lunedì 11 novembre 2013

Contro la Legge di Stabilità
l’Unità 11.11.13
Da oggi la protesta unitaria dei sindacati contro la manovra: scioperi e manifestazioni in cento città
Il segnale che manca
Non aggiustamenti ma politiche di crescita e sviluppo
di Susanna Camusso


Da oggi e per tutta la settimana, in più di cento città italiane, dalla Val d’Aosta alla Sicilia, si organizzeranno scioperi e manifestazioni unitarie di Cgil, Cisl e Uil per imprimere una svolta coraggiosa alla Legge di Stabilità. Non accadeva da tempo ed è segno di quanto la situazione sia avvertita come grave.
Il sindacato unitario chiama alla mobilitazione in sostegno della propria piattaforma i lavoratori dell’industria, dei servizi, del Pubblico impiego e i pensionati. Lo fa consapevole delle difficoltà e delle rinunce che sono chiamati a sopportare, sapendo che la crisi non è finita e che l’emergenza occupazionale si aggraverà ancora. Lo fa per chiedere una diversa politica economica che dia, contrariamente a quella attuale, prospettive di crescita e sviluppo per il Paese. Lo fa perché ci sia una gestione certa delle emergenze occupazionali dalla cassa integrazione, agli esodati nei numeri, nei tempi e nelle risorse stanziate.
Con oltre 3000 emendamenti presentati al Senato, si profila quello che i giornali già chiamano un «assalto» alla legge di Stabilità. Un arrembaggio degno della prima Repubblica, ma rispetto agli anni in cui era facile aumentare la spesa pubblica, ad aggravare la situazione c’è la crescente disoccupazione dei giovani in particolare i rigidi vincoli europei, una maggioranza divisa che vuole spostare l’asse della manovra in direzioni fra loro conflittuali.
I sindacati non sono interessati ai piccoli aggiustamenti delle voci di spesa in difesa di questo o di quell’interesse particolare. Abbiamo più volte detto che serve una virata netta perché la legge di Stabilità corrisponda davvero agli obiettivi dichiarati quotidianamente dal governo, ma quotidianamente disattesi. Se la legge di Stabilità 2014 deve svolgere una funzione anticiclica di avvio della ripresa economica e di creazione di lavoro, è prima di tutto necessario aumentare le entrate e i risparmi possibili. Su questo versante si scontrano, anche all’interno della maggioranza, non il partito delle tasse e quello che le vuole ridurre, ma un centro destra che intende mantenere la gran parte della pressione fiscale su lavoro dipendente e imprese, e un centro sinistra che non riesce a far pagare i redditi improduttivi quali le rendite finanziarie, le grandi ricchezze, i patrimoni. Il risultato è che mentre il Paese lotta quotidianamente per mantenere la propria domanda interna e la propria competitività a un livello accettabile, il governo, invece di agevolare gli sforzi di lavoratori e imprese, resta impantanato in uno sterile, sbagliato e incomprensibile dibattito sul «pasticcio» creato con la morte e resurrezione della tassa sulla casa. Il risultato è un fisco iniquo che colpisce chi lavora e produce mentre premia chi dirotta i capitali sulla finanza speculativa e la rendita improduttiva. Siamo al punto che lo Stato non riesce neppure a varare una nuova tassazione sui giochi elettronici capace di portare entrate aggiuntive certe, derivanti dal poker e dai casinò on line, non depressive dei consumi.
Il sindacato non pretende una riforma del sistema fiscale in due mesi ma un segno di redistribuzione equa del contributo e del prelievo, affiancando il nostro Paese a ciò che da molto tempo si attua in Europa.
Sul versante dei risparmi abbiamo indicato la possibilità di introdurre costi standard, maggiore controllo sugli acquisti di beni e servizi e taglio delle consulenze come uno degli spazi in cui è possibile essere più incisivi e recuperare risorse.
Ci preoccupano invece le volontà, periodicamente riaffermata, di privatizzare le imprese produttive o di servizio e i beni demaniali. Vendere o svendere le partecipazioni pubbliche nelle grandi imprese impedisce di realizzare quelle politiche industriali che il governo stesso dice che vorrebbe adottare in un testo collegato alla legge di stabilità. La svendita delle imprese di servizio pubblico locale produrrà aumento immediato delle tariffe e non garanzia dei servizi su tutto il territorio.
La privatizzazione delle spiagge porterà a uno sfruttamento selvaggio del patrimonio delle coste italiane già così terribilmente impoverito dall’abusivismo edilizio e dall’incuria manutentiva.
Riteniamo che si debbano significativamente allentare i vincoli posti agli Enti Locali dal «Patto di stabilità interno», in modo che possano riprendere gli investimenti pubblici almeno per le risorse esistenti al netto dell’impiego dei fondi strutturali europei, e che si smetta, una volta per tutte, la facile strada dei tagli lineari inadatta a fermare la spesa complessiva, che infatti continua a crescere, e che finisce solo per penalizzare i servizi e svalutare il lavoro pubblico.
Per far riprendere la domanda interna, i consumi e gli investimenti, abbiamo indicato la necessità di aumentare i redditi di lavoratori, pensionati, incapienti e di rinnovare i contratti del pubblico impiego. Così come abbiamo insistito per detassare le imprese che investono in occupazione ricerca e innovazione.
Per ora il governo ha assegnato a questi capitoli cifre non sufficienti. Una scelta sbagliata perché senza un aumento significativo dei redditi netti la recessione e la deflazione in Italia dureranno ancora a lungo.
La nostra è un’impostazione diametralmente opposta a quella di chi vorrebbe destinare le poche risorse stanziate per il lavoro e le imprese ad altre funzioni. Apparirebbe una ripicca quando invece si tratta di un errore di politica economica. Il tema che poniamo al governo e al Parlamento non è quello di stiracchiare una coperta troppo piccola ma di allargarla, di renderla più grande, di aumentare le risorse, farle diventare strutturali e progressive per sostenere la domanda interna e quindi l’occupazione, per dare a tutti le indispensabili tutele, per favorire e indirizzare la crescita e lo sviluppo del Paese.
Sulla tassazione del patrimonio immobiliare, una misura che esiste in tutta l’Europa, chiediamo che sia commisurata progressivamente al numero di case possedute, al loro valore, al reddito delle persone che vi abitano e che siano i Comuni ad avere i margini di accertamento e valutazione. È su questi punti concreti, su queste proposte di merito che i lavoratori si stanno mobilitando e continueranno a farlo anche nei prossimi mesi. Non per difesa «corporativa», ma perché senza un impegno costante del governo e del Parlamento per combattere la disoccupazione, per dare un lavoro e un reddito alle persone non c’è futuro e non c’è prospettiva per il Paese.

l’Unità 11.11.13
Lavoratori in sciopero. Manovra da cambiare
I sindacati si mobilitano contro la legge di Stabilità
«Manca una significativa riduzione delle tasse a dipendenti, pensionati e imprese»
Servono risorse per cassa in deroga ed esodati
di Luigina Venturelli


MILANO Se si trattasse di un componimento scolastico, il giudizio assegnato dall’insegnante probabilmente sarebbe: «Insufficiente perché fuori tema». Trattandosi invece della manovra di bilancio per il 2014, la stroncatura dei sindacati è più articolata. Ma la sostanza non cambia. Cgil, Cisl e Uil hanno indetto per questa settimana una mobilitazione vasta e diffusa su tutto il territorio nazionale contro la legge di Stabilità presentata dal governo proprio perché manca di adeguate risposte alle tre priorità da tempo delineate dalle confederazioni: la diminuzione del carico fiscale sul lavoro, il recupero di risorse dalle rendite e dai patrimoni, il taglio degli sprechi nella spesa pubblica.
La presentazione di oltre 3mila emendamenti da parte dei diversi partiti che dai prossimi giorni inizieranno il loro iter parlamentare per arrivare al voto in aula tra il 18 e il 20 novembre rende ancora fluidi i contenuti definitivi della legge. Ma lo sciopero unitario di 4 ore, in alcuni casi anche di 8 ore, indetto dalle organizzazioni sindacali muove soprattutto da quello che nel documento non c’è: quella «svolta nella politica economica necessaria al Paese per uscire dalla recessione e tornare a crescere», ovvero «una significativa riduzione delle tasse a lavoratori, pensionati ed imprese che investono».
La misura a cui l’esecutivo di Enrico Letta affida il compito di soddisfare questa richiesta, infatti, è il taglio del cuneo fiscale, ossia di quella parte del salario che i lavoratori non vedono nemmeno perché finisce direttamente nelle casse dello Stato. Ma le scarse ri-
sorse disponibili pari a 1,5 miliardi di euro per il 2014 vanificano in gran parte lo sgravio che, applicato a tutte le buste paga sotto i 55mila euro annui come prevede il testo, si ridurrebbe a un’aggiunta in busta paga di nemmeno 15 euro mensili. Troppo pochi per sperare di ridare fiato e potere d’acquisto alle famiglie italiane tartassate dalla crisi. Non a caso si sprecano le proposte di modifica, dal quella del Pd per restringere la platea dei beneficiari a chi guadagna fino a 28mila euro annui ed erogare i 200 euro di risparmio in un’unica soluzione, a quella provocatoria del ministro Enrico Giovannini per rimandare il taglio del cuneo fiscale e destinare le risorse ai fondi per la povertà e la non autosufficienza. «Se 1,5 miliardi sono troppo pochi» per tagliare sensibilmente le tasse sul lavoro, ha affermato il responsabile del Welfare, «allora mettiamoli su chi è veramente in uno stato di grave contrazione economica».
Ma la coperta rischia di dimostrarsi sempre troppo corta, visto che questi stessi soldi per la precisione un miliardo di euro potrebbero essere invece usati per un altro capitolo di spesa relativo al lavoro, quello della detassazione del salario di produttività, che pure i sindacati volevano in aggiunta agli interventi sul cuneo ed estesa anche ai lavoratori pubblici. La delusione delle confederazioni è grande anche per quel che riguarda la pubblica amministrazione, che dovrebbe essere oggetto di una profonda riforma che riporti efficienza nella spesa pubblica. L’urgenza, per ora, è «dare certezza alla stabilizzazione dei precari» e prorogare nel frattempo i contratti in scadenza.
IL NODO DELLE COPERTURE
Di natura esclusivamente finanziaria, poi, sono le altre due ragioni di contrarietà dei sindacati alla legge di Stabilità: gli ammortizzatori sociali e gli esodati, emergenze sociali a cui la manovra non destina risorse sufficienti. Per quanto riguarda la cassa integrazione in deroga, che da mesi ormai le Regioni non sono più in grado di pagare, il governo ha promesso 330 milioni di euro. Ma questi soldi, che pure non coprirebbero tutto il fabbisogno, non sono stati ancora stanziati. Stesso discorso valido per i lavoratori esodati che dovrebbero essere esentati dalla riforma Fornero per andare in pensione: la manovra ne garantisce altri 6mila, ma molte altre migliaia restano ancora senza tutela. Certo, «non ci sono risorse», dice il governo. Ma è una «risposta inaccettabile» per chi ha assistito a mesi di polemiche e a miliardi di euro di stanziamenti per cancellare l’Imu.

Beppe, facci sognare!
l’Unità 11.11.13
Beppe Fioroni:
«Si rompe il patto fondativo»
intervista di Maria Zegarelli


ROMA Questione dirimente per Beppe Fioroni. Ne va, dice, dello stesso atto fondativo del Pd. E se Guglielmo Epifani la ritiene una tempesta in un bicchier d’acqua, per il parlamentare dem, l’approdo del partito nel Pse in Europa sarebbe un cambio di direzione inaccettabile.
Fioroni, che fa, si tiene la Margherita e arrivederci al Pd?
«Credo che questo tema non sia affatto una tempesta in un bicchier d’acqua, ma è il nodo politico per eccellenza».
Starebbe più a suo agio con i conservatori in Europa?
«Certo che no. E mi spiego: quando abbiamo fondato il Pd abbiamo deciso di unire insieme storie e culture diverse, moderati e riformisti per voltare pagina, per innovare e cambiare la politica in Italia e in Europa superando le famiglie politiche del Novecento. Questo abbiamo fatto quando abbiamo sciolto Margherita e Ds. Nessuno di noi ha mai pensato di voler dare vita ad un lifting della sinistra italiana, anzi, ad un amarcord di quel rosso antico che la stessa sinistra aveva superato. Il Pd voleva porsi come orizzonte futuro anche per tutti quelli che si ritenevano riformisti in Europa. Questo è il patto fondativo del Pd, questo è il partito che abbiamo voluto costruire insieme e non c’entra nulla con la volontà di rifare la Margherita. Non voglio trasformare il Pd in un partito socialdemocratico, tantomeno in un partito di sinistra». Ma tutti e quattro i candidati alla segreteria collocano lì il Pd. Perché questa polemica adesso? «Se i candidati dicono questo allora prevedono una mutazione genetica del partito. Mi riferisco soprattutto a Matteo Renzi che sostiene che dobbiamo stare nel Pse. Penso che lo faccia per motivi legati alla sua corsa e alla sua candidatura ma non riflette sufficientemente su un fatto: questo non è cambiare verso, è tornare indietro».
Gianni Pittella la ritiene un provocatore.
«Chi è Pittella? Non so neanche chi sia... Mi faccia finire il discorso su Renzi».
Cosa altro vuole dirgli?
«Che la mutazione genetica che intende fare è di fatto una messa in discussione del patto fondativo del Pd. Significa riscriversi al Partito socialista europeo che la stessa sinistra italiana riteneva superato».
Quindi in Europa il Pd che cosa deve fare?
«Noi avevamo l’ambizione di cambiare le famiglie europee, facendo riferimento al quadro dei riformisti mondiali formato dal Pd, il partito del congresso indiano, le esperienze giapponesi e u democratici americani, ai quali non è mai venuto in mente di iscriversi al Pse. Noi siamo nel gruppo dei democratici e dei socialisti europei, questo è il percorso che abbiamo fatto in Europa e nulla ha a che vedere con la decisione di iscriversi al Pse. Se lo facciamo commettiamo un gravissimo errore, facciamo tornare il Pd ad essere un partito di sinistra e non di centrosinistra».
Fioroni su di lei resta il solito sospetto: che stia aspettando il momento giusto per andarsene dal Pd e ritentare il centro moderato. E adesso che Alfano è in rotta con il Cavaliere la tentazione sarebbe più forte. Cosa c’è di vero?
«Niente. Invece di preoccuparsi di dove voglio andare io si concentrassero a non rifare lo stesso errore che fece Achille Occhetto nel 1994, quando pensò che con la sinistra da sola si vincesse. Non vorrei che il mio amico Matteo Renzi pensasse, dopo aver venduto per un piatto di lenticchie valori e progetti su cui è nato il Pd, di presentarsi come il candidato inclusivo perché gli elettori non sono fessi».
Scusi, ma anche Gianni Cuperlo guarda al Pse...
«Attenzione, Cuperlo dice una cosa diversa. Immagina un percorso e un processo che si fa se si muta e si allarga il perimetro della famiglia europea. Ma quello che vorrei che tenessero a mente tutti i candidati è che il Pd ha un patto fondativo e loro lo devono rispettare».

La Stampa 11.11.13
La lettera sul congresso dei socialisti europei in Italia
Ma tra nostri valori non è mai comparso il socialismo
di Giuseppe Fioroni


Caro direttore,
Quando il confronto si fa serio, non dobbiamo avere paura di usare l’arma della chiarezza e della responsabilità. «Un punto è ormai chiaro: se il partito democratico dovesse essere un’edizione aggiornata della socialdemocrazia non potrebbe essere il punto di approdo della storia dei Popolari». Non sono mie parole. A scandirle con serena passione e lucidità, all’inizio del suo intervento in una nostra assemblea a Chianciano nel 2006, fu un uomo di studi e di grande impegno civile, che credeva profondamente nel Partito democratico: Pietro Scoppola. Basterebbe questo a smontare illazioni e sospetti sui quali Pittella, ad esempio, ha giocato con soverchia disinvoltura. Non a lui, però, ma a tutti i candidati vorrei rivolgere l’appello a una meditazione acconcia sui rischi di uno snaturamento del nostro progetto iniziale.
Proviamo a prendere in mano il Manifesto dei Valori e ci accorgeremo, scorrendo i vari passaggi, che non vi è traccia di legami o radici afferenti alla tradizione nazionale o europea del socialismo. Anzi, il testo che ancora oggi rappresenta il fondamento teorico e politico del Partito democratico elude persino l’accenno al termine impegnativo e controverso di «sinistra». Il suo tenore è un altro: invita donne e uomini del nostro tempo a volgere lo sguardo oltre il tempo che ha inghiottito le illusioni e le tragedie del Novecento. Il nuovo partito nasceva con l’ambizione di tracciare un solco verso il futuro, portando alla visione di un riformismo inedito e coraggioso il patrimonio ancora integro delle grandi tradizioni democratiche e popolari della nostra storia repubblicana.
Vorrei fare dunque questa osservazione: dobbiamo «cambiare verso» alla nostra direzione politica? All’improvviso, come se fosse il compimento non invece la negazione del disegno politico neo-riformista, annunciamo la trasmutazione in chiave eurosocialista della «novità» incorporata nel programma dei Democratici. In questo modo, chiunque in solitudine decide su «beni indisponibili» si appropria di un diritto che mette a repentaglio la fisionomia stessa del partito. Dunque, non è un diritto: forse un’usurpazione a fini impropri e deleteri? Chi propone una «rivoluzione radicale» ha più di altri e meglio di altri l’occasione di chiarire un aspetto decisivo ai fini della continuità di una politica che sia motore di amicizia e integrazione tra le diverse anime del riformismo democratico.
Altrimenti, nel miscuglio di piccole astuzie e grandi reticenze, potremo registrare amaramente proprio in questa delicatissima stagione congressuale che viene a deperire quel potenziale di coraggio e fantasia su cui occorreva e occorre fare leva ancora oggi per rendere coerente e quindi vero il discorso sul riformismo del futuro. Questo è il rischio che nasce dal gesto evocativo di vecchie identità, non dal richiamo legittimo e necessario alla radice della nostra originale prospettiva come forza di cambiamento al servizio della nazione. * (parlamentare Pd)

l’Unità 11.11.13
Pd nel Pse, tutti i candidati d’accordo. Ma crescono malumori trasversali
Da Renzi a Cuperlo, da Civati a Pittella, le mozioni dei quattro candidati
a favore dell’adesione Bindi: «Non vogliamo morire socialisti»
di Vladimiro Frulletti


Il Pd nel Partito del socialismo europeo e «Renzi nuovo Jacques Delors». Gianfranco Rotondi, solida formazione democristiana e salda appartenenza al fronte berlusconiano, si lancia in profezie. Non senza un qualche interesse partigiano, lasciando intendere che se i democratici diventassero socialisti potrebbe esserci un effetto calamita da parte di Forza Italia che fa parte del Partito popolare europeo sui cattolici del Pd.
Possibile? Chissà. Quello che è certo è che quando sabato Epifani a Milano ha annunciato che il Pd avrebbe ospitato a Roma il congresso del Pse quale «segno di appartenenza che dice quali sono le nostre radici e i nostri legami», non sono stati pochi i malumori emersi fra i democratici. Soprattutto fra chi ha militato nella Dc. «È giusto che loro non vogliano morire democristiani, ma anche noi non vogliamo morire socialisti», è la spiegazione che una delle madri più convinte della nascita del Pd, Rosy Bindi, ha sempre fornito alla questione della collocazione internazionale del suo partito.
Tutti i quattro candidati alla segreteria sono concordi su questo punto, vedono il Pd col Pse. Ma non si può però dire la stessa cosa dei loro sostenitori, in particolare di quelli di Cuperlo e Renzi. Perché è fra alcuni loro supporter che stanno i contrari all’adesione al Pse. Certamente fra gli ex democristiani, ma non solo. Se ad esempio Beppe Fioroni, che voterà Cuperlo, minaccia di rifare la Margherita (che nel Parlamento europeo stava non col Ppe ma con l’Alleanza dei liberali e democratici), e Pierluigi Castagnetti, che invece ha scelto Renzi, non nasconde la propria contrarietà («né Ds, né Margherita, né Psi. Né dunque Pse», twitta), pure personalità mai state democristiane, come David Sassoli (schierato col sindaco di Firenze), capogruppo della delegazione Pd al Parlamento europeo (nel gruppo dell’Alleanza dei progressisti, dei socialisti e dei democratici europei), non nascondono i propri dubbi. «All’Europarlamento – spiega – abbiamo fondato un’alleanza di successo fra Pd e socialisti. Magari prima di decidere sul congresso del Pse potevano consultarci». Lo stesso responsabile esteri del Pd Giacomo Filibeck parla del Pse come «naturale interlocutore» precisando che il Pd sta lavorando a «un’orizzonte» più ampio. Che sarebbe l’Alleanza dei Progressisti, il nuovo network in cui siedono, oltre al Pd, anche i socialisti europei, i Democratici Usa e altri partiti progressisti dei vari continenti. Operazione già tentata con l’Ulivo mondiale di Prodi, Blair e Clinton, che però non resse alla crisi della cosiddetta «terza via». Insomma un po’ di imbarazzo la questione Pse nel Pd la sta creando, anche perché le socialdemocrazie europee oggettivamente non stanno ottenendo grandi successi in questo periodo.
Del resto qui c’è di mezzo l’identità del Pd e quindi non solo i cattolici, ma anche altre personalità sentono come un vincolo troppo stretto l’adesione al Pse. È una etichetta che non li rappresenta. Un passaggio, dicono, che rischia di far cancellare la novità che stava alla base della nascita del Pd. Fra i sostenitori di Renzi, è questo ad esempio il timore da sempre nutrito dai veltroniani e dai liberal-democratici (già legati all’Asinello di Prodi e poi a Rutelli) che stavano nella Margherita. E se per questi ultimi è naturale non sentire come casa propria quella socialista, ma semmai quella Otreoceano dei Democratici Usa, per chi viene dal Pci invece resiste una certa difficoltà all’approdo socialista risalente alla lezione di Berlinguer. Che di fronte alla fine della «spinta propulsiva» della Rivoluzione d’Ottobre spiegava che l’Europa si trovava di fronte a due fallimenti: quello sovietico, ma anche quello socialdemocratico. Solo dopo Berlinguer il Pci decise di definirsi «parte integrante della sinistra europea».
Eppure tutti e quattro i candidati alla segreteria, pur con sfumature diverse, non mostrano grandi dubbi. Nei loro documenti e nelle loro dichiarazioni il Pd sta col Pse. Gianni Pittella infatti è per l’adesione «senza se e senza ma» al Pse. «La scelta dell’adesione al Pse – scrive nella sua mozione – non è semplicemente formale, ma è la sostanza del nostro essere europei». Pure Pippo Civati non coltiva dubbi. Semmai vede questo ingresso come occasione per realizzare un vero partito europeo, superando l’attuale forma confederale fatta dalla somma di vari partiti nazionali, per poi allargarne «l’orizzonte» anche agli altri progressisti che stanno in Europa: Verdi e Sinistra. Anche Renzi è per il sì all’ingresso nel Pse (come aveva spiegato in un’intervista a l’Unità) per «cambiarlo e allargarlo a tutte le forze democratiche e progressiste». Anche se poi nella sua mozione ne parla poco. Un inciso quando tratta degli Stati Uniti d’Europa e a proposito delle prossime elezioni europee spiega che serve «un rapporto di sempre maggiore integrazione con il Partito socialista europeo». Parole sfumate che evidentemente rispondono alle perplessità che alcuni renziani (anche della prima ora) nutrono sul Pse. Anche in Cuperlo del resto si nota questa stessa prudenza. Nella mozione scrive: «Proponiamo che il Pd partecipi al congresso del Pse». E ricordandone l’identità originaria schiera il Pd a fianco dei socialisti per costruire il «Partito dei socialisti, dei progressisti e dei democratici europei». Del resto al Corriere della sera sull’adesione del Pd al Pse aveva risposto di non credere «a una pura confluenza».

Corriere 11.11.13
L’accusa di Prodi: fallito il mio progetto di Pd
«Non era questo il mio disegno politico. Forze di ogni tipo mi hanno ostacolato»
di Francesco Alberti


BOLOGNA — «Non era questo il mio disegno politico, prendo atto che ciò per cui mi sono impegnato in tutti questi anni non è riuscito. Ci sono state forze di ogni tipo, e non mi riferisco solo al centrosinistra, che mi hanno ostacolato in ogni modo e ancora fanno sentire il loro agire. E siccome, come dicono i miei concittadini reggiani, “non si può stare in mezzo all’uscio”, ho deciso di dedicarmi ad altro…». Non c’è nemmeno bisogno che l’ultimo spenga la luce. Ora che la porta si è chiusa, anzi, che Romano Prodi l’ha chiusa, si può discettare all’infinito di quando, in quale esatto momento storico, ha cominciato a logorarsi e poi a sfilacciarsi per poi infine rompersi quel filo che dal 1995 a qualche mese fa — attraverso due Ulivi, due governi, due tradimenti fratricidi, mille battaglie contro Berlusconi, un’imboscata quirinalizia e agguati di ogni tipo — ha fatto del Professore il simbolo di un centrosinistra che aspirava (obiettivo fallito) ad avere il suo centro gravitazionale lontano dalle oligarchie romane. Considerato lo spessore e le mille peripezie che hanno segnato la convivenza tra il due volte ex premier e la galassia dei post dc e post pci, c’è solo l’imbarazzo della scelta.
Il punto, piuttosto, è un altro: è giusto, come in automatico molti tendono ora a fare, interpretare la decisione prodiana di prendere definitivamente le distanze dalla sua creatura, prima rifiutandosi di ritirare la tessera pd e poi annunciando di voler disertare i gazebo delle primarie, solo e unicamente come una vendetta? Qualcosa, cioè, di pianificato a tavolino, consumato a freddo e destinato a fare rumore (oltre che male alla gracile costituzione del Pd), ma pur sempre una vendetta: certo legittima da parte di chi ritiene di aver subito un torto, ma comunque nata e maturata in un ambito emozionale, istintivo, impolitico e quindi per certi versi di corto respiro? Chi lo conosce esclude una lettura del genere: «No, è tutto molto più complesso, un lungo percorso segnato da una linea di coerenza…».
Tutto molto più prodiano. Ci sono gli artigli e la passione. Le rivalità e lo sguardo lungo sul Paese. Ogni parola è calcolata nell’uscita di scena del due volte ex premier. E non tutte vanno apparentemente nella stessa direzione. C’è l’artigliata, spietata, quando, nell’ammettere di aver sognato un Pd molto diverso, lui che assieme a Parisi e a Veltroni tanto si spesero, rovescia consapevolmente su quello attuale una bocciatura che più bruciante non si può, consapevole, così facendo, di mettere a dura prova equilibri di partito a dir poco fragili e di scavare ulteriori fossati tra la base e i vertici. Eppure è lo stesso Prodi che poco dopo, in contemporanea con l’annuncio di disertare le primarie, si augura con tutto il cuore che «tanti altri, in particolare moltissimi giovani, vadano a votare»: un messaggio che non è solo lo specchio di un affetto lungo vent’anni e incancellabile a dispetto di tutto, ma la riprova di quanto l’uomo, al netto dei propri bilanci politici, voglia ancora credere in un centrosinistra e in un’Italia diverse. In questa direzione si muove anche il Prodi che, dietro l’ufficialità, aggiunge un altro motivo al suo passo indietro: «Togliere ai miei tanti e sempre in azione nemici storici l’ennesimo pretesto per scatenare attorno alla mia persona, approfittando delle primarie, polveroni e polemiche, facendo di tutto per trasformarmi in un elemento di divisione di cui il partito e il Paese credo non abbiano in questo momento alcun bisogno».
Chiudere con il Pd è stata, oltre che tra le più dolorose, anche la più solitaria delle decisioni prodiane di questi ultimi anni. I suoi fedelissimi, quando una ventina di giorni fa si sono sentiti prospettare l’ipotesi che il Professore disertasse i gazebo, hanno provato a frenarlo, sapendo in partenza che sarebbe stato tutto inutile. «Qualcuno — raccontano gli intimi — ha tirato in ballo il disorientamento della base: “Romano, per tanti resti un simbolo”…». Altri hanno timidamente fatto presente che, con lui lontano, il sogno ulivista, già malconcio, rischiava la disfatta e che chi, all’interno del Pd, ancora sperava nel cambiamento sarebbe rimasto più solo. Niente da fare, argomentazioni già messe in conto dal Professore: «Ho giocato la mia partita, ora voi giocate la vostra».

il Fatto 11.11.13
Panico democratico
Pd: “Se non ci crede più neppure Prodi è finita”
di Beatrice Borromeo


Lo capisco - dicono i deputati del Pd in coro - certo però che, così, butta malissimo". A criticare Romano Prodi, che ha appena sbattuto l’ultima porta in faccia al partito che fondò (e che lo tradì), dichiarando che non rinnoverà la tessera né andrà a votare alle primarie, non ha il coraggio nessuno. E tra sospiri e occhi fissi a terra, il pensiero del prossimo 8 dicembre si fa sempre più grigio. “Comprendo bene la delusione di Prodi, ma se non ci crede più nemmeno lui - che è il nostro padre fondatore - non vedo proprio come faremo a rilanciarci”, dice la deputata Simona Bonafè, ex portavoce di Matteo Renzi durante le primarie dello scorso anno. E aggiunge: “Spero che ci ripensi, ma mi pare ovvio che si sia sentito abbandonato dal partito, lo stesso dove ancora abitano quei 101 franchi tiratori”. Una lettura non troppo lontana da quella del sindaco di Firenze, che si è sfogato con i collaboratori più stretti: “Così Romano semina sfiducia...”. Strascichi di una vicenda che il 19 aprile scorso – durante l’elezione del presidente della Repubblica – è degenerata, con i militanti che si riunivano in piazza del Parlamento per bruciare insieme le tessere del Pd. “Il partito è stato ucciso quel giorno – insiste l’onorevole Sandro Gozi – e la scelta di Prodi, l’unico che abbia battuto per ben due volte il Cavaliere, non può essere liquidata come una decisione privata”. Sono in pochi infatti a condividere la lettura del presidente del Consiglio Enrico Letta, che ieri ha sdrammatizzato: “Io vado a votare alle primarie, capisco Prodi che ha un atteggiamento differente, lui è una personalità fuori dalla politica e vuole mantenere questo profilo”. Uno strappo che, secondo l’onorevole Sandra Zampa, fedelissima del professore, gli consentirà di essere “molto più libero quando in futuro vorrà esprimersi sulla linea del partito, anche perché, come dice Prodi stesso, non si può stare in mezzo all’uscio. Di certo questo ulteriore passo indietro l’ha molto dispiaciuto”. E se ai microfoni di Sky il segretario del partito, Guglielmo Epifani, suggerisce che “se ha maturato questa scelta che mi crea sofferenza il modo migliore per onorarlo è rispettarla”, c’è qualcuno che non è d’accordo. Come l’onorevole Pippo Civati: “Dobbiamo convincere Prodi ad accettare la tessera numero 1 del 2014”. Un tentativo che, secondo il candidato alla segreteria nazionale del Pd, avrà più probabilità di successo se a vincere le primarie non saranno gli stessi dirigenti che hanno affossato il partito: “Riconfermando certi equilibrismi e nomi noti non diremo addio solo a Prodi, ma a una bella fetta di elettorato che tornerà a bussare alla porta di Beppe Grillo”.

La Stampa 11.11.13
Castagnetti: “La scelta di Romano è un colpo per l’affluenza ai gazebo”
“Illegittima la decisione del segretario sul congresso Pse a Roma”
di Carlo Bertini


La decisione di Prodi di non votare alle primarie «purtroppo è un colpo per la partecipazione», invece quella di Epifani di organizzare il congresso del Pse a Roma «non è stata discussa con nessuno e quindi è illegittima». Pierluigi Castagnetti, ex segretario Ppi, poi ulivista convinto, ora è uno dei grandi elettori di Matteo Renzi.
Prodi sbaglia a non partecipare a questa «festa della democrazia»?
«Sono sorpreso, se aveva qualche ragione di non iscriversi più al Pd, mi amareggia molto che non vada a votare lui che ha inventato le primarie. Spero che ci ripensi ma conoscendolo sarà difficile. Non credo in un flop dell’affluenza, ma non c’è dubbio che questo annuncio penalizzerà il Pd, perché il nostro corpo elettorale vede in lui quello che ha fatto vincere la sinistra e il leader di riferimento».
Tra i motivi di sdegno, il caos tessere è solo l’ultimo. Nei vecchi partiti funzionava così?
«Vengo dalla Dc dove il correntismo era esasperato. Ma c’era una diversità di fondo. Anche nel partito dei vari Sbardella e Gava c’erano i pacchetti di tessere, ma si combatteva a viso aperto una battaglia politica. Non ci sono più le appartenenze ai partiti ideologici e ciò agevola l’esplosione di un fenomeno di “micro-leaderismo” periferico di chi vuole potersi sedere ad un tavolo di presunta spartizione del potere locale. Per il Pd si rende necessaria ora la ricerca di un orizzonte di valori, etici, culturali, che dia un senso allo stare insieme, cosa che non siamo stati in grado di fare dopo la spinta iniziale della prima segreteria Veltroni, che capiva il dovere di dare una missione ad un partito nuovo».
Lei ha reagito male all’annuncio di Epifani che il Pd organizzerà a Roma il congresso del Pse.
«Che i quattro candidati siano d’accordo fa riflettere e intristisce, perché sintomo di una sorprendente leggerezza. C’è modo e modo di stare nel campo progressista, o da protagonisti o tornando ad un passato che non c’è più. Forse Epifani la vive come missione iscritta nel suo dna di portare il partito dove lui ha avuto un ruolo da dirigente a livello europeo. Ma io sento anche la responsabilità di rappresentare una delle ragioni fondative del Pd. Non c’è un pregiudizio dei cattolici, nè il problema è tornare alla Margherita, ciò che è estinto non ritorna.
L’Italia è l’unico paese europeo dove si parla di Pse e Ppe come toccasana, famiglie europee che sostanzialmente non esistono, sono solo degli aggregati parlamentari. Il Pse ha un segretario bulgaro e sfido chiunque a ricordarne il nome. In questo congresso di marzo poi si dovrebbe scegliere il candidato alla presidenza della commissione Ue, nella persona di Schultz. Nomina che nel caso sarà comunque espressione del governo tedesco. E chi ha deciso di consacrare per un quinquennio la forza della Merkel in Europa? Nessun organo del Pd ne ha discusso: si contesta a Renzi l'idea dell’uomo solo al comando e si sottrae agli organi deliberanti questa decisione?».
Lei chi voterà alle primarie?
«Renzi, perché la situazione del paese è preoccupante, c’è un sentimento di resa verso una deriva ritenuta ineluttabile e lui ha l’energia per reagire a questo clima di rassegnazione. Il paese ha bisogno di uno scossone».

il Fatto 11.11.13
Chi ci governa incide sui nostri stati d’animo
Napolitano e il potere sulla nostra felicità
di Ferruccio Sansa


Presidente Napolitano, presidente Letta, la nostra felicità dipende (anche) da voi. Presi da crisi e alleanze forse ve ne siete dimenticati. La Dichiarazione di Indipendenza americana riconosce il diritto "al perseguimento della felicità".

Presidente Napolitano, presidente Letta, la nostra felicità dipende – anche – da voi. Presi da crisi, moniti, alleanze forse ve ne siete dimenticati. No, non parliamo della felicità come benessere collettivo. Ma dell'aspirazione individuale che ognuno coltiva nel recinto della propria vita. La Dichiarazione di Indipendenza americana riconosce i diritti "alla Vita, alla Libertà e al perseguimento della felicità". Parole, viene da pensare. Poi ti capita in mano un libro: "Il coraggio della felicità" di Marina Valcarenghi. La psicanalista descrive ciò che spinge i pazienti a suonare alla sua porta: "Quel motivo negletto, di cui ci si vergogna, per il quale ci si sente ridicoli e infantili, e che pure sopravvive con tenacia, relegato in un angolo della mente: "Vorrei essere felice"". Valcarenghi premette: "Come si può prendere contatto con l'inconscio di un essere umano senza sapere dove questo vive... come se fosse segnato solo dal proprio romanzo personale, come se l'analista fosse esonerato dal pensare il mondo... con ciò intendo il diritto, la politica, l'economia, il costume, la cultura che sono alla base della personalità". Allora viene da chiedersi: come ci sentiremmo se Napolitano concedesse la grazia a Berlusconi? No, non parliamo della sorte della persona. Parliamo della firma del Capo dello Stato su un documento che sancisce l'ineguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Perché il sentimento di giustizia, la fiducia nella comunità cui apparteniamo, sono fondamentali per la nostra felicità. Come possiamo essere sereni pensando alla Cancellieri, il ministro che dovrebbe garantire la Giustizia e invece pare ispirarsi a principi più particolari che universali?
Pensiamo ad Adro dove il sindaco toglie il cibo ai bambini immigrati e poi è arrestato per turbativa d'asta. Allo scandalo di Roma dove i biglietti dei bus non servono per il servizio pubblico, ma per foraggiare i partiti. Alla Regione Liguria dove quasi metà consiglio è indagato, ma vota bilanci da miliardi.
Tutto ciò induce rabbia,
umiliazione. E ostacola la felicità. Certo, poi toccherà a noi definire che cosa essa sia. Valcarenghi la associa a un'altra parola: coraggio. Serve forza per non abbandonare quella ricerca. Aristotele e Seneca hanno tentato definizioni universali. Anche Trilussa a suo modo: "C'è un'ape che se posa sopr'un botton de rosa, l'annusa e se ne va... In fonno la felicità è una piccola cosa". Valcarenghi propone: "Una manifestazione della bellezza che la vita può offrire senza per questo estraniarci dagli altri e da noi stessi". La felicità non dimentica il dolore, la morte, è immersa nel destino comune che ci lega al mondo, alla società.
La felicità dipende davvero da chi governa. Anche questo ne rende enorme il compito. E così gravi le mancanze.

