giovedì 28 novembre 2013

l’Unità 28.11.13
Staminali, ascoltate i nostri ricercatori
di Carlo Flamigni


I malati e i parenti dei malati che protestano davanti ai palazzi del potere perché esigono (non chiedono, esigono) di poter utilizzare cure sperimentali sono, in ultima analisi, le stesse persone che esigevano di aver accesso alle cure anti-tumorali di un medico di Modena.
Quel medico che proponeva loro e che oggi sappiamo essere del tutto prive di effetti terapeutici. Queste persone chiedono che sia lo Stato a farsi carico di queste terapie, il che significa che esiste, a questo proposito, un coinvolgimento collettivo: se non fosse così, credo che non interverrei sul merito del problema. Queste persone sono certe di essere nel giusto e di chiedere cose che hanno il diritto di ottenere. Sono in buona fede e hanno tutti i motivi del mondo per battersi per le proprie ragioni. Credo che sia giusto discutere con loro i motivi che inducono molti di noi a ritenere che siano invece nel torto, con la premessa che il verbo discutere implica il dovere di entrambe le parti di ascoltare (non fingere di ascoltare ) l’altra, disponibili sempre a considerare con grande attenzione le sue ragioni e anche (soprattutto) a cambiare idea.
Debbo cominciare con una premessa, banale, ma necessaria: la medicina non è una scienza e non possiede verità assolute, è invece una disciplina empirica che vive sui consensi. I medici si confrontano continuamente con una serie di perplessità, molte delle quali prospettano soluzioni multiple e pertanto hanno bisogno di una selezione razionale: è utile un certo farmaco? Quando si deve considerare irreversibile uno stato comatoso? Quando considerare terminato uno studio sperimentale? Qual è la miglior definizione di un certo evento biologico? In questi casi è prassi affidare la soluzione del problema alle persone considerate più esperte e competenti, le quali decidono tenendo conto di alcune regole considerate adatte a quel particolare dilemma e scelte sulla base del principio di razionalità.
Tutti i medici sono consapevoli del fatto che un consenso comincia a morire dal momento stesso in cui è stato formulato: nuove conoscenze, migliori interpretazioni delle conoscenze in nostro possesso, ci costringeranno in tempi più o meno brevi a modificare la maggior parte dei consensi, qualche volta in modo clamoroso, qualche volta in modo impercettibile. Ma fino a quando il nuovo consenso non verrà formulato, l’esistente è la nostra verità, l’unica alla quale possiamo ispirare le nostre scelte. Perché, questo è un altro problema fondamentale, il percorso del medico non è illuminato da una luce che arriva dall’alto e, quando va bene, tutto dipende dalla fiaccola che gli hanno messo in mano quando ha iniziato il suo cammino.
I consensi non servono solo per stabilire se un determinato farmaco è utile o se invece i suoi effetti collaterali sono superiori a quelli ritenuti terapeutici, hanno anche altre finalità: ad esempio regolano la significatività delle esperienze e stabiliscono, solo per fare un esempio, che nessuna sperimentazione ha valore se non viene confermata, elencano le modalità necessarie per considerare utile e onesto uno studio clinico e via dicendo. Non accettare questa serie di regole è, ancor prima che stupido, disonesto: è disonesto affermare che la cosiddetta pillola del giorno dopo è embrionicida, perché l’Organizzazione Mondiale della Sanità, basandosi sui consensi dei suoi ricercatori, ha detto che non è così; è disonesto affermare che la gravidanza comincia dal concepimento, perché la stessa organizzazione ha stabilito che l’inizio della gestazione coincide con l’impianto dell’embrione in utero; è disonesto (ma anche molto stupido) affermare che i maschi della nostra specie diventano sterili perché le femmine della nostra specie prendono la pillola e poi riversano tonnellate di questi potenti ormoni nell’ambiente (insomma, fanno la pipi nei prati) e lo inquinano. Bisognerebbe tener conto di queste regole (e anche del fatto che una medicina senza regole certe si preannuncia come un vero disastro) quando si ragiona sulle medicine alternative, un’analisi che dovrebbe richiedere maggiore attenzione da entrambe le parti: perché è vero che alcune di queste medicine non riescono a dare alcuna prova della propria efficacia, ma è anche vero che alcune di esse (ad esempio le fitoterapie) ce le siamo dimenticate noi, posso stilare un elenco di molte pagine citando erbe che potrebbero avere capacità terapeutiche e che non sono mai state sperimentate. Ma lasciatemi dire alcune cose anche sulle cellule staminali: in questo Paese (e non accade purtroppo per tutti i possibili temi di ricerca) abbiano la fortuna di avere alcuni esperti considerati con grande rispetto da tutti gli scienziati del mondo. Ebbene questi esperti concordano nel dichiarare che non esistono prove dell’efficacia delle cellule staminali nella cura di alcune patologie, che non esiste a tutt’oggi una documentazione credibile della loro efficacia e che non è nemmeno possibile dichiarare che sono prive di effetti negativi. Per giustificare gli apparenti miglioramenti che sarebbero stati osservati nel corso di questi terapie sperimentali si possono elencare molte possibili cause, nessuna delle quali ha veramente a che fare col risultato di un effetto positivo delle cure.
Ho letto, con molto dispiacere, che i nostri scienziati sono stati accusati delle cose più sgradevoli e strane, e lo trovo profondamente ingiusto. Sarei veramente stupito se scoprissi che qualcuno di loro ha interessi personali e trova vantaggio nel prendere un partito piuttosto che un altro: ne conosco più d’uno (ad esempio ho lavorato a lungo nel Comitato di Bioetica con la professoressa Cattaneo) e ho per loro rispetto e ammirazione. Non ho alcun dovere nei loro confronti e non credo di essere conosciuto come persona dal giudizio facile, per cui vi prego di credermi se dico che si tratta di ricercatori pieni di umanità, dotati di una grande capacità di compassione, cittadini esemplari e trasparenti. Per favore, ascoltateli.

Repubblica 28.11.13
La riforma costituzionale del Barone di Münchausen
di Stefano Rodotà


La maggioranza di governo si riduce, le intese da larghe si fanno strette, e sembra pure che si restringa il programma delle riforme costituzionali. Ricordate? Il “cronoprogramma”, diciotto mesi per vincere una sfida che dura da anni, comitati di saggi, una sessantina di articoli da modificare: una costruzione barocca, per certi versi politicamente e culturalmente insensata, culminata nel disegno di legge costituzionale di manipolazione dell’articolo 138 della Costituzione, l’essenziale norma di garanzia scritta per mettere il testo costituzionale al riparo da forzature congiunturali. Ora si parla di tornare sulla via maestra, di circoscrivere le modifiche da apportare alla Costituzione e di seguire la procedura dell’articolo 138 nella sua integralità.
Che cosa accadrà in concreto, è troppo presto per dirlo. E tuttavia questa tardiva resipiscenza merita un momento di attenzione. Tardiva, perché fin dai giorni della formazione del governo Letta s’era detto che sarebbe stato più corretto, e anche più funzionale, avviare una revisione sui punti già assistiti da un sufficiente consenso (uscita dal bicameralismo perfetto, riduzione del numero dei parlamentari). Se fosse stata subito imboccata questa strada, oggi potevamo essere vicini all’approvazione di questa non indifferente riforma. Ma questa resipiscenza, proprio perché tardiva, fa nascere problemi che debbono essere subito messi in evidenza, che non possono essere furbescamente elusi o occultati.
Il primo riguarda il fatto che proprio questa inversione di rotta conferma che ormai la Costituzione viene considerata come una semplice pedina di giochi politici a breve, di convenienze. Non siamo di fronte ad un vero recupero della cultura costituzionale, ma quasi al suo contrario. Che questo, oggi, possa avere un effetto positivo, non è certo indifferente. Ma la complessiva temperie istituzionale non muta e altri effetti, tutt’altro che positivi, possono prodursi.
L’attenzione, allora, deve essere rivolta al disegno di legge di modifica dell’articolo 138, già approvato dal Senato in seconda lettura e che sta per essere portato alla Camera per la sua approvazione definitiva. Che fine farà? Sarà messo prudentemente in un angolo o si procederà con la logica delle azioni parallele? In quest’ultimo caso saremmo di fronte ad una sorta di stralcio, con un paio di questioni – bicameralismo, riduzione dei parlamentari – affidate alla procedura di un articolo 138 non modificato, mentre la questione di fondo, dunque la modifica della forma di governo, rimarrebbe prigioniera dello strappo determinato dalla manipolazione dell’articolo 138, divenuta così ancor più evidente e clamorosa.
È una soluzione inaccettabile, in cui si riflette soltanto la disperazione di una maggioranza che proclama in ogni momento d’essere forte perché sa benissimo d’essere debolissima, e che assomiglia sempre di più a quel barone di Münchausen che voleva uscire dalle sabbie mobili tirandosi per i propri capelli. Un doppio binario non è ammissibile. Si certificherebbe che, là dove si riesce a costruire quel consenso largo necessario per le riforme costituzionali, si possono rispettare le regole. Dove, invece, questo non è possibile, si procede per strappi e forzature. Che razza di democrazia “costituzionale” diverrebbe la nostra?
Considerando il merito delle riforme, poiché vi sono molti modi di affrontare le questioni ricordate, si deve discutere seriamente almeno quali sarebbero gli effetti dell’abbandono del bicameralismo perfetto per quanto riguarda la nomina del presidente del Consiglio, che può avere riflessi sul ruolo del presidente della Repubblica; la questione della fiducia al governo; il procedimento legislativo, che non può essere totalmente concentrato in una sola camera. Inoltre, la furia un po’ cieca che ha portato a ritenere, troppe volte con argomentazioni soltanto di risparmio di spesa, che l’efficienza si raggiunga con il taglio dei parlamentari, dovrebbe essere temperata da una riflessione che, mantenendo fermo questo criterio, tuttavia si chieda quanto tutto questo inciderebbe sulla rappresentanza dei cittadini. Scomparsa, infatti, l’elezione diretta del Senato, questa sarebbe tutta affidata agli eletti alla Camera dei deputati, il cui numero diventa determinante. Emerge così la questione generale del mantenimento, attraverso la riforma, del carattere parlamentare e rappresentativo della nostra Repubblica.
Si giunge così ad un punto chiave. Sembra di scorgere, dietro questo possibile cambiamento di linea, anche la volontà di creare condizioni più propizie alla riforma della legge elettorale. Se, tuttavia, questa assumesse caratteristiche sostanzialmente ipermaggioritarie, sacrificando tutto all’affermazione falsa che in tutti i paesi democratici immediatamente dopo il voto è sempre automaticamente identificata la maggioranza di governo (e la Germania di oggi? e la Gran Bretagna di ieri?), la forma di governo ne risulterebbe modificata in maniera surrettizia, impropria.
Non sollevo difficoltà. Cerco di indicare i punti di una discussione che può essere proficua se viene liberata dalle forzature e dai secondi pensieri che l’hanno finora accompagnata, e rischiano di inquinarla ancora. E, soprattutto, se viene ricondotta al nuovo contesto politico così bene individuato ieri da Piero Ignazi, ricordando quanto sia mutato da quello originario, di cui era parte organica un’altra idea di riforma costituzionale. Questa è la novità dalla quale non si può sfuggire, e mi pare che lo abbia opportunamente messo in evidenza, con anticipo, Pippo Civati sottolineando come, al di là del fatto contabile, non vi siano più politicamente i “numeri” per la riforma dell’articolo 138. Questa è la riflessione alla quale non ci si può sottrarre, a meno che la politica non si incaponisca nel ritenere che l’unico orizzonte possibile sia quello della brevissima convenienza, senza recuperare un briciolo del rispetto dovuto alla sua fondazione costituzionale e al modo in cui questa, con ben diversa sensibilità, è ormai percepita in una parte sempre più larga della società italiana.

l’Unità 28.11.13
Strage di Bologna, la beffa dei risarcimenti
Nella Legge di Stabilità saltano gli indennizzi promessi: 5 milioni
Paolo Bolognesi: «Questa legge non la voto». Il sindaco Merola: «Grave»
di Ariana Comaschi


Basterebbero 5 milioni. «“Spiccioli, vedrai che la facciamo”, mi aveva assicurato il ministro Graziano Delrio lo scorso 2 agosto a Bologna. Ora invece nella Legge di Stabilità gli indennizzi che aspettiamo da anni non ci sono. Ma io così non la voto». Dopo mesi di attesa si sfoga Paolo Bolognesi, presidente dell’Associazione familiari delle vittime della strage alla stazione di Bologna e deputato Pd, che insieme al vicepresidente dell’Associazione italiana vittime del terrorismo (Aviter) Roberto Della Rocca avverte: «Se le cose rimanessero così il disprezzo dei familiari delle vittime per questo governo sarebbe totale». Stringata la rassicurazione del ministro per gli Affari regionali, «sono convinto che la Camera rimedierà e lavoriamo per questo». Ma le speranze riaccese dall’esecutivo hanno subìto un duro colpo. E la fiducia sembra spezzata.
L’annuncio che dopo tanti rinvii si è perso anche l’ultimo treno per dare una risposta alle vittime del terrorismo suscita infatti un coro di reazioni. Lo stop è «grave» per il sindaco di Bologna Virginio Merola, «vergognoso» per il segretario del Pd bolognese Raffaele Donini, appena riconfermato, che ora chiede «con forza che alla Camera sia trovata una soluzione: una dilazione ulteriore non è più tollerabile». «Gli impegni vanno rispettati, è una questione di giustizia per cui non può passare altro tempo», concorda la presidente dell’Assemblea legislativa dell’Emilia-Romagna Paola Costi, mentre di «ennesima vergogna del governo Letta» parla Sel sotto le due torri. Per tacere dei commenti che a destra e nei dintorni prendono di mira Bolognesi, in sostanza per non avere portato a casa il risultato.
E dire che nell’aula del Comune di Bologna, affollata e commossa al 33°anniversario della strage alla stazione, sembrava cosa fatta: il governo Letta avrebbe finalmente risolto i problemi legati alla legge 204 del 2006 in favore di tutte le vittime di terrorismo e strage. Un passaggio indispensabile, da parte dello Stato, per assicurare una vita dignitosa ai sopravvissuti. E per testimoniare vicinanza a chi ha perso un familiare e spesso ancora non sa perché, come nel caso della bomba alla stazione di Bologna (85 morti e 200 feriti), rimasta senza mandanti. O di Ustica, dell’Italicus, di piazza Fontana e di piazza della Loggia...
Eppure la 204 è rimasta di fatto inapplicata. «Il governo Monti aveva accantonato un milione ricorda Bolognesi presso il commissario straordinario. Nella nostra proposta c’erano tre nuove norme per cui il centinaio circa di persone che ne hanno diritto avrebbero ricevuto vitalizi per un totale di 5 milioni». Le associazioni premono poi da anni per la revisione delle tabelle Inps e Inpdap su cui si calcolano gli indennizzi, con l’Inps racconta sempre Bolognesi è in atto da tempo un vero braccio di ferro, «non riconosce la 204 e invoca un’altra legge». Anche di questo aveva parlato con il ministro ad agosto, e pubblicamente Delrio si era impegnato: «Credo sia un atto dovuto, oltre alla verità dobbiamo anche una riconoscenza a questi familiari delle vittime, dobbiamo un risarcimento per la loro pazienza e la loro costanza».
Il ministro parlò allora di un provvedimento da inserire nell’imminente decreto sulla sicurezza. Si slitta però a settembre, pare più adatto veicolarlo con le misure per gli esodati. Finchè non si arriva all’ultima spiaggia, la Legge di Stabilità. I senatori bolognesi del Pd (Broglia, Lo Giudice, Ghedini, Sangalli) presentano un emendamento ad hoc. Ed ecco l’amaro risveglio, «con grande amarezza e profonda delusione vediamo che nel maxiemendamento predisposto per il voto di fiducia dei risarcimenti non c’è traccia. Gli impegni presi solennemente a Bologna a oggi non sono stati mantenuti», insorgono Bolognesi e Della Rocca. Il redde rationem è fissato ora alla Camera, Bolognesi coglie al balzo la palla lanciata da Delrio con una sfida: «Se davvero vogliono cambiare ci mettono due minuti. Presenterò io stesso l’emendamento necessario». Ma c’è chi già vede nero, come il capogruppo M5s in Comune a Bologna Massimo Bugani: «Mi auguro che Bolognesi si renda conto di essere stato preso in giro dai suoi colleghi e finti amici, e che se ne sia stancato».

l’Unità 28.11.13
La violenza del bangla tour
A Roma è caccia al nero
di Luigi Manconi e altri


Il deputato del Pd Khalid Chaouki ha presentato alla Camera un’interrogazione al ministro dell’Interno Angelino Alfano sui «bangla tour» che si stanno svolgendo in alcuni quartieri di Roma a opera di giovani neofascisti. Si tratta di vere e proprie ronde anti-immigrati e nello specifico anti-bengalesi che, come sostiene Chaouki, «evidenziano una violenza di chiara matrice politica e ideologica che sembra far capo a Forza Nuova, il gruppo di estrema destra romana». Attraverso l’interrogazione si vuole conoscere «quali provvedimenti il ministero dell’Interno prenderà per contrastare, quanto prima, il degenerare di tali azioni squadriste ai danni dei bengalesi e delle altre comunità straniere». La ragione di tanta violenza sarebbe da ricercarsi in un rito di passaggio «violento e vigliacco che individua nell’immigrato una preda “facile”, particolarmente indifesa. Condanniamo e respingiamo con forza una brutalità tanto feroce e vigliacca». Chaouki sostiene inoltre che un’assenza governativa e degli amministratori locali, sarebbe gravissima perché tocca proprio a loro trovare delle soluzioni a breve e a lungo termine. Si tratta dunque sia di mettere a punto provvedimenti in grado di far cessare queste attività, sia di pianificare politiche che incidano sull’aspetto più fragile e meno coltivato in tema di immigrazione: ovvero quello culturale.
È infatti attraverso gesti concreti che si costruisce un terreno fertile all’integrazione di persone straniere in Italia e che impedisce il proliferare di fenomeni quali le ronde o di gesti ostili all’immigrazione. In questo senso, e per spigare come i provvedimenti normativi influiscano sulla cultura dell’accoglienza, è utile ricordare il «pacchetto sicurezza 2009» firmato dall’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni con cui, oltre a introdurre il reato di immigrazione clandestina, vennero regolamentate le ronde attraverso la creazione di un albo presso le prefetture e definendo i requisiti per partecipare. Entrambi questi provvedimenti hanno avuto un effetto negativo sulla percezione collettiva dell’immigrazione. Per quanto riguarda il reato, infatti, da quel momento ogni persona straniera era vista come potenziale criminale da assolvere solo nel momento dell’esibizione del regolare titolo di soggiorno. La regolamentazione delle ronde era, poi, a sostegno del piano sulla sicurezza per cui i cittadini stessi dovevano prendersi cura del proprio quartiere. Quell’introduzione contestuale, però, non ha fatto altro che identificare come nemici gli stranieri che, in alcune zone d’Italia, soprattutto quelle in cui la Lega regnava, erano visti come degli invasori da allontanare. Per fortuna, a un anno dall’introduzione del «pacchetto sicurezza», erano poche le associazioni di volontari ad aver chiesto il riconoscimento ufficiale al sindaco e al prefetto: una a Treviso, una a Milano e un’altra a Bolzano.
I «bangla tour» dei giorni scorsi sono lontani dall’idea di Maroni, ma probabilmente l’effetto discriminante è lo stesso.

l’Unità 28.11.13
È morto Raimondo Ricci, bandiera dell’antifascismo genovese


È morto a Genova Raimondo Ricci, bandiera dell’antifascismo ligure. Novantatre anni, tra gli ultimi testimoni del Novecento, già presidente nazionale del’Associazione nazionale partigiani, ha dedicato la sua vita alla difesa dei valori della Resistenza.
Si è spento nella sua abitazione. Partigano, nelle mani della Gestapo Ricci fu torturato e imprigionato nel campo di concentramento di Mauthausen. Liberato, continua la sua battaglia morale e politica e, in qualità di avvocato penalista, difende i sindacalisti e i militanti comunisti nel dopoguerra. Presidente provinciale dell’Anpi nel 1969, parlamentare per tre legislature dal 1976, fa parte della commissione di inchiesta sulla P2 e davanti all’irruzione del terrorismo è una delle figure politiche che ha contribuito a costruire quel fronte tra istituzioni e movimento operaio che ha garantito la continuità dello stato democratico.
Giurista autorevole sarà anche membro del consiglio di presidenza della Corte dei Conti.
Nell’età avanzata, Raimondo Ricci dedica tutte le sue energie e il suo tempo all’Istituto Storico della Resistenza a cui fu chiamato per ricoprire il ruolo di presidente. Nonostante fosse quasi cieco, viaggia da una parte all’altra dell’Italia, passa da comizio a comizio, affascina i giovani. La sua voce attraversa le piazze e i cuori. In qualche misura diventa lui stesso un simbolo.
Nel giugno 2002, a quasi sessant’anni di distanza dalla fine del conflitto, ad Amburgo incontra per la prima volta Friedrich Engel, il responsabile dell’eccidio del Turchino, il carnefice a cui solo per merito della sorte era sfuggito. Anche questo accade in una vita non comune.
La camera ardente sarà allestita oggi, giovedì, dalle 8 alle 12 in Provincia, in largo Lanfranco. La salma sarà sepolta a Imperia.

l’Unità 28.11.13
L’eredità del Caimano fra estremismo e populismo
di Michele Ciliberto


Vorrei provare a svolgere una riflessione da una diversa distanza, senza lasciarmi influenzare eccessivamente dalle polemiche di questi giorni, individuando alcuni problemi. Cosa ha rappresentato Berlusconi nella storia italiana? In sintesi: ha dato, agli inizi degli anni Novanta, una risposta, da destra, alla lunga, e convulsa, crisi italiana e al tracollo della «Repubblica dei partiti».
E nel farlo non si è servito di strumenti di tipo fascista, ma ha fatto una operazione più complessa e pericolosa: si è mosso sul terreno delle forme democratiche e parlamentari, ma sostanziandole di contenuti autoritari ed anche dispotici. In questo senso, è completamente estraneo alla storia del moderatismo italiano, quale era stato rappresentato per quasi mezzo secolo dalla Dc: mentre quest'ultima si era situata al centro e nei suoi migliori esponenti guardava a sinistra, Berlusconi ha fatto l'operazione opposta: ha spinto lo schieramento moderato a destra, spostando l'asse, e gli assetti complessivi, della politica italiana attraverso una ideologia bipolarista che si è però configurata, sul piano storico, come una incarnazione del nostro tradizionale trasformismo. Dall'inizio alla fine della sua carriera politica, Berlusconi si è mostrato pronto a qualunque operazione, pur di salvare se stesso e il suo potere: è stato, sempre, un singolare intreccio di estremismo e trasformismo.
I luoghi nei quali questo estremismo si è espresso sono noti: svuotamento del Parlamento, rottura dell'equilibrio dei poteri, attacchi sistematici alla magistratura e, soprattutto, sostanziale rifiuto del vincolo «costituzionale» su cui è fondata la Repubblica, al quale ha contrapposto, come proprio tratto originario, il primato del popolo quale «principio» della legittimità e del potere democratico. Quando si apre lo scontro tra popolo e principi giuridici e costituzionali, sono questi ultimi che dovrebbero perciò sottomettersi al primo, dato il nesso diretto che esiste tra popolo e democrazia: se questo non avviene, e le regole non accettano di essere calpestate, c'è come abbiamo sentito dire in questi giorni un «colpo di stato». Qui estremismo e populismo si congiungono in modo compiuto, e la democrazia dispotica si spoglia delle «forme» in cui si era occultata, e si svela per quello che è stata fin dall'inizio: una contrapposizione frontale, e una alternativa, alla democrazia rappresentativa.
Ma tutto questo ed è l'elemento di «modernità» del fenomeno è stato reso possibile dalla profonda trasformazione generata dal berlusconismo nelle modalità di concezione e formazione delle «identità» personali; nelle forme della «comunicazione» sociale, sia individuale che collettiva e, di conseguenza, nella politica ridotta a puro «spettacolo» senza contenuto, di cui i vari leader anche quelli di sinistra sono stati a volta protagonisti, più spesso comparse, con una progressiva, e grave, trasformazione, e delegittimazione, del loro ruolo istituzionale e della funzione della politica in generale – cioè, in una parola, della democrazia. Al Parlamento è stato sostituito il «grado zero» della «spettacolarizzazione»: in questo periodo, e gli storici dovranno tenerne conto, è esistita infatti una terza Camera, accanto alle due previste dalla Costituzione: i talk-show, concepiti come sede effettiva di confronto politico e momento centrale, anche sul piano simbolico, di certificazione, e riconoscimento, dell'ascesa al potere e del successo personale.
A loro volta, questi processi «materiali» si sono connessi ed è un altro elemento di «modernità» a una ideologia assai potente che ha puntato con successo grazie alla azione dei media, alla fine dei modelli culturali e politici novecenteschi e alla crisi delle culture della sinistra su una serie di «valori» precisi: sfrenato individualismo; primato del privato sul pubblico, concepito come puro intralcio e impedimento al proprio successo individuale; giovanilismo; «valorizzazione» in chiave feticistica del corpo e delle donne; rifiuto del diverso; rigetto dell'«altro» in qualunque forma... Perfino lo sport è caduto sotto questa mannaia, riducendosi a puro affare economico e a strumento di affermazione personale e di potere. Ne è scaturito una profonda decadenza della nazione italiana, una drammatica degenerazione dell'ethos pubblico, un indebolimento dei vincoli sociali e politici, fondamento della nostra democrazia.
Ridurre un fenomeno così articolato e complesso a puro fatto italiano, o a un fenomeno da baraccone, oppure a un revival del fascismo sarebbe però profondamente sbagliato: certo, è stato potenziato da caratteri propri della nostra storia, da specifiche arretratezze nazionali. Ma la crisi della democrazia di cui il berlusconismo è una tragica degenerazione non è stata, e non è, solo un fatto italiano; né può essere superata se non se ne mettono a fuoco, con freddezza, le ragioni profonde, compreso il consumarsi delle culture politiche della sinistra e delle forme della politica di massa novecentesca. È con il problema della crisi della democrazia contemporanea oggi che bisogna confrontarsi, se si vuole chiudere effettivamente questo terribile ventennio.
Berlusconi è finito ma sono ancora vive le radici che hanno reso possibile la sua ascesa al potere e il suo lungo dominio.

l’Unità 28.11.13
Risposta a Macaluso

Dalla via italiana di Togliatti all’autonomismo del Psi
di Rino Formica


Pubblichiamo ampi stralci del testo inviato dall’ex ministro socialista a Emanuele Macaluso a proposito del suo libro «Comunisti e riformisti»

Caro Emanuele,
ho letto il tuo libro e dico subito che vi ho trovato conferma del fatto che passione e rigore possono essere tenuti assieme solo a partire da una grande esperienza politica, la tua, vissuta, tra l’altro in un rapporto diretto con Togliatti.
Il Togliatti da te raccontato (con il supporto di una corposa e selezionata documentazione) risulta un personaggio «incompreso». Infatti la via italiana al socialismo fu osteggiata dall’Urss e dal suo agente fiduciario ancorché di grande spessore politico e intellettuale, Secchia.
Una accorta storiografia oggi non registra più incertezze su questo punto, che tra la visione della democrazia progressiva che è stata di Secchia e quella di Togliatti non vi è solo una differenziazione tattica ma è di sostanza. Nella visione di Secchia le vie nazionali alla democrazia di matrice terzinternazionalista sono l’espediente per «entrare» nel campo della democrazia borghese per decretarne le incompatibilità e su queste innestare processi conflittuali a sbocco rivoluzionario. In Togliatti, all’opposto, l’idea della via nazionale al socialismo deve trovare le «vie» per rendersi compatibile e accompagnarsi per un lungo tratto con le esperienze di liberaldemocrazia, pena lo stesso esaurimento del progetto rivoluzionario e, dall’altro, l’affievolimento dello spirito delle Costituzioni di natura liberal-borghese. Gli interventi di Togliatti alla Costituente vanno letti come un continuo e travagliato esercizio di costruzione di un ponte tra queste visioni delle «Costituzioni delle libertà», diverse ma non estranee, le libertà e i diritti individuali e le libertà e i diritti dei movimenti sociali organizzati.
Questa è la grande operazione politica, vincente, di Togliatti, il legame indissolubile e la formazione di un blocco unico tra democrazia-antifascismo-Costituzione; questo è il suo capolavoro e, al tempo stesso, la grande scommessa di agganciare con la formula della democrazia progressiva le grandi correnti democratiche che si alzavano dalla nuova Europa e dalle frontiere liberate dai totalitarismi.
Il punto è che la via italiana al socialismo (con annesse «riforme di struttura») si costruisce tutta attorno a questo asse sistemico e ideologico. Fu, per Togliatti, un deliberato ed efficace esorcismo della questione democratica. Togliatti non risolse mai, fino al Memoriale di Yalta, il problema della democrazia e tutte le citazioni dei testi togliattiani da te utilizzate confermano questo nodo politico e teorico. Il modello democratico nazionale, per Togliatti, non ha il carattere generale, classico della liberaldemocrazia ma quello particolare segnato dalla Resistenza e dalla Costituzione.
Nell’importante intervento svolto da Togliatti l’11 marzo del 1947 all’assemblea costituente sul primo progetto di Costituzione, il leader del Pci definisce bene il ruolo che l’antifascismo deve avere nella costruzione del modello di democrazia nazionale, nel presidio della democraticità della Costituzione e colloca la «via italiana» e la «democrazia progressiva» in questo preciso punto di incontro-scontro tra forze democratiche e reazionarie. In sostanza l’antifascismo per Togliatti (ma per l’intera sinistra italiana perfino in quella di matrice socialdemocratica) non è semplicemente un sentimento democratico, un sentimento da alimentare di continuo con l’impegno civile e politico nella dialettica liberaldemocratica ma è il filtro selettivo delle nuove classi dirigenti, tanto più legittimate a governare quanto più ispirate dai principi «sociali» e di emancipazione.
Ed è su questo terreno della legittimazione antifascista delle forze politiche, al quale viene attribuito un valore discriminante (dentro o fuori la democrazia) che si forma lo schema compromissorio del sistema politico nazionale, schema che sarà ripreso e sviluppato dalle due culture politiche protagoniste della Costituente: il comunismo italiano e il cattolicesimo democratico.
E veniamo all’altro snodo del tuo libro: il Psi e il valore fondante dell’unità del movimento operaio inteso come scenario di fondo che ha, con alterne vicende, dominato la linea dei due partiti di massa della Sinistra italiana sino quasi alla fine degli anni ’70. Su questo punto va detto con chiarezza che il Psi non solo è dentro la logica unitaria ma ne è condizionato. Anche l’autonomismo di Nenni ne è subalterno. Infatti l’operazione del Psu è finalizzata ad accrescere il potere contrattuale dei socialisti (unificati) nei confronti della Dc ma non del Pci. L’autonomismo di Nenni non fuoriesce in nessun caso dall’unità del movimento
dei lavoratori, che resta in vincolo ideologico del socialismo italiano, fino a Craxi.
Tu sei convinto che la svolta di Berlinguer (una svolta «azionista» la chiami) trova una giustificazione nella radicalizzazione dell’autonomismo di Craxi, e vedi giusto. Dove non convengo con te è su un giudizio indifferenziato e negativo delle due svolte, di Craxi e di Berlinguer, anche se si sono tenute assieme e assieme sono cadute e soprattutto è difficile da sostenere che una ripresa (creativa) della «vita italiana» di Togliatti (come ebbe a sostenere Napolitano nel 1981 in polemica con Berlinguer) avrebbe consentito da sola la ripresa del rapporto unitario a sinistra e dato l’avvio alla normalizzazione del sistema politico nazionale. Così come è da condividere pienamente l’idea, con la quale chiudi il libro, secondo cui il cortocircuito tra diversità-questione moralegiustizialismo non soltanto è completamente estraneo alla tradizione del togliattismo e del comunismo italiano, anzi ne capovolge la logica «laica» (la laicità della politica è propria della visione di Togliatti) ma ha compromesso (e speriamo non definitivamente distrutto) l’identità della Sinistra in Italia. Resta il dubbio che questa miscela di nuovismo e giustizialismo abbia rappresentato il propellente per le involuzioni e le miserie della Seconda Repubblica.

l’Unità 28.11.13
Oggi le liste Pd. Ma è battaglia tra le correnti
Con Cuperlo Lerner, Reichlin, D’Alema, Marini e Crocetta
Con Civati, Lanzetta e Schlein. Barca dice no
I renziani puntano sugli amministratori ma è polemica con veltroniani e Areadem
di Simone Collini


ROMA Si sapeva che il nodo sarebbe stato duro da sciogliere, e infatti i comitati elettorali dei tre candidati alla segreteria del Pd avevano concordato di darsi qualche giorno in più rispetto alla data decisa all’ultima Direzione del partito, rinviando la scadenza per presentare le liste dal 25 al 28 novembre. Oggi, appunto. Ma la battaglia all’interno degli schieramenti è andata avanti fino a ieri notte.
La novità rispetto alle precedenti primarie, quando per ogni candidato si potevano presentare più liste rappresentative delle diverse correnti che lo appoggiavano, è che questa volta Matteo Renzi, Gianni Cuperlo e Pippo Civati avranno a sostegno una sola lista ciascuno. Una semplificazione, per gli elettori che l’8 dicembre andranno a votare ai gazebo, ma una difficoltà ulteriore per i comitati dei candidati. Queste liste servono infatti ad eleggere i mille membri dell’Assemblea nazionale (a cui si aggiungono cento parlamentari) e gli equilibri che si determineranno in questo organismo sono tutt’altro che ininfluenti rispetto alla vita futura del Pd.
La necessità di trovare un accordo tra le diverse anime dei propri sostenitori ha complicato le cose soprattutto all’interno del comitato del sindaco di Firenze, con i cosiddetti renziani della prima ora che hanno voluto gestire in proprio la pratica a scapito di franceschiniani, lettiani, veltroniani. I quali raccontano che i tavoli istituiti nei giorni scorsi, composti da esponenti di tutte quelle componenti e che avrebbero dovuto portare alla stesura delle liste, di fatto hanno perso la loro funzione quando Luca Lotti si è intestato il potere dell’ultima parola.
Renzi ha voluto che fosse il suo braccio destro a sbrigare la pratica non a caso: come si è visto nel passaggio sulla sfiducia mancata alla ministra della Giustizia Cancellieri, il sindaco già non controlla i gruppi parlamentari; che abbia dalla sua la maggior parte dei segretari provinciali è tutt’altro che certo; e allora intanto deve essere sicuro di avere una maggioranza su cui può fare affidamento all’interno del maggiore organismo del partito, che è l’Assemblea nazionale, per andare poi avanti così a cascata con la Direzione. Per questo vuole per sé la decisione finale sulle liste, in cui troveranno posto molti amministratori, anche a costo di far irritare gli stessi suoi supporter.
Anche nel comitato Cuperlo non sono mancate le difficoltà. Qui i tavoli hanno continuato a lavorare fino a ieri notte, ma non sempre è stato facile trovare un’intesa tra bersaniani, dalemiani, giovani tuchi. Cuperlo ha chiesto ai territori di presentare una lista di nomi, ma ha anche chiarito che una parte dei posti l’avrebbe riservata a personalità scelte direttamente da lui. Una di queste è Gad Lerner, che ha spiegato sul suo blog perché, insieme a Luciano Segre e Massimo Toschi, in continuità con l’Ulivo e la scelta del Pd, voterà per lo sfidante di Renzi. Nelle liste del deputato triestino ci saranno anche Rosario Crocetta, in Sicilia, Alfredo Reichlin, nel Lazio, e Franco Marini. Massimo D’Alema sarà candidato a Foggia, città di cui è cittadino onorario (ha rinunciato a Bari dopo la polemica innescata da Michele Emiliano, dato come capolista di Renzi, e dopo che un gruppo di parlamentari e consiglieri regionali di tutte le anime del Pd ha lanciato a entrambi l’appello a fare un passo indietro).
Quello che a ieri sera era più avanti con i lavori nella definizione delle liste è il comitato Civati. Qui le difficoltà a trovare un’intesa tra diverse componenti non ci sono state. Saranno candidati sotto il nome di Civati la fondatrice di Occupy Pd Elly Schlein, la sindaca anticamorra Maria Carmela Lanzetta, l’assessore di Reggio Emilia che si è battuto per la chiusura dell’inceneritore Mirko Tutino, economisti come Filippo Taddei, della Johns Hopkins University di Bologna, parlamentari come Felice Casson, Walter Tocci e Laura Puppato. Fabrizio Barca, che pure nei giorni scorsi ha fatto sapere di aver votato per Civati, ha deciso di non candidarsi e di rimanere fuori dall’Assemblea nazionale, perché ritiene l’organismo pletorico e perché, spiega a chi ci ha parlato in queste ore, non condivide le regole statutarie.
Oltre ai mille eletti l’8 dicembre entreranno nell’Assemblea cento tra deputati, senatori ed europarlamentari. Si sta discutendo anche se far entrare di diritto, oltre agli ex segretari del Pd, anche i ministri in carica.

l’Unità 28.11.13
Il sondaggio di www.unita.it
Già 15mila votanti. In testa Cuperlo


In testa Gianni Cuperlo con il 36% dei voti. Secondo Giuseppe Civati con il 32% e solo terzo Matteo Renzi con il 24%. Gli indecisi solo l’1% e l’area del non voto è limitata al 6%. No, non sono le previsioni di un mago, ma i risultati provvisori del sondaggio lanciato da Unita.it il 25 novembre e che in tre giorni ha già raccolto oltre 15mila voti. Mancano meno di due settimane all’8 dicembre e alle Primarie Pd che eleggeranno il nuovo segretario. Nell’attesa, Unita.it ha lanciato la votazione on line per testare gli umori dei lettori. Il risultato, ovviamente senza valore statistico, è ancora aperto: nelle prime ore è andato in vantaggio Civati, poi è toccato a Renzi e, al momento, Cuperlo guida il terzetto. Ma fino all’8 dicembre tutto può ancora succedere... Basta votare.
C. B.

l’Unità 28.11.13
Eutanasia, il Belgio verso il sì per i minori


Il Belgio si appresta a estendere l’eutanasia anche ai malati terminali minorenni. Una proposta di legge in questo senso è stata approvata dalla commissione Giustizia e Affari sociali del Senato dopo un mese di discussioni con 13 voti a favore e quattro contrari. La proposta, che ha scatenato un intenso dibattito in Belgio, dovrà essere ora esaminata dall’aula del Senato e poi dall’altra Camera.
La nuova legge consentirà l’eutanasia ai minorenni affetti da patologia terminale se giudicati capaci di decidere da soli e colpiti da un dolore che non possa essere «alleviato». La «dolce morte» dovrà comunque essere approvata da un team medico e necessiterà del consenso dei genitori.
Secondo un recente sondaggio, tre quarti dei cittadini condividono la nuova legge in un paese che ha introdotto l’eutanasia nel 2002, seconda nazione a farlo dopo l’Olanda. Lo scorso anno sono stati 1.432 i casi di eutanasia in Belgio, il 25% rispetto al 2011.
«Tristezza e delusione» è stata espressa in una dichiarazione comune dai responsabili religiosi del Paese. «Condividiamo l’angoscia di quei genitori che hanno un bambino che sta andando verso una fine prematura della vita, soprattutto quando soffre. Tuttavia scrivono i leader religiosi -, riteniamo che le cure palliative e la sedazione siano un modo degno di accompagnare un bambino che muore di malattia. Medici, oncologi e rianimatori ce lo hanno affermato chiaramente. Ascoltiamoli». A firmare la dichiarazione congiunta sono il Gran Rabbino di Bruxelles, Albert Guigui, Robert Innes, della Chiesa anglicana, monsignor André-Joseph Léonard, presidente della Conferenza episcopale del Belgio, Geert Lorein, del Sinodo federale delle Chiese protestanti ed evangeliche, il metropolita Panteleimon Kontogiannis, per la Chiesa ortodossa, e Semsettin Ugurlu, presidente dell'Esecutivo dei musulmani in Belgio.
I leader religiosi ribadiscono anche il loro no all’«accanimento terapeutico» e il loro invito a utilizzare le cure palliative perché scrivono «noi crediamo che non abbiamo il diritto di lasciare un bambino soffrire: anche perché la sofferenza può e deve essere sollevata. E la medicina ne ha i mezzi. Non banalizziamo l’atto di dare la morte dal momento che siamo fatti per la vita. Mettere fine alla vita è un atto che non solamente uccide, ma distrugge un poco per volta i legami che esistono nella nostra società».

l’Unità 28.11.13
Netanyahu atteso a Roma e l’Italia arma Israele
Commessa per trenta caccia italiani
Il nostro Paese presente alla più importante esercitazione militare israeliana
di Umberto De Giovannangeli


Lunedì a Roma andrà in scena un bilaterale particolarmente importante, delicato, strategicamente rilevante. Il bilaterale Italia-Israele. L’amicizia tra Roma e Gerusalemme non è in discussione. Ma gli amici veri sono quelli che aiutano a non perseverare negli errori. Gli amici veri sono quelli che sanno praticare una politica di equivicinanza con Israeliani e Palestinesi, rimarcando, ad esempio, che la colonizzazione dei Territori palestinesi di fatto svuota di ogni significato reale una pace fondata sul principio di «due Stati per due popoli». Di questo e di altro discuteranno lunedì a Villa Madama Enrico Letta e Benyamin Netanyahu. Ma il vertice intergovernativo ha avuto una anticipazione, che è passata sotto silenzio. Un silenzio imbarazzante. E, per molti versi, inquietante.
MANOVRE
Il suo nome in codice è «Blue Flag». Si tratta della più grande esercitazione multinazionale di aerei da combattimento mai ospitata da Israele. «Blue Flag» è iniziata domenica scorsa e si concluderà oggi, con la partecipazione di Stati Uniti, Grecia e anche dell’Italia. Alla esercitazione partecipano un sessantina di aerei da combattimento fra cui F-15, F-16, Tornado, Amx e B-152. Secondo un report dettagliato dell’analista americana Stephanie Westbrook, l’aeronautica israeliana mira ad aumentare di 10 volte il numero di obiettivi che è in grado di rilevare e distruggere. Il piano in cantiere, Expanding Attack Capacity (EAC), punta a un uso «massiccio, persistente e punitivo» della cosiddetta «forza aerea di precisione» per ridurre la durata delle guerre future ed evitare l’uso di forze di terra, considerato costoso e dannoso in termini diplomatici. Lo scenario simulerà un attacco in profondità in un territorio nemico dotato di forti difese aeree (come è ad esempio l’Iran). La partecipazione italiana all’esercitazione nel Neghev riaccende i riflettori su un capitolo di questa «amicizia» su cui vale la pena soffermarsi: quella militare. Con 473 milioni di euro, Israele si è aggiudicato il primo posto fra gli acquirenti di armi italiane, merito soprattutto dell’acquisto di 30 caccia da addestramento M-346. Nonostante la riesplosione della crisi mediorientale – rileva Antonio Mazzeo, tra i più acuti reporter e analisti italiani di strategie e affari militari proprio il 2012 ha rappresentato l’anno chiave nei trasferimenti di sistemi d’arma tra i due Paesi. Il 19 luglio, in particolare, il ministero della Difesa italiano e l’omologo israeliano hanno ratificato la fornitura alle forze armate israeliane di 30 velivoli da addestramento avanzato M-346 «Master» prodotti da Alenia Aermacchi. La commessa ha un valore di poco inferiore al miliardo di dollari, ma prevede vantaggiose contropartite per le industrie israeliane. Elbit Systems, azienda specializzata nella produzione di tecnologie avanzate, svilupperà il nuovo software che verrà caricato sugli addestratori. Il Virtual Mission Training System (Vmts) «ingannerà i sensori degli M-346 simulando le funzioni di un moderno radar di scoperta attiva capace di gestire numerose funzioni tattiche, nonché scelte d’armamento complesse», riporta la World Aeronautical Press Agency. «Utilizzando il software una volta in volo, il pilota in addestramento potrà esercitarsi in scenari avanzati, quali la guerra elettronica, la caccia alle installazioni radar e l’uso di sistemi d’arma all’avanguardia». Alle future guerre rimarca Mazzeo le forze aeree israeliane si addestreranno cioè con il made in Italy.
In cambio dei caccia, le autorità dello Stato ebraico hanno anche imposto che l’aeronautica militare italiana si doti di due velivoli di pronto allarme «Gulfstream 550» con relativi centri di comando, controllo e sistemi elettronici, prodotti da Israel Aerospace Industries (Iai) ed Elta Systems (costo complessivo, 800 milioni di dollari circa). Selex Elsag, una controllata di Finmeccanica, s’incaricherà per conto delle aziende israeliane a fornire ai velivoli i «sottosistemi» di comunicazione e link tattici secondo gli standard Nato. Le forze armate italiane dovranno pure acquistare un sistema satellitare elettro-ottico ad alta risoluzione di seconda generazione «Ofeq», anch’esso di produzione Iai ed Elbit Systems (245 milioni di dollari). Prime contractor degli israeliani sarà Telespazio, azienda controllata in parte da Finmeccanica, che assicurerà entro il 2015 la costruzione del segmento terrestre, il lancio e la messa in orbita del nuovo sistema satellitare. In aggiunta, Roma sarebbe anche interessata all’acquisto di droni senza piloti.
FARE CHIAREZZA
In vista del bilaterale di lunedì, si parla di accordi politici, economici e culturali. A spiegarne senso e sostanza saranno Letta e Netanyahu. Rafforzare le relazioni tra Roma e Gerusalemme su questi terreni è un bene, così come evocare boicottaggi accademici o di prodotti alimentari non aiuta certa il dialogo in Terrasanta ma finisce per favorire i falchi presenti nei due campi e non certo quanti, israeliani e palestinesi, sanno che la pace, quella vera, non può che nascere dal basso. Ma la partita militare non può restare sullo sfondo, o passare sotto silenzio. Perché non è con le armi che si cambia in meglio il volto del Medio Oriente. Semmai lo si rende più insanguinato.

Repubblica 28.11.13
Israele
Multa di 120 euro per ogni giorno di ritardo La donna ha presentato ricorso all’Alta corte
Elinor contro i rabbini “Mio figlio non sarà circonciso”
di Fabio Scuto


GERUSALEMME Finirà davanti alla Corte Suprema di Israele il caso di Elinor H. e di suo figlio, che la madre si rifiuta di far circoncidere. Perché una Corte rabbinica, che ha giurisdizione legale in Israele per tutte le questioni che hanno che fare con la religione — e quindi anche matrimoni, divorzi, nascite — ha stabilito che la donna dovrà pagare una multa di 500 shekel (120 euro) per ogni giorno di attesa se non farà circoncidere il figlio entro una settimana. «Il bambino è nato con un problema di salute, quindi non poteva essere circonciso l’ottavo giorno, come di consueto», ha raccontato Elinor al quotidiano Haaretz. «Poi col passare del tempo, ho iniziato a leggere ciò che realmente accade nella circoncisione, e ho capito che non potevo fare questo, a mio figlio. È perfetto così com’è».
La madre racconta che anche il padre del bambino ha avuto una parte nella decisione, ma quando la coppia ha iniziato a discutere del loro divorzio davanti alla Corte rabbinica, il marito ha «inaspettatamente» deciso di insistere sul fatto che il loro figlio deve essere circonciso. «La circoncisione è una procedura chirurgica standard che viene eseguita su ogni bambino ebreo, così quando uno dei genitori lo richiede, l’altro non può ritardare il fatto se non si è dimostrato che è pericoloso dal punto di vista medico», hanno scritto i tre rabbini-giudici che componevano la Corte. «Effettuare la circoncisione non è solo un atto chirurgico», scrivono nella loro sentenza, «... Brit Milah,(il rito della circoncisione), è un patto che Dio ha fatto con il suo popolo eletto, la nazione di Israele». Poi precisano: «La rimozione del prepuzio prepara l’anima del bambino ad accettare il giogo del Cielo, studiare la Torah e i comandamenti di Dio».
Il ricorso di Elinor alla Corte Suprema, attraverso il suo avvocato Marcella Wolf, arriva in un momento molto delicato in Israele. Alla Knesset sono in discussione diversi progetti di legge — sostenuti da laburisti, centristi di Yesh Atid e dalla signora Livni, ministro della Giustizia, — per una progressiva limitazione della religione nella vita politica e sociale. E una piccola rivoluzione è probabilmente alle porte: si sta discutendo del matrimonio civile, perché in Israele esiste solo quello religioso, dell’unione omosessuale davanti a ufficiali di stato civile. Questo con grande scandalo dei partiti religiosi — che negli ultimi dieci anni sono sempre stati al governo impedendo ogni riforma in questo senso — e la rivolta annunciata dalle comunità religiose, specie quelli più osservanti come gli ultra- ortodossi che sono un terzo degli abitanti di Israele.
Sulla liceità della circoncisione maschile e della mutilazione genitale femminile, in quanto pratiche rituali che comportano menomazioni fisiche imposte ai bambini che non possono decidere autonomamente, si discute da tempo in Europa e anche negliUsa. Una nuova sensibilità che arriva soprattutto nei paesi del nord Europa, dove è cresciuta la componente islamica e il problema si fa sentire tra le comunità diimmigrati. In termini generali la totalità della popolazione maschile di religione ebraica è circoncisa, così come la maggioranza dei maschi musulmani (l’attoavviene però tra gli 8 e i 10 anni). Ma anche negli Stati Uniti la maggioranza dei maschi è circoncisa: non è stata la religione ad averne alimentato la diffusione, ma laconvinzione di medici e genitori degli effetti benefici sulla futura salute del figlio, anche come prima difesa contro l’Aids.

