giovedì 5 settembre 2013

l’Unità 5.9.13
Anche Veltroni ha scelto Renzi
Il Pd, la sinistra e i democristiani
di Michele Ciliberto


A LEGGERE GIORNALI ANCHE MOLTO AUTOREVOLI, LA PARTITA NEL PD SAREBBE LIMITATA A DUE CONTENDENTI, ENTRAMBI POLITICAMENTE E CULTURALMENTE DI MATRICE DEMOCRISTIANA (IN SENSO LATO). Mentre non ci sarebbe spazio per candidati che provengono, sul piano culturale e politico, dalla tradizione della sinistra italiana. È vero questo? E, se fosse vero, cosa significherebbe? Osservo, in via preliminare, che Letta e Renzi perché è di loro, ovviamente, che si sta parlando sono molto diversi e che solo con una certa forzatura si possono ricondurre a una matrice comune. Mentre credo sia possibile ricondurre Letta a un alveo definibile genericamente come democristiano; penso che Renzi sia piuttosto un post-democristiano, pur avendo elementi in comune con quella tradizione. Basta pensare alla loro concezione della politica che in Letta si apre a una funzione centrale della mediazione; mentre in Renzi si svolge in senso alternativo, con una forte, e costituiva, apertura a dinamiche bipolari.
Ma non è di questo che intendo parlare, bensì dell’analisi generale proposta da molti giornali sulla situazione del Pd, con la connessa liquidazione della sua sinistra; e verificarne la validità. Lo dico subito: a mio giudizio è un’analisi legittima ma superficiale perché limitata a un orizzonte che oscilla fra politicismo da un lato e derivazioni di tipo giornalistico dall’altro. La situazione italiana è assai più complessa e drammatica di quanto prospettive di questo genere possano far immaginare. Vorrei partire da un dato materiale: c’è una crisi profonda che spezza tradizionali blocchi sociali e politici introducendo elementi straordinari di mobilità a tutti i livelli. Da essa deriva un risentimento generalizzato contro tutti e contro tutti, a cominciare dalla politica e dai partiti politici. Basta pensare, per averne conferma, al successo del Movimento 5 stelle. Un risentimento da cui scaturisce anche una speciale attenzione, e simpatia (nel senso etimologico del termine) verso quelle personalità della politica che si presentano come distruttori di una intera classe dirigente su cui si riversa il rifiuto, se non il disprezzo, di larga parte del Paese.
C’è qualcosa di pesante che ribolle nelle viscere dell’Italia, con esiti che possono essere imprevedibili. Questo profondo risentimento è una delle ragioni del consenso trasversale che trovano le posizioni che, in modi diversi, si contrappongono al tradizionale ceto politico. Molti osservano che sono posizioni indefinite, indeterminate, ma è una scelta politica voluta, volta a intercettare quel risentimento: il quale parte da punti specifici, ma finisce per coinvolgere ogni cosa; e perciò è, in prima istanza, altrettanto indefinito, indeterminato.
Ma il risentimento e su questo occorrerebbe riflettere non intende esaurirsi in se stesso, vorrebbe uscire dalla crisi, vedere attuate politiche che diano sollievo e speranze ai ceti più deboli e più colpiti. Vorrebbe insomma determinarsi, definirsi. Sta proprio qui in questa crisi e nelle tensioni di questo risentimento la radice materiale dell’esistenza della sinistra, anche della sinistra del Pd, nella società italiana. Certo, a questo disagio non ha corrisposto una consapevolezza teorica e una iniziativa politica adeguata. È questa, a mio avviso, la responsabilità del Pd: non essere riuscito ad esprimere, politicamente, quello che ribolle nel Paese. Ma il fatto che non ci sia riuscito non vuol dire che non possa riuscirci, se cominciasse a fare quello che sarebbe suo compito fare.
In concreto cosa dovrebbe fare? Cito solo qualche punto. Dovrebbe elaborare una cultura politica contrapposta ai cardini del berlusconismo sul piano antropologico, culturale, sociale, anche ideale. Situarsi dalla parte del lavoro, inteso come principio di emancipazione e di liberazione. Schierarsi con gli «ultimi», cioè con i ceti più colpiti dalla crisi e dalle politiche governative degli ultimi anni. Concepire il conflitto come motore di sviluppo e di progresso della società, non come un peso di cui liberarsi. Fare propri i principi della democrazia liberale per quanto riguarda il rapporto, e l’equilibrio, dei poteri. E dovrebbe riuscire ad esprimere iniziative politiche, a livello italiano ed europeo, in grado di coinvolgere anche forze moderate interessate a un progetto di cambiamento e disposte ad uscire dalla gabbia del berlusconismo. In breve: dovrebbe essere una sinistra tanto consapevole di se stessa quanto capace di guardare verso il centro, come è necessario fare in Italia se si vuole arrivare alla guida della nazione.
Se questa analisi, certo sommaria, ha un fondamento, il Pd si deve organizzare sul piano culturale, istituzionale e anche organizzativo tenendo conto di queste priorità. Ma non si tratta solo del Pd; si tratta dell’Italia. Coloro che danno per scontata l’estinzione della sinistra e considerano un residuo del passato il candidato della sinistra alla segreteria del Pd dovrebbero interrogarsi su cosa sarebbe l’Italia senza una sinistra forte, moderna, riformatrice e un Pd con la sua sinistra ridotta al silenzio. Certo, sono rilevanti le personalità del Pd che provengono, in vario modo, dalla matrice democristiana per il lavoro che svolgono a tutti i livelli. Ma bisogna anche sapere che oggi la funzione della sinistra, e anche della sinistra del Pd, è materialmente e politicamente indispensabile. Senza di essa declinerebbe la leva principale della trasformazioni sociali e politiche dell’Italia, almeno quali le abbiamo conosciute fin ad oggi. Ma sopratutto verrebbe meno la sola forza che può dare un esito politico positivo e democratico al risentimento che avvelena l’Italia, contribuendo a portarci fuori della crisi. Non so se sia a tutti chiara l’entità della posta oggi in gioco: il problema sul tappeto, discusso in modo spesso superficiale, riguarda, oltre che il futuro e il destino della sinistra, quello dell’Italia. Di questo si tratta quando si parla del congresso del Pd e dei vari candidati alla segreteria del partito: qualunque sia la posizione presa e la candidatura scelta sarebbe opportuno che si sapesse di cosa si sta parlando.

La Stampa 5.9.13
Centrosinistra, manovre pre congresso
Da Veltroni ai sindaci. C’è l’ammucchiata sul carro di Renzi
Civati accusa: vogliono le larghe intese anche dentro il partito
di Francesca Schianchi


Tra i fedelissimi è un coro unico: dall’Emilia, dove Matteo Richetti non manca una Festa democratica, alla Sicilia, dove ancora ieri Davide Faraone inaugurava un circolo Big bang a Piazza Armerina. «Chi vuole sostenga Matteo, ma sappia che non baratteremo questi consensi con niente». Perché dopo le clamorose aperture degli ex avversari Franceschini e Fioroni a Renzi, ora che la marcia del rottamatore si affolla di pesi massimi del Pd disponibili a sostenerlo, c’è chi, come l’ex segretario Veltroni, mette in guardia sul rischio di «unanimismo»: «Consiglio a Renzi di spiegare la sua intenzione politica nella maniera più chiara e inequivoca possibile, così chi sta con lui non lo faccia per calcoli, ma solo per piena convinzione», cosa, ricorda con amarezza, «che successe a me nel 2007».
Il diretto interessato, il sindaco di Firenze, non commenta e guarda avanti. Ieri era a Roma, per un’affollatissima passeggiata ai Fori imperiali neopedonalizzati insieme al sindaco capitolino, Ignazio Marino. Nessuna dichiarazione pubblica sulle tematiche congressuali, solo «la volontà di collaborare insieme sulla capacità attrattiva delle nostre città», si attiene al tema Renzi, solo un possibile ponte «anche con Venezia per poter creare ricchezza e occupazione». Perché, dice, «credo che l’Italia abbia molto bisogno di ripartire dai comuni, dai territori, dai sindaci». Da lì sta prendendo la volata pure lui: da Virginio Merola a Bologna a Piero Fassino a Torino fino a Michele Emiliano a Bari ed Enzo Bianco a Catania, è tutto un moltiplicarsi di sindaci conquistati alla causa. E anche ex: «Da tempo parlo di Renzi come della persona che sposta più voti – scrive l’ex primo cittadino di Napoli Bassolino – e dunque può battere il centrodestra in campo aperto alle prossime elezioni».
Ma c’è già chi denuncia il rischio che la sua immagine possa passare, come qualcuno ha già detto, da rottamatore a riciclatore, alla guida di un carro (del quasi certo vincitore) carico di volti non esattamente nuovi. «Queste adesioni creano un problema in primo luogo per il tema della rottamazione», attacca l’ex compagno di Leopolda e oggi candidato alla segreteria Pippo Civati, «vogliono fare le larghe intese anche dentro al Pd, mettere insieme cose incompatibili con dentro tutti». Il sindaco fiorentino non commenta, ma anche il suo silenzio su un endorsement pesante come quello di Franceschini è significativo. «Rivolterò il Pd come un calzino», ha detto qualche giorno fa il rottamatore, e il concetto è sempre valido: «Nessuno pensi che Matteo possa snaturarsi: potete stare certi che porterà un rinnovamento della classe dirigente», garantiscono gli uomini a lui più vicini. A cui non sfugge comunque il vantaggio, in vista dell’Assemblea del 20 e 21 settembre, di avere l’ex segretario dalla propria parte: «Così è sventato l’ultimo rischio che avevamo, un colpo di mano sulle regole», sono certi. A patto che il congresso venga fissato: «Le date le concedono i sovrani», rimbrotta il leader Epifani, e subito vari renziani insorgono perché venga fissata una data certa.
Una data per il congresso, senza timori di sostegni ingombranti. «Matteo non ha cambiato impostazione né parole d’ordine, e continuerà su questa strada», garantisce Faraone. «Non c’è stato nessun accordo e nessuna trattativa con chi ha deciso di schierarsi con noi», ribadisce il renziano della prima ora Richetti, «posso garantire che Franceschini e Fioroni non diventeranno il vice di Renzi e il presidente del Pd». Anzi, «spero che Matteo sia particolarmente rigoroso ad esempio sul limite di tre mandati e poi a casa. Io non darei nemmeno deroghe. E di certo – avverte - non è che se Fioroni sostiene Matteo, allora per lui il limite non sarà valido».
"Il fondatore mette in guardia il sindaco di Firenze dal rischio delle troppe adesioni Ma i renziani assicurano: Matteo non si snaturerà né farà patti, punterà al rinnovamento"

La Stampa 5.9.13
La sfida nel Pd
Cuperlo-Renzi le carte segrete
La sfida a rischio di Cuperlo e la carta a sorpresa della Cgil
L’intellettuale che potrebbe calare l’asso del sindacato
Il network: alcuni segretari regionali un po’ di intellighenzia, i vecchi sodali della Fgci
Cuperlo Potrebbe essere considerato un male minore anche dalla Camusso
Conta sull’amicizia di Fabio Fazio e Carlo Freccero, truppe sceltissime, ma esigue
di Federico Geremicca


Qualche segretario regionale, certo. Un po’ di intellettualità con ancora il gusto della partecipazione alle vicende della cosa pubblica. Gli uomini e le donne della “sua” Fgci, roba - però - di venticinque anni fa. E poi, se maturerà alla maniera in cui maturano queste cose - una piccola-grande sorpresa: cioè il sindacato, la Cgil, non tutta certo, ma sicuramente una larga maggioranza, offesa con Matteo Renzi (forse è troppo: diciamo arrabbiata) per i ripetuti attacchi circa la vecchiaia e perfino l’arretratezza di certe posizioni in materia di futuro e di sviluppo del Paese.
Se è molto o se è poco, lo si vedrà: ma è questa la rete di rapporti a partire dalla quale Gianni Cuperlo - 52 anni, triestino, laureato con 110 e lode al Dams di Bologna in comunicazione di massa - tenterà di sbarrare il passo a Matteo Renzi, incamminato verso quelle primarie che dovrebbero incoronarlo segretario del Pd. Per dirla in altre parole - se è vero quel che si racconta circa il capovolgimento dei rapporti di forza tra ex popolari ed ex diessini - è a lui che oggi è affidata la difesa del patrimonio di idee e di valori sopravvissuti alla scomparsa del fu Partito Comunista Italiano.
Non sono molti quelli disposti a scommettere su un risultato a sorpresa e - dunque - su una vittoria dell’ex “allievo” di Massimo D’Alema. Dopo che Matteo Renzi ha prima spaccato e poi aperto il Pd “come una scatola di tonno”, l’impresa di fermarne il cammino pare impossibile: ma Cuperlo non demorde e ancora ieri ha contestato al lanciatissimo sindaco di Firenze di volere un Pd «concepito come un comitato elettorale permanente che serve il leader di turno, il quale vive la responsabilità nel partito come il trampolino verso l’obiettivo vero, l’unico che conti: il governo».
Essendo in campo almeno altri due candidati “di sinistra” (Civati e Pittella), quella di Gianni Cuperlo appare davvero una missione senza speranza, e molti dei suoi sostenitori sarebbero già soddisfatti se raggiungesse il 20 per cento dei voti: una battaglia persa in partenza, insomma. Eppure, l’ex capo dei giovani comunisti al tempo della caduta del Muro di Berlino ha deciso di non saltare sul carro del vincitore e di restare in campo: spera che votino per lui i militanti e gli iscritti del fu partito da cui proviene. E magari un po’ di altri che non amano certe semplificazioni renziane o che sono turbati (per usare un eufemismo) da certi passaggi di campo che rischiano di appesantire e render confuso il progetto ed i disegni del lanciatissimo sindaco di Firenze.
Ma il grosso delle speranze (inconfessabili speranze) è affidato ad una scommessa: che votino per lui i “nemici” di Matteo Renzi (e non sono pochi...), uomini e organizzazioni di un “modello partito” che il sindaco di Firenze non fa mistero di voler demolire. E tra le organizzazioni, in testa a tutte, c’è la Cgil. I contrasti tra Renzi e Susanna Camusso sono noti: meno note, ma ancor più aspre, sono le polemiche che lo hanno contrapposto (per esempio sul Maggio fiorentino) alle organizzazioni sindacali toscane e fiorentine.
Inutile attendere dalla Cgil - e Cuperlo lo sa - dichiarazioni ufficiali di sostegno alla sua candidatura, ma una sorta di passaparola comincia ad animare l’organizzazione della Camusso: «Con Renzi mai, non si può: meglio Cuperlo, che almeno crede che il sindacato serva ancora». Dall’intensità di questo passaparola dipenderà - probabilmente - l’entità del consenso che raccoglierà quello che appare, al momento, il più forte degli sfidanti di Matteo Renzi. Non è molto, ma non è che ci sia granchè d’altro...
«Ha molti consensi nel mondo dell’università e della cultura», dice Enzo Amendola, dalemiano schierato con
Cuperlo. «Può contare su una rete di ex Fgci ancora in pista in tutt’Italia», aggiunge Fabrizio Rondolino, con Cupero a Palazzo Chigi negli anni della presidenza D’Alema. Ha amici e sostenitori - è vero - nel mondo dello spettacolo e della Tv, da Fabio Fazio a Carlo Freccero. Truppe scelte, certo: ma esigue e insufficienti di fronte alla slavina di consensi calamitati da Renzi. Una battaglia difficile, forse impossibile. Lettiani e bersaniani sono infatti in cammino verso il sindaco di Firenze, e non sembrano voler fermarsi. Ma Cuperlo va avanti e non si arrende: insensibile alla saggezza del motto che vuole che certe battaglie, piuttosto che perderle, è meglio non cominciarle...

Corriere 5.9.13
Nuova maggioranza a portata di mano
Ma ora il Pd ha paura della svolta
Per i bersaniani un governo «raffazzonato» aiuterebbe il sindaco
I renziani sperano nel voto a marzo. Le ipotesi di mediazione con il premier
di Maria Teresa Meli

qui

Corriere 5.9.13
Sergio Cofferati
L’ex leader della Cgil ed eurodeputato pd: «Renzi ha poteri di suggestione, non una proposta politica specifica sui temi economici e sociali»
intervista di Andrea Garibaldi

qui

l’Unità 5.9.13
M5S, tocca a Orellana Grillo: è come Scilipoti
Walter Rizzetto: «Basta epurazioni. Sulle alleanze decidano gli iscritti»
intervista di A. C.


«Orellana come Scilipoti? Non scherziamo. Non conosco persone più distanti da Scilipoti», spiega Walter Rizzetto, deputato a 5 stelle. «Non ha affatto proposto un alleanza col Pd, men che meno vuole vendersi. Ha detto che bisogna cercare un confronto e un dialogo con altre forze politiche. In fondo anche Crimi e Lombardi sono andati da Bersani a marzo per parlare e dunque non vedo perché lui ora debba essere attaccato in questo modo».
E invece eccolo additato sul blog di Grillo come l’ultimo traditore. Dopo una estate decisamente nervosa tra voi 5 stelle.
«È un momento di nervosismo per tutte le forze politiche, noi compresi. Ci sono dei nodi importanti da sciogliere, dalla decadenza di Berlusconi alla difficile navigazione del governo».
Cosa dovrebbe fare il M5S in caso di crisi?
«Dobbiamo consultare la nostra base, gli attivisti in rete. Noi siamo solo dei portavoce».
Alcuni suoi colleghi, come Vito Crimi, sostengono che sul tema delle alleanze non c’è niente da consultare. Siete ontologicamente contrari...
«Io rispondo agli attivisti e a chi ci ha dato 8 milioni di voti, non ad altre logiche».
Se dunque la Rete vi dicesse che è necessario fare un nuovo governo per cambiare la legge elettorale?
«Sarebbe una indicazione importante di cui tenere conto. Poi è giusto che l’assemblea di tutti i parlamentari si riunisca per prendere una decisione definitiva. Ma gli elettori vanno ascoltati ed è quello che sto facendo in queste serate nei meet up del Friuli. Da tempo aspettiamo un portale per i referendum in rete, mi unisco ai tanti che lo chiedono a gran voce».
Rischia di arrivare dopo la crisi di governo?
«È un rischio possibile. Ma io non credo in una crisi prima del 9 settembre. Mi pare che Berlusconi stia cercando di fare pressioni sul Pd, sul governo e sui componenti della Giunta del Senato». Di solito quando uno di voi finisce additato come reprobo per nome e cognome sul blog di Grillo poi viene espulso. Sarà un nuovo caso Gambaro?
«Io dico di no. Orellana non merita un trattamento del genere. Il caso Gambaro è già stato molto difficile, ci ha divisi. E non voglio neppure pensare che si ripeta. Il M5S ha bisogno di uno come lui, uno che il movimento ce l’ha dentro». Stavolta il movimento rischia di dividersi? I segnali non mancano...
«Io mi auguro di no, abbiamo bisogno di tutto tranne che di una scissione». Anche alla Camera non manca chi ha preso le distanze da Grillo difendendo Orellana...
«Conosciamo lo spessore della persona e non possiamo esimerci. Non stiamo parlando di un saltimbanco o di un opportunista. E sfido chiunque a dimostrare il contrario».
Il senatore Romani parla di un movimento diviso in due.
«Vedo soprattutto una gran voglia di discutere, di confrontarsi. Ben venga il contraddittorio. È questa la strada per risolvere anche il caso Orellana. Fino a sei mesi fa nessuno di noi si conosceva, non è così facile amalgamare un gruppo così ampio di persone».
Il senatore Battista ricorda a Grillo che nei giorni della candidatura di Rodotà al Colle si era parlato di «praterie» per un governo col Pd...
«Con Rodotà al Quirinale sarebbe stata forse un’altra storia. Ma ora bisogna guardare avanti, senza rimpianti. Nell’interesse non solo dei nostri elettori, ma di tutti gli italiani. Io per ora non vedo segnali di uscita dalla crisi».
E se l’espulsione di Orellana sarà ufficializzata da Grillo?
«Voterò no, come ho fatto nel caso della Gambaro».
Ma ci sarebbero conseguenze oppure alla fine accettereste un’altra epurazione senza fiatare?
«Mi pare prematuro parlarne ora, sono decisioni che vanno prese insieme ad altri colleghi. Intanto comincerei con l’epurare Berlusconi dalla vita politica». Non si potrebbe fare dando vita a un nuovo governo senza Pdl?
«È una possibilità da valutare, anche perché sarebbe una via politica per archiviare Berlusconi. Ma in questi mesi ho imparato a conoscere il Pd e non vedo possibilità per una convergenza. La cosa più opportuna, in caso di crisi, sarebbe tornare al voto dopo aver cambiato la legge elettorale».