Repubblica 11.11.13
Finiremo tutti come l’Argentina?
di Mario Pirani


Ragioni di lavoro — in primis la stesura settimanale di questa rubrica — mi inducono ad una discreta intensità di lettura. In questa stagione la frequenza dei saggi dedicati alla crisi economica suscita inoltre un surplus di preoccupazioni con cui speravo di non dover far conto, almeno in età avanzata. Eppure ci siamo ormai convinti che sono fasi non programmabili della nostra vita; meglio allora approfondire le conoscenze, anche se non sempre piacevoli. Un consiglio che rivolgo anche ai miei coetanei: “Leggete un libro alla settimana, vi farà bene alla salute”. L’ultimo che ho finito di sfogliare l’ho trovato particolarmente sollecitante. Si chiama “Il grande declino”, ed. Mondadori, pag. 132, 17euro. Lo ha scritto Niall Ferguson, un brillante ed acuto storico britannico che insegna Storia moderna alla Harvard University. È chiaramente ispirato da una cultura liberale che traspare sia nelle diagnosi che nelle soluzioni esposte. Rinuncio ad impossibili riassunti e mi limiterò a qualche spunto. La prima parte del saggio è dedicata allo “stato stazionario”, una definizione inventata da Adam Smith per descrivere le condizioni di un paese in precedenza ricco che ha cessato di crescere. Ma se ai tempi di Smith lo “stato stazionario” tipico era considerato la Cina, oggi la definizione si addice a gran parte del mondo occidentale mentre la Cina cresce più rapidamente di qualsiasi altra economia al mondo. La situazione si è ribaltata. La spiegazione del rallentamento del nord del mondo è quella del “deleveraging” (il doloroso processo di riduzione del debito) in dimensioni senza precedenti (nella storia americana è appena la seconda volta che il debito, pubblico e privato, ha superato il 50 per cento del pil) . La tesi del “deleveraging” è che le famiglie e le banche dopo aver puntato follemente sulla crescita infinita del prezzo dei beni immobili, ora cercano di ridurre i propri debiti ma a causa di questo tentativo di spendere meno erisparmiare di più, la domanda aggregata ha subito una forte flessione. L’autore nega e dimostra che non tutto discende dal debito pubblico e per dimostrarlo affronta il tema del decadere delle istituzioni, distinguendo fra istituzioni aperte e istituzioni chiuse (al centro il “rule of law” britannnico), ponendo il quesito se non stiamo assistendo al sostanziale crollo di quello che i nostri antenati chiamavano “ll patto fra generazioni”. Spesso si discute — afferma Ferguson — come se il vero problema fossero i debiti, con il risultato di uno scontro sterile tra i fautori dell’“austerità” e i fautori dello “stimolo”. A me pare invece che i debiti siano la conseguenza di un malfunzionamento istituzionale più profondo. Negli enormi trasferimenti intergenerazionali che le attuali politiche fiscali comportano, si scorge una rottura sconvolgente del patto sociale che presuppone lo Stato come una associazione che estende la sua forza vincolatrice non solo tra quelli che sono viventi in un determinato tempo, bensì tra viventi e trapassati ed anche tra questi e i nascituri. La più grande sfida con cui le democrazie mature dovranno misurarsi sarà quella di trovare il modo di ripristinare il contratto sociale tra le generazioni. Il sistema attuale è fraudolento. Con uno sforzo eroico di leadership si dovrebbero redigere e imporre con regolarità i conti generazionali affinché risultino assolutamente evidenti le implicazioni intergenerazionali delle politiche correnti. Se per contro le democrazie occidentali continueranno l’andazzo attuale, seguendo la Grecia ed altre economie mediterranee nella mortale spirale fìscale, che inizia con la perdita di credibilità, prosegue con l’aumento dei costi dei prestiti e finisce con governi costretti a imporre tagli alle spese e tasse più alte nel peggior momento possibile, in questo caso il finale di partita prevede una qualche combinazione di default e inflazione. Finiremo tutti come l’Argentina.

l’Unità 11.11.13
La crescita di  «comunità parallele» richiede lo sviluppo di un pensiero nuovo e forte
Le elezioni scorse esprimono il bisogno di un cambiamento che ispiri le scelte pubbliche
Un patto per rifondare la politica
di Carlo Buttaroni

Presidente Tecné

Se un giorno, improvvisamente, la politica non fosse più lì a sovraintendere ai nostri deboli istinti e alle nostre pulsioni, sarebbe la fine della società così come la conosciamo. L’individuo si troverebbe solo e indifeso, privato dell’unico strumento che gli permette di vivere insieme al suo prossimo, definendo fini comuni e stabilendo norme in grado di tutelare il bene comune e gli interessi individuali. È grazie alla politica che l’uomo ha potuto progressivamente trovare gli adattamenti alla sua natura sociale, rendendo possibile la nascita di ciò che è stato poi chiamato «nazione», raggiungendo una stabilità «culturale» basata su una ragione forte e rendendo organizzato ciò che gli animali possiedono solo per istinto.
Ma oggi la politica è in grave sofferenza di fronte agli scenari frammentati sui quali è chiamata a dare risposte. È in difficoltà di fronte alla crescita di «comunità parallele» che non possono essere ricomprese in nessun insediamento preesistente. È quasi paralizzata di fronte a masse d’individui iscritti in una fluttuante geografia del consenso. Una politica, insomma, spaventata dalle scelte che è chiamata a compiere, ispirata a un pensiero debole dove il relativismo ha finito per essere una premessa largamente condivisa, dove tutto ha convissuto con il suo contrario e dove nessuno si sente veramente rappresentato da qualcuno. Un progressivo deterioramento che si riflette nella diffusa convinzione che la politica non sia più orientata, che abbia perso il senso di una missione da compiere, di un progetto da portare avanti, impossibilitata a organizzare il passato e il futuro in un'esperienza coerente. D’altronde il programmare, il progettare grandi mete, non si addice a un pensiero debole. E l'avvenire resta interrogativo senza tentativi di risposte per una politica timorosa di inoltrarsi in un futuro che non ha più la forma di una meta da raggiungere o di un criterio cui uniformare le condotte.
LA DIFFERENZA CON IL NOVECENTO
Al modello di ragione universale e forte del Novecento, in questi ultimi vent’anni, si è contrapposta una costellazione di razionalità parziali e provvisorie, che hanno alimentato l’idea che la politica sia solo «scelta elettorale» e non più rappresentanza di espressioni sociali. Il risultato è stato una deformazione della democrazia rappresentativa, i cui effetti si sono visti nelle elezioni politiche di febbraio: un sisma fuori scala, il cui epicentro non è stato nel sistema dei partiti, ma in una società caratterizzata da conflitti a bassa intensità e alta frequenza. Il fenomeno è molto più profondo di quanto è stato descritto nelle prime analisi post-voto. Lo si legge nel voto degli studenti e dei disoccupati. Lo si nota nella differenza dei gesti elettorali dei giovani e degli anziani e tra chi riesce a preservare un briciolo di garanzie (come i lavoratori dipendenti) e chi, invece, queste garanzie non le ha e, probabilmente, mai le avrà.
Eppure, pur nelle sue contraddizioni, nelle urne ha preso forma un’idea di società che si rafforza nelle sue vocazioni primarie: lo sviluppo di qualità, la sanità, l’assistenza ai più deboli, l’istruzione, l’attenzione al bene comune, la tensione a operare nella giustizia e a favore dell’interesse di tutti. Il dato delle urne dello scorso febbraio esprime il bisogno di un nuovo patto, una rifondazione che ispiri le scelte e le azioni pubbliche, la voglia di esserci in prima persona, di non essere più lontani ed estranei da ciò che accade. Una spinta a riemergere da quell’individualismo autoreferenziale che ha segnato questi anni, per guardare, con maggiore attenzione, ai legami e alle responsabilità di ciascuno verso i propri simili, considerati non più soltanto come limite, ma anche come condizione irrinunciabile della libertà individuale.
Il punto è come dare forma e coscienza di sé a una moltitudine d’individui che esprimono bisogni che non possono trovare soluzione soltanto in un uomo nuovo, ma hanno bisogno di un pensiero nuovo. È questa la grande sfida della politica. E non rispondere a questa domanda è il grande rischio della democrazia, perché senza una politica capace di un pensiero alto e forte, inevitabilmente annichilisce anche quel sistema di valori e principi che, a partire dalle singole individualità, trovano forma in un comune sentire e appartenere. È l’assenza di una politica capace di «pensare in grande» che ha alimentato l’illusione di poter «fare società», senza obiettivi condivisi e senza un qualsiasi conferimento personale, restituendo una solitudine globale che ha reso ogni singolo individuo inerte di fronte al suo futuro.
La malattia da cui è affetta la politica nasce dall’impotenza di fronte alle scelte da compiere, una crisi dell’agire che si aggrava nel momento in cui sembra poter decidere solo in subordine al sistema economico prima e all’apparato tecnico poi. Una situazione di adattamento passivo, condizionata da decisioni contingenti che non può indirizzare, ma solo garantire. Un’impotenza che si accompagna a un nichilismo lieve, figlio della subordinazione delle idee a semplici ipotesi di lavoro che confondono il funzionamento con il pensiero, la direzione con la velocità.
LA GRILLO-RIBELLIONE
Ciò che oggi serve è una politica che sappia farsi carico di quella volontà di rifondazione morale, civile ed economica che è stata depositata nelle urne. Occorre far tornare la politica alla responsabilità delle scelte a favore dei cittadini, visti non più come strumento per raggiungere le istituzioni, ma come fine ultimo di azioni ispirate al bene comune, punto d’incontro di un interesse convergente, fondato sul valore intrinseco e intangibile della persona umana e declinato su una solidarietà condivisa.
Per risolvere la sua crisi, la politica deve fare, quindi, i conti con se stessa e ripensare gli oggetti della sua azione. Perché in tutte le sue forme, ideali o teoretiche, fenomenologiche o empiriche, conserva sempre una confluenza con l’agire, con la capacità di fare delle scelte, di creare idee, di produrre azioni che gover- nino la società e la sua complessità.
Occorre far tornare la politica alla responsabilità delle scelte, perché anche i tanti piccoli rivoli sociali che hanno preso la forma della grillo-ribellione ne sentono la mancanza. Questa è la sfida ultima cui oggi è chiamata la politica: sapersi ricostituire in agenzia di senso, capace di rappresentare le nuove e variegate figure sociali. Ma, per fare questo, più che un uomo forte occorre un pensiero forte, interprete all’altezza della società degli imperfettamente distinti.

Repubblica 11.11.13
L’Italia degli spaesati
di Ilvo Diamanti


L’ITALIA al tempo delle primarie, di Beppe Grillo e del ritorno di Forza Italia: sta perdendo radici e identità. È un Paese spaesato, dove i cittadini non sanno più a chi “credere”. Vent’anni fa eravamo in piena crisi di sistema.
E, mentre affondava la Prima Repubblica fondata sui partiti, gli italiani si “affidarono” ai sindaci. E, poi, ai governatori. Custodi delle autonomie territoriali, non contro l’Italia, come pretendeva la Lega. Ma in nome di un Paese “unito dalle sue differenze” (com’era solito rammentare Carlo Azeglio Ciampi). Territoriali e culturali. E, anche per questo, europeo. Anzi: il più europeista, in Europa. Oggi, però, questo profilo è cambiato. Irriconoscibile. L’Europa, anzitutto, è vista con diffidenza. Al pari, anzi, proprio a causa, dell’euro. Gli italiani: sono europei “nonostante tutto”. Perché fuori dall’euro, fuori dall’Europa si sentono più vulnerabili. Il problema è che, insieme, si è scolorita la mappa delle identità territoriali. Che ha perduto i suoi principali riferimenti. Per prima e soprattutto la “città”, indicata come l’area in cui ci si riconosce maggiormente da meno del 15% degli italiani (intervistati). Il livello più basso da quando (quasi vent’anni) Demos (per Limes) conduce le sue indagini sul sentimento territoriale. L’anno scorso, ad esempio, la città costituiva il primo riferimento per quasi il 21% dei cittadini. Certo, il rilancio dell’identità nazionale, promossa e sostenuta dal presidente Napolitano in occasione del 150enario dell’Unità d’Italia, ha prodotto risultati visibili. Nel corso del 2011, infatti, l’Italia è divenuta il primo riferimento per quasi il 28% dei cittadini. Ma oggi l’Italia costituisce il centro delle appartenenze territoriali per circa il 23% dei cittadini. È la conseguenza della crisi — economica e politica — che si riflette, pesantemente, sulla fiducia nei diversi livelli di governo. D’altronde, il disincanto della società verso gli attori e i luoghi della politica, ma anche verso le istituzioni, in Italia viene da lontano. Ma, negli ultimi anni, ha assunto proporzioni impensate e impensabili. La fiducia nello Stato, fra il 2001 e il 2010, si è mantenuta stabile, intorno al 30%. Oggi è crollata al 15%. Detto in termini espliciti: poco più di un italiano su dieci ha fiducia nello Stato. Niente di nuovo e inatteso, forse. Ma, comunque, a me fa impressione. Dell’atteggiamento verso l’Europa abbiamo già detto. Nel 2001, quando la disillusione si stava diffondendo, gli italiani che mostravano fiducia nella Ue erano, ancora, la maggioranza: il 53%. Nel 2010 l’impatto della crisi aveva ridimensionato questo sentimento, che comunque si attestava al 49%. Ma oggi la fiducia nella Ue è crollata al 33%. È una reazione al senso di vulnerabilità che riflette il declino di legittimità dello Stato e dell’Europa. Le cornici più ampie dentro cui ci collochiamo. Tuttavia, a differenza di venti o anche solo dieci anni fa, oggi i governi — e i contesti — territoriali non riescono più a soccorrerci. A offrirci protezione — almeno a livello di riconoscimento. Il “locale” non tutela dalla crisi “nazionale” e dalla minaccia “globale”. La quota di quanti esprimono (molta o moltissima) fiducia nella Regione, infatti, dal 2001 al 2010 cala dal 39% al 33 (e mezzo) per cento. Ma oggi frana al 26%. L’andamento della fiducia nei Comuni segue un percorso diverso. Nel primo decennio degli anni 2000 appare sostanzialmente stabile. Oscilla, infatti, intorno al 40%. Ma dopo il 2010 scivola, anzi cade. E oggi supera di poco il 31%. È lo specchio di un Paese che fatica a trovare appigli e punti di riferimento. Anche e soprattutto a livello locale. Dove, in passato, Comuni e Regioni avevano frenato la crisi di credibilità dello Stato e del sistema politico. La quota di italiani che dichiara di avere fiducia sia nei Comuni che nelle Regioni, invece, è, ormai, residua. Dal 30%, nel 2001, oggi si è ridotta al 17%. Questa deriva coinvolge e trascina tutti i soggetti politici, tutti gli schieramenti. Rende in-credibile il “federalismo delle Regioni”: la bandiera della Lega. Che governa le tre principali regioni del Nord. Insieme al Pdl. L’Italia berlusconiana, d’altronde, coincide con il Lombardo-Veneto. Il cuore del Nord. Ma il disincanto avvolge anche l’Italia dei sindaci e dei Comuni. Fin dagli anni Novanta, il retroterra del centrosinistra. Che nel decennio passato ha candidato, come premier, due sindaci di Roma — Rutelli e Veltroni. Mentre il vincitore probabile, se non certo, delle primarie del Pd è Matteo Renzi. Anch’egli sindaco — di Firenze. (E il segretario uscente, Pierluigi Bersani, è stato governatore dell’EmiliaRomagna). Dietro alle tensioni che scuotono i principali partiti della Seconda Repubblica, dunque, si intuisce una profonda crisi di sistema, che si riflette nei diversi “luoghi” istituzionali e di governo. D’altronde, il centrodestra e il centrosinistra, in Italia, hanno sempre avuto un profilo territoriale definito. De-limitato. Mentre il successo del M5S non ha una geografia specifica. E, fin qui, non si è confermato alle elezioni “locali”. È il segno, ulteriore, di una trasformazione profonda. Che marca una frattura con il passato. Di cui non si vedono gli esiti, i percorsi possibili. Perché mancano sponde e traghettatori. Lo stesso Presidente della Repubblica, negli ultimi mesi, ha perduto consensi. Il grado di fiducia di cui dispone, oggi, è di poco superiore al 50%. Ancora elevato, rispetto a tutti gli altri attori politici e istituzionali. Ma, comunque, in sensibile ripiegamento rispetto a un paio d’anni fa. Così, l’unica figura pubblica che nell’ultimo periodo abbia ottenuto grande, anzi, grandissimo consenso è, com’è noto, Papa Francesco. Che riscuote grande fiducia da quasi 9 italiani su 10. Tuttavia, per reagire alla perdita di “fede” nella politica, per rispondere alla crisi dell’Italia repubblicana, delle Regioni e dei Comuni, appare difficile affidarsi al Papa e alla Chiesa. Forse è meglio restituire autorità allo Stato, credibilità alla politica e autorità ai suoi territori. Con buoni leader, buoni amministratori, buoni sindaci. Capaci di testimoniare la buona politica e il buon governo.

Repubblica 11.11.13
Perché a Lampedusa il diritto d’asilo si chiede a nuoto
di Attilio Bolzoni


Quando parla di orgoglio pensa ai nostri marinai, quelli che ogni notte si spingono con le motovedette nel golfo della Sirte per tirare su i naufraghi. Quando parla di vergogna pensa a cos’era fino a qualche mese fa il cimitero della sua isola, le croci senza nome e i sepolti con un’incisione nel legno che li divideva per il colore della pelle. Quando parla di scandalo pensa all’Europa che tace, al silenzio davanti a una strage infinita. Si presenta: «Sono Giusi Nicolini, il nuovo sindaco di Lampedusa e Linosa…appena eletta mi sono stati consegnati 21 cadaveri…poi sabato ne sono stati salvati 76, però il numero dei morti è sempre di gran lunga superiore al numero dei corpi che il mare restituisce».
Questo libro sarebbe dovuto andare in stampa a fine dicembre ma dopo la spaventosa tragedia del 3 ottobre — a solo mezzo miglio dall’insenatura della Tabaccara — l’uscita è stata anticipata con una breve introduzione: “Era tutto scritto”. I lunghi incontri fra Giusi Nicolini e Marta Bellingreri, autrice di reportage fra il Medio Oriente e la frontiera europea più a sud, hanno trovato ordine in un dialogo («Che dura da anni e ancora continua») sull’isola, i suoi abitanti e i suoi migranti. Comincia così lo sfogo del sindaco sull’ultimo scoglio italiano: «Che posso dire io di Lampedusa? Quando chiedo di non lasciarla sola, chiedo di non abbandonare queste persone a un destino assurdo. Perché in Italia e in Europa il diritto d’asilo deve essere chiesto a nuoto? Non è un crimine aspettare che i migranti siano decimati dal mare?». Dedicato ai bambini che approdano, Lampedusa, conversazioni su isole, politica, migranti (Edizioni Gruppo Abele, pagg. 143, euro 10), è una raccolta di emozioni viste da lì, dalle “terre di mezzo” dove da secoli passano i popoli. È bollettino di guerra («I naufraghi muoiono per il caldo, il freddo, la sete, annegati», ed è denuncia: «Mentre gli uomini dello Stato italiano salvano vite a 140 miglia da Lampedusa, chi è a solo 30 miglia dai naufraghi e dovrebbe accorrere con le nostre velocissime motovedette che il nostro precedente governo ha regalato a Gheddafi, invece ignora la loro richiesta di aiuto». Quelle stesse motovedette made in Italy i libici però le usano per sequestrare i pescherecci siciliani quando gettano le reti, sempre in acque internazionali.
Giusi Nicolini annuncia fra le pagine che amplierà il cimitero della sua isola «per quelli che arriveranno». Continueranno i naufragi, continueremo a contare i morti. Vuol far diventare il camposanto di Lampedusa un luogo di pellegrinaggio, perché solo incontrando quei morti «si può far comprendere di cosa stiamo parlando quando pronunciamo le parole “sbarco” o “viaggi della speranza”. Nessuno potrà mai conoscere veramente Lampedusa se non conosce il suo cimitero.
Il 25 aprile del 2013 il sindaco Nicolini è stata invitata dal primo cittadino di Marzabotto, il paese in provincia di Bologna dove — nell’autunno del 1944 — i nazisti uccisero più di 1800 civili dopo un rastrellamento. Dal mausoleo sulle colline emiliane alle baie mediterranee, luoghi di memoria, con un filo che lega le stragi del passato a quelle di oggi:

IL LIBRO Lampedusa di Giusi Nicolini con Marta Bellingreri Gruppo Abele edizioni pagg. 143 euro 10

l’Unità 11.11.13
Baby-prostituzione. Troppi anni di silenzio
Psicologi e scrittori si interrogano sul perché sempre più minorenni si vendano e il dito è puntato contro noi genitori
L’erotizzazione è talmente precoce che i corsi di educazione sessuale si devono iniziare alle materne
di Silvia Gigli


Colpevoli. Di essere assenti e ciechi. Distratti e predatori. Di aver abdicato completamente al ruolo di educatori, di non accorgersi o non volersi accorgere di come vivono e crescono i nostri figli. E, nella peggiore delle ipotesi, di approfittare della loro fragilità. La crudele vicenda delle adolescenti prostitute di Roma, della quale di giorno in giorno si scoprono, tra sms e intercettazioni, i risvolti più sordidi e biechi è solo la punta di un iceberg che non è nato oggi e che vede sul banco degli imputati gli adulti. Tutti. Genitori e non. «Trovo ipocrita stupirsi per questo pur terribile fatto di cronaca esordisce Marida Lombardo Pijola, giornalista del Messaggero e autrice di libri sugli adolescenti e il sesso tra i quali il profetico Ho dodici anni, faccio la cubista, mi chiamano Principessa (Bompiani) . Mi colpisce il non voler sapere e non voler vedere quella che è di fatto la doppia vita dei nostri ragazzi. Le mie prime inchieste sugli scambi sessuali in età preadolescenziale sono datate 2005, quasi dieci anni fa. Da allora il fenomeno si è evoluto in maniera stupefacente».
I bambini non sono più bambini, l’erotizzazione è talmente precoce che, spiega la psicologa e psicoterapeuta Roberta Giommi che dirige l’Istituto internazionale di sessuologia di Firenze, «i corsi di educazione sessuale nelle scuole si devono iniziare addirittura alle materne». Se le prime informazioni sul sesso distorte, parziali o amplificate dal web e senza alcuna mediazione da parte degli adulti iniziano a circolare così precocemente, come stupirsi del fatto che alcuni adolescenti vendano i propri favori sessuali? «Basta aprire gli occhi e viaggiare sui loro social, gli stessi dove viaggiano i pedofili continua Lombardo Pijola -. Siamo tutti responsabili di questo, anche la classe politica che dovrebbe rendersi conto dei fenomeni sociali».
Ma dentro questa rete perversa non finiscono solo le ragazzine. Anche i maschi sono coinvolti (come peraltro sta emergendo dall’inchiesta di Roma). «Questi fenomeni avvengono soprattutto tra ragazzini e nelle scuole dove si allestiscono incontri sessuali nei bagni, dove si spaccia e ci si dedica ad atti di bullismo precisa Lombardo Pijola -. In questo caso maschi e femmine si assegnano parti ben definite: la donna che si lascia predare e l’uomo che si fa predatore o pappone. Per loro inizia come un gioco, non sono affatto consapevoli del male che si fanno. È una sessualità scissa dall’affettività».
Come si è arrivati a questo? «È successo che negli ultimi vent’anni in Italia i costumi si sono trasformati, c’è stato un degrado sociale, politico, umano e antropologico incarnato da una persona, da un regime e da una tv che ci hanno segnati sostiene Lombardo Pijola -. I ragazzi sono cresciuti circondati da messaggi precisi sul sesso, lo strapotere del denaro, il disvalore del corpo delle donne. Sono stati accerchiati e martellati da queste informazioni fin da piccolissimi». E noi? «Non ci siamo, non vogliamo capire che anche chi non lo fa è immerso in quel mondo e non può neanche dissociarsi perché rischia l’emarginazione, il bullismo, la sofferenza». Ecco allora che vendersi per pochi spiccioli è in fondo ancora un gioco perché dal tuo corpo puoi dissociarti e sfilartelo di dosso per trasformarlo in qualcos’altro e attraverso questo cercare una misura del valore di sé.
«Non è complicato, è solo il risultato di ciò che offriamo ai ragazzi. Non diamo loro mai situazioni di affettività e poi ci stupiamo che non abbiano affetto per se stessi» commenta lapidario Renato Palma, medico e psicoterapeuta fiorentino. «Chiediamoci quando questi bambini vivono un’affettività che insegni loro a rispettare se stessi argomenta Palma -. A scuola si insegnano l’immobilità e il controllo della fame, a casa magari si riempiono di attenzioni e di oggetti ma lo facciamo solo perché non diventino dei problemi, non ci disturbino. È un tipo di attenzione che nasconde più ansia che volontà di voler bene. Quando arrivano alla pubertà sono più autonomi ma non sono capaci di amarsi».
E così accade che il sesso divenga una merce come un’altra, che ci si imbottisca di alcol o di droghe perché sembra l’unico modo di sentirsi liberi. A preoccupare tutti coloro che a vario titolo si occupano di infanzia e adolescenza è il fallimento degli adulti. «Dove erano gli adulti quando i bambini soffrivano?» si interroga Palma. «I genitori hanno rinunciato ad educare nella fascia evolutiva, li abbiamo lasciati soli in un mondo predatorio gli fa eco Roberta Giommi -. Per una relazione ci vuole del tempo, finiamola con questa storia del tempo di qualità. Con i bambini e gli adolescenti ci vuole anche la quantità. Se ci sono segreti, difficoltà, trasgressioni, c’è bisogno di tempo e pazienza».
«Nessuno si sforza di conoscere il loro alfabeto, di capire il loro linguaggio argomenta la scrittrice Antonella Lattanzi, autrice di Devozione e Prima che tu mi tradisca (Einaudi) -. Non abbiamo insegnato loro a scegliere, in tempi di crisi abbiamo detto loro di non dire mai di no perché, chissà, si potrebbe perdere un’occasione. Tra le donnine di Berlusconi e queste prostitute minorenni il passo non esiste, ci sono sempre delle mamme dietro che spingono per il successo o il denaro facile».
Analizzato il fenomeno, trovati i colpevoli, dobbiamo forse assuefarci ad una generazione alla deriva disposta a tutto? Non c’è nemmeno un briciolo di speranza? «Certo, ci mancherebbe altro ci rassicura Renato Palma -. Bisogna che gli adulti si decidano a cambiare. L’alternativa alla nostra solitudine, alla filosofia dell’individuo al centro di tutto che però alla fine non conta niente e all’arricchimento ad ogni costo c’è e l’ha capita per primo il mondo della pubblicità. L’alternativa e la soluzione è trattarsi bene, essere affettuosi. Non lasciamo soli i nostri ragazzi». «Anch’io voglio essere positiva chiosa Marida Lombardo Pijola -. Ho conosciuto tante ragazze alle manifestazioni di “Se non ora quando” che mi hanno allargato il cuore. Queste ragazzine quando acquisiscono coscienza di sé. Sono diventate emancipate, talentuose, partono, spesso non vogliono più un uomo accanto». E i maschi? «Loro sono più indietro. Sono spaventati. I pedofili sono tantissimi e sono ovunque. La pedopornografia è la seconda fonte di reddito per la criminalità organizzata dopo il traffico di droga. A pensarci bene alla base di tutto c’è la stessa radice della violenza di genere: un esorcismo maschile contro la superiorità femminile».

l’Unità 11.11.13
Identità, Il mio nome è Rom
Al via oggi la campagna contro i pregiudizi
«Romaidentity», una conferenza e uno spettacolo
Si parla sempre di «zingari» Il primo compito che abbiamo è quello di bonificare la nostra lingua
A Roma una giornata di riflessione sull’uso del linguaggio giornalistico
di Moni Ovadia


L’IRRUZIONE DI UNA LINGUA NEL NOSTRO ORIZZONTE È SEMPRE ANNUNCIATRICE DI UNA TEMPERIE E DI UNA STAGIONE DI EVENTI GIÀ ISCRITTI NEL PENSIERO ESPRESSO DA QUELLA LINGUA.

Il linguaggio del potere, anche del più democratico è de facto il programma dei provvedimenti che quel regime prenderà nei confronti della vita dei cittadini. Lo è di più del programma stesso che spesso è enunciato per scopi elettoralistici o demagogici. La madre del sindacalista Turiddu Carnevali, sindacalista assassinato dalla mafia, richiesta di dire qualche parola sul figlio rispose: «li paroli sunnu petri», le parole sono pietre. Oggi in Italia verifichiamo tutto il peso di questa verità, in particolare, a proposito dei rom e dei sinti. Definiamo queste genti «zingari» con un brutto eteronimo gravido di disprezzo e di aggressività che non appartiene alla loro lingua ma alla nostra e nella fattispecie al suo humus più volgare fertilizzato dall'intolleranza e persino dall'odio. Per questa e per molteplici altre ragioni, la prima cosa che abbiamo il compito di fare è quello di bonificare la nostra lingua a proposito dei rom, dei sinti, ma contestualmente al riguardo di tutte le minoranze, anche quelle non connotate per l’alterità cosidetta etnica, come gli omossessuali e le donne, la più grande minoranza perseguitata di tutti i tempi. Il nostro governo se volesse lasciare traccia di sé potrebbe cominciare ad inserire nel programma della scuola dell’obbligo un libro sulla storia delle genti rom e della loro cultura come quello, straordinario, di Santino Spinelli, rom abruzzese e professore di cultura romanì all'università di Teramo. Suggerirei anche agli adulti in età extrascolastica di leggerlo e di meditarlo. Di fronte a quelle parole si rimane sconvolti e ammirati incontrando l’epopea di uomini e donne liberi che non hanno mai fatto né concepito guerra contro popoli.
Ora, io sono un ebreo con una memoria radicatissima e, per me ogni parola, atto, o allusione che esprime violenza contro i rom è come se mi fosse rivolta direttamente contro, come dire, ho ragioni personali, ma fortunatamente in generale sta crescendo nel nostro paese una consapevolezza della grande infamia rappresentata dalla ziganofobia e vengono prese iniziative per contrastarla.
Oggi, a Roma, su iniziativa dell’Associazione della Stampa Romana, si terrà una giornata di informazione e riflessione sull’uso del linguaggio giornalistico nel parlare di rom e sinti. L’intento è quello di sollecitarne il cambiamento per espungerne le figure del pregiudizio e della diffidenza. L’incontro, che avrà sede Fnsi alle 11.30, si colloca nel quadro dell’iniziativa europea «Romaidentity Il mio nome è rom» promossa dall’ong Ricerca e Cooperazione insieme ad Associazione Stampa Romana, Ass. Rom Sinti@Politica, Università la Sapienza e altre organizzazioni di Italia, Spagna, Romania. Alla sera alle ore 21 la giornata si concluderà al Teatro Vittoria con il recital teatral-musicale Oltre i confini ad ingresso libero. Per ulteriori informazioni consultare il sito www.romaidentity.org.

IL PROGRAMMA
Dei 12 milioni di Rom che vivono in Europa, 150.000 sono in Italia. Di questi, 40.000 vivono nei campi mentre coloro che praticano il nomadismo sono solo il 3 per cento. Offrire una reale fotografia del popolo Rom senza i pregiudizi che hanno dato vita ai falsi allarmi dei «bambini rapiti», è l’obiettivo della campagna internazionale «Romaidentity – Il mio nome è Rom». La campagna sarà lanciata oggi con la conferenza «Conflitti, mass media e diritti» (ore 11.30) e con lo spettacolo a ingresso libero «Senza Confini Ebrei e Zingari» di Moni Ovadia (ore 20.30). Alla conferenza interverranno esperti nazionali e internazionali tra i quali Sabrina Tosi Cambini autrice del libro «La zingara rapitrice»; Moni Ovadia, scrittore, musicista e drammaturgo; Pietro Vulpiani, Unar – Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni.

l’Unità 11.11.13
Se l’effetto Storace spinge Grillo ancora più a destra
di Toni Jop


A Storace non va giù. La destra destra si è svegliata dal letargo, ha fatto il conto, molto non le torna e ha detto: «Adesso basta». Ma basta che? Il fatto è che si sono svegliati in quattro gatti e sognavano di essere manipoli e centurie toste. Ecco che lo sguardo s'allunga e malizioso deduce: certo che Berlusconi ha infilato molti di noi sotto il suo cuscino; sono stati al gioco finché il caimano aveva stallieri pluriomocidi e dirigenti della Mafia, finché sembrava in grado di rappresentare l'arco di volta che tiene assieme lo Stato e l'Anti-Stato, finché vinceva e portava sugli altari anche i saluti romani.
Ma adesso è chiaro che il gioco si è incartato. Poi, la destra estrema «in purezza», e anche quella ormai disaffezionata rispetto ai «predellini», ha già traslocato da un pezzo e si mescola con il «sinistrume» ferito dalla sinistra storica o con questa da sempre in conflitto, approdato sulle spiagge di Grillo e Casaleggio.
Anche il Megafono promette vittorie schiaccianti, ramazza, patria e onore e le sue azioni non sono in picchiata, il gioco è apertissimo. Per di più, giusto mentre il nero Storace si svegliava, Grillo annunciava in un'autodafé ammirevole che i suoi non dovevano andare a sinistra, sennò per loro sarebbe stato il disastro.
Allora che si fa? È un bel problema, ma di tanto in tanto i sinistri del Movimento Cinque Stelle si fanno sentire ed entrano in polemica con le direttive del padrone, anche in Parlamento. Vedi quel è successo a proposito della Google tax, ma non solo. Allora, lo spazio c'è per recuperare le pecorelle smarrite, e Storace grida: tornate a casa, camerati. È una parola: stiamo a vedere, ma questo commovente appello darà fuoco alla coda di Grillo e, almeno in teoria, lo spingerà ancora più a destra. Se possibile. Poveri sinistri del M5S.

l’Unità 11.11.13
Legge elettorale
Pdl-M5S spingono il Senato alla resa
Domani si votano gli odg Il Pd propone il doppio turno con Sel e Sc
ma mancano i numeri Prima della Consulta intesa sempre più difficile
di Andrea Carugati


L’ennesima settimana di discussione sulla legge elettorale. Dopo mesi di parole, scioperi della fame, sintesi, bozze, e ogni altro arzigogolo parlamentare, domani pomeriggio la commissione Affari costituzionali del Senato si troverà finalmente a votare. Un nuovo progetto di legge? Neanche per sogno. Al voto ci saranno due ordini del giorno, che di per sé non incidono minimamente sull’attuale legge elettorale.
Uno è del Pd, sostenuto anche da Sel e Scelta civica, e prevede il doppio turno di coalizione: la soluzione proposta anche dai saggi del governo guidati da Violante e Quagliariello che prevede un ballottaggio tra le prime due coalizioni per assegnare il premio di maggioranza alla Camera e al Senato (se nessuno supera il 40%). L’altro odg è della Lega, e prevede in poche righe il ritorno al Mattarellum. Sulla carta, nessuno dei due odg ha chance di essere approvato: il primo per la netta contrarietà del Pdl e del M5S; il secondo perché sul Mattarellum, che pure non dispiace ad una parte del Pd e che viene spesso usato dai grillini per negare il loro immobilismo pro-Porcellum, è comunque molto difficile arrivare a una maggioranza. Nel dettaglio, l’odg per il doppio turno conta su 12 voti (più l’eventuale sì della presidente Finocchiaro) contro i 14 di Pdl e M5S. Per passare avrebbe bisogno del sì di almeno una delle due colombe Pdl presenti in commissione, Elisabetta Alberti Casellati e Luciano Fazzone. Ma è difficile che uno strappo di così evidente portata arrivi prima del Consiglio nazionale Pdl del 16 novembre. Quanto al Mattarellum, invece, ai voti dei due leghisti si potrebbero sommare i quattro dei Cinquestelle e qualche renziano. I senatori vicini a Renzi, infatti, non escludono un sì al Mattarellum. «Noi abbiamo presentato un disegno di legge in questa direzione a inizio legislatura, e lo stesso ha fatto Anna Finocchiaro. Dunque è una proposta su cui il Pd potrebbe dire sì per superare l’impasse», spiega Rosa Maria Di Giorgi. I senatori Pd tra oggi e domani si riuniranno per discutere di legge elettorale. E i renziani sono pronti a spingere per un sì al Mattarellum, nel caso in cui il doppio turno venisse bocciato.
L’ipotesi più probabile, però, è che la commissione del Senato, dopo aver fortemente voluto ad agosto il dossier legge elettorale calendarizzato con urgenza, chiuda i suoi lavori con una fumata nera e una resa: «Non siamo in grado di cambiare la legge elettorale». A quel punto l’ultima parola passerebbe al presidente Pietro Grasso, che non potrebbe fare molto di più che prendere atto dello stallo. Uno stallo in realtà decisamente doloso, visto che il doppio turno di coalizione riuscirebbe in un colpo solo ad assicurare un vincitore certo e ad evitare che un partito col 25% dei voti prenda il 55% dei seggi. Quel modello, inoltre, assomiglierebbe molto all’elezione dei sindaci, l’unica riforma davvero assimilata dagli elettori, con un primo turno con molti concorrenti e un secondo in cui gli elettori scelgono il meno peggio.
Buon senso puro, dunque. Ma proprio per questo la proposta sembra destinata ad essere bocciata con forza da Pdl e M5S. I primi, che pure si dichiarano convintamente bipolaristi, non hanno mai spiegato davvero il perché. Né hanno saputo ribattere in modo convincente al prof D’Alimonte, che in audizione al Senato, ha spiegato, dati alla mano, che il doppio turno non favorisce nessuno. I grillini per un motivo altrettanto poco nobile: con il doppio turno il peso di una forza anti-sistema rischierebbe di essere decisamente limitato.
Con la prevedibile resa del Senato, è assai probabile che la palla torni alla Camera. A Montecitorio Pd, Sel e Scelta civica godono di una larga maggioranza, dunque il doppio turno potrebbe passare. Difficile però che una riforma possa essere approvata dai deputati prima del 3 dicembre, data in cui la Corte costituzionale sarà chiamata ad esaminare il ricorso sulla costituzionalità del Porcellum, in particolare sul premio di maggioranza. In questi giorni fior di esperti si stanno interrogando sul ruolo della Consulta. Tra le ipotesi c’è anche quella che i supremi giudici cancellino il Porcellum con un colpo di penna, riportando in vita il Mattarellum. Una soluzione tecnicamente si chiama «reviviscenza» che sarebbe stata perorata da almeno tre giudici ma che, allo stato attuale, rientra ancora tra le ipotesi improbabili. Più verosimile è che la Corte inviti solennemente il Parlamento a porre rimedio ai guasti del Porcellum. La palla tornerebbe ancora alla Camera. Con una incognita: e se il governo decidesse di intervenire con un decreto? Improbabile, visti i fragilissimi equilibri nella strana maggioranza. E il Porcellum, che ha già compiuto 8 anni, se la ride di gusto.

Repubblica 11.11.13
La crisi ti fa ricco
L’Italia dei nuovi Paperoni
In Italia ci sono 127 mila nuovi Paperoni. Il cui patrimonio stimato supera il milione di dollari. Un fenomeno che, in tempo di recessione, crea sempre maggiori disparità
In un anno i milionari sono 127 mila in più: i patrimoni sono stati gonfiati dalla ripresa delle Borse e delle altre attività finanziarie.
La forbice sghemba della recessione fa felici pochi e allontana tutti da una società più equa
di Federico Fubini


IMPOSSIBILE dimenticare il 2012, per chiunque lo abbia vissuto in Italia. L’anno in cui moltissimi iniziarono a sospettare che forse, per questa volta, non ci sarebbe stato un lieto fine. Niente gol alla Rivera del 4 a 3 contro la Germania all’ultimo minuto dei supplementari. Niente rimonta impossibile per accedere dalla porta principale nel club della moneta più forte del mondo solo cinque anni dopo aver sfiorato il default, come accadde fra 1992 e il 1997.
No. Vent’anni dopo, nel 2012, sul Paese ha iniziato a stendersi l’ombra del dubbio che stavolta la durezza della crisi finanziaria, poi della recessione economica, sarebbe stata definitiva. Avrebbe lasciato il segno: gli stili di vita non sarebbero tornati ai tempi migliori così presto e ciò che si credeva possibile nella vita, non lo sarebbe stato più. Per intere generazioni, cambiava la portata delle aspirazioni.
Ma davvero è andata così? La contabilità dei numeri, che di solito si presume fredda, racconta una sua storia con un colpo di scena finale. Basta fare qualche conto per capire che l’Italia del 2012 è una forbice sghemba.
Moltissimi sono nella gamba che va giù, ma questa è legata indissolubilmente alla gamba (molto più piccola) di quelli che vanno su. È un’Italia a doppia direzione in cui quasi nessuno resta fermo in mezzo, dov’era prima del grande crollo. Chi sta sempre meglio deve il suo cambio di condizione alla crisi tanto quanto chi sta sempre peggio.
Ecco la contabilità del 2012. Numero delle imprese fallite nel 2012: 12.463, ossia 34 al giorno. Variazione nel numero di persone che, ufficialmente, sono rimaste senza un posto di lavoro: più 507 mila, oltre mezzo milione (senza considerare le centinaia di migliaia in cassa integrazione). Andamento del prodotto interno lordo: meno 2,4%, il peggior crollo del fatturato nel dopoguerra dopo quello indotto nel 2009 dal fallimento di Lehman Brothers.
E il numero dei ricchi? Be’, quello è un’altra storia. Una vicenda uguale e contraria. I ricchi aumentano nel 2012. Per la precisione, 127 mila italiani in più il cui patrimonio stimato supera il milione di dollari americani. L’equivalente di una città di medie dimensioni. I milionari in dollari d’Italia erano un milione e 412 mila alla fine del 2011 e sono saliti a un milione e 529 mila alla fine del 2012. In sostanza, mentre l’economia metteva la retromarcia, le imprese morivano a migliaia al mese e le persone restavano senza lavoro, mentre gran parte degli italiani vivevano la fine dell’idea che ci sarebbe sempre stato un lieto fine, uno stellone nazionale, per alcuni le cose andavano un diversamente. I milionari d’Italia (in dollari) sono aumentati del 9,5%. Nel 2012 horribilis.
I dati sono contenuti nel numero di ottobre 2013 del Global Wealth Report dell’istituto di ricerca del Credit Suisse, la banca svizzera specializzata nella gestione di patrimoni. E sollevano subito una domanda: possibile? Certo il forte aumento del numero di ricchi in dollari, in Italia, non può essere dovuto a un rafforzamento dell’euro sul dollaro in quell’anno che falsa il calcolo. La variazione fra le due grandi valute dal primo e all’ultimo giorno dell’anno scorso è stata infatti trascurabile, appena dello 0,5% per cento. Né si può spiegare questo improvviso aumento dei milionari italiani con l’aumento del prezzo dei beni immobiliari, che peraltro sono inseriti nella stima. Le quotazioni della casa, semmai, non si sono mosse o sono scese di circa il 5%.
Dunque deve esserci qualcos’altro che getta luce sull’andamento a forbice dell’economia italiana. Un indizio lo fornisce per esempio il Ftse Mib, il listino principale di Milano, che nel 2012 è salito in una percentuale curiosamente simile alla variazione nel numero di milionari d’Italia: se questi ultimi sono cresciuti del 9,5%, la Borsa di Piazza Affari è salita dell’8,5%. Una seconda traccia viene poi dagli andamenti delle obbligazioni, in particolare dei titoli di Stato italiani. Nel primo giorno del 2012 un Btp a dieci anni rendeva il 7,068%, nell’ultimo giorno di quello stesso anno invece solo il 4,49. Poiché i prezzi dei bond si muovono in direzione inversa rispetto ai loro rendimenti — salgono quando questi ultimi scendono — si ricava che le quotazioni della famiglia dei Btp sono cresciute nel 2012 di circa il 10% sull’insieme delle scadenze dai tre mesi ai dieci anni. Di nuovo, un’impennata sorprendentemente simile a quella nel numero dei milionari.
Se due indizi fanno quasi una prova, ecco dunque la spiegazione più probabile dell’aumento degli italiani ricchi mentre tanti altri si avvicinavano alla povertà: moltissimi di quei 120 mila milionari in più, sono diventati tali perché è salito il valore del loro patrimonio investito in azioni o obbligazioni. È un fenomeno impossibile da cogliere se si guarda alle dichiarazioni dei redditi, perché i profitti da capitale sono tassati alla fonte in banca e non rientrano nelle denuncie e nei prelievi Irpef. E ovviamente non tutti i ricchi in Italia investono tutto il loro patrimonio in società quotate a Milano o in titoli delTesoro. Ma molto sì, e quell’andamento al rialzo in Italia è pur sempre indicativo di ciò che è accaduto anche in altri mercati finanziari d’Europa o negli Stati Uniti.
In sostanza: le imprese italiane nel 2012 fallivano o licenziavano, machi aveva patrimoni liquidi e li investiva stava sempre meglio. È uno dei paradossi della crisi. La famosa progressione dell’1% più ricco, e dello 0,1% al suo interno, che in America ha colto gran parte dei frutti della ripresain questi anni. Ciò che però caratterizza l’Italia forse ancora più degli Stati Uniti, che quest’aumento di ricchezza al vertice della società è in buona parte frutto della crisi proprio come lo è l’aumento della povertà. Ci sono pochi dubbi infatti su quali siano i fattori che hanno fatto salire le Borse e le quotazioni dei bond nel 2012: è stata la risposta delle grandi banche centrali, la Federal Reserve e la Banca centrale europea, al rischio di collasso del sistema finanziario. Fra la fine del 2011 e la fine del 2012 la Bce per esempio ha espanso il suo bilancio, cioè ha creato e immesso in circolazione moneta, di circa 900 miliardi di euro. Le sue due offerte di denaro a lungo termine e tassi bassi di fine 2011-inizio 2012 hanno distribuito alle banche circa mille miliardi lordi (500 netti). La Fed nel settembre del 2012 ha lanciato un programma di stampa di 85 miliardi di dollari al mese, con i quali ha comprato obbligazioni sul mercato.
Sono state le grandi banche centrali, con le loro enormi ondate di liquidità, che hanno fatto salire tutte le barche sui mercati finanziari. Le loro azioni hanno fatto crescere la Borsa e i prezzi dei bond e, chi aveva patrimoni, ne ha beneficiato.
È uno dei grandi paradossi di questa crisi. Se Mario Draghi e Ben Bernanke, i leader di Bce e Fed, si fossero astenuti dall’agire, anche chi si è impoverito nel 2012 si sarebbe impoverito ancora di più. Il collasso del sistema dell’euro e del debito italiano sarebbero stati più probabili. Ma con le loro decisioni, le banche centrali hanno involontariamente permesso a pochi privilegiati di diventare tali sempre di più. Ora tocca alle democrazie occidentali, non ai banchieri centrali, gestire le conseguenze di quest’ultimo morso della crisi.

Repubblica 11.11.13
Hedge funds e imprenditori: maxiguadagni per chi ha investito nel 2008
Buffett, Harris e gli altri lo 0,01% che vince sempre
di Federico Rampini


NON chiamateli l’un per cento. Potrebbero offendersi. Loro sono lo 0,01% per la precisione. Gli straricchi sono tornati, più potenti che mai. Rifioriscono non “malgrado” la crisi, ma “grazie” al cataclisma economico esploso nel 2008. Alla radice di alcune fra le maggiori fortune finanziarie di oggi, ci sono proprio delle operazioni speculative legate a quel disastro. Sfilano in un’inchiesta del New York Times i nomi più altisonanti, di coloro che moltiplicavano il proprio patrimonio mentre il resto della nazione (e del mondo) andava a picco. Alcuni sono nomi arcinoti, fra tutti spicca Warren Buffett che era già prima del 2008 l’uomo più ricco d’America. Nel suo caso, una buona dose di acume finanziario, e sangue freddo, lo hanno aiutato. «Siate timorosi quando gli altri sono accecati dall’avidità, siate avidi quando gli altri hanno paura». Questa sua massima, lui la mise in pratica nel momento più buio: tra il 2008 e il 2009 fece incetta di azioni di grandi società quotate, da Goldman Sachs a General Electric.

NEW YORK Mentre il piccolo risparmiatore cedeva al panico, e così facendo liquidava con forti perdite i propri portafogli azionari, lui rastrellava a man bassa e a prezzi di liquidazione.
Poi ci sono quelli, più invisi alla pubblica opinione, che si sono arricchiti direttamente speculando sulle disgrazie altrui. Il grande manager di hedge fund John Paulson, per esempio, aveva puntato proprio sul default dei mutui subprime. Mentre il crac dei titoli legati a quei mutui seminava disperazione tra milioni di famiglie colpite da pignoramenti giudiziari, lui intascava plusvalenze sulle sue speculazioni al ribasso. Ed era così accorto da farlo nella legalità, senza incappare nelle conseguenze giudiziarie che oggi perseguitano grandi banche del calibro di JP Morgan Chase o Bank of America-Merrill Lynch (anche loro accusate di avere contribuito al disastro dei mutui subprime, ma con azioni fraudolente nei confronti degli investitori e dei clienti). Poi ci sono storie meno note, nomi sconosciuti al grande pubblico, e tuttavia altrettanto clamorose. Bruce Karsh e Howard Marks, gestori del fondo d’investimento californiano Oaktree Capital, proprio nel 2008 si misero a fare incetta di bond privati, obbligazioni emesse da aziende. Le sceglievano tra le più malandate: distressed debt, letteralmente debito disperato, titoli emessi da imprese che sembravano condannate alla bancarotta. In certi casi il “distressed debt” può essere peggio dei junk-bond, i titoli spazzatura. Karsh e Marks attraverso Oaktree ne comprarono per 6 miliardi di dollari. Appena cinque anni dopo, il valore di quei titoli è raddoppiato esattamente: laplusvalenza è di 6 miliardi netti. Alcune aziende “distressed” sono davvero finite gambe all’aria, ma altre sono sopravvissute alla bufera, si sono risanate, e quei titoli che loro comprarono per pochi spiccioli ora valgono una fortuna. Un’altra storia che finisce in questo elenco ha come protagonista Joshua Harris, fondatore della finanziaria Apollo Global Management. Quando tutti vendevano in preda al panico, o erano costretti a farlo per rimborsare i propri debiti, lui rastrellò titoli obbligazionari nel settore petrolchimico. Ci ha guadagnato così tanto, che di recente si è tolto lo sfizio di comprare due squadre sportive, i Philadelphia 76ers della Nba (basket) e i New Jersey Devils (hockey).
Due tratti spesso uniscono i “profittatori” della grande crisi. In primo luogo, sono quasi sempre legati al mondo della finanza. Nel caso di Harris, e dei suoi colleghi nel top management della finanziaria Apollo, vengono tutti dalla defunta banca d’affari Drexel Burnham Lambert. Il nome di Drexel sembra appartenere a un’altra era geologica. Fu la banca spericolata per eccellenza, negli anni Ottanta. Ebbe al suo vertice Michael Milken, il trader dei junk bond condannato nel 1989 a dieci anni di carcere, personaggio che in parte ispirò il personaggio di Gordon Gekko nel primo film Wall Street di Oliver Stone. Oggi Milken è tornato in auge, ha un patrimonio di due miliardi, dà conferenze nelle università. Oltre al filo comune della finanza, gli straricchi condividono la passione per investimenti immobiliari della categoria dei “trofei”. Marks ha appena pagato 52 milioni per un appartamento al 740 Park Avenue di Manhattan. Più opulenti che mai, forse saranno loro i primi a vendere, se la “bolla gemella” della speculazione immobiliare e dei titoli hi-tech (Twitter & C.) dovesse travolgere tutti gli altri, cioè i risparmiatori allo sbaraglio.

Corriere 11.11.13
Una tassa patrimoniale (temporanea) può servire. Ma non basta
di Kenneth Rogof


Ci si chiede se sia compito dei Paesi avanzati introdurre tasse patrimoniali come mezzo per stabilizzare e ridurre il debito pubblico nel medio termine. Il Fondo monetario internazionale, solitamente conservatore, ha accolto l’idea con grande entusiasmo. Il Fmi calcola che una tassa una tantum del 10%, se introdotta rapidamente e senza preavviso, potrebbe ricondurre molti Paesi europei a un rapporto di debito pubblico/Pil simile ai tempi antecedenti la crisi. È un’idea affascinante.
L’argomentazione morale a favore di una tassa patrimoniale appare oggi più convincente che mai, con la disoccupazione ancora a livelli di recessione, mentre le profonde disuguaglianze economiche minacciano di lacerare il tessuto sociale. E se fosse davvero possibile far sì che questa tassa resti una tantum, essa potrebbe,  in principio, rivelarsi assai meno dannosa che continuare a spingere verso l’alto le aliquote di tassazione del reddito.
Sfortunatamente, se la patrimoniale sembra un modo sicuro per aiutare un Paese a risalire la china dell’abisso fiscale, essa non rappresenta tuttavia la soluzione a tutti i mali. Tanto per cominciare, il gettito fiscale della patrimoniale una tantum potrebbe rivelarsi assai elusivo. L’economista Barry Eichengreen ha esplorato  a suo tempo l’introduzione di imposte sul capitale nel primo e nel secondo dopoguerra, scoprendo che, a causa della fuga dei capitali e delle pressioni politiche che spingevano verso le dilazioni, i risultati erano spesso deludenti.
Neppure le armate della Guardia di Finanza sarebbero capaci di bloccare l’esodo massiccio della ricchezza, se gli italiani dovessero fiutare l’arrivo di una pesante patrimoniale. La sovra e sotto fatturazione nel commercio, per esempio, è un metodo assodato per far sparire i soldi dal Paese. (Per esempio, l’esportatore dichiara un prezzo inferiore per le spedizioni estere e si tiene il gruzzolo in contanti al sicuro in un Paese straniero). Senza contare poi la corsa all’oro, ai gioielli e ad altri beni difficili da individuare. L’effetto deformante di una tassa patrimoniale sarebbe inoltre esacerbato dalla preoccupazione che l’una tantum rischia di diventare un’imposizione abituale. Dopotutto, la maggior parte delle tasse temporanee si trasformano in brevissimo tempo in tasse permanenti. Il timore di tasse patrimoniali future potrebbe scoraggiare lo spirito imprenditoriale e abbassare il tasso di risparmio. Per di più, le difficoltà amministrative nel mettere in piedi una tassa patrimoniale davvero omnicomprensiva sarebbero enormi, innescando tutta una serie di questioni e polemiche sull’equità dell’imposizione. Per esempio, sarebbe molto difficile attribuire un valore di mercato alle piccole imprese familiari diffusissime nei Paesi mediterranei.
Le tasse sul patrimonio che prendono di mira i terreni e le strutture potrebbero considerarsi esenti da tali preoccupazioni, mentre le imposte di proprietà sono molto meno frequenti al di fuori dei Paesi anglosassoni. In teoria, tassare i beni immobili è meno soggetto a distorsioni, mentre le tasse sulle strutture ovviamente rischiano di scoraggiare sia le opere di manutenzione che le nuove costruzioni.
A questo punto, che altro possono fare i Paesi dell’Eurozona per aumentare i loro introiti sulla scia della ripresa economica? La maggior parte degli economisti vede con favore l’idea di allargare la base imponibile — eliminando, per esempio, detrazioni speciali e privilegi — in modo da mantenere basse le aliquote. Allargare la base del reddito imponibile è un elemento centrale delle proposte Simpson-Bowles per  la riforma fiscale negli Stati Uniti.
In Europa, l’unificazione della percentuale Iva sarebbe un passo avanti verso una maggior efficienza, anziché creare distorsioni con diverse imposizioni fiscali per diversi beni. In principio, le fasce di basso reddito potrebbero essere compensate tramite l’erogazione di sussidi monetari. Un’altra idea è quella di ottenere nuovo gettito dalle quote o dalle tasse sulle emissioni di CO2. Reperire risorse tassando le emissioni nocive riduce le distorsioni, anziché crearle. Sebbene tali tasse siano mostruosamente impopolari — forse perché gli individui si rifiutano di ammettere  la rilevanza delle emissioni nocive da essi prodotte — a mio avviso esse indicano una direzione importante per le politiche future  (e proporrò nuove idee al riguardo).
Sfortunatamente, i paesi avanzati hanno attuato pochissime riforme fiscali fondamentali fino ad oggi. Molti governi si rassegnano ad aumentare le aliquote anziché rivedere e semplificare il sistema.
In Europa, si è fatto ricorso anche a una tassazione sommersa, in particolare la repressione finanziaria, per risolvere i problemi di un drammatico indebitamento pubblico. Tramite normative e direttive amministrative, banche, società di assicurazioni e fondi pensione sono stati costretti ad acquistare quote molto più consistenti del debito pubblico di quanto non avrebbero voluto. Si tratta però di un approccio assai poco lungimirante, in quanto i titolari finali di pensioni, contratti di assicurazione e depositi bancari sono in ultima analisi gli anziani e quella classe media già gravemente tartassata.
Vi è inoltre la questione irrisolta di quanto dovrebbero realmente pagare i Paesi periferici sul loro debito massiccio, a prescindere dallo strumento di tassazione. Sebbene il Fmi sembri particolarmente entusiasta sull’impiego della patrimoniale per ripianare le eccedenze del debito in Spagna e in Italia, pare ragionevole condividere il fardello con i Paesi del Nord. Come hanno fatto notare di recente gli economisti Maurice Obstfeld e Galina Hale, le banche francesi e tedesche hanno tratto ingenti profitti dalla gestione dei flussi tra i risparmiatori asiatici e la periferia dell’Europa. Sfortunatamente, tutte le discussioni sulla condivisione del debito non fanno altro che rallentare i tempi, rischiando di erodere l’efficacia di una qualsiasi patrimoniale quando essa sarà finalmente varata.
Tuttavia, il Fmi ha ragione — in termini di equità e di efficienza — a insistere su una patrimoniale temporanea nei Paesi avanzati
per abbattere il debito pubblico. Ma quasi certamente il gettito sarà inferiore, e i costi più elevati, di quanto non lascino presagire i calcoli fatti per promuovere l’iniziativa. Una tassa patrimoniale temporanea potrebbe essere davvero una soluzione per i Paesi che oggi sono in difficoltà, e occorre prendere seriamente in considerazione questa idea. Ma questo tipo di imposta non può sostituirsi alla necessità di avviare una riforma fiscale complessiva e a lungo raggio per instaurare un sistema di tassazione più semplice, più equo e più efficiente.
Professore di economia a Harvard
(Traduzione di Rita Baldassarre)

Corriere 11.11.13
La Francia «neocon» che spiazza il mondo
Dall’Africa alla Siria all’Iran, Parigi scavalca Washington come gendarme d’Occidente
di Stefano Montefiori


PARIGI — Il demonio a Teheran oggi è Le Grand Satan , la Francia, che ha strappato all’America il primato di nemico occidentale preferito.
A Los Angeles invece «Stasera mangio French Fries», esulta l’ex portavoce americano alle Nazioni Unite, Richard Grenell, che 10 anni fa si indignava per il no di Chirac e Villepin alla guerra in Iraq e partecipava alla campagna di odio anti-francese (tra boicottaggio delle patatine al Congresso e litania di insulti ai «francesi arrendevoli scimmie mangiarane»)
I tempi sono cambiati. I falchi della politica internazionale sembrano non volare più a Washington ma a Parigi, e su tutti i dossier più delicati, dalla Siria all’Iran: il 31 agosto il presidente Hollande aveva già deciso per i raid aerei su Damasco, ed è stata solo la marcia indietro di Barack Obama a fargli disarmare i missili Rafale già pronti a colpire. La fiaccola del regime change , la formula neocon applicata dieci anni fa a Bagdad, è ora impugnata da Parigi, la prima a proclamare già un anno fa che «Bashar Assad se ne deve andare» da Damasco.
In Africa, dal Mali alla Repubblica Centrafricana, la Francia è in prima linea. In Medio Oriente è la Francia a tenere il discorso più intransigente sull’Iran, a evocare l’uso della forza per costringere gli ayatollah a rinunciare alla bomba atomica, mostrandosi in questo più vicina a Israele di quanto non faccia l’America, alleato storico dello Stato ebraico.
Il ruolo di baluardo degli interessi e valori dell’Occidente, almeno nel gioco diplomatico e della visibilità mediatica, sembra essere passato dagli Stati Uniti — che vogliono guidare from behind , dalla retroguardia — alla Francia, che teorizza il suo essere una «potenza di influenza»: con poche armate e pochissimi droni, è vero, ma con una rinnovata determinazione politica.
Così succede che Laurent Fabius sia giudicato il maggiore se non l’unico responsabile della mancata intesa alla fine dei colloqui di Ginevra tra i «5 + 1» ( Stati Uniti, Cina, Regno Unito, Francia, Russia più Germania) e Iran. La Francia non si è fidata delle aperture del ministro iraniano Zarif, e ha preteso una rinuncia esplicita al reattore di Arak, che una volta completato potrebbe fornire il plutonio sufficiente per fabbricare ordigni nucleari e rendere così ininfluente l’addio iraniano all’arricchimento dell’uranio.
Il Quai d’Orsay sostiene che nella bozza di accordo provvisorio — di una durata di sei mesi — discussa a Ginevra l’Occidente allentava sì le sanzioni all’Iran, ma in cambio non otteneva alcuno strumento concreto per fermare il programma atomico degli ayatollah. Meglio nessun accordo che un cattivo accordo, e Fabius si è precipitato ad annunciarlo per primo alla radio France Inter. Una esposizione di cui gode ora frutti, e svantaggi.
Il ministro degli Esteri francese raccoglie gli inabituali complimenti degli americani intransigenti — «La Francia ha avuto coraggio. Vive la France!» (il senatore conservatore John McCain) — e gli insulti di tanti iraniani che sabato notte si aspettavano l’inizio di una nuova era nei rapporti tra Teheran e l’Occidente.
Sul conto Twitter attribuito alla Guida suprema Ali Khamenei ieri sono ricomparse parole pronunciate a marzo, con le quali definiva «imprudente e inetta» l’ostilità francese verso l’Iran. E a Fabius arrivano via Facebook minacce in inglese e in persiano: da «occupiamo l’ambasciata francese a Teheran» a — di nuovo, ma stavolta all’altro capo del mondo — «boicottiamo le French Fries».

il Fatto 11.11.13
Socialismo elvetico
Svizzera, referendum sui ricchiNoi a picco, loro nuotano nei bonus
di Christian Levrat e Marina Carobbio Guscetti
*

Basta con le retribuzioni abusive. Si all'1:12. Lo scorso anno UBS ha registrato perdite per 2,5 miliardi di franchi. Contemporaneamente, ha versato 2,5 miliardi di franchi di bonus. Il solo banchiere d’affari Andrea Orcel ha incassato 26 milioni a titolo di “indennità di assunzione”. Uno svizzero con un salario medio dovrebbe lavorare 385 anni per conseguire la stessa somma.
Nel solo 1984 il capo di una grande impresa svizzera guadagnava in media circa sei volte più di un normale collaboratore. Oggi la retribuzione di un Ceo è 43 volte superiore a un salario normale. E mentre i manager si servono in modo sempre più sfacciato, i salari della grande maggioranza ristagnano. Per le famiglie è sempre più difficile pagare i premi dell’assicurazione malattia e gli affitti.
Con l’iniziativa 1:12 possiamo mettere un freno a questa evoluzione. La richiesta dell’iniziativa è semplice ed efficace: Nessun manager può guadagnare in un mese più di quanto guadagnano i suoi collaboratori in un anno. Per ottenere una retribuzione più elevata, un Ceo deve dunque alzare anche i salari più bassi pagati nella sua impresa.
L’iniziativa 1:12 chiede che il divario tra le fasce salariali torni nei limiti usuali fino a pochi anni fa anche nelle grandi imprese svizzere. La richiesta non crea alcun problema alle piccole e medie imprese ed impedisce in modo mirato vergognosi eccessi retributivi. Per questo votate si all’iniziativa 1:12 e dite basta alle retribuzioni abusive!"
*Christian Levrat è il presidente del Partito Socialista Svizzero; Marina Carobbio Guscetti è Vicepresidente Pss. Discorso di presentazione del referendum agli elettori svizzeri

il Fatto 11.11.13
Elvetici al voto
“Non potrai guadagnare tredici volte più di me”
di Alessandro Madron


Andrea Orcel, Ceo di UBS Investment Bank nel 2012 ha percepito un bonus d’entrata da 26 milioni di Franchi svizzeri (oltre 21 milioni di euro). Nel 2009 Brady Dougan, a capo di Credit Suisse, ha dichiarato un reddito record da 75 milioni di euro. Lo scorso anno l'amministratore delegato di Novartis, Joseph Jimenez, ha guadagnato oltre 13 milioni di franchi, mentre Peter Brabeck di Nestlé ne ha incassati più di 7.
Cifre che fanno girare la testa persino nella ricca Svizzera, dove i top manager delle grandi aziende guadagnano sempre di più in rapporto al salario dei loro dipendenti. È di fronte a questi numeri che i giovani socialisti dello Juso hanno formulato l’iniziativa “1 a 12 per salari più equi”. Un referendum su cui gli svizzeri si dovranno esprimere il prossimo 24 novembre per decidere se fissare per legge un tetto allo stipendio dei manager che, in caso di successo, non potrà superare di oltre dodici volte il salario minimo riconosciuto dalla stessa impresa. Un po’ come se in Italia Luca Cordero di Montezemolo, Marco Tronchetti Provera o Sergio Marchionne per legge non potessero guadagnare più di 240 mila euro l’anno, benefit compresi.
UNA PROSPETTIVA che ha scatenato una generale levata di scudi a difesa della libera iniziativa e contro le ingerenze dello Stato nell’economia. Ingerenze che, come ricorda il vicesegretario dello Juso Filippo Rivola, “non sono state un problema nel recente passato”, quando in pieno scandalo sub-prime “nessuno di questi signori ha protestato per il maxi prestito da 60 miliardi di franchi accordato dal Governo alla banca nazionale per salvare Ubs dal fallimento”, il tutto mentre i vertici delle banche continuavano a incassare lauti compensi. Quella stortura ha dato il “la” ai giovani dello Juso, che hanno raccolto le firme necessarie a promuovere il referendum: “Ne servivano 100 mila, alla fine ne sono state convalidate 117 mila, tutte trovate per strada, con i nostro piccoli mezzi”.
L’iniziativa 1:12 ha incassato una sfilza di critiche da partiti politici e associazioni di categoria. Ma non solo. Il Consiglio e l’Assemblea federale (il governo e il parlamento), chiamati a esprimersi su ogni proposta, hanno bocciato l’iniziativa, invitando il popolo a votare No, perché “una simile legge indebolirebbe il mercato del lavoro” oggi basato su un sistema molto flessibile. Inoltre, se l’iniziativa venisse accettata “le grandi imprese con i top manager potrebbero lasciare il paese”. Secondo Toni Brunner, presidente del comitato per il No, l'invidiato benessere svizzero "non è scontato" e quindi “va difeso”. Bernhard Salzmann, portavoce dell’Sgv (l’associazione delle Pmi svizzere), ha posto l’accento sul fatto che i manager super pagati sono poche decine e “certamente troveranno soluzioni per aggirare la regola”, privando però le casse dello stato di importanti risorse che oggi vanno a vantaggio dei meno abbienti.
Le 300 imprese svizzere quotate in borsa (lo 0,15% del totale) impiegano circa il 20% della forza lavoro, producono il 31% delle esportazioni e oltre metà delle spese di ricerca e sviluppo. Numeri importanti di fronte ai quali i poteri forti agitano lo spauracchio della delocalizzazione, facendo leva sulle paure del cittadino medio. Tuttavia i segnali di cambiamento sono evidenti. Gli stipendi scandalosi non piacciono all'uomo della strada e lo si è capito con l’iniziativa Minder, quella approvata - sempre per via referendaria - lo scorso marzo, che ha imposto un aumento del controllo da parte degli azionisti sui Cda delle aziende, anche in materia di retribuzioni. Inoltre non tutti i manager bocciano la proposta. Alexandre Bennouna, Ceo di Victorinox Watch - 120 dipendenti, 100 milioni di fatturato e una radicata tradizione nel campo della responsabilità sociale d’impresa - ha dichiarato pubblicamente il proprio sostegno all'iniziativa: “Ogni lavoro merita di essere pagato. Un quadro ha delle responsabilità, situazioni difficili da affrontare ed è quindi ricompensato di conseguenza. Ma il dirigente è nulla senza la sua squadra”. Secondo Bennouna il divario salariale è necessario di fronte a diversi livelli di responsabilità, tuttavia “deve rimanere dentro una forbice che corrisponde bene all'impegno di ognuno”.
Oggi la Svizzera è un paese molto diverso da quello che alberga nell'immaginario collettivo. Nella Confederazione ci sono crescenti sacche di povertà relativa, come spiega il sindacalista Igor Cima (Unia), che sostiene il Sì al referendum: “La situazione dagli anni Novanta in poi è peggiorata e non è vero che qui stanno tutti bene”. Tra affitti alle stelle e premi assicurativi sempre più alti, i salari non bastano più: “Esistono differenze retributive enormi, anche tra i diversi cantoni”.
L’ESITO del voto sull'iniziativa 1:12 non è per nulla scontato. Gli ultimi sondaggi parlavano di un testa a testa con un elevato numero di indecisi. Non c'è quorum ma per centrare il risultato occorre una doppia maggioranza (di votanti e di cantoni) e la statistica sta con i conservatori.
In Svizzera si votano ogni anno una decina di referendum sui temi più disparati e in più della metà dei casi hanno vinto i No. Si è votato ad esempio contro la costruzione di nuove moschee, per l’esportazione di armi e contro il divieto di fumo nei locali. Tra i quesiti di novembre anche quello che fisserà il nuovo prezzo del bollino autostradale. In Italia l’esito sarebbe scontato, tutti contro l’aumento, ma gli elvetici potrebbero invece votare per il rincaro.
Insomma, in Svizzera chiunque può proporre un testo da sottoporre al giudizio del popolo e l'esito è vincolante.
Comunque vada il referendum sugli stipendi dei top manager nella partita per l’equa distribuzione della ricchezza resta ancora molto da giocare, tanto che a Berna si parla già di salario minimo garantito e reddito di cittadinanza.

il Fatto 11.11.13
Tradizione secolare
Il popolo può votare su tutto


Il referendum in Svizzera è un istituto ultracentenario. Dal 1848 può essere richiesto con 50 mila firme per modificare ogni progetto di legge o decreto adottato dall’Assemblea Federale (il parlamento). Dal 1891 è stato introdotto il diritto di iniziativa popolare che prevede la possibilità di sottoporre al voto la modifica di una legge costituzionale (servono 100 mila firme). Il voto referendario è molto diverso da quello italiano. Non c’è quorum e le decisioni vengono prese su un piano molto concreto , si aggiunge un articolo o lo si modifica e potenzialmente può riguardare tutto (tranne il bilancio federale). I cittadini ricevono a casa un libretto di spiegazioni del Consiglio Federale (nella lingua preferita) dove sono elencate le ragioni dei promotori con il testo di legge, la posizione del parlamento (con tanto di esito del voto dettagliato), quella del governo e l’eventuale controproposta. Una decina di pagine che danno la possibilità di capire con chiarezza e trasparenza cosa si andrà a votare.

il Fatto 11.11.13
La costituzionalista
“In Italia l’esito del voto è stato spesso manipolato”
di Emiliano Liuzzi


La Svizzera non è l’Italia: lì la democrazia dal basso ha delle fondamenta che nel nostro Paese non esistono. Nonostante le parole di Einaudi in Assemblea Costituente “ il Parlamento non è il popolo” lo spazio rimasto a quest’ultimo è sempre più stretto. Lo spiega Lorenza Carlassare, giurista e costituzionalista, professoressa emerita di diritto costituzionale all'Università di Padova.
In Svizzera decidono se applicare un tetto agli stipendi dei manager: in Italia l’argomento è discusso, sarebbe possibile?
No se non esiste un atto legislativo sulla materia. Da noi il referendum sarebbe solo abrogativo. Dico sarebbe perché poi la Corte costituzionale ha ammesso la sostituzione di alcune parti o parole nella legge anziché l’abrogazione totale e di conseguenza alcune modifiche. Questo è un punto. Poi c’è la classe politica.
In che senso: la classe politica può interferire sulla volontà espressa attraverso referendum?
Non dovrebbe, ma è successo. La classe politica ha manipolato molto spesso la volontà del popolo, sia nel corso dei referendum - svolto talora senza la dovuta informazione - sia dopo, quando la volontà espressa nel voto è stata totalmente disattesa.
Si riferisce ai referendum sull’acqua pubblica?
Questo è soltanto l’ultimo di una lunga serie di esempi che potremmo fare. Ma non il solo.
Due capisaldi restano il divorzio e l’aborto: grandi battaglie referendarie che hanno visto la vittoria della volontà popolare e il suo necessario rispetto.
Sì, ma si tratta di due esempi di quesiti referendari molto chiari. Non c’era una possibilità di manipolazione della risposta. E c’era soprattutto una volontà popolare davanti alla quale i partiti di allora dovettero inchinarsi. Non avevano nessuna possibilità di stravolgere l’esito referendario.
Avrebbero potuto provarci?
Difficilmente. Succede oggi che lo facciano.
Come?
In maniera molto semplice: ignorando l’esito della consultazione. Dal 1990 in poi è successo più di una volta, ed è passato quasi in silenzio. Sicuramente possono esistere perplessità sull’uso dello strumento referendario, perché non consente sfumature e soluzioni intermedie. Il referendum è questo: abrogare o meno una legge, un sì o un no. Se invece l’idea di partenza è quella di stravolgere una norma esistente diventa molto complicato. Poi ce un grosso limite del quale soffrono i referendum in Italia: l’incertezza sulla durata del divieto per il Parlamento di riprodurre o ripristinare la norma abrogata.
In che senso?
La Corte costituzionale ha chiarito che una legge abrogata attraverso un referendum non può essere ripresentata, ma non dice, giustamente, per quanto tempo: ci potrebbero essere dei cambiamenti sociali, delle circostanze che comunque portano al ripensamento perché sono i tempi che lo impongono. In questo caso reintrodurla sarebbe legittimo. Ma dall’incertezza sul tempo possono derivare abusi parlamentari.
Lo strumento referendario oggi è più debole di quanto poteva esserlo trenta o quaranta anni fa?
Assolutamente. È un dato di fatto.
E di chi è stata la colpa?
Della classe politica, del poco rispetto che dimostra verso la volontà del popolo ‘sovrano’, che ha sempre provato a manipolare con volontà e determinazione quello. Dal concetto di Einaudi che dice come il parlamento non sia il popolo, si è passati all’esatto opposto. la volontà popolare con il voto è diventata una carta di credito in mano ai politici. L’altro elemento è stata la poca chiarezza. E in questo caso la colpa è stata sia dei comitati che hanno proposto i quesiti, sia del tentativo, poi, di sfruttare il risultato referendario da parte di un partito o di un personaggio politico. Con la conseguenza naturale di un grande pasticcio. O di una grande manipolazione: penso, per motivi diversi, alla privatizzazione della Rai e alla scala mobile, se vogliamo tornare al passato. E’ certo che, se usato in modo corretto, accompagnato da un’informazione adeguata il referendum è un’importante integrazione delle democrazia rappresentativa, specialmente in tempi come questi in cui tanto forte è la scarto fra partiti e opinione pubblica.

l’Unità 11.11.13
Dialogo col papà ateo
Educazione etica per bimbi senza divinità
Il libro di Clemente García Novella economista e scrittore affronta domande cruciali sull’esistenza con sguardo antropologico
di Manuela Trinci


È UN LIBRO CHE STRAPPA LA PELLE. BELLISSIMO. DOLENTE E FIERO. Con scrittura lucida e appassionata, trascinante nel ritmo e intessuta di citazioni affilate, spazza via qualsiasi retorica, qualsiasi morbida consolazione che alle spalle di biondi e ricciuti bebè ci sia l’angelo custode e che dopo, dopo il mondo, ci sia un altro mondo: quello di Dio, degli dei, delle anime.
Così in un’epoca di valori opachi in cui riecheggiano in ogni dove e aprono alla speranza le parole di Papa Francesco un uomo sereno, franco; un uomo di pace -, parole che richiamano alla solidarietà autentica e all’amore dell’Altro nel nome di Dio, Clemente García Novella nel suo imperdibile Dio esiste papà? Le riposte di un padre Ateo (Ponte alle Grazie, pagg. 230, Euro 13) ha il coraggio di chiedersi e di affrontare con i bambini e per i bambini quelle che al fondo si possono considerare le domande nodali nell’«educazione all’etica»: Si può essere felici senza credere negli dei? Si può essere buoni senza credere negli dei?
L’ignoto ci fa paura e la morte è quanto di più oscuro esista, sostiene Novella, che non è un filosofo, né un antropologo, né uno storico, un sociologo o un biologo, bensì un economista, uno scrittore e, per quel che ci interessa, soprattutto un padre attento a che i bambini, tutti i bambini del mondo, possano crescere nella consapevolezza che non c’è nessun vestito sopra la pelle nuda, e che la questione più affascinante è come vivere la vita nel modo migliore possibile, e non se ci sia o meno un’altra vita dopo la morte. Partendo dal presupposto che non sia stato un dio a creare il mondo e l’umanità, bensì che siano stati gli esseri umani, con la propria immaginazione e le proprie primordiali esigenze, ad aver creato, inventato, tutti gli dei della storia obbedendo, dunque, alla logica del bisogno e del desiderio, Novella, certo senza dar luogo a un «catechismo ateo», spiega l’ateismo ai bambini sostenuto dalla convinzione che ai bambini debba essere insegnato non tanto a essere atei, quanto piuttosto a rifiutare il dogmatismo e le ideologie preconfezionate, condividendo così totalmente le parole che il filosofo scozzese James Beattie scrisse più di due secoli fa: «Lo scopo dell’educazione dovrebbe essere di insegnare come pensare, prima ancora di insegnare che cosa pensare».
I cristiani educano i propri figli a essere cristiani, e così i musulmani, gli ebrei, gli induisti... gli atei no perché i bambini nascono atei e vanno protetti da «qualunque indottrinamento e qualunque convincimento imposti da altri». Per questo Clemente García Novella non approva l’insegnamento della religione (o meglio, che s’insegnino in quanto certezze i princìpi dogmatici di una religione specifica) nelle scuole. Sostiene invece, nel libro, l’importanza di acquisire, da parte dei bambini, in una prospettiva antropologica e sociologica, i «fenomeni religiosi» convinzioni, dottrine, usi e rituali religiosi utili per apprendere poi che esistono altri popoli, con altre tradizioni, altri modi di vivere, religioni altrettanto valide, o prive di fondamento, come quelli del nostro angolo di mondo. Ed è triste che questo non accada commenta Novella, mentre, in maniera esemplare, da un lato offre ai bambini e ai ragazzini un panorama vastissimo di possibili risposte alle ineludibili domande che vivere pone (esiste l’inferno? E l’anima? Chi ha creato il mondo? Perché si prega? Cosa sono i miracoli? E gli atei? Chi sono? ....) dall’altro sollecita nei genitori (in un percorso attraverso i valori e i principi che definiscono e fondano la vita delle persone per bene) la riflessione che, di sicuro, credere negli dei mitiga la paura, consola dinanzi alla morte delle persone amate, conferisce un dominio indiretto sulla natura e offre una spiegazione del mondo, eppure il modo migliore per placare le paure, in parte anche istintuali, «non è costruire fantasie, fuggire dalle nostre ansie, ma affrontarle». Un richiamo importantissimo contro l’anestesia al pensiero, il torpore emotivo e l’egoismo che ammorbano la contemporaneità.
Essere svegli non è terribile, annota ancora Novella. E pur se la vita talvolta può sembrare insensata: «La grandezza di un essere umano suggeriva Camus non consiste proprio nel tentativo di darle un senso?»


Corriere 11.11.13
Lo scontro Londra-Berlino incominciò nel Sudafrica
Il conflitto anglo-boero premessa della Grande guerra
di Paolo Mieli


Secondo quello che ai tempi era l’ambasciatore inglese in terra tedesca, Edward Goschen, fu nel 1896 che i rapporti tra Gran Bretagna e Germania s‘incrinarono in modo definitivo. Fu quando il Kaiser Guglielmo II mandò un dispaccio di congratulazioni al presidente del piccolo Stato indipendente del Transvaal, Paul Kruger, per il modo con cui aveva vinto una battaglia. Tutto qui? Il fatto è che l’imperatore tedesco, nipote della regina Vittoria, si complimentava per «il valore» con cui gli Afrikaner avevano sconfitto un manipolo di soldati britannici guidati da L.S. Jameson. L’Inghilterra pagava anche così l’imprudente scelta di essersi imbarcata in una guerra contro lo Stato libero dell’Orange e il Transvaal, due piccoli Paesi Afrikaaner in Sudafrica. Sembrava un’impresa da poco, ma i «nemici» si erano rivelati duri da battere (si sarebbero arresi solo nella primavera del 1902). Contro le loro genti, dalla Gran Bretagna furono adottate tecniche brutali: il generale Kirchener fece rinchiudere in campi di concentramento anche donne e bambini, dopodiché quei campi si trasformarono in focolai di malattie e morte. Fu così che in Europa prese a crescere la solidarietà alle «vittime degli inglesi». Accadde addirittura che, in occasione dell’Esposizione di Parigi del 1900, gli abitanti di Marsiglia accogliessero tra feste e applausi una delegazione di rappresentanti del Madagascar, scambiati per Afrikaaner. Effetti perversi — secondo gli inglesi — del «telegramma a Kruger».
«Il gesto di Guglielmo II è molto grave», scrisse il «Times» a ridosso dell’iniziativa dell’imperatore tedesco, «è un chiaro segnale di inimicizia nei confronti del nostro Paese». Lord Robert Gascoyne-Cecil Salisbury, primo ministro, informato di quel telegramma mentre era a tavola ad una cena di gala, commentò in modo che tutti potessero sentire: «Che faccia tosta!». La faccia tosta era quella dell’imperatore di Germania, nipote per via materna — come si è detto — della regina Vittoria (la quale discendeva, a sua volta, da ben due famiglie reali tedesche: gli Hannover per parte di padre e i Sassonia-Coburgo per parte di madre) e che, se la storia fosse andata in modo diverso, avrebbe potuto sedere sul trono di Inghilterra invece che su quello della Germania.
I sovrani inglesi lo avevano considerato un «parente stretto», tant’è che era stato nominato colonnello onorario dei cavalieri britannici. Su presentazione di suo zio Edoardo fu poi iscritto al Royal Yacht Club: Guglielmo lo considerò un grandissimo onore, comprò un’imbarcazione e nei primi anni Novanta si presentò ogni estate per la regata annuale di Cowes. Competizione che l’imperatore tedesco prese molto sul serio, al punto da sostenere in maniera sempre più insistente che il sistema degli handicap penalizzava il suo yacht. Al che suo zio reagì con irritazione: «Un tempo la regata di Cowes era un piacevole passatempo… Adesso che il Kaiser si è impadronito della situazione, è solo una gran scocciatura». Ma il Kaiser non capì. Una volta che, nel 1904, Edoardo VII andò a trovarlo nella base navale tedesca di Kiel, Guglielmo ne fu così entusiasta che propose tre hurrah per il re inglese. La risposta di Edoardo fu imbarazzata: «Caro Willy, sei sempre stato così affettuoso e caro nei miei confronti che fatico a trovare parole per ringraziarti a dovere della tua gentilezza». Il cancelliere Bülow vietò ai cronisti di dare notizia delle effusioni di Guglielmo (nonché, ovviamente, della gelida reazione di Edoardo).
Al di là dei vincoli dinastici, Germania e Gran Bretagna erano sembrate fino a quel momento fatte apposta per intendersi. A metà Ottocento, la simpatia dell’una nei confronti dell’altra era evidente. Thomas Carlyle, all’atto della fondazione della Germania (1871), sentenziò: «La nobile, paziente, pia e solida Germania si avvia finalmente a diventare una sola nazione e a rivendicare il rango di regina del continente, scalzando la nevrotica, vanagloriosa, gesticolante, rissosa, inquieta e ipersensibile Francia… Questo è l’evento politico più incoraggiante di cui io abbia avuto il privilegio di essere testimone». Ma quando nel 1896 conobbero il testo del telegramma a Kruger, i «commilitoni» inglesi del Kaiser stracciarono il suo ritratto e ne gettarono i brandelli nel caminetto. L’ambasciatore tedesco a Londra, Paul Hartzfeld, trasmise a Berlino questo dispaccio: «Lo scandalo è stato talmente violento che se gli uomini di governo perdessero la testa, o avessero motivi di qualunque genere per dichiarare guerra (alla Germania, ndr ), l’intera nazione li appoggerebbe. Questo è poco ma è sicuro». In Inghilterra si sparse la voce che alcuni ufficiali tedeschi si stessero arruolando negli eserciti boeri. Non era vero, ma l’opinione pubblica, la nuova importante protagonista di questa fase storica, si mostrò disposta ad accogliere questa «notizia» come una verità rivelata.
Anche in Germania l’opinione pubblica si lasciava trascinare nei gorghi dell’ostilità verso i «parenti inglesi». Scriveva il principe tedesco Bernhard von Bülow, futuro cancelliere, a Gottfried Hohenlohe, cancelliere in carica: «È davvero una disgrazia che la popolazione tedesca detesti la Gran Bretagna in modo così viscerale e profondo; è un sentimento molto pericoloso; se l’opinione pubblica d’Oltremanica si rendesse conto di quello che i nostri connazionali pensano davvero di loro, l’idea che si è fatta dei rapporti anglo-tedeschi cambierebbe radicalmente». La marina britannica sequestrò tre imbarcazioni postali tedesche, sospettate di trasportare materiale bellico destinato ai boeri. Secondo quanto riferito dal diplomatico tedesco Hermann von Eckardstein, il carico «più pericoloso a bordo di quelle imbarcazioni era una partita di formaggio svizzero». Ma le autorità inglesi tardarono a dissequestrare le navi tedesche e il governo di Berlino accusò quello di Londra di aver violato le leggi internazionali.
Margaret MacMillan in 1914. Come la luce si spense sul mondo di ieri, che, nell’ottima traduzione di Francesco Peri, sta per essere dato alle stampe da Rizzoli, dà credito a questa tesi: fu la rottura dell’asse anglo-tedesco che ruppe gli argini e fece precipitare il continente verso l’immane conflitto. A partire da ciò che cambiò gli equilibri tra le due potenze: sotto la guida dell’ammiraglio Alfred Tirpitz la Germania divenne una grande potenza militare marittima. Nel 1902, lord Selborne, omologo britannico di Tirpitz, dichiarò: «La nuova marina militare tedesca sembra progettata su misura per muoverci guerra». Ma ci fu anche dell’altro.
Nel 1898 la Gran Bretagna ingarbugliò le difficili trattative sulle colonie portoghesi e il Kaiser reagì con un duro memorandum: «Lord Salisbury è un autentico gesuita! La sua condotta è aberrante e sfacciata». Dopodiché i dispetti reciproci non si contarono. Salisbury rifiutava di riconoscere le pretese della Germania sulle isole Samoa e i tedeschi ne fecero un caso, provocando stupore negli osservatori più raffinati: «Fino a ieri quasi nessuno dei nostri bravi politici da osteria avrebbe saputo dire se la parola “Samoa” indicasse un pesce, un uccello o una regina straniera», ironizzò Eckardstein, «eppure oggi urlano tutti a squarciagola che, di qualunque cosa si tratti, è sempre stata tedesca e deve rimanere tedesca». Guglielmo scriveva indispettito alla madre di sua madre, la regina Vittoria: «Il disprezzo con cui il vostro primo ministro tratta gli interessi e i sentimenti della Germania ha colpito la popolazione come una scossa elettrica; la gente ha iniziato a pensare che Salisbury tenga più al Portogallo, al Cile, alla Patagonia che a noi… Se lord Salisbury continuerà a trattare la Germania come un tiranno presuntuoso, temo che le incomprensioni e le recriminazioni tra i nostri due Paesi rischierebbero di diventare croniche, i rapporti si guasterebbero irrimediabilmente». Al che la regina rispose: «L’unica spiegazione che posso dare al tono con cui parlate di lord Salisbury è un momentaneo accesso di irritazione; non posso ammettere che abbiate scritto parole simili a mente fredda e dubito proprio che un sovrano si sia mai rivolto in tono così insolente a un altro sovrano, e per giunta alla sua stessa nonna, al solo scopo di criticare l’operato del suo primo ministro».
Effetti di grandi cambiamenti che risalivano a molti anni prima. Nel 1800 l’Europa controllava il 35 per cento del globo terrestre, nel 1914 la percentuale sarebbe salita all’84 per cento. All’epoca nessuno credeva possibile una guerra come quella incombente. Annota Stefan Zweig in Il mondo di ieri (pubblicato due anni dopo la sua morte, nel 1944) descrivendo il modo di sentire del ceto medio austriaco ai primi del Novecento: «Non si temevano ricadute barbariche come le guerre tra i popoli europei, così come non si credeva più alle streghe e ai fantasmi; i nostri padri erano tenacemente compenetrati dalla fede nella inarrestabile forza conciliatrice della tolleranza». Gli europei dell’epoca, salvo lungimiranti eccezioni, «non erano consapevoli del fatto che le loro decisioni e le iniziative dei loro leader stavano drasticamente riducendo il ventaglio delle scelte possibili, tanto che ben presto non sarebbe rimasta che una sola alternativa». Certe credenze e certi valori, scrive Margaret MacMillan, «erano talmente ovvi da non venire neppure mai esplicitati». Forse la scienza avrebbe potuto indurre a qualche riflessione di maggiore prudenza.
Le ricerche di Albert Einstein e dei suoi colleghi sulla fisica delle particelle atomiche e subatomiche avevano iniziato a mostrare che «il mondo visibile e materiale riposava su fenomeni imprevedibili ed eventi aleatori». Insieme agli antichi modi di guardare alla realtà, «anche la razionalità era entrata in crisi». Lo studio della psiche (Sigmund Freud) e la nuova sociologia (Gustave Le Bon) dimostravano che «gli esseri umani sono mossi da forze inconsce più che da decisioni consapevoli, come fino a quel momento si era creduto». La civiltà europea era pervasa da tensioni distruttive. L’aristocratico tedesco Harry Kessler, nel corso di una visita in Giappone, annotò sul suo taccuino: «Dal punto di vista intellettuale e forse anche da quello morale — ma non ne sono affatto sicuro — siamo migliori di loro, ma per quanto riguarda la vera civiltà, quella interiore, i giapponesi sono infinitamente più progrediti di noi».
A innervosire l’Inghilterra provvedeva poi un altro Paese «cugino»: gli Stati Uniti. Ancora nel 1890, persino il Cile vantava una marina militare più forte di quella americana. Ma nei dieci anni successivi si ebbe una svolta: nel 1895 il segretario di Stato Richard Olney intervenne nella disputa sui confini della Guyana tra la Gran Bretagna e il Venezuela (dando ragione a Caracas) con un netto avvertimento: «La sovranità degli Stati Uniti su questo continente è oggi praticamente indiscussa, e i loro decreti, quando l’America sceglie di pronunciarsi, hanno validità di legge». Salisbury lì per lì si irritò, ma poi piegò il capo. E quando nel 1898 gli Stati Uniti strapparono alla Spagna Cuba, Portorico e assunsero il controllo delle Filippine, la Gran Bretagna non fece una piega. Dopodiché Londra rinunciò a cofinanziare la costruzione del canale di Panama e ritirò la flotta dei Caraibi.
Poi, dopo l’uccisione da parte di un anarchico del presidente americano William McKinley nel 1901, fu il suo successore, Theodore Roosevelt, che fin dal suo primo discorso al Congresso disse: «Che ci piaccia o meno, dobbiamo riconoscere che ai nostri diritti internazionali si affiancano da oggi doveri internazionali». E la flotta americana, che nel 1898 contava 11 navi da guerra, nel 1913 era più che triplicata (36 navi da guerra), seconda solo a quelle tedesca e britannica. Nasceva allora l’America che avremmo visto all’opera nel Novecento e nel primo decennio del secolo attuale. Se ne rese conto Salisbury, che nel 1902 scriveva: «È terribile, ma temo che l’America continuerà a fare passi da gigante, c’è poco da fare, non tratteremo più da pari a pari; se fossimo intervenuti nella Guerra civile (dalla parte dei confederati del Sud come lui stesso avrebbe voluto, ndr ), forse sarebbe ancora stato possibile ridurre la potenza degli Stati Uniti a proporzioni gestibili, ma occasioni del genere si presentano soltanto una volta nella storia di un Paese».
Nello stesso tempo la Francia aveva stretto relazioni sempre più forti con la Russia. Nel 1891 lo Zar insignì il presidente francese della più alta onorificenza russa. Nell’estate la flotta francese effettuò una visita di cortesia alla base navale russa di Kronstadt e in quell’occasione il mondo assistette «a una scena a dir poco inverosimile»: lo Zar sull’attenti mentre una banda suonava la Marsigliese , che, essendo un «inno rivoluzionario», in Russia era fuorilegge.
La Francia dell’epoca era molto attiva, talché Londra si era convinta che per l’Inghilterra esistesse in concreto una «minaccia francese». Alcuni ufficiali, ricorda MacMillan, «andavano ripetendo fin dagli anni Ottanta che la Francia, se lo avesse desiderato, avrebbe potuto debellare le forze navali britanniche nella Manica e invadere l’isola in forze». Lo stesso Salisbury, in un memorandum ai suoi ministri (1888), scriveva che, «guidati da un militare di quelli che le rivoluzioni trasformano in imperatori», i francesi avrebbero avuto l’opportunità di sbarcare in terra britannica un sabato sera qualsiasi, «mentre i sudditi della regina si godevano il fine settimana». Con l’aiuto di «due o tre patrioti irlandesi», gli invasori avrebbero potuto tagliare i fili del telefono e prendere Londra prima che l’esercito britannico avesse il tempo di reagire. Dopodiché con piglio snobistico Salisbury continuò a passare le vacanze in Francia. Però i due Paesi furono sul punto di scontrarsi per i possedimenti africani: la contesa si risolse quando l’Inghilterra prevalse in Egitto e la Francia si prese Tunisia e Madagascar. Ma Salisbury non dava eccessivo peso alle controversie mediorientali e africane. Al suo proconsole in Egitto, sir Evelyn Baring, suggerì in un certo senso di trascurarle: «Non si lasci ingannare da quello che sente dire dai militari sull’importanza strategica di quelle zone; se lasciassimo fare a loro, insisterebbero per costruire un avamposto sulla Luna contro possibili minacce da Marte».
Più consistente fu a Londra l’idea di poter subire un’invasione tedesca. Soprattutto nell’estate del 1908, quando la flotta germanica fece importanti manovre nelle acque dell’Atlantico. Nel mese di luglio la «Quarterly Review» pubblicò un articolo, scritto in forma anonima dal redattore capo del prestigioso «Observer», in cui si sosteneva che ufficiali della marina di Berlino avessero «sondato i nostri porti», li avessero ridisegnati palmo a palmo, avessero «studiato ogni increspatura delle nostre coste». Inoltre 50 mila tedeschi «travestiti da camerieri» sarebbero stati «già in posizione in territorio britannico, pronti a entrare in azione al primo segnale». Il viaggio in Svizzera del conte Zeppelin, a bordo del suo nuovo dirigibile, aveva dato occasione ad altri articoli che paventavano nuove e più moderne minacce da parte della Germania.
All’inizio del Novecento sembra che i rapporti tra Gran Bretagna e Germania possano ristabilirsi. Nel 1900 Salisbury si dimette da ministro degli Esteri e lascia la politica internazionale dell’Inghilterra nelle mani di suo nipote, Arthur Balfour, e del segretario di Stato per le colonie, Joseph Chamberlain. Nel 1901 Chamberlain confida a un diplomatico tedesco a Londra di «vedere di buon occhio l’idea di una maggiore cooperazione con la Germania», lasciando intendere addirittura di stare valutando la possibilità di un ingresso dell’Inghilterra nella Triplice Alleanza, che teneva legate Germania, Austria-Ungheria e Italia. Balfour era d’accordo, perché ai suoi occhi «il nemico della Gran Bretagna era l’asse franco-russo». E anche per qualche motivo in più: «È assolutamente decisivo per gli interessi britannici che l’Italia non venga schiacciata, che l’Austria non venga smembrata e che la Germania non venga soffocata a morte tra il martello russo e l’incudine francese».
Forse si sarebbe potuto procedere in questa direzione, se non si fosse messa di traverso ancora una volta quella che è la grande protagonista di questo libro di Margaret MacMillan: l’opinione pubblica. Lo aveva notato già Salisbury quando nel 1897 la Germania aveva ottenuto da Pechino una concessione per lo sfruttamento del porto di Tianjin e la Russia aveva invaso la Manciuria: «La cosiddetta “opinione pubblica” vuole un premio di consolazione in Cina, un pezzetto di terra o qualche segnetto sulla carta geografica», scriveva il primo ministro inglese. «Quel contentino ci costerà molto caro e non servirà a nulla, eppure bisogna cedere al sentimentalismo».
Sia in Gran Bretagna che in Germania l’opinione pubblica, scrive MacMillan, «si stava trasformando in una forza che nessuno poteva permettersi di ignorare». Tra l’autunno e l’inverno del 1901-1902, entrambi i Paesi reagirono con stizza a uno screzio in sé piuttosto futile, tra Bülow, ora cancelliere del Reich, e Joseph Chamberlain. Parlando a Edimburgo Chamberlain disse che la Germania, all’epoca della guerra franco-prussiana di trent’anni prima, si era comportata in maniera assai peggiore di quanto avesse fatto la Gran Bretagna alle prese con gli Afrikaaner (una ritorsione per il telegramma a Kruger). Bülow, furibondo, eccitò il proprio Paese riproponendo una celebre espressione di Federico II il Grande, secondo cui chiunque avesse osato criticare l’esercito tedesco si sarebbe «frantumato i denti su un pezzo di granito». Al che Chamberlain, parlando nel suo feudo elettorale di Birminghan, rispose secco: «Ho detto quel che ho detto; non intendo rimangiarmi le mie parole; non sto giudicando nessuno; non voglio difendere l’operato di nessuno; non avevo alcun intento di dare lezione a una carica politica straniera, e quindi non sono disposto ad accettarne». La risposta degli astanti fu un’ovazione.
L’opinione pubblica fece, dunque, la sua parte nel favorire un clima propenso alla guerra. È molto difficile, avverte Margaret MacMillan, «pronunciarsi su temi così delicati per epoche in cui non esistevano ancora i sondaggi di opinione, ma a grandi linee si può affermare che, a cavallo tra i due secoli, l’opinione delle élite di governo (ambienti diplomatici, parlamentari e militari) andava assumendo una coloritura sempre più ostile, dall’una e dall’altra parte».
Nel 1896 un fortunatissimo pamphlet del giornalista inglese E.E. Williams, Made in Germany , descriveva uno scenario da brivido: «Una titanica potenza commerciale ha iniziato a minacciare la nostra prosperità e a contenderci le flotte mercantili del mondo». «State attenti, inglesi», avvertiva l’autore: «I giocattoli, le bambole, i libri di fiabe che i vostri figli bistrattano nella loro cameretta sono fabbricati in Germania, anzi è molto probabile che il materiale con cui si stampa il vostro giornale (patriottico) preferito sia importato dallo stesso Paese». L’intero arredamento domestico, dalle decorazioni in porcellana all’attizzatoio per il caminetto, tutto era di fabbricazione tedesca. Di più: «Vostra moglie rincasa a mezzanotte da un teatro dove è andata in scena un’opera tedesca, con cantanti tedeschi, musicisti tedeschi e un direttore d’orchestra tedesco. Perfino gli strumenti e gli spartiti vengono direttamente dalla Germania». Temi destinati a fare grande presa. Tanto più che venivano diffusi e amplificati da un nuovo sistema di comunicazioni di massa.
Il direttore dell’ufficio stampa del ministero degli Esteri tedesco osservò in quel momento che i rapporti internazionali non erano più appannaggio di «piccoli ed esclusivi circoli di raffinati diplomatici». Le scelte politiche dei governanti, scriveva, «ormai sono influenzate dall’opinione pubblica nazionale in una misura che fino a pochi decenni fa sarebbe stata inconcepibile». Nel 1903 un «rispettabile funzionario» inglese di nome Erskine Childers pubblicò il suo primo e unico romanzo, L’enigma delle sabbie , che prefigurava un’invasione tedesca. Ebbe un successo strepitoso.
Si diffuse l’ossessione che dalla Germania potessero essere bloccati financo i rifornimenti alimentari. E fu il «terrore della carestia». Nel corso di una riunione dello United Services Institute, un generale dell’esercito inglese così descrisse le «probabili» conseguenze del blocco di cui si è detto: «Le masse popolari dell’East End marcerebbero sul West End saccheggiando le nostre case, strappando il pane dalle bocche dei nostri figli… “Se proprio dobbiamo crepare di fame, giustizia vuole che crepiamo tutti insieme”, andrebbero ripetendo». Il romanziere William Le Queux pubblicò un libro di grande successo, L’invasione del 1910 , che uscì a puntate sul «Daily Mail». Per far entrare all’istante nella testa del pubblico chi fossero gli «invasori» di cui si parlava nel romanzo, il giornale sguinzagliò per tutta Londra strilloni travestiti da militari prussiani, «con tanto di elmetti a punta e uniformi blu». L’effetto fu quello di generare una vera e propria psicosi di massa.
«La buona società approfitta di ogni minimo pretesto per sparlare di noi e forse lo stesso accade negli strati inferiori della popolazione, tra le masse dei lavoratori», riferiva a Berlino nel 1903 l’ambasciatore tedesco a Londra, Paul Metternich. «Lo strato intermedio, quello degli uomini che lavorano con il cervello e la penna, ci è quasi totalmente ostile». Ostilità che fu accresciuta — non solo tra gli inglesi — a causa dei comportamenti stravaganti del Kaiser. Comportamenti fuori misura di un uomo manesco. Una volta Guglielmo diede «una sonora sberla» (a mo’ di burla, si giustificò) al granduca di Russia Vladimir. Il suo uomo di fiducia Robert Zedlitz si affrettò a precisare che si trattava di uno scherzo. Ma poi annotò: «Era impossibile non notare che gli ospiti di sangue reale e imperiale non gradivano granché quella disinvoltura e temo proprio che l’imperatore abbia gravemente offeso più di una testa coronata con le sue marachelle… Come poteva credere che si divertissero anche loro?». In un’altra occasione, sempre secondo Zedlitz, il re di Bulgaria, sul cui appoggio politico la Germania contava molto, se ne andò da Berlino «schiumante di rabbia» dopo che il Kaiser, in un’occasione pubblica, gli aveva assestato una sonora pacca sul fondoschiena. Il sovrano si divertiva a far travestire da donna i suoi soldati. E non solo loro. Di ritorno da una gita in compagnia di Guglielmo II, Alfred von Kiderlen annotò: «Ho fatto il nano e spento le luci, il Kaiser ha riso come un matto; ho improvvisato assieme a C. una canzoncina in cui facevamo i gemelli cinesi, legati da una lunghissima salsiccia». Nel 1908 il capo di gabinetto del ministero della Guerra morì di infarto mentre ballava di fronte all’imperatore «indossando un tutù e un cappello piumato».
Quanto alla moglie del Kaiser, la duchessa Augusta Vittoria detta Dona (che diede al marito sette figli), «non poteva soffrire gli inglesi, aveva idee molto conservatrici e praticava la più rigida religione protestante, al punto da non ammettere in casa servitori cattolici». Se qualcuno era sospettato di condotta scandalosa, non veniva più invitato a corte. I berlinesi «erano ormai abituati a vedere il convoglio reale che ripartiva in fretta e furia dai teatri prima della fine di una rappresentazione, perché Dona aveva trovato moralmente disdicevole questo o quel dettaglio». Guglielmo II poi era alquanto irascibile: «Bisogna tenere ben salda la cordicella, altrimenti lo sa il cielo dove andrà a finire», diceva di lui Bismarck, paragonandolo a un palloncino. Salisbury sosteneva che avesse «qualche rotella fuori posto». Ma il Kaiser non si rendeva conto di provocare perplessità in chi aveva di fronte: amava parlare in pubblico, pensava di essere un grande trascinatore di folle (cosa che non era) e ogni due per tre prometteva di «distruggere», «schiacciare», «spazzare via», chi avesse ostacolato i suoi disegni.
«Dovete comportarvi», disse ai suoi che nel 1900 partivano alla volta di Pechino per sedare la rivolta dei Boxer, «in modo che la parola “Germania” sia ricordata con terrore per i prossimi mille anni… Nessun cinese, che abbia gli occhi a mandorla o meno, dovrà più osare guardare in faccia un tedesco». E ce n’era anche per i deputati al Reichstag, definiti, volta a volta, «imbecilli», «idioti», «cani». Non sopportava la sinistra: «Di questo passo», disse in un discorso ai “suoi” militari, «se i socialisti continueranno a prendere voti, mi toccherà ordinarvi di sparare sui vostri parenti, sui vostri fratelli, perfino sui vostri genitori». Proibì agli ufficiali di ballare tango, one-step, two-step, e di frequentare famiglie «che praticano quei balli». Definì i diplomatici «palloni gonfiati» e la Wilhelmstrasse (il ministero degli Esteri) un «letamaio». In una celebre intervista (manipolata ma non troppo) al «Daily Telegraph», il Kaiser affermò che gli inglesi erano «matti, matti, matti da legare». Il ministro degli Esteri britannico, Edward Grey, scrisse a un amico: «Le uscite del Kaiser mi fanno venire i capelli bianchi, è come una corazzata con i motori a pieno regime, le viti che saltano e il timone rotto; presto o tardi andrà a sbattere da qualche parte e allora saranno guai seri». Altroché «guai seri»: sarà la guerra più devastante che si fosse mai vista.

Repubblica 11.11.13
Quei nemici devoti di papa Bergoglio
di Vito Mancuso


FIN dalla sua elezione papa Francesco sta producendo una serie di benefici per l’azione della Chiesa che non accennano a diminuire, come è dato riscontrare dall’aumento dei fedeli alle udienze e agli angelus domenicali.
E, SOPRATTUTTO, dalle molte persone che nel mondo intero grazie al Papa tornano al desiderio di una vita spirituale e riprendono a frequentare le chiese e ad accostarsi ai sacramenti. “Il mondo è innamorato di papa Francesco — ha scritto il cardinale di New York — e se io avessi avuto un dollaro per ogni newyorkese, cattolico e non, che mi ha detto quanto ama l’attuale Santo Padre, avrei pagato il conto salato dei restauri della cattedrale di St. Patrick! Lungo i nostri 2000 anni di storia abbiamo avuto ben pochi papi così degni dell’alto officio”.
Ci sarebbe quindi da essere molto felici di papa Francesco, ma per non pochi cattolici cosiddetti “doc” e per qualche “ateo devoto” in passato solerte difensore di Ratzinger, le cose non stanno affatto così: anzi hanno iniziato a dar vita ad un’esplicita contestazione, punta dell’iceberg di una campagna conservatrice che vede in Bergoglio il simbolo da colpire. Proprio ciò che per il mondo risulta affascinante, per tali cattolici è causa di scandalo, e giungono a descrivere il Papa come il più dozzinale dei populisti. Il primato della coscienza personale, l’apertura alla cultura moderna, la scelta di non insistere su valori cosiddetti non negoziabili di vita-scuola-famiglia, il non volere ingerenze nella vita dei singoli (come quando disse “chi sono io per giudicare?” a proposito dei gay), l’istituzione di una consultazione popolare in tutto il mondo sui temi spinosi della morale familiare, la preferenza verso i poveri e il conseguente riaccredito della teologia della liberazione condannata da Wojtyla e Ratzinger, il parlare della Chiesa come di “un ospedale da campo”, lo stile conciliare permanente auspicato dal cardinal Martini, l’attacco al clericalismo e alla cortigianeria della curia, la condanna di ogni forma di proselitismo, la simpatia verso i media fino a concedere un’intervista al fondatore di questo giornale, lo stile di vita austero che lo porta a rifiutare l’appartamento papale e la villa di Castelgandolfo e a camminare sulle sue scarpe nere portandosi da sé la borsa di lavoro, la preferenza per le piccole autovetture, il chinarsi a lavare i piedi a una donna e per di più musulmana… ecco alcuni elementi che affascinano molti contemporanei e che invece risultano fonte di disappunto per quei cattolici di solito impegnati nella fedeltà “senza se e senza ma” al papa e al papato. Ma non in questo caso.
Tra essi uno dei più moderati è Vittorio Messori che ieri sul Corriere criticava quanto definiva “un mito antico e sempre ricorrente”, cioè il sogno suscitato in molti dall’azione di papa Francesco “di un ritorno alla Chiesa primitiva, tutta povertà, fraternità, semplicità, assenza di strutture gerarchiche, di leggi canoniche”, un sogno che per Messori non è altro che un mito privo di fondamento biblico e storico. La posta in gioco nell’azione di papa Francesco però è, a mio avviso, molto più semplice di tale mito e consiste nel diritto di tutti i battezzati di avere una Chiesa semplicemente normale, di cui ci si possa fidare, una Chiesa dove i vescovi non abbiano residenze lussuosissime e costose auto blu, dove la banca vaticana sia per lo meno al livello etico di un’ordinaria banca italiana, dove il carrierismo e la sporcizia (termini utilizzati da Benedetto XVI) non siano così plateali da condizionare il governo papale, dove le nomine dei vescovi avvengano per effettive qualità umane e pastorali e non per servilismi che promuovono incolori yes-men, dove gli scandali di pedofilia non siano insabbiati e i colpevoli protetti, dove nella curia non volino corvi fino alla scrivania papale a testimonianza di velenose lotte intestine al cui confronto un qualsiasi condominio con tutte le sue beghe diviene un’immagine della concordia paradisiaca, una Chiesa dove gli ordini religiosi non siano guidati da personaggi colpevoli di pedofilia come nei Legionari di Cristo oppure di sequestro di persona e truffa come nei Camilliani, eccetera, eccetera.
Questa è la posta in gioco dell’azione papale: non il mito della Chiesa primitiva, ma la realtà della Chiesa attuale, perché possa tornare a essere una Chiesa normale, pulita, affidabile, degna della fiducia dei genitori di mandare all’oratorio i loro figli e di tutti i credenti di affidare le loro risorse per soccorrere i bisognosi. Ne viene che il Papa che oggi governa la Chiesa è, come dice il Vangelo, “un segno di contraddizione”, nel senso che è destinato a manifestare la vera natura di chi si dice credente, se cioè è tale per amore della Chiesa oppure per amore del mondo. Nel primo caso la religione è una delle tante ideologie tese alla conquista del potere, nel secondo è il segnale di un modo nuovo e rivoluzionario di stare al mondo e trasmettel’aria fresca del Vangelo.

Repubblica 11.11.13
Da rancore a stupore, un sillabario dell’anima
“Ma come tu resisti, vita”: l’ultimo libro di Mariapia Veladiano
di Paolo Rodari


L«’uomo è visibilmente fatto per pensare; è tutta la sua dignità e tutto il suo compito; e tutto il suo dovere è pensare come si deve», diceva Blaise Pascal. Parole che tornano immediatamente alla mente a leggere le pagine diMa come tu resisti, vita,ultimo saggio di Mariapia Veladiano, edito da Einaudi. Un racconto pubblicato in una sua prima forma lo scorso anno, una pagina alla volta. E qui messo assieme, come un treno di parole sparse che trovano nella forma scrittoria e nella profondità dell’argomentare ciò che maggiormente le unisce. L’autrice scrive che queste parole sono «un minuscolo allargar lo spazio». E anche «pensieri, a volte arrivati in sciame». Comunque le si voglia chiamare una cosa è certa: sono un qualcosa di cui c’è bisogno. Perché se il compito dell’uomo, come diceva Pascal, è pensare, occorre che vi sia qualcuno che faciliti questa azione, accondiscendendola tutti i giorni, in ogni stagione della storia.
“Ma come tu resisti, o vita”, sono parole di san Giovanni della Croce, il grande mi-stico spagnolo che spingeva l’uomo a spogliarsi del superfluo per giungere in alto, fino a Dio. Una fatica che è possibile a tutti, e che sembra Veladiano abbia voluto assumere su di sé attraverso la fatica dello scrivere quotidiano. Perché dietro ogni suo pensiero messo in pagina sono più rinunce ad apparire. La sintesi invece della prolissità; la centralità al posto dello squilibrio; la messa a fuoco anziché la ridondanza. Così lo “stupore” è «del tempo che rimane», e anche «delle nuvole, delle montagne, del nostro giardino e balcone che sopravvivono al nostro tradire». Il “rancore” è «maniaco, solitario consumarsi sul finire di noi stessi». Mentre le“parole” sono ciò di cui «si può morire», sono l’«eccesso di chi non sa la potenza del proprio parlare»; e ancora sono «specchiate bugie, limpide imposture in cui si crede per arrivare al giorno dopo, e poi a quello dopo, e poi ancora e ancora». Mentre per trovare le giuste parole basterebbe tenere a mente il Siracide – la sapienza di Sirach – per il quale «sulla bocca degli stolti è il loro cuore, i saggi invece hanno la bocca nel cuore».
Avere la bocca nel cuore, appunto. E quindi ponderare le parole. Usarle anche tutti i giorni sapendole però anche trattenere. C’è rinuncia, in questa saggio, e insieme c’è un trattenersi. Chi legge è chiamato a entrare dentro le parole, ma vi è chiamato con discrezione. Ci si può lasciar toccare a piacimento, secondo lapropria sensibilità, ignorando alcuni affondi e valorizzandone altri. Chi scrive tracima, trabocca verso fuori ciò che ha dentro. Ma non tutto, bensì una parte. E siccome non vuole imporre un pensiero ma proporre i propri pensieri, chi legge è libero di accogliere come crede, se vuole riflettere, oppure confrontarsi, paragonarsi, e magari a sua volta dire. In fondo, usando un termine parecchio impegnativo, si potrebbe dire che l’azione a cui l’autrice chiama altro non è che contemplazione. Che significa ricevere, anche passivamente, sapendo bene che si può dare, corrispondere. Perché come scrive Alberto Moravia inL’uomo come fine«per ritrovare un’idea dell’uomo, ossia una vera fonte di energia, bisogna che gli uomini ritrovino il gusto della contemplazione».
Nella rinuncia a scrivere tutto, nella ricerca della profondità dello scrivere e insieme della sintesi e della semplicità, ciò che primeggia è l’assenza. «Assenza più acuta presenza», è una citazione di Attilio Bertolucci messa significativamente in pagina da Veladiano. I racconti diMa come tu resisti, vitasono infatti anche questo: assenza che lascia intravedere, o presagire, una presenza non detta, ciò che nemmeno le parole riescono del tutto a comunicare. Scrive Veladiano: «È un ponte, l’attesa. Si crede che oltre, dopo, ci sia qualcosa, anche se non vediamo bene. Ma c’è un passo da fare e lo facciamo, a volte sull’impronta segnata da un altro. C’è un desiderio che mi porta e diventa movimento e se il procedere è senza traccia alcuna capita di pensare che il ponte si costruisca sotto i nostri passi, diventati noi creatori, per grazia». E l’attesa va assecondata senza mai arrendersi. Perché «si può essere stremati e cercar compagnia. O solitudine. Ma arrendersi no».
IL LIBRO Ma come tu resisti, vita di Mariapia Veladiano Enaudi pagg. 144 euro 12