Repubblica 28.11.13
Usa-Cina Mari di guerra
di Vittorio Zucconi


WASHINGTON Attorno a tre inutili isolotti vulcanici, poco più che scogli, affiorati nel nulla del Mar della Cina Orientale va in scena il nuovo atto del dramma che dominerà il futuro del mondo: il duello per la supremazia globale tra la superpotenza di ieri e la superpotenza di domani, Usa e Cina.
Se di questi tre scogli importa pochissimo a tutti — erano addirittura proprietà privata fino al recente acquisto da parte del governo giapponese — anche il mini-arcipelago delle Senkaku, come le chiama Tokyo, o Diaoyu, secondo Pechino che le considera sue, hanno un valore simbolico. Il duello a distanza fra i B52 americani che le hanno sorvolate e la portaerei cinese Liaoning che le sta raggiungendoa tutta forza è altissimo. E tutto ciò cheè simbolico, in Asia è sempre sostanziale.
Da quando, liquidati gli orpelli del maoismo e imboccata la via della “dittatura di sviluppo” a ogni costo umano e sociale, la Cina è divenuta la fabbrica dei consumi americani e la sua principale finanziatrice, l’assurdità del rapporto fra cinesi e americani si fa progressivamente più vistosa.
Con il proprio immenso surplus commerciale, la Cina finanzia non soltanto l’economia Usa, ma quelle armi, quelle flotte navali e aeree che ancora consentono a Washington di allungare la propria ombra sull’Asia Orientale. Senza il credito misurato in migliaia di miliardi che Pechino fornisce agli Usa perchè acquisti i prodotti “Made in China”, il Pentagono non avrebbe i soldi necessari per far volare i B52 sopra le isole contese e manovrare le 70 unità navali della Settima Flotta nel Pacifico.
Dentro questo paradosso degli “amici-nemici”, dei due grandi soci che collaborano alla spartizione economica e finanziaria del mondo nel nome formale di ideologie contrapposte, c’è una rivalità che finora nessun vertice, comunicato, accordo commerciale o acquisto di buoni del Tesoro americani ha potuto risolvere. È una lunga storia che nell’età contemporanea, dopo l’uscita della Cina rivoluzionaria dal protettorato e dal colonialismo delle potenze europee e del Giappone invasore, esplode in una mattina gelida del 25 ottobre 1950, quando 200mila soldati regolari cinesi sorpresero le truppe americane e sud coreane che aveva attraversato il 38esimo parallelo e preso la capitale del Nord, Pyongyang. Nel massacro e nella Caporetto delle unità americane in fuga, per la prima e finora ultima volta dopo Nagasaki, l’alto comando Usa propose di contrattaccare sganciando bombe atomiche sulle forze di Mao.
Fortunatamente, e saggiamente, il Presidente HarryTruman ebbe il coraggio di licenziare in tronco il generalissimo McArthur e accettare, dopo anni di battaglie inconcludenti e sanguinose, il compromesso fra Nord e Sud che ancora regge 60 anni dopo.
Mai più “l’aquila e il drago” sarebbero arrivati a uno scontro militare diretto e a un passo da una guerra nucleare che avrebbe risucchiato certamente l’Unione Sovietica, non disponendo di bombe atomiche nè i cinesi nè i coreani.
Ma sarebbero state necessarie rivoluzioni e controrivoluzioni culturali dentro la Repubblica Popolare, e il superamento negli Usa della psicosi del “pericolo giallo” — diretto erede del “pericolo rosso” — perchè si arrivasse al semplice riconoscimento diplomatico della più popolosa nazione del pianeta e la sua ammissione all’Onu,nel 1971. Riconoscimento diplomatico che non condusse e ancora non conduce a un rapporto d’amicizia: ci sono troppe radici, e troppo profonde, nell’ostilità secolare fra Oriente e Occidente e nella inconfessabile, reciproca diffidenza — quando non disprezzo — razziale. La relazioni fra Washington e Pechino avrebbero continuato, e continuano, a oscillare fra gli interessi di un matrimonio costruito sul profitto e l’antagonismo di una opposizione che ha nel controllo del Pacifico occidentale il quadrante immenso ed esplosivo del Risiko.
Persino la presidenza diGeorge W. Bush, pure figlio del primo americano inviato a Pechino come ambasciatore di fatto, George Senior, si sarebbe aperta con un incidente che ricorda molto quanto sta avvenendo attorno agli scogli delle Senkaku/Diaoyu. La collisione fra un quadrimotore spia inviato dal Pentagono nello spazio aereo cinese e un intercettore dell’aviazione cinese, che precipitò uccidendo il pilota, fu un gesto di sfida che Bush aveva promesso in campagna elettorale e che lo costrinse all’umiliazione di scuse formali al governo della Repubblica Popolare.
Fino a quando gli interessi impediranno che questo strano matrimonio degeneri in un divorzio violento, eventi come quello del 2001 o questo di oggi resteranno parte di quel kabuki militare nel quale i due grandi attori recitano soprattutto a beneficio del principale e cruciale spettatore: il Giappone. Ma il tempo non lavora a favore di Washington e del Pentagono. Il costo dell’“ombrello” aereo-navale americano nel Pacifico, dalle truppe ancora sul 38esimo parallelo coreano alle basi in Giappone, sta diventando insostenibile. La crescita delle spese cinesi nel riarmo, che ha prodotto quella prima portaerei oggi in navigazione verso le isole contese, è ancora lontanissima dalle spese americani, che restano, con i 600 miliardi di dollari all’anno versati al Pentagono ben superiori ai 150 miliardi consumati dai cinesi.
Ma la curva delle spese militari Usa è in discesa, quella dei cinesi in ascesa e la convinzione che il Regno di Mezzo, che la Cina non possa continuare a essere il classico “gigante economico” e “nano politico” come una Germania asiatica è ormai radicata nella dirigenza del regime e nel nazionalismo risorgente della popolazione. La scommessa, non soltanto americana, è che lo sviluppo politico e democratico della grande repubblica acceleri e raggiunga finalmente lo sviluppo industriale e tecnologico, spegnendo ambizioni di egemonia e di concorrenza strategica.
Ma i simboli contano, in Asia. Inviare proprio i B52, i vecchi, formidabili bombardieri alla Dottor Stranamore, specialmente detestati in quel continente che li vide coprire di bombe l’Indocina, è un gesto di sfida preciso e rischioso. Il Pentagono, e i falchi che sognano di saldare il conto lasciato aperto dall’ottobre del 1950, farebbero bene a ricordarsi del monito che un grande soldato asiatico rivolse ai propri superiori proprio dopo avere sfidato gli Usa: «Temo che abbiamo svegliato un gigante che dormiva». Anche svegliare il drago non è una buona idea.

Repubblica 28.11.13
L’ultima sfida tra le super potenze
In lotta per il dominio del secolo, Washington e Pechino si fronteggiano per il controllo di una manciata di scogli in pieno oceano Pacifico
Un pretesto per sfidarsi nel dominio del mondo, ma potrebbe sfuggire di mano
Con conseguenze devastanti per i paesi dell’aerea e non solo
di Giampaolo Visetti


PECHINO La prossima “guerra del Pacifico” non ha bisogno di una dichiarazione. È già cominciata, ricorre all’esibizione delle armi per rendere credibili le parole e riscatta dalle nebbie i due nemici ufficiali: la Cina e gli Stati Uniti, le sole due super-potenze del mondo, ormai in lotta per il dominio del secolo. In mezzo il Giappone, con una manciata di scogli che promettono limitati tesori energetici, e le economie emergenti dell’Asia: Corea del Sud, Australia, ma anche Indonesia e Vietnam, e più lontano l’India. A provocazione segue così provocazione, dai cieli si passa ai mari e sulla terraferma si mobilitano anche gli eserciti.
Al terzo round Pechino, dopo aver offerto a Washington qualche ora di tregua, si è dunque decisa ieri a una mossa senza precedenti: ha fatto salpare la sua prima portaerei indirizzandola lungo la stessa rotta di quella che gli Usa hanno mosso da una base in Corea del Sud. Giganti improvvisamente impegnati in “esercitazioni programmate”: due macigni sulla strada del riaffermato “dialogo alla pari” dell’imploso G2, che pesano ora sulla missione che fino al 7 dicembre porterà il vicepresidente americano Joe Biden, «fortemente preoccupato», proprio a Pechino, Tokyo e Seul.
A far traboccare un vaso che andava riempiendosi da oltre due anni, dopo lo strappo cinese di sabato, l’ordine della Casa Bianca di alzare in volo due bombardieri disarmati, per confermare di essere ancora il tutore del Sol Levante. La Cina è stata così costretta a minacciare di «essere pronta ad abbattere gli aerei che sorvoleranno con intenzioni ritenute ostili la nuova zona di identificazione per la difesa aerea (Zai)». Gli Usa hanno subito ripetuto che «la decisione di Pechino di stabilire un’area di protezione aerea sul Mar cinese orientale è inquietante e destabilizzante per i Paesi vicini». Diplomazia superata dagli eventi, perché mentre i portavoce stilavano comunicati, i generali muovevano uomini e mezzi. Pechino, per guadagnare tempo, ha detto di «aver monitorato e identificato» i B52 americani che martedì hanno violato la nuova Zai, proclamata in modo unilaterale, ma si è astenuta da ventilate azioni di rappresaglia. Il ministero della Difesa si è mostrato anzi in difficoltà per l’immediato compattamento ostile dei Paesi vicini, uniti dalla reazione Usa. «L’esercito cinese ha registrato l’intero volo dei B52 — recita una nota — e ha la capacità di mantenere un controllo efficiente sullo spazio aereo interessato». La nuova leadership di Pechino, dopo aver riacceso il fuoco delle contese territoriali nel Pacifico, lascia dunque intendere che gli Usa sono per ora risparmiati da attacchi diretti, ma ribadisce che il quadro delle rivendicate sovranità, in Estremo Oriente, ormai è mutato.
E l’escalation della tensione tra Cina e Giappone per il controllo dell’arcipelago delle Senkaku-Diaoyu, scoppiata per necessità di contrapposto consenso nazionalistico interno, dal cielo si è spostata nell’oceano. Dal porto di Qingdao ha mollato gli ormeggi la Liaoning, la portaerei che Pechino ha acquistato dall’Ucraina, relitto sovietico sottoposto a ristrutturazione totale e ora in rotta verso il Mar cinese meridionale assieme a due incrociatori lanciamissili. Versione ufficiale: addestramento dell’equipaggio. Nei fatti naviga proprio tra le isole contese a Tokyo, nelle stesse ore in cui solca quelle acque anche la portaerei Usa spostata precipitosamente dalla base sudcoreana e accompagnata da una flotta di navi da guerra giapponesi. E’ il più impressionante confronto a distanza tra gli arsenali atomici più avanzati del mondo e la mobilitazione ha fatto riscattare l’allarme in tutta l’Asia. Alle proteste di Tokyo contro la Zai, a cui si è aggiunta la solidarietà del nuovo ambasciatore Usa in Giappone, Caroline Kennedy, si è unita infatti la rivolta di Australia, Corea del Sud e Taiwan, che hanno «chiesto spiegazioni» su una «zona aerea difensiva» che viola anche la loro sovranità. «Se i conflitti territoriali e le questioni storiche si mescolano con il nazionalismo — ha detto Seul — lo stato della regione può rapidamente degenerare». Pechino, dove riesplode sul web lo storico odio anti- giapponese, ha cercato così di rassicurare la comunità internazionale «libera dall’influenza americana». «Le altre nazioni non devono allarmarsi — ha fatto sapere — perché la Zai è solo una misura necessaria a proteggere la sovranità e la sicurezza della Cina». Messaggio distensivo in codice, esito del timore, cresciuto in serata, che Usa e Giappone possano compiere azioni a fronte delle quali«sarebbe impossibile evitare di reagire con la forza».
La nuova Zai però è una realtà, alcune compagnie aeree nel dubbio hanno fatto sapere che la rispetteranno e le cancellerie straniere non nascondono più i timori per «un conflitto innescato dalla necessità politica di controllare le rotte commerciali e i fondali ricchi di energia nel Pacifico». Uno scontro preparato ogni giorno, ma che a Pechino, Tokyo e Washington gli strateghi definiscono «ancora prematuro», convinti che «la tensione diplomatica salirà per mesi, ma chegli interessi economici comuni impediscono un rapido precipitare dello stallo». Le prime tre economie del mondo, secondo alti funzionari governativi, «trarrebbero benefìci da un clima militare altamente instabile», ma risulterebbero «pesantemente danneggiate da uno scontro armato nel breve periodo». La Zai servirebbe alla Cina per «confermare un peso esterno all’esercito», ridimensionato dal nuovo sistema di sicurezza interno approvato dall’ultimo Plenum, e per dare una “dimensione visibile” al suo nuovo ruolo mondiale. Al tempo stesso la mossa cinese consente agli Usa, alleggeriti inMedio Oriente, di «rilanciare industria bellica nazionale e presenza militare nel Pacifico», compattando «gli alleati storici dell’Oriente spaventati dall’ascesa del Dragone». I venti di guerra attorno alle Senkaku, secondo la stessa stampa nipponica, offrirebbero infine al Giappone l’opportunità di «sviare l’attenzione popolare dalle difficoltà dell’Abenomics (l’aggressiva politica di bilancio lanciata un anno fa dal premier conservatore Shinzo Abe)».
Avessero ragione i think-tank, sarebbe l’esordio di una nuova Guerra fredda, con la Cina al posto dell’Urss e il Giappone sul fronte opposto rispetto alla Ddr, protetto dagli Usa. Cieli interdetti, territori contesi e mari occupati per un tacito accordo attorno a una «sequenza controllata di provocazioni reciproche a scopo di dissuasione bellica». «Agli arsenali atomici — ha commentato a Pechino un influente diplomatico della zona euro — seguono gli interessi commerciali e dopo la svolta in Iran si avvicina la resa dei conti sulla Corea del Nord». Guerra per Tokyo pensando dunque a Pyongyang, con il rischio che nel Pacifico un evento casuale faccia sfuggire di mano la situazione a qualcuno. «Un errore di calcolo — ha osservato il Pentagono — è possibile. Piccolo particolare che trascinerebbe non solo l’Estremo Oriente in un conflitto che minaccia di estendersi fino a rendere velleitaria anche la più modesta ambizione di una ripresa globale».

l’Unità 28.11.13
Brescia, 28 maggio 1974
Figli di piombo
Il romanzo di una strage impunita Benedetta Tobagi e piazza della Loggia
L’autrice ricostruisce il primo attentato organizzato per colpire una precisa porzione di cittadini, gli antifascisti
di Marco Amagisti


Un altro tassello della riflessione sugli anni 70 avviata da chi ha perso il padre per mano del terrorismo

NEL CORSO DI UNA MANIFESTAZIONE ANTIFASCISTA, IL 28 MAGGIO 1974 IN PIAZZA DELLA LOGGIA A BRESCIA ESPLODE UNA BOMBA CHE UCCIDE OTTO PERSONE E NE FERISCE CENTODUE. Nel suo ultimo libro, Una stella incoronata di buio. Storia di una strage impunita (Einaudi), Benedetta Tobagi spiega perché quella strage costituisca un punto di svolta drammatico per l’intera storia italiana. A Brescia non è avvenuta la strage più sanguinosa di quegli anni, e neppure la più nota, ma per la prima volta un attentato non si rivolge ad una porzione indistinta e casuale di cittadini, bensì colpisce una manifestazione antifascista indetta dai sindacati. È la «strage col più alto tasso di politicità» e rappresenta uno snodo cruciale della «strategia della tensione». Un mese dopo, a Padova, le Brigate Rosse compiranno il loro primo omicidio uccidendo Giuseppe Mazzola e Graziano Giralucci nella sede del Msi.
Negli anni Settanta Brescia è una città con una forte presenza operaia e sindacale. Dopo il 1968 diviene teatro di numerosi atti violenti di matrice neofascista, a cui rispondono manifestazioni unitarie della sinistra e della Dc. È proprio in una di queste occasioni di risposta alla violenza politica, la mattina del 28 maggio 1974, che il discorso rivolto ad una piazza gremita di lavoratori dall’ex partigiano Franco Castrezzati, segretario generale dei metalmeccanici Cisl, viene interrotto dal boato di una bomba.
Con uno stile in parte già affiorato nella sua opera d’esordio (Come mi batte forte il tuo cuore, Einaudi, 2009), Benedetta Tobagi riesce a combinare ricostruzione storica e narrazione letteraria, soffermandosi su squarci di biografie personali travolte dalle tempeste della storia italiana. Compresa la biografia dell’autrice: infatti, un altro 28 maggio, sei anni esatti dopo Piazza della Loggia, un gruppo armato di estrema sinistra ucciderà Walter Tobagi, padre di Benedetta e giornalista del Corriere. Il libro ricostruisce sia le articolate trame del terrorismo neofascista con il corollario dei numerosi depistaggi e di una verità guidiziaria ancora inafferrabile sia il ricco e vivace contesto in cui agiscono molte delle persone coinvolte, ricordate assieme alle passioni che sovente le animavano. In molte parti, l’autrice attinge alla preziosa esperienza di Manlio Milani, presidente dell’Associazione dei familiari delle vittime di Piazza della Loggia, che nella strage ha perso sua moglie Livia.
La ricostruzione della storia d’amore fra Livia e Manlio Milani è struggente e intreccia la dimensione privata con i riverberi delle passioni politiche, con la fitta trama di rapporti sociali, solidarietà e impegno di cui si componeva la loro vita sino ad un istante prima della deflagrazione. Il capitolo Marx e il Gattopardo rappresenta una precisa ricostruzione di un’atmosfera e di un tempo in cui era ancora possibile cogliere appieno le connessioni fra i destini delle persone, i legami sociali e la politica.
Benedetta Tobagi è nata nel 1977, non ha memoria diretta degli anni Settanta, ma la sua capacità di ricostruire i tratti culturali e gli stili di vita diffusi allora varrebbe da sé la lettura del libro.
Negli ultimi anni i figli delle vittime del terrorismo hanno arricchito con la propria ricerca la riflessione sugli anni Settanta. Oltre a Benedetta Tobagi ricordiamo i testi di Mario Calabresi, Agnese e Giovanni Moro, Silvia Giralucci ed Eugenio Occorsio. Mi ha sempre colpito in questi libri l’utilizzo parsimonioso dell’espressione «anni di piombo». È una scelta che condivido. Infatti, cristallizzare la complessità delle vicende del decennio in quella definizione rischia di farci dimenticare che si trattò anche di «anni del tritolo», ossia di stragi sulle quali non è ancora stata fatta piena luce. E anni della partecipazione: stavano infatti emergendo nuove forme di cittadinanza e si manifestavano forme di soggettività politica originali, come ha ricostruito Giovanni Moro (Anni Settanta, Einaudi, 2007).
Grandi leader quali Aldo Moro ed Enrico Berlinguer avevano compreso che non si poteva aspirare al rinnovamento della politica italiana senza intercettare le nuove soggettività diffuse nella società, senza percorrere quelle strade che la violenza ha invece interrotto. In aggiunta al dolore delle vite spezzate, stiamo ancora pagando il prezzo delle strade interrotte. Ne risulta indebolita tanto la fiducia dei cittadini quanto la legittimità delle istituzioni.
Il fossato che divide gli uni dalle altre, ricorda Benedetta Tobagi, si può colmare soltanto conoscendo fino in fondo la nostra storia. Averne ricordato le molteplici sfaccettature è il grande merito di un grande libro.
IL LIBRO: Una stella incoronata di buio, di Benedetta Tobagi pagine 480 euro 20,00 Einaudi

il Fatto 28.11.13
Evangelii Gaudium
Il Papa fa sul serio Ora è ufficiale
di Marco Politi


Ora che la perestrojka di papa Francesco è messa nera su bianco con la pubblicazione dell’Esortazione apostolica Evangelii Gaudium, credenti e mondo laico possono misurare l’ampiezza del progetto di riforma, che il nuovo pontefice ha in mente. Questa volta non si tratta di interviste o di riflessioni colloquiali, ma di ciò che in linguaggio ecclesiastico si chiama un “atto di magistero”. Cioè di un intervento che promana direttamente dall’autorità suprema della Chiesa cattolica. Su questo testo si potranno misurare nei mesi e negli anni a venire successi, resistenze, conflitti (come ne conobbero Giovanni XXIII e Paolo VI) e possibili sconfitte del pontificato argentino.
Francesco vuole rimodellare la Chiesa nella sua struttura, nel suo stile di cura delle anime e nel suo approccio verso la società contemporanea. Allo stesso tempo il nuovo papa sviluppa ancora più robustamente la dottrina sociale della Chiesa, portando a conseguenze più nette l’insoddisfazione di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI nei confronti delle politiche liberiste senza vincoli, che acuiscono la miseria, la precarietà e l’emarginazione sociale, arrivando al punto di lanciare un grido di allarme non retorico: “Fino a quando non si eliminano l’esclusione e l’inequità nella società e tra i diversi popoli sarà impossibile sradicare la violenza.
SI ACCUSANO della violenza i poveri e le popolazioni più povere, ma, senza uguaglianza di opportunità, le diverse forme di aggressione e di guerra troveranno un terreno fertile che prima o poi provocherà l’esplosione”. Nettissima nelle sue argomentazioni, la parte sociale del documento sarà rapidamente archiviata dalle attuali élites governanti (a cominciare in Italia sia dai partiti di centro e centro-destra che si richiamano alla tradizione democristiana e del partito popolare europeo sia dall’attuale governo e dal rampante aspirante alla segreteria del Pd, Renzi) perché il papa chiede una rifondazione dell’economia sociale di mercato e nessuno dei politici in questione ha il coraggio di affrontare il tema.
Sul piano interno – la fisionomia della comunità ecclesiale e il modo di rapportarsi dei “pastori” ai fedeli e ai loro problemi esistenziali – la Chiesa di Bergoglio torna a pensare in grande come ai tempi del concilio Vaticano II, a cui evidentemente si riallaccia. Non perché Giovanni Paolo II e papa Ratzinger non pensassero in grande. Ma il papa polacco si muoveva in grande nel suo dinamismo geopolitico, tenendo però immutata dottrina e struttura della Chiesa. Mentre Benedetto XVI pensava in grande sul piano filosofico, ma lasciava che la Chiesa si chiudesse in una trincea contraria ad ogni innovazione.
FRANCESCO intende lavorare per una ristrutturazione del potere nella Chiesa. Vuole chiudere con il centralismo esasperato, arrivare a un ragionevole decentramento, rivedere il modo di esercizio del primato papale riprendendo l’dea di un confronto con le altre Chiese cristiane come auspicato da Giovanni Paolo II nell’enciclica Ut Unum sint. Vuole archiviare il clericalismo esasperato e coinvolgere nei processi decisionali i laici e in particolare le donne, che – scandisce – devono essere presenti nei “luoghi dove vengono prese le decisioni importanti”. (Benché il sacerdozio resti maschile).
Soprattutto il suo programma postula un ruolo attivo e proprio delle conferenze episcopali. Qui la rottura con la linea di Ratzinger è netta. Per Ratzinger le conferenze episcopali non avevano nessuna autorità ecclesiale né potevano impegnare il singolo vescovo. Francesco dice il contrario: le conferenze episcopali abbiano un loro statuto preciso, “attribuzioni concrete (e) anche qualche autorità dottrinale”. È la fine (almeno come progetto) dell’assolutismo ereditato dal Concilio di Trento e dell’ossessione di un potere papale quasi divino come l’aveva voluto Pio IX.
Quanto alla pastorale il papa sferza i preti, che si abbandonano alla mondanità, l’impigrimento, l’egocentrismo, la rassegnazione, la mania di parlare dal pulpito in veste di “esperti di diagnosi apocalittiche o giudici oscuri che si compiacciono di individuare ogni pericolo o deviazione”. Francesco vuole una Chiesa gioiosa nell’evangelizzare. L’aborto resta una male, il matrimonio resti unito, ma non è compito dei preti agire come alla barriera di una “dogana”, perché “l’eucaristia… non è un premio per i perfetti ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli”. Anche qui l’inversione di rotta rispetto alla linea di Wojtyla e Ratzinger è palpabile.

Repubblica 28.11.13
Il duce semidio e l’amnesia italiana
La storica assenza nel paese di anticorpi verso gli avventurieri
di Franco Cordero


Giovedì 10 aprile 1930, nella Casa del Fascio sulla milanese piazza Belgioioso, l’arcivescovo cardinale Ildefonso Schuster benedice l’ivi fondata Scuola di mistica fascista. L’insegna antirazionalistica è esplicita nell’aggettivo: i discenti s’immergono nel «pensiero del Duce»; al quale debbono una «fede intransigente», ribadita nel triplice imperativo «credere, ubbidire, combattere». Ormai ha uno status metaumano l’ex socialista anarcoide: dirigeva l’Avanti; improvvisamente bellicoso contro i reazionari Imperi centrali, s’era guadagnata l’espulsione dal partito antimilitarista. Post vittoria mutilata (così la deplora D’Annunzio) scompare al primo vaglio elettorale: nemmeno un seggio, ma riapparso come mano armata delle classi padronali nel velleitario biennio rosso, non ancora quarantenne, dal 31 ottobre 1922 guida un lunghissimo governo (20 anni,8 mesi, 25 giorni) nella girandola dei ministri, finché i carabinieri l’arrestano a Villa Savoia, domenica 25 luglio. Sapeva gestire l’anima collettiva e se avesse l’astuzia cautelosa dell’allievo dittatore spagnolo, Francisco Franco y Bahamonde, invecchierebbe tra Villa Torlonia e Sala del Mappamondo, magari entrando in guerra dalla parte vincente contro lo psicotico caporale austriaco. Ha tre doti utili nell’Italia ancora controriformista: parla e scrive in battute imperiose; fiuta gli umori della folla; intende la politica come teatro. Tra i difetti è un macigno l’Io ipertrofico i cui rumori gli confondono la mente, sicché stravede, sordo ai fatti: crede d’avere forgiato una razza guerriera, munendola d’armi formidabili; l’applaudono generali, ammiragli, industriali. L’assurda avventura abissina incantava gl’italiani, inclusi eminenti antifascisti quali Benedetto Croce o Vittorio Emanuele Orlando. Secondo lui, Francia e democrazie anglosassoni sono biologicamente condannate, quindi salta sul carro hitleriano, 10 giugno 1940 (illo tempore malediceva gli Unni): con mille o duemila morti vuol farsi un secondo impero mediterraneo; ha gran paura che Berlino e Londra transigano. Non gli dicono niente l’offensiva aerea fallita nel cielo inglese e il mancato «Leone marino». Churchill manda in Egitto parte dei pochi carri armati disponibili, avendo individuato nell’Italia il «ventre molle dell’Asse». Metafora perfetta. Era una partita intellettuale: l’empirista britanno combina cervello freddo e fantasia strategica; l’oratore romagnolo declama ruotando gli occhi, mani sui fianchi, mascella in fuori. Siccome Hitler s’è preso il petrolio rumeno, lui vuol restituirgli il colpo invadendo la Grecia nell’anniversario della Marcia su Roma, 28 ottobre: atto allucinatorio, sul presupposto che l’assalita non resista; invece combatte; manca poco che perdiamo l’Albania, appendice sabauda, mentre gl’inglesi in Libia sbaragliano un piagnucoloso Rodolfo Graziani, già eroe sanguinario contro gl’inermi. A parte qualche illusione presto spenta in Egitto e sul Don, il séguito porta sventure. Finché nella notte da sabato a domenica 25 luglio 1943 il Gran Consiglio restituisce i poteri a Sua Maestà: l’odg era «tradimento dell’idea»; conia questo singolare nomen delictiun Tribunale costituito ad hoccomminando condanne a morte; uno dei fucilati nella schiena è Galeazzo Ciano, vanesio ex ministro degli Esteri, genero-delfino, odiato dagli squadristi (non gli perdonano la carriera fulminea).
I cinque traditori muoiono nel poligono veronese l’11 gennaio 1944. Torniamo indietro d’un mese, e chiedo scusa se i verbi saltano alla prima persona. Siamo ricaduti in mano fascista. Domenica 12 settembre reparti della divisione SS Leibstandarte occupavano Cuneo: sette giorni dopo, Joachim Peiper massacra e incendia Boves; dispersi della IV Armata resistono. Sotto mano nazista nasce una Repubblica cosiddetta sociale. Le scuole riaprono tardi, lunedì 15 novembre, mentre i revenants neri tengono congresso a Verona. Siamo in quinta ginnasio. L’indomani nevica. Lunedì 6 dicembre nel sobborgo sulla riva destra del Gesso qualcuno visita Edoardo Cumar, fattorino del Fascio, nonché pugile, ora adibito alle sevizie: vengono a prenderlo partigiani scesi dalla Bisalta, ma il nome non circola ancora; li chiamano ribelli o patrioti. L’indomani sera, vigilia dell’Immacolata, tripodi accesi e guardia armata segnalano una camera ardente aperta al pubblico; vi metto piede, mosso da incauta curiosità. L’estinto giace in alta uniforme. Ai vecchi tempi passava pedalando, chino sul manubrio, e qualcuno gridava «ciao Cumar». Dev’essere forestiero un tale ben vestito in borghese, che racconta a due signore d’analoga figura come l’abbiano rinvenuto. La conclusione suona commiserante: «finiremo tutti così, l’hanno ucciso perché stava con noi»; le madame ascoltano compunte. Ipocriti, penso: sanno benissimo perché sia morto; la fede fascista non c’entra; i padroni gli affidavano lavori sporchi e li riteneva importanti, orgoglioso della promozione; abitava fuori città sentendosi sicuro. L’epopea repubblichina dura 19 mesi, squallida: gli esteti guerrieri della bella morte spariscono; a Cuneo, domenica 29 aprile non ne resta uno. Viene comodo pensare che i vent’anni fossero un incubo svanito al mattino, e così, senza dolorose autoanalisi, chiude i contiBenedetto Croce.

Repubblica 28.11.13
Anticipazione di un saggio sulla crisi della rappresentanza
Quando la democrazia funziona in presa diretta
di Nadia Urbinati


L’11marzo 2013, il parlamento ungherese ha approvato modifiche sostanziali alla Costituzione che limitano i poteri dell’Alta corte e le libertà civili. Il procedimento di revisione è stato promosso dal Partito nazional-populista Fidesz che controlla la maggioranza dei seggi in parlamento. Tra i ventidue articoli modificati spiccano quelli che rendono lecite le limitazioni della libertà d’espressione (...). Alle preoccupazioni sollevate dai rappresentanti dell’Unione europea, Viktor Orbán, leader della maggioranza, ha risposto (...): «La gente si preoccupa delle bollette, non della Costituzione».
Pochi mesi prima, il 20 ottobre 2012, in Islanda i cittadini approvavano con referendum la nuova Costituzione. Al testo erano giunti dopo un processo radicalmente democratico e non pilotato da una maggioranza parlamentare. Nel 2009, un an-no dopo lo scoppio della crisi finanziaria che atterrò l’economia islandese, per iniziativa di alcune associazioni della società civile, un’Assemblea di millecinquecento persone (in maggioranza sorteggiate) si riunì per discutere e poi suggerire i punti della riforma della Costituzione. L’anno successivo, un Consiglio costituzionale veniva eletto a suffragio universale in base a candidature che escludevano parlamentari e membri dei partiti. I venticinque eletti, non politici di professione ma ordinari cittadini, giunsero all’approvazione della nuova carta dopo una diretta discussione con i cittadini tramite Facebook e Twitter. (...) Due storie che testimoniano la schizofrenia nella quale il sistema democratico si dibatte. Le democrazie contemporanee manifestano un sorprendente paradosso: il sistema democratico gode di un sostegno egemonico e perfino di un’attrattiva universale (...), eppure le sue esistenti forme di funzionamento sono sotto pressione a causa in primo luogo di un declino di legittimità. (...) Dall’Italia viene il terzo esempio. A partire dai primi anni del ventunesimo secolo, Beppe Grillo, già conosciuto al largo pubblico per la sua attività di comico, negli anni novanta si è fatto promotore di un movimento di denuncia satirica del fenomeno di corruzione politica a cascata che Tangentopoli ha messo davanti agli occhi della pubblica opinione. In pochi anni, da cantastorie di piazza la sua attività si è trasformata nel 2005 in vera e propria agitazione po-litica, grazie alla creazione di un blog personale (beppegrillo.it), progettato e gestito dall’azienda di Gianroberto Casaleggio.(...) A pochi anni dalla sua fondazione, il movimento di Grillo ha operato la trasformazione da movimento di opinione a movimento politico, senza perdere la sua originaria identità non partitica epoi sempre più antipartitica. (...) Pur non avendo riscritto la Costituzione formale, il M5S ha riscritto una parte importante della pratica politica organizzata e gestita dai partiti, introducendo un elemento di “direttezza” nella democrazia rappresentativa, dando vita a quel che con un ossimoro chiamerò democrazia rappresentativa in diretta. Alcuni studiosi propongono di includere questo tipo di movimento nel fenomeno populista, altri invece sostengono che, benché condivida alcuni temi propri dei populismi di destra (per esempio, l’avversione per gli immigrati e l’antieuropeismo), si tratti tuttavia di un soggetto politico di nuovo tipo, caratterizzato non dall’appello al popolo ma dall’orizzontalità comunicativa tra cittadini. (...) Possiamo intanto dire che la democrazia cambia di segno con l’avanzare della politica web-diretta, la quale fa rinascere, trasformandolo, il mito dell’autogoverno diretto (l’antica promessa democratica dell’autonomia), con il rischio tuttavia di generare forme politiche identitarie, demagogiche o populistiche, modi di fare politica che escludono e discriminano, che gettano le basi, come in Ungheria, di una vera e propria tirannia della maggioranza. Ma l’appello all’autogoverno diretto non è un ritorno all’antico e nemmeno una rinascita delle forme assembleari di democrazia proprie della contestazione studentesca e operaia degli anni sessanta (...). È invece una nuova e aggiornata rinascita partecipazionista che non rifiuta le forme indirette di partecipazione, come la rappresentanza parlamentare e il suffragio elettorale, ma le cambia, le adatta, le stravolge (...). Democrazia rappresentativa diretta vuole essere democrazia elettorale in-diretta, dunque, senza i partiti politici e attuata attraverso movimenti in rete che raccordano il dentro e il fuori delle istituzioni, ma senza alcun controllo sulle forme di questo raccordo, senza alcuna certezza procedurale che esso sia realizzato secondo regole che danno ai cittadini un potere censorio non aleatorio o invece secondo il ruolo preminente degli animatori della rete o, come nel caso del M5S, dei proprietari privati del blog.

IL LIBRO Democrazia in diretta Le nuove sfide alla rappresentanzadi Nadia Urbinati (Feltrinelli, pagg. 208, euro 18)