Corriere 5.9.13
Il giudice non risponde agli elettori ma alla legge uguale per tutti
di Corrado Stajano


Nel 2002 il governo Berlusconi d’epoca decise di far scomparire dalle aule dei tribunali la scritta «La legge è uguale per tutti» che poteva intimidire, così aggressiva. Fu sostituita da una frase più morbida e amichevole, «La giustizia è amministrata in nome del popolo italiano». Gli ignari e i distratti non ci fecero caso, ai pochi che protestarono fu risposto: che cosa c’è da scandalizzarsi? Le sentenze non vengono emesse dai giudici «in nome del popolo italiano»?
Il nodo dell’attuale conflitto sull’agibilità politica di B., inimmaginabile almeno da due secoli in un Paese civilizzato del mondo occidentale, è proprio legato alla sostanziale diversità di quelle due frasette. «La legge è uguale per tutti» è un motto ben chiaro, senza ambiguità. I cittadini, come è scritto anche nell’articolo 3 della Costituzione, forse il più importante della somma Carta, sono uguali davanti alla legge: l’uguaglianza è il fondamento dello Stato di diritto.
L’altra dizione, invece, ha non casualmente il significato opposto trasformando in giudice il popolo, privo di sovranità. È quel che B. e i suoi fedeli vorrebbero anche oggi. Come si può condannare, sostengono infatti, un leader politico, come escludere dal Senato di cui fa parte un capopartito che anche alle ultime elezioni ha ricevuto milioni di voti? Deve essere il popolo, il «suo» popolo, il vero giudice: un giudice amico che l’ha già assolto. Si cancellano in questo modo intere biblioteche di scienza giuridica. La legge è uguale per tutti ma non per B., anche se condannato con una sentenza definitiva a una grave pena dalla Suprema Corte per un’«enorme evasione fiscale realizzata con società off-shore».
Non è una variante filologica quella scritta apposta nelle aule dei tribunali che il governo Prodi cancellò nel 2006, ma il cuore della politica dell’ex presidente del Consiglio e dei suoi fedeli, l’avallo della caduta di ogni regola. L’opinione pubblica d’Europa di cui l’Italia ha non poco bisogno è esterrefatta e irridente di fronte alle grandi manovre degli azzeccagarbugli di B. che si stanno agitando come anguille per salvarlo da questa pesante sentenza senza scampo. In quei Paesi è costume infatti che un uomo politico si dimetta anche per le più minute illegalità, come qualche giorno fa il presidente della Repubblica federale tedesca Christian Wulff accusato di aver ricevuto piccoli favori da imprenditori amici.
Qui da noi, invece, si sostiene che B. dovrebbe essere graziato, la sua pena abrogata o almeno commutata anche se non esistono le necessarie ragioni umanitarie, il suo scranno rosso al Senato conservato in nome del bene comune, della crisi economico-finanziaria e soprattutto delle «larghe intese». (Ma forse l’ex presidente ha compreso che quel ricatto, la tenuta di Letta in cambio della sua salvezza — anche ieri ha minacciato di «staccare la spina» — non gli conviene: è il governo la sua vera guardia del corpo).
Non conta, sembra di capire, il principio di legalità, essenziale in uno Stato di diritto, non importa che B. non sia neppure un «pentito» ma si senta solo un perseguitato. Tra l’altro l’ex presidente del Consiglio non ha un sereno avvenire nei tribunali della Repubblica. Lo attendono in appello a Milano il processo Ruby (sette anni in primo grado e l’interdizione perpetua dai pubblici uffici) e il processo per concussione nel caso Mediaset; a Napoli il processo, forse il più grave, per la corruzione dell’ex senatore De Gregorio, reo confesso: un mucchio di denaro per far cadere il governo Prodi. Saranno necessarie in caso di condanna un’infinità di grazie? La grazia a vita, forse.
C’è qualcosa di grottesco in questo gran pasticcio. La Giunta delle elezioni e delle immunità del Senato dovrà cominciare la prossima settimana a discutere sulla validità della legge Severino — l’incandidabilità di chi è stato condannato per gravi reati — concordemente votata dagli stessi che ora debbono giudicare: è retroattiva, non è retroattiva, può essere inviata alla Consulta, oppure no?

La Stampa 5.9.13
Ior, le carte
“Il condono dell’Ici alla Chiesa? Ci aiuta il ministro Tremonti”
Nelle mail di Gotti Tedeschi alle alte sfere vaticane affari, pressioni e raccomandazioni
Il caso San Raffaele. La tassa sugli immobili. Gli amici degli amici. Gli intrecci con la politica
di Guido Ruotolo


Il terremoto si avvicina. Primi segnali dello scandalo Vatileaks, delle faide interne al Vaticano, dei corvi e della bufera che sta per investire l’Istituto opere religiose (Ior), la banca del Vaticano. Ettore Gotti Tedeschi, banchiere, presidente dello Ior, poi costretto alle dimissioni, è un attento osservatore, oltre che uno dei protagonisti di questo terremoto che sta per cambiare gli equilibri interni alla Curia romana, e che porterà Papa Francesco a dare vita a una strategia di cambiamento radicale nel mondo della Chiesa. Quelle che seguono sono mail tratte dall’immenso archivio - oltre quarantamila pagine - del banchiere Ettore Gotti Tedeschi, sequestrato dall’autorità giudiziaria
È il 14 febbraio del 2011 e il presidente dello Ior spedisce un documento riservato al segretario del Papa, padre Georg. Lui la chiama, in realtà, «nota un po’ sofisticata». Specifica il banchiere: «Si tratta di una nota riservata che ho scritto per il professore Vian per una possibile memoria, riscritta da Vian, per il Segretario di Stato e suppongo successivamente, per un sì interno, se verrà apprezzata. In questa nota miro a comparare i Patti Lateranensi con la Legge Antiriciclaggio. L’intento è cercare di spiegare con ogni mezzo l’opportunità e la bontà intrinseca (non sempre purtroppo apprezzata) di ciò che è stato fatto. La provocazione che utilizzo è che la Legge Antiriciclaggio equivale ai Patti Lateranensi nel mondo globale. Spero possa persino trovarla divertente».
Risponde il segretario del Papa, dopo averlo letto: «Caro Presidente, un testo particolarmente interessante ed attuale. Grazie per aver lo mandato, Le cose vanno bene avanti? Saluti cari. Don Giorgio».
Il documento di cui parlano padre Georg e il banchiere, risale al 28 marzo del 2011. Sembra un manifesto programmatico di rifondazione della finanza vaticana. «È questo il momento di valutare l’opportunità di creare una specie di “ministro dell’economia” presso la Segreteria di Stato della Santa Sede, secondo criteri specifici che accennerò di seguito, proponendo tre progetti essenziali».
Il primo è quello di restituire credibilità al Vaticano. Come? Bisogna inserire «la Santa sede nella cosiddetta white list». Arriviamo allo Ior: «Bisogna rafforzare le attività dello Ior, ridefinendone gli obiettivi e attuando nuova e adeguata governance». Ma dice anche che occorre «ridefinire obiettivi e strategie di Enti quali Apsa, Governatorato, Propaganda Fide».
Mancano pochi giorni alla grande retata (13 dicembre del 2011) per il San Raffaele di Milano. Gotti Tedeschi il 5 dicembre alle 8,42 spedisce una mail a Georg Gänswein, segretario di Papa Ratzinger.
«Caro Mons. Georg, il professore Giovanni Maria Flick, nella sua qualità di consigliere di amministrazione della Fondazione del San Raffaele, da tempo esprime disagio verso la gestione dell’attuale processo. Questo disagio lo ha anche più volte esternato senza esito. Ieri mi ha chiesto di poter intercedere per poter parlare con lei. La prego di farmi sapere i suoi desideri, in proposito. Suo Ettore Gotti Tedeschi».
Lo stesso giorno, alle 19,32, risponde padre Georg: «Caro Presidente, volentieri sono disponibile a incontrare il professore Flick, in questa settimana. Purtroppo non è più possibile, ma certamente nella settimana prossima. Propongo martedì 13 alle 18. Andrebbe bene? Saluti. Don Giorgio». All’incontro però Flick non potrà esserci. Ma a don Georg, Gotti Tedeschi manda (il 22 dicembre) una memoria riservata per il cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato, «per sua opportuna conoscenza».
Bel problema, quello delle tasse sugli immobili della Chiesa che non sono utilizzati per fini religiosi. Il presidente dello Ior il 30 settembre del 2011, manda una memoria al Segretario di Stato, Cardinal Tarcisio Bertone.
E per «Sua Conoscenza», spedisce via mail una copia del documento anche a padre Georg, il segretario di Papa Ratzinger: «Caro Mons. Georg, Le allego il documento sul problema piuttosto grave dell’Ici che credo di aver risolto, o quantomeno creato le condizioni per riuscirci. Ieri abbiamo parlato con il commissario Europeo Almunia che sembra pronto a concedere una dilazione fino a fine novembre, a condizione di ricevere una lettera che lo spieghi dal ministero del Tesoro. La segreteria del ministro Tremonti la manderà in questi giorni. Suo Ettore Gotti Tedeschi».
L’incipit del «riservato e confidenziale», il documento spedito al Segretario di Stato e al segretario del Papa, rivela una «fonte privilegiata» del banchiere nell’elaborare la memoria stessa: il ministro del Tesoro Giulio Tremonti.
Gotti Tedeschi ricorda che la Commissione Europea, su denuncia del mondo radicale (2005), viene trascinata a contestare l’estensione Ici sugli immobili della Chiesa non utilizzati per fini religiosi, «pertanto quelli “commerciali”, cioè scuole, collegi, ospedali ecc.. (Esclusi quelli che ricadono sotto il Trattato dei Patti Lateranensi) ».
«Nel 2010 la Commissione Europea avvia una procedura contro lo Stato italiano per “aiuti di Stato” non accettabili alla Chiesa Cattolica. Detta procedura evidenzia oggi una posizione di rischio di condanna per l’Italia e una conseguente imposizione di recupero delle imposte non pagate dal 2005. Dette imposte deve pagare lo Stato Italia che si rifarà sulla Cei (si suppone), ma non è chiaro con chi per Enti e Congregazioni».
A questo punto, la memoria indica le tre possibili alternative per risolvere il problema: «Abolire le agevolazioni Ici (Tremonti non lo farà mai). Difendere la normativa passata limitandosi a fare verifiche sulle reali attività commerciali e calcolare il valore “dell’aiuto di Stato” dato. (Non è sostenibile) ».
Terza strada: «Modificare la vecchia norma contestata dalla Comunità Europea. Detta modifica deve produrre una nuova norma che definisca una categoria per gli edifici religiosi e crei un criterio di classificazione e definizione della natura commerciale (secondo superficie, tempo, utilizzo e ricavo). Si paga pertanto l’Ici al di sopra di un determinato livello di superficie usata, di tempi di utilizzo, di ricavo. A questo punto la Cei accetta la nuova procedura. Detta accettazione fa decadere le richieste pregresse (dal 2005 al 2011) della Comunità Europea (Almunia) deve accettare».
La memoria di Gotti Tedeschi è del 30 settembre. È si conclude con degli impegni precisi: «Incoraggiare monsignor Rivella ad accelerare un tavolo di discussione». L’interlocutore del ministero delle Finanze è Enrico Martino (nipote del cardinale Martino).
Si occupava di tutto e forse anche di più, Ettore Gotti Tedeschi. Non era solo il numero uno della banca vaticana. Era, lo è ancora oggi, il numero uno in Italia del Banco di Santander, e attraverso il carteggio sequestrato, emerge anche un fine analista politico e non solo. Ma non disdegnava certo di occuparsi di cose molto terrene. In una mail dell’11 marzo del 2012 indirizzata a monsignor Lech, il factotum segretario del cardinale Tarcisio Bertone, allega una nota riservata per il Segretario di Stato.
«Mi risulta da fonti attendibili che la nomina di Lorenza Lei alla direzione generale della Rai possa trovare ostacoli. Due ragioni principali: risulta che la dottoressa Lei avrebbe in un paio di occasioni “sussurrato” che il cardinal Bertone ha ricevuto assicurazioni da Berlusconi sulla sua nomina. Queste dichiarazioni (vere o false in questi termini) n hanno però provocato una certa opposizione interna ed esterna a detta designazione “Oltretevere” (pare soprattutto da parte del vicedirettore Comanducci, in quota Forza Italia, designato da Previti). Risulta anche che la Lega voglia contare in Rai e cogliere questa occasione di rinnovo vertici per avere un proprio dg. Mi viene detto che il candidato della Lega è l’attuale vicedirettore Marano».
L’ex sottosegretario all’Interno, Alfredo Mantovano, ex magistrato, ex An, è sempre stato un cattolico conservatore. In queste mail che spedisce a GottiTedeschi, l’esponente politico perora la causa del sostegno della Cei alla questione del «testamento biologico».
«Caro Ettore, perdonami ma sulla questione del testamento biologico vi è la necessità che dalla Cei ci arrivi qualche segnale. So di pareri analoghi a quelli che ho cercato di scrivere, che stanno giungendo anche da altri al Cardinale presidente. Vorrei far pervenire il mio. Un caro saluto in Domini».
Risponde Gotti Tedeschi: «Alfredo ti ho riscritto la lettera introduttiva, adattandola a quello stile che io considero più proprio, semplice e sintetico per Sua Eminenza. Vedi poi tu Ettore».
Mantovano non ha ricevuto le modifiche proposte. Il banchiere: «Ma come, te l’ho rinviata subito corretta radicalmente, sconsigliandoti di inviare quella originale... ».
È avanti Mantovano. che non trova sponde nel suo partito: «Il testo approvato dalla commissione Affari sociali della Camera ha subito incisivi cambiamenti in pejus». Ha protestato con il suo capogruppo: «Mi è stato detto che quelle modifiche sono state concordate con un soggetto autorevole, delegato dalla Cei che - poiché una delle ragioni per le quali si sta provando ad approvare la legge è di venire incontro alle esigenze del mondo cattolico italiano - è strano che io critichi le modifiche, quasi a voler pretestuosamente essere più papista del Papa».

Corriere 9.5.13
Nomine, pressioni e trattative
Le carte segrete di Gotti Tedeschi

Le mail dell’ex presidente della banca vaticana
di Fiorenza Sarzanini

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Corriere 5.9.13
Violenze alle donne il mostro che è in noi
di Beppe Severgnini

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l’Unità 5.9.13
Sequestrò tre ragazze in Ohio, si impicca in carcere
«Non sono un mostro sono malato», aveva detto al processo. Era stato condannato a 1000 anni
di Sonia Renzini


«Ho passato 11 anni all’inferno, adesso il tuo inferno è appena cominciato», aveva detto Michelle Knight in lacrime al processo del suo carnefice, l’ex autista di autobus di 53 anni Ariel Castro che per 11 anni l’aveva tenuta segregata in casa abusando di lei e di altre due giovani donne, Amanda Berry e Gina De Jesus, rapite come lei tra il 2002 e il 2004. Invece l’inferno per il mostro di Cleveland è durato solo un mese. È stato trovato impiccato in carcere martedì scorso nella sua cella del Correctional Reception Center di Orient in Ohio, dove era rinchiuso dal 1 agosto, quando era stato condannato all’ergastolo per sequestro di persona, violenza carnale e tortura pluriaggravata al termine di un processo che aveva fatto rabbrividire il mondo.
«Non sono un mostro, sono una persona normale, sono solo malato. Ho una forma di dipendenza come un alcolista», aveva provato a difendersi raccontando degli abusi sessuali subiti da bambino e millantando rapporti consensuali con le vittime. Un estremo quanto inutile tentativo di negare quel concentrato di depravazione venuto alla luce solo con la fuga delle donne. Era riuscito a evitare la pena di morte grazie ad un patteggiamento con i procuratori, che avevano cercato di evitare alle vittime di essere costrette a testimoniare al processo. Ed era finita con oltre mille anni di carcere, questa la pena per avere cancellato la vita di tre donne rapite alla loro normalità rispettivamente all’età di 14, 16 e 20 anni, e costrette a divenire adulte in quella casa degli orrori demolita appena il mese scorso. Ben 937 i capi di accusa di cui Castro era stato riconosciuto colpevole dopo il suo arresto il 6 maggio scorso e la liberazione miracolosa delle giovani in seguito alla fuga della 27enne Berry, che oggi ha una figlia di 6 anni avuta proprio da Castro (anche Michelle Knight era rimasta incinta, ma aveva abortito per le percosse e la privazione di cibo). Berry era riuscita ad attirare l’attenzione di un vicino di casa, attraverso una porta sbarrata, mentre l’uomo era fuori. «Sono stata rapita e ora sono qui, sono libera», aveva detto alla polizia.
«È STATO UN VIGLIACCO»
Un caso di suicidio apparente lo ha definito la portavoce dei servizi penitenziari dello Stato Usa, Jo Ellen Smith, secondo cui le guardie del carcere di Orient hanno scoperto il cadavere di Castro durante un controllo di routine. Inutili i tentativi di rianimazione, trasportato all’Ohio State University è stato dichiarato morto poco più di un’ora dopo. Difficile al momento capire come sia stato possibile, visto che Castro era tenuto in isolamento e veniva sottoposto a controlli ogni 30 minuti. È vero che non era oggetto di sorveglianza anti suicidio, questo pare accertato, nonostante lo fosse stato in precedenza, subito dopo il suo arresto, alla prigione della contea di Cuyahoga. Ai primi di giugno, però, le autorità avevano annullato i controlli poiché accertato che non era a rischio suicidio. Il pubblico ministero della contea Timothy McGinty lo ha definito un vigliacco. «Non ha saputo sopportare nemmeno una piccolissima parte di quello che ha causato», ha detto.
Esprime disappunto la famiglia di Castro per avere appreso la notizia dai media, due ore dopo il decesso. Lo ha detto alla Cnn Juan Alicea il cognato di Castro, mentre la cugina, Maria Castro Montes, ha raccontato di avere pianto alla notizia della morte: «Il mio primo pensiero è stato se le ragazze lo sapevano. Forse questa è stata la cosa migliore. Non penso che avrebbero mai trovato pace con lui in vita».

l’Unità 5.9.13
Psichiatra uccisa da un paziente
di Dino Martina


Ventotto coltellate tra schiena e gola. Una rabbia cieca quella di Vincenzo Poliseno, 44enne con problemi di alcool e tossicodipendenza, che ieri ha aggredito e ucciso Paola Labriola, 53enne psichiatra, al lavoro in un Centro di igiene mentale di Bari. Lo ha fatto perché voleva soldi. Soldi che aveva provato a chiedere al centro in cui è in cura, nel rione periferico di San Paolo, trovando però, alle 7 del mattino, la struttura chiusa. E poco più tardi, negli uffici della circoscrizione del rione Libertà, dove ha insistito più volte per avere del denaro ed è stato allontanato bruscamente. Non lontano dalla sede della circoscrizione, alle 9.30, le grida della donna hanno richiamato medici e infermieri in servizio nel Cen-
tro di salute mentale. La donna è stata trovata agonizzante in una pozza di sangue. Poliseno le aveva chiesto denaro ma aveva ricevuto un rifiuto. La corsa dei soccorritori del 118 è stata inutile. L’uomo, a pochi passi dal suo corpo, ancora armato e apparentemente lucido, ha atteso l’arrivo degli agenti della squadra volanti della polizia. Per lui l’accusa è di omicidio volontario.
In cura da diversi anni, Poliseno non era paziente di Paola Labriola e al Centro del rione Libertà si era rivolto sporadicamente in passato. La psichiatra lascia tre figli, tra cui due gemelli di 12 anni, e il marito, psicologo, arrivato quasi subito sul luogo dell‘omicidio. Entrambi i coniugi sono conosciuti e stimati da pazienti e colleghi. La scena e la notizia dell’omicidio hanno sconvolto tanti. Alcuni si sono scagliati contro il direttore
generale dell’Asl di Bari, Domenico Colasanto, denunciando le condizioni precarie in cui si trovano a lavorare i medici, senza un servizio di guardia nei luoghi più delicati. Ieri, la tensione nei Centri di salute mentale della Regione era altissima. Ogni atteggiamento fuori dalle righe da parte di pazienti ha prodotto segnalazioni e telefonate frenetiche fra operatori e medici. Uno psichiatra che lavora al centro di ascolto di Putignano racconta di un infermiere finito sotto indagine per aver risposto alle aggressioni fisiche e alle ripetute minacce di morte di un paziente. Anche l’assessore regionale alla sanità, Elena Gentile, e il sindaco Michele Emiliano, hanno raggiunto il Centro di salute mentale, del quartiere. «Paola Labriola è una martire della città» ha detto a caldo Emiliano che ha poi proclamato il lutto cittadino.

il Fatto 5.9.13
Distrutto per sempre il gesso di Canova in una mostra inutile
Doveva essere trasportato da Perugia ad Assisi in un’esposizione della Fondazione di Galan, la stessa che usò le opere del Maestro per la pubblicitò della lingerie
di Tomaso Montanari


Prima o poi doveva succedere: il mostrificio italico ha fatto una vittima illustre. Il 2 agosto un bassorilievo in gesso di Antonio Canova è stato staccato dal muro dell'Accademia d'Arte di Perugia per essere spedito a soli 24 chilometri di distanza, a una trascurabile mostra di Assisi intitolata semplicemente “Canova”. L’operazione, affidata alla ditta di trasporti Alessandro Maggi di Pietrasanta, è stata fatale: il gesso, cadendo, si è ridotto in mille pezzi. E non c'è restauro che tenga.
L’opera era uno dei pochi esemplari noti dell'Uccisione di Priamo, episodio omerico che insieme ad altre famose scene della letteratura classica ispirarono a Canova una delle sue più celebri serie di bassorilievi. Proprio come il bronzo, il gesso consente di moltiplicare gli originali, e in questi casi l'importanza dell'esemplare è legata alle circostanze della creazione: e quello di Perugia aveva tutte le carte in regola, perché era stato donato all'Accademia dagli eredi dello stesso Canova. L’assicurazione dovrebbe ripagare 700.000 euro. Magra consolazione: la nostra generazione ha distrutto qualcosa di unico e irripetibile, che non passeremo ai nostri figli.
DELITTO NEL DELITTO, su questo episodio clamoroso è scesa una coltre di silenzio: la notizia non è riuscita a evadere da scarne cronache locali, e i grandi giornali (che vivono anche del business delle mostre) si sono ben guardati dal raccontare il disastro perugino. Né il sito dell'Accademia né quello del ministero per i Beni Culturali ne danno notizia. L'unico che ha messo il dito nella piaga è lo storico dell'arte Francesco Federico Mancini, in una bella intervista al Corriere dell'Umbria. Mancini chiarisce assai bene la costellazione strumentale e commerciale sotto la quale è nata la mostra che è all'origine di quella che definisce una “gravissima perdita per il nostro patrimonio” che suscita “sconcerto e indignazione”.
La mostra di Assisi è una specie di franchising della Gipsoteca Canoviana di Possagno, l'istituzione che raccoglie l'eredità dell'artista, e che oggi è stata trasformata in una fondazione, e dunque immancabilmente cannibalizzata dalla politica. Il suo presidente, infatti, è il solito Giancarlo Galan, l'ex ministro pdl per i Beni Culturali il cui consigliere saccheggiò la Biblioteca dei Girolamini a Napoli. Il rapporto culturale tra Galan e Canova è ben chiarito dalla scelta di far realizzare (nel novembre 2012) un catalogo di Intimissimi nella Gipsoteca: una galleria fotografica in cui tombe papali, santi e eroi classici servono a vendere mutande e reggicalze. Una scelta benedetta dall'allora sottosegretario ai Beni Culturali Roberto Cecchi (governo Monti), il quale dichiarò sottilmente che “economia e cultura sono un tutt'uno, non a caso siamo il Bel Paese”.
La mostra di Assisi è l'esatta attuazione di questa linea: non ha un progetto scientifico (anche se ha un comitato che vanta direttori generali Mibac e soprintendenti: i quali forse dovrebbero lasciarlo, visto il tragico epilogo), non ha una linea culturale. È un'antologica da cassetta che sarebbe giustificata dal fatto che il fratello di Canova aveva possedimenti in Umbria: parole incredibili, ma vere, del direttore artistico culturale di Perugia-Assisi 2019, che è il carrozzone di una delle quasi venti candidature italiane a capitale della cultura europea nel 2019. Un direttore (meraviglia nella meraviglia) che è il critico letterario Arnaldo Colasanti, noto ai più per aver condotto un'edizione di Uno Mattina Estate.
PROPRIO IL TANDEM europeo Perugia-Assisi è il motivo per cui la mostra di Canova (invece di svolgersi semmai all'Accademia di Perugia, dove avrebbe avuto più senso e più sicurezza) è stata programmata ad Assisi: dando la stura a un coro di esilaranti scempiaggini, come quella (avanzata dal direttore della sventurata Accademia perugina) sulle affinità armoniche tra le forme neoclassiche di Canova e i versi medioevali di San Francesco.
MA C'È POCO DA RIDERE: i cocci del rilievo di Canova ci ricordano che il mostrificio politico-commerciale in servizio permanente-effettivo non mette a rischio solo la funzione civile e culturale del patrimonio. Ne minaccia la stessa sopravvivenza materiale. Il Mibac diretto da Massimo Bray ha stoppato la terrificante mostra di Roma Barocca prevista a Pechino e annullato l'esibizione commerciale del San Giovannino di Michelangelo alla Galleria Borghese. Ma è tutto il sistema a dover essere profondamente innovato. E non è il caso di aspettare altri cocci.

La Stampa TuttoScienze 4.9.13
Oltre la psicanalisi in viaggio nel cervello
“Meno Freud, più Dna: così si entra nella mente”
di Marco Pivato


Lo studioso Gianvito Martino è direttore della divisione di neuro­ scienze del San Raffaele di Milano

Come si dice da 2 mila anni, «il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Giovanni 1,1-18). Curioso trovare una suggestione biblica tra gli studi delle neuroscienze. Eppure è così: il cervello assorbe parole, esperienze ed eventi che lasciano tracce organiche nel Dna e, dunque, proprio nel profondo della «carne». Al punto da modificare le direttrici biochimiche e fisiologiche che orchestrano l’organismo. Così, Gianvito Martino, direttore della divisione di Neuroscienze del San Raffaele Milano, ospite, lo scorso weekend, del Festival della Mente di Sarzana, ha anticipato i dettagli del suo nuovo saggio, «Il cervello gioca in difesa. Storie di cellule che pensano» (Mondadori), in libreria da fine settembre.
«Se un tempo il dialogo tra ambiente e cervello era dominio della psicoanalisi, oggi la neurologia riconosce le basi molecolari di questo rapporto, innanzitutto confermandone l’esistenza e poi spiegandone le ragioni». Possiamo quindi affermare che siamo quello che pensiamo e viviamo. Non è uno slogan, ma il risultato delle reazioni che avvengono nel «tempio dell’intelletto», sotto la pressione dell’ambiente: ogni memoria lascia un messaggio, una «cicatrice» a livello organico.
Ben inteso, i vissuti non sconvolgono l’integrità del Dna, ma il suo modo di «lavorare». Precisa, infatti, Martino che «l’esperienza modifica non tanto la struttura del Genoma, quanto la sua funzionalità». È una scoperta preziosa, dato che testimonia come più importante di cosa ci sia scritto in questo «libretto d’istruzioni» sia piuttosto come viene letto: il Dna è una raccolta di «ricette» per cucinare proteine, gli esecutori biologici che regolano i processi di quel laboratorio che è il corpo umano. Come il mago conosce certi «abracadabra» così l’ambiente recita continuamente il Genoma, come leggendo da un enorme «formulario» e cambiandoci giorno dopo giorno.
Ad attivare o disattivare le «formule» del Dna sono fattori che si trovano vicini ai geni e ne controllano l’attività. Così «l’esperienza - rosegue Martino - è in grado di “accendere” e “spegnere” geni che a loro volta danno istruzioni all’organismo». E il professore torna alla metafora del libro polisemico, dove i geni sono parole o frasi: «Silenziare un gene è come usare un correttore per cancellare intere digressioni, mentre attivare un gene è come usare un evidenziatore per risaltarne altre: dal senso ultimo che risulta nella lettura di questo Genoma, “visto e corretto” dai vissuti, l’organismo apprende come cambiare e comportarsi».
La plasticità del cervello rispetto agli eventi, così, ricorda la plasticità del sistema immunitario. Quando un trauma fisico, chimico o biologico - come nel caso dell’invasione di patogeni - mette in pericolo l’organismo, specifiche cellule «ordinano» al Dna di produrre le difese. In modo simile il cervello «è in grado di processare le esperienze negative, contemplabili proprio come risposte infiammatorie anomale, e quindi respingerle».
Questa «vita sommersa» e questa vitalità del cervello sono l’ulteriore sorpresa di un organo che si rivela sempre più complesso e dinamico. Martino ricorda, sempre nel parallelo con i sistemi di difesa dalle malattie, che «il cervello, per tanto tempo, è stato considerato impenetrabile dal sistema immunitario, sia per via della struttura, avvolta da importanti barriere protettive, sia perché la risposta immunitaria porta con sé l’infiammazione, potenzialmente molto dannosa. Ma poi si è pensato che, dopotutto, data l’importanza dell’organo che contiene l’Io biologico, l’immunità potesse e dovesse operare anche in questo “santuario”». La prova che effettivamente è così è stata poi trovata nell’evidenza che alcune malattie neurodegenerative sono scatenate proprio dall’infiammazione di neuroni che, in seguito, muoiono, come nel caso del Parkinson. È un dato che fa ripensare il dogma che vor­rebbe il cervello isolato e monolitico. Gli studi sul­ l’immunità neurologica raccontano il contrario: il cervello cambia grazie alle staminali neurali che riparano danni e crescono influenzate dall’am­biente. «Può sembrare l’uovo di Colombo ­ con­clude Martino ­ perché è facile intuire che la no­stra forma mentis sia forgiata dagli altri e dal tempo. Ma finora non avevamo prove. Diverso è osservare le basi molecolari della plasticità del cervello rispetto all’esperienza».