budapest nel 1944. Tra i quadri esposti c’erano dei Velázquez, Goya, Renoir, Brueghel. Tutti quadri espropriati agli ebrei per i quali Eichmann aveva l’incarico di pianificare la “soluzione finale”. Gli portò via anche i capolavori dei “degenerati”. Ma questi finivano agli “specialisti”, perché ne curassero la vendita.
Per la gigantesca rapina furono usati bracci armati, come l’Einsatzstab Reichsleiter Rosenberg (ERR), i commando speciali dell’ideologo dello sterminio di ebrei e slavi, ma anche i servizi di un gran numero di esperti d’arte, come il curatore Hans Posse incaricato di mettere in piedi a Linz il “museo personale” del führer, e di una caterva di altri specialisti, galleristi e mercanti d’arte, in Germania, nel resto d’Europa e, durante la guerra, soprattutto in Svizzera.
Uno di questi “tecnici” di alto livello era appunto Hildebrand Gurlitt. Quello nel cui appartamento a Monaco – poi ereditato dal figlio Cornelius – è stato trovato il tesoro favoloso che si riteneva perduto. Con una nonna ebrea, e per giunta inviso in quanto estimatore dell’arte “degenerata” Gurlitt padre era un collaboratore “improbabile” dei nazisti. Ma forse proprio per questo gli avevano affidato un lavoro sporco: piazzare il maltolto all’estero. Pare che sia stato il ministro della propaganda Goebbels in persona ad avere l’idea di conferirgli l’incarico. Ritenevano evidentemente che avesse i contatti giusti. Deve aver svolto questo compito con grande zelo e soddisfazione dei suoi datori di lavoro se ad un certo punto fu addirittura designato come futuro direttore del museo personale che Hitler voleva aprire a Linz.
L’intenzione era di imitare ciò che Napoleone aveva fatto per il Louvre. L’arte partorita da quelle che Hitler considerava “menti degenerate” non era destinata al museo. Ma Gurlitt si tenne anche gli esecrati Matisse, Marc, Dix, Kirchner. Perché sapeva benissimo quanto valevano. E forse anche perché i suoi gusti erano più raffinati.
La ricettazione avrebbe potuto continuare impunemente se Gurlitt figlio, vendendo di tanto in tanto qualcuna di quelle opere per le proprie spesucce, non si fosse tradito per un reato più banale: la frode fiscale. Ora le autorità tedesche dicono che faranno il possibile per individuare i legittimi proprietari. Ma una approfondita inchiesta condotta qualche mese fa dallo Spiegel indica che la cosa non è così evidente. Documentava per filo e per segno quanto continui ad andare a rilento persino il censimento dei beni rapinati dai nazisti ancora in possesso, non di un ricettatore privato, ma di musei e istituzioni. Per non dire della beffa per cui spesso tornano in possesso degli eredi dei rapinatori, anziché degli eredi dei rapinati.
Corriere 5.11.13
Il Matisse ritrovato di Anne Sinclair
Era a Monaco nel tesoro dei nazisti
L’ex moglie di Strauss-Kahn è la nipote del proprietario dell’opera
di Stefano Montefiori
PARIGI — Anne Sinclair è diventata celebre nel mondo come la donna che sosteneva con coraggio Dominique Strauss-Kahn nel momento della sua discesa agli inferi, la moglie che rimase al fianco dell’allora direttore del Fmi accusato di avere violentato una cameriera (salvo separarsi a vicenda giudiziaria conclusa). Ma se Sinclair, grande giornalista televisiva negli anni ‘80 e ora direttrice dell’Huffington Post francese, ha un posto nella storia d’Europa non è per lo scandalo che l’ha sfiorata suo malgrado due anni fa.
Suo nonno, Paul Rosenberg, è stato il più grande mercante d’arte del XX secolo, amico personale di Picasso, Braque, Matisse. Per festeggiare la firma del contratto che li legava (Biarritz, 1918), Picasso regalò a Rosenberg il ritratto della nonna di Anne Sinclair che teneva in braccio la madre. La vita della famiglia ebrea dei Rosenberg fu travolta dalle persecuzioni naziste, e ad Anne Sinclair capita negli ultimi anni di venire coinvolta — in qualità di erede — in vicende clamorose, come la scoperta delle 1500 opere d’arte trafugate dai nazisti e nascoste a casa dell’ottuagenario tedesco Cornelius Gurlitt: se ne è avuta notizia due giorni fa, si tratta del più importante ritrovamento di opere trafugate mai avvenuto, e tra i quadri c’è un «Ritratto di signora» di Henri Matisse appartenuto a Paul Rosenberg. Che spetta oggi ai suoi discendenti, tra i quali Anne Sinclair.
La storia di quel «Ritratto di signora» si intreccia con la tragedia di un continente. Henri Matisse potrebbe avere dipinto il quadro nel 1939, durante le prime settimane della drôle de guerre, quando Francia e Germania sembravano esitare a sferrare l’attacco. Matisse viveva a Nizza, e Paul Rosenberg lo andò a trovare, ripartendo con alcune tele sotto il braccio. «Vi ho trovato in splendida forma — scrisse Rosenberg a Matisse —, le vostre ultime opere sono tra le migliori. Quelle che ho portato con me le ho subito appese, alle 2 e mezza di notte, nel salone di casa», si legge nel libro «21 rue la Boétie» (edito in Italia da Skira) che Anne Sinclair ha scritto l’anno scorso intitolandolo con l’indirizzo della galleria parigina del nonno.
Casa, in quei giorni, era una proprietà nell’Ovest della Francia, il «Castel», vicino a Bordeaux, dove i Rosenberg si erano rifugiati alla dichiarazione di guerra, lasciando Parigi per timore dei bombardamenti. Lì Paul Rosenberg nascose in una cassaforte 160 opere, tra le quali i Matisse, un auto-ritratto di Van Gogh, dei Cézanne, Léger, Sisley, Picasso, Utrillo, Monet, Braque: il meglio di quella che i nazisti nella loro follia definivano «arte degenerata».
Il 5 settembre 1941, le truppe naziste arrivarono fino al «Castel», saccheggiando l’appartamento e la cassaforte dei Rosenberg con l’aiuto zelante dei Lédoux, i proprietari che abitavano al piano di sopra. Paul Rosenberg era riuscito ad abbandonare la Francia in tempo, nel giugno del 1940: scappò in Portogallo e poi a New York, dove cercò di mantenere i contatti con i suoi artisti. In Europa, intanto, l’orrore dilagava. Tra chi approfittò delle spoliazioni naziste ci fu il collezionista Hildebrand Gurlitt: sconfitto Hitler, si ritrovò in possesso di un tesoro che comprendeva anche il «Ritratto di signora» di Matisse sottratto a Rosenberg.
Nel ‘46 il nonno di Anne Sinclair compilò una lista di opere di sua proprietà finite in mano ai nazisti, e dedicò il resto della vita, fino al 1959, a ritrovarle. Tre anni prima della sua morte il «Ritratto di signora» era passato da Hildebrand Gurlitt (scomparso nel ‘56) al figlio Cornelius, che l’ha custodito assieme a tanti altri capolavori. Dopo il Matisse del museo di Seattle (1999) e il «Vestito blu su poltrona gialla» esposto all’Onstad Art Center vicino Oslo (a giugno), un altro capolavoro potrebbe tornare in famiglia.
Corriere 5.11.13
Il tedesco che viveva con l’arte «degenerata»
di Philippe Daverio
All’origine di questa funesta faccenda stanno due personaggi che lasciano riflettere con ansia sulle perversioni dell’umanità. L’uno è il tetro imbianchino austriaco che divenne il Führer del Terzo Reich, l’altro è un signore dal cognome apparentemente ebraico ma che con il mondo di Davide nulla aveva più a che fare, tale Alfred Rosenberg, teorico del partito nazista, pagano dichiarato al quale si deve parte delle tesi che portarono a dichiarare «degenerata» l’arte che non fosse banale e figurativa. Fu processato a Norimberga e impiccato. La storia ha talvolta riscontri inattesi, se si pensa che a Parigi Léonce Rosenberg, non parente del primo e invece fiero della sua origine ebraica, era stato il mercante di Picasso e di de Chirico. Le dittature vogliono uno stile unico e di consenso. Zdanov per conto di Stalin epurò l’arte russa sin dalla metà degli anni 20. Nel 1937, per dare una indicazione precisa all’estetica che il regno dei 1000 anni voleva plasmare e sotto la pressione dello stesso Hitler che si reputava buon pittore e formidabile urbanista, viene decisa una mostra dal titolo «Entartete Kunst», prima a Monaco e poi a Berlino, che avrà un potente successo di pubblico e alla quale verranno convogliate folle di truppe cammellate. È un riassunto del meglio delle avanguardie composto da confische presso privati, gallerie e musei. Le opere devono sparire. Ma siccome valgono già del danaro si decide di non bruciarle come s’era fatto con i libri ma di metterle discretamente in vendita. Qui entra in scena un personaggio equivoco, Hildebrand Gurlitt. Nato a Dresda, figlio dello storico dell’arte Cornelius Gurlitt, con un fratello musicologo Wilibald e un cugino mercante d’arte Wolfgang, si dedica all’antropologia e finisce direttore del museo di Zwickau, posto che perde già nel 1930 perché non considerato «ariano» certificato, a riprova che l’antisemitismo era nell’aria già prima della presa del potere di Hitler. Va a dirigere il Kunstverein di Amburgo ma perde anche lì il posto nel 1933 quando ormai il potere nazi è affermato. Non esce di scena: è diventato mercante d’arte e si offre come acquirente per le opere dell’arte degenerata. Le acquista per esportarle. Invece se le tiene e il figlio le ha conservate nascoste come un bottino nella sua casa di Monaco, come gli accumulatori di pattume nelle trasmissioni tv americane.