giovedì 19 settembre 2013

«L’agire politico, trasformativo, non può ora che pensarsi e praticarsi in sintonia, in alleanza, con forme, libere, di sensibilità religiosa»
«L’oltre della sinistra è l’oltre di questo mondo. . Questo linguaggio evocativo va riempito di contenuti, cioè di scelte, decisioni, atteggiamenti, programmi, che parlino all’esistenza quotidiana delle persone semplici. Semplici è il nome politico, tradizionale, e proprio per questo oggi innovativo, per dire il concetto cristiano degli ultimi.»
l’Unità 19.9.13
Bisogno di sinistra. E di andare oltre
Il capitolo inedito del libro di Tronti «Per la critica del presente»
di Mario Tronti


Per la critica del presente, pagine 147 euro 12,00 Ediesse
Popolo, Stato, Partito, Lavoro, Crisi. Parole antiche, cariche di storia, tuttavia ancora presenti. Nella politica di oggi stravolte, malintese, contestate, sofferte. Ripensarle in fila, una dietro l’altra, può essere utile per capire e per agire. Di questo si parla, in questo libro. E poi sinistra: parola, anch’essa, antica, ma non tanto, non troppo, rispetto alle altre.

WELT-UND-LEBENSANSCHAUUNG: SI DICEVA COSÌ UNA VOLTA. CONCEZIONE/VISIONE DEL MONDO E DELLA VITA. UNA FORZA POLITICA, CON L’AMBIZIONE DI PRESENTARSI COME UNA POTENZA STORICA, SI DOTAVA DI QUESTA ARMA INTELLETTUALE. Comprensione della realtà e proposizione di un progetto. Con questo, convinceva, mobilitava, chiedeva e otteneva appartenenza, lottava. Scomparsa, oggi, questa dimensione. L’ideologia della fine delle ideologie ha fatto terra bruciata. È l’ora di chiamare con il suo nome questo apparato dominante di idee: una forma contemporanea di nichilismo politico. Come tale va combattuto. Dopo l’89 del Novecento, non c’è stata una proposta, se non quella restaurativa dello statu quo ante. C’è stata invece la cancellazione, per l’avvenire, di qualsiasi proposta. L’evocazione della «fine della storia» voleva dire questo. Nessuno più poteva, e doveva, permettersi di proporre una concezione del mondo, e della vita. Essa aveva assunto in tale misura il modo di una forma alternativa da meritare, solo per questo, di essere destrutturata, demonizzata, da parte di chi voleva mettere al sicuro, in via definitiva, ricchezza e potere. I processi di secolarizzazione sono stati un decisivo vettore di trasmissione della narrazione che decretava la fine di tutte le narrazioni. Anche in politica vinceva il relativismo. Più nessuna verità, non dico come possesso ma nemmeno come ricerca. L’immanenza dei fini ne risultava come conseguenza. Tutto sta dentro questo mondo, da cui è impossibile uscire. Il Castello di Kafka è inattaccabile, come il Processo che lo costituisce è impenetrabile. Una sola forma di vita, quella borghese, all’interno della quale la sola decisione che ti viene concessa è come starci. Non se starci: perché questo è già stato deciso per te da quando sei nato. Al posto dell’oltre, il niente. L’operazione, vincente, è consistita nell’oscurare l’orizzonte, illuminando la notte. Sono andate più o meno così le cose, nell’ultimo trentennio. Luccicava il liberismo assoluto, mentre si spegnevano le luci del socialismo. Poi, il risveglio negli incubi della crisi generale ha fatto vedere come perdute tutte le illusioni.
UN ALTRO MONDO
Da qui, occorre ripartire. «Un altro mondo è possibile»: gridavano generosamente i movimenti antagonisti. Questo già prima che il sistema imboccasse la via della sua crisi. Contrapporre le nostre illusioni alle loro può essere utile per un momento di mobilitazione. Subito dopo, conviene passare a un duro lavoro di costruzione. Realisticamente, dovremmo dire: «un altro mondo è necessario». E siamo ancora nello stato di fatto di dover creare le condizioni di possibilità. Se non si riequilibra il rapporto di forza tra il sotto e il sopra della società, queste condizioni non si creeranno. E dunque questo è il primo obiettivo. Ricostituire una soggettività collettiva in grado di far sentire la propria presenza in campo, con un pensiero alternativo e una pratica di lotta capaci di fare storia. Nuova storia, perché è vero che quella vecchia è finita, quella antica degli Imperi e delle Chiese, quella moderna delle Nazioni e degli Stati. È finita anche quella contemporanea, novecentesca, delle classi e dei partiti? Ecco, qui dobbiamo fermarci un momento a riflettere. Perché qui non si può dire che siamo decisamente al dopo, a quel post, che definisce, sembra definire, appunto, adesso, ogni presenza. Piuttosto, c’è un passaggio, non concluso. Il passato è troppo prossimo: non tutto è da trattenere, non tutto da liquidare. Nell’equilibrio fra tradizione e trasformazione si giocherà il prestigio, l’autorevolezza, l’efficacia di una nuova forza d’urto.
L’altermondialismo è un’idea non realizzata, da realizzare. Questa è la funzione dei movimenti dal basso: sono la domanda, non la risposta. Un’istanza simbolica: importante, essenziale, nell’èra dell’agire comunicativo. Il 99 per cento da una parte, l’1 per cento dall’altra non è un dato statistico, è un immaginario mobilitante. Deve passare nelle mani di una potenza politica organizzata. La globalizzazione è un fatto, dalla testa dura. C’è il mondo dei mercati, della produzione, dei consumi: che rende possibile il mondo dei popoli, dei lavori, degli esclusi. Prima di tutto, rendere visibili gli estremi: i paperoni della finanza, i dannati della terra. Poi, lavorare sugli spazi intermedi, con i loro tempi di vita, assai diversi nei diversi mondi. I popoli non sono più quelli delle nazioni, anche se lo sono in parte ancora e di nuovo bisogna tenerne conto: ma tendenzialmente sono popoli di continenti. Favorire questa sovranazionalità dei popoli. Concepirla, organizzarla, come un livello più alto degli storici movimenti di liberazione. Gli eredi del movimento operaio, con l’internazionalismo proletario, sanno meglio di altri di che cosa si tratta. L’Europa è oggi il luogo del grande esperimento. Unione economica, monetaria, finanziaria: che cosa manca per l’unità politica? Manca la volontà. Il partito del socialismo europeo è vocato a essere il motore di questo processo. Il cuore oltre l’ostacolo aspetta di essere gettato. I lavori non sono più quelli degli operai delle grandi fabbriche, anche se lo sono in parte ancora, e bisogna tenerne conto. Il lavoro industriale cala in Occidente, cresce nel mondo. E comunque si trasforma tecnologicamente e socialmente. Di nuovo tradizione e trasformazione. Si moltiplicano, e si frantumano, le figure di lavoro. Ma le figure autonome non cancellano le figure dipendenti. In molti casi, esprimono forme nuove di dipendenza. Il lavoro immateriale si aggiunge al lavoro materiale, non lo sostituisce. Semmai si ridistribuiscono le funzioni su basi etniche. Una novità. Il mercato mondiale del lavoro andrebbe rappresentato sindacalmente e politicamente. Ecco un’idea alternativa di mondo. E gli esclusi. Irrompono sulla scena da protagonisti. Si liberano da una passiva subalternità secolare. (...) Non basta importare lì i riti di una democrazia elettorale, bisogna avviare quella dialettica virtuosa di diritti politici, diritti civili, diritti sociali, che ha fatto la nostra lunga vicenda di storia moderna e contemporanea.
Ce n’è di «che fare»! E qui manca qualcosa di più che la sola volontà. Manca un’élite. Uso questa parola senza patemi d’animo di incertezza. Non esiste lotta di popolo, liberazione del lavoro, fine definitiva dell’esclusione, senza classi dirigenti. O meglio, possono esistere queste cose occasionalmente, momentaneamente, ma senza che durino, che incidano, che impongano, che vincano. E invece, occorre durare, incidere, imporre, e conquistare posizioni senza tornare più indietro. Gli altri hanno un ponte di comando, da questa parte ci deve essere un punto di direzione. Comandare e dirigere sono due differenti forme di agire politico. Comando vuole personalizzazione, direzione chiede collegialità. Insieme, si sbaglia meno, e si decide meglio. Nella dialettica tra posizioni, la decisione diventa un processo, e solo come processo, concluso, diventa efficace perché condivisa. Il comando si esprime come potere, la direzione come autorità. Gruppo dirigente è una nobile categoria del politico. È difficile che sia univoco, è normale che sia composito. Nel partito, rappresenta la composizione della militanza. I militanti devono essere a loro volta dirigenti politici nella società. Dirigere vuol dire orientare, orientare vuol dire convincere, convincere non vuol dire essere conosciuti, ma essere riconosciuti. Nel riconoscimento sta l’autorevolezza dei dirigenti. Anche nel partito occorre ricongiungere l’esperienza del passato con la tendenza del presente. Appartenenza al collettivo esige oggi molta più libertà della persona. Ma come si passa dall’individuo proprietario alla persona-mondo, questo, per saperlo, bisognerebbe assumere, come programma minimo, una rivoluzione intellettuale e morale delle forme di vita.
Ecco: forme di vita: qui, la questione antropologica, che sta lì, passivamente presente, e va resa viva, attiva, protagonista del conflitto con una forma di mondo, dominante. Vita e mondo oggi si contraddicono. I mondi vitali si sono scissi e vanno ricomposti, pena la deriva del disagio di civiltà in una inarrestabile decadenza civile. È il problema, critico, esso stesso in crisi, del senso da dare all’esistenza umana. L’essere umano non può vivere come appendice della merce, come funzione di mercato, come produttore di reddito e consumatore del prodotto che produce. (...) L’agire politico, trasformativo, non può ora che pensarsi e praticarsi in sintonia, in alleanza, con forme, libere, di sensibilità religiosa. La dimensione laicista, la secolarizzazione dei comportamenti alternativi, è ormai tutta catturata dentro l’orizzonte invalicabile del presente. L’oltre della sinistra è l’oltre di questo mondo. Questo linguaggio evocativo va riempito di contenuti, cioè di scelte, decisioni, atteggiamenti, programmi, che parlino all’esistenza quotidiana delle persone semplici. Semplici è il nome politico, tradizionale, e proprio per questo oggi innovativo, per dire il concetto cristiano degli ultimi. Gli esclusi, che non aspirano ad essere inclusi, piuttosto pretendono di escludere da sé la subalternità, la dipendenza, la stessa libera acquiescenza, rispetto ai meccanismi di sistema.
E allora, e dunque: il nome e la cosa. Importante, essenziale non è dire sinistra. Importante, essenziale è dire che cos’è sinistra, oggi. Se il nome fosse di ostacolo per una più ampia aggregazione di forze intorno al «che cos’è sinistra», in modo da farne una potenza in campo, con cui tutti, dall’alto e dal basso, élites e popolo, devono fare i conti, discutiamo qual è il nome appropriato. Mettiamolo sul tappeto. E ripartiamo all’attacco.

Repubblica 19.9.13
Passione eretica
Quel sentimento che nega il peccato originale
Nel suo saggio in uscita oggi Vito Mancuso concilia fede e ragione nel nome dell’energia vitale in continua evoluzione
di Gad Lerner


Vito Mancuso lo fa apposta. È un candido, ma non un ingenuo. Credo lo diverta l’irritazione suscitata dal suo modo di interpretare e comunicare la teologia nella nutrita schiera dei puristi, più o meno credenti ma sempre devoti alla tradizione. Quelli, i puristi, lo accusano di non essere più cristiano e di osare troppo nei suoi tentativi di interpretazione del creato. Lui, Mancuso, si rammarica di come i devoti della teologia dogmatica finiscano per rendere sempre più insostenibile l’idea di Dio all’uomo contemporaneo. E allora lo fa apposta, per esempio, ad abbinare in esergo, là dove pone le domande fondamentali del suo nuovo saggio Il principio passione(Garzanti, pagg. 495, euro 18,80), due figure stridenti come il Cardinale Martini e Lucio Dalla: il biblista che cerca illuminazione nel logos, ovvero crede nel pensiero e nella parola come tramiti di un disegno divino dell’esistenza; e il musicista- poeta che va brancolando nel mistero del caos, riconoscendolo a sua volta divino e vitale. La scrittura di Mancuso riesce a mantenersi ironica pure quando si cimenta con gli enigmi fondamentali del cosmo, senza mai scadere nella faciloneria: così il Lucio Dalla di Com’è profondo il mare può sovvenirgli quando descrive l’origine acquatica del primo microrganismo LUCA «apparso tra 3,8 e 3,5 miliardi di anni fa che ormai ha sostituito il vecchio Adamo». È interessante constatare come le più antiche cosmogonie e la scienza moderna convergano sulla primordialità dell’acqua.
L’impianto bibliografico posto a chiusura del volume spazia per ben 23 pagine fra teologia cristiana e filosofie orientali,fra religioni politeiste e classici greci, fra ebraismo e spiritualità laica; contempla i nuovi teorici del creazionismo e oppone loro un resoconto sistematico della fisica delle particelle e della teoria dell’evoluzione. Così l’erudizione, anziché intimidirci, assolve al suo ruolo di guida per i perplessi.
Lo scopo di tale impianto poderoso è infine quello di proporre un credo semplice. Capace di avvicinare fede e ragione. Mancuso lo sintetizza nella formula: Logos + Caos = Pathos. Il principio passione, appunto, come amalgama dell’eterno conflitto tra la razionalità di un disegno superiore e la casualità materiale. Ecco cos’è il Pathos: è lo spirito vitale dell’amore divino/umano da cui scaturisce l’energia della vita in continua evoluzione. Qui Mancuso farà indispettire i teologi puristi: in origine, afferma, non vi è alcun peccato originale, come pretende la dottrina cattolica senza trovare appigli nel libro della Genesi. In principio, non c’è un peccato di cui colpevolizzarci, bensì il caos originale. Il male di cui inevitabilmente è intessuta la nostra esperienza, la stessa crudeltà insita nell’evoluzione del creato, non sono il prodotto di una volontà divina (come tale inspiegabile). Solo al prezzo di “disonesti sofismi” la dottrina cristiana vigente tenta di tenere assieme un Dio-guida artefice in toto della vicenda umana e un Dio-amorevole per sua natura votato al bene. L’unica possibilità del credente oggi è “passare dal verticismo della potenza all’armonia della relazione”. Riconoscere cioè la strutturale imperfezione dell’essere creato – come del resto la scienza ci sollecita a fare – e ammettere che questo è anche il fondamento della nostra libertà. Dio stesso, come ha affermato Benedetto XVI in contrasto col suo predecessore Giovanni Paolo II, non può aver pianificato il male a fin di bene. Né le tragedie storiche, né i cataclismi naturali, ma neppure le malattie genetiche e il dolore che permea ogni vita, possono giustificarsi come opera di Provvidenza. Ogni essere creato esce dalle mani di Dio impastato di logos e di caos, di ordine e di possibilità di infrangere l’ordine. Altrimenti, con la libertà, ci sarebbe precluso anche lo spirito capace di amore. Il pathos.
Ecco dunque il Dio in cui crede Mancuso, lieto di poter condividere tale fede con molti autorevoli esponenti della comunità scientifica: anch’Egli immerso nel caos, vi promuove quella spinta all’aggregazione senza cui l’Universo sarebbe rimasto un disordinato assemblaggio di microrganismi elementari impossibilitati all’armonia; e l’eros che ci fa amare il mondo e sopportarne il dolore, non circolerebbe fra noi.
In sintesi: «Credo in un Dio che prende così sul serio l’alleanza col mondo da essere coinvolto nel processo vitale mediante cui il mondo si fa». E qui, accettando la perpetua costanza del male che mette in imbarazzo il Catechismo cattolico («La permissione divina dell’attività diabolica è un grande mistero», balbetta l’articolo 395), Mancuso si compiace di citare ancora Lucio Dalla: «Credo molto nel dolore come elemento evolutivo. Per cui credo nella poesia».
Di fronte a chi lo accuserà di teologia facile – egli stesso non disconosce che la sua visione del divino si avvicina a quella degli animisti – mi piace constatare la sintonia rivendicata da Mancuso con la filosofia della relazione di Martin Buber. Non a caso anche il grande narratore della mistica ebraica fu oggetto di ironie sgradevoli da parte di interlocutori più rigidi come Gershom Scholem e Leo Strauss. Ma sono proprio i Mancuso e i Buber coloro che sanno avvicinare la cultura religiosa alla sensibilità popolare.
È infatti qualcosa di più che una tecnica narrativa brillante, quella che porta Mancuso a rileggere Giobbe e il mistero del corpo umano dilaniato alla luce della scoperta del bosone di Higgs, detto anche – guarda un po’ – “particella di Dio”. Perché la spinta relazionale trova un fondamento nella fisica che studia la materia, con modalità trasferibili nella nostra dimensione spirituale. I mattoncini colorati della nostra infanzia, si diverte a notare Mancuso, non a caso si chiamavano e si chiamano ancora Lego. E allora la forza dell’amore non è solo un escamotage per canzonette, vero Lucio Dalla? Resta da capire come il cristiano Mancuso possa collocare la vicenda di Gesù dentro a questa visione né monarchica né anarchica, semmai “democratica” dell’evoluzione del cosmo. Un conto è rivendicare la possibilità di essere darwiniani e credenti, altro è misurarsi con la passione e la risurrezione del Figlio di Dio.
Il suo proposito dichiarato è di “schiodare la Bibbia” dall’imbarazzante contraddizione fra le pagine su Dio come amore-santità e il male che altrove la pervade; presentando così “un’idea sostenibile di Dio” che superi la contrapposizione fra teismo (il mondo governato dall’alto) e ateismo (il mondo in balìa del caso). Dunque è proprio il principio-passione a motivare la fede di Mancuso in un Cristo di cui la dottrina cattolica ha lasciato in ombra il ruolo cosmico: il suo passaggio terreno va interpretato come condivisione divina di un pathos riscontrabile in numerose altre vicende umane di martirio, fino ai giorni nostri. Cristo lo aiuta a comprendere perché l’amore possa sospingere al sacrificio di sé, votandosi al bene e accettando il dolore, tante altre figure a noi prossime. Del resto, nel suo saggio precedente (Io e Dio,pagg. 317-8) Mancuso aveva scritto di Gesù: «Accetto la risurrezione, ma nonne faccio il fondamento della mia fede… le parole di Gesù e la sua testimonianza di vita mi affascinano anche a prescindere dalla sua risurrezione e dai suoi miracoli».
Lo stesso dialogo fra papa Francesco e Eugenio Scalfari avviato su questo giornale laico, conferma quanto fertile possa essere l’offerta di nuova teologia, non più intimidita dalla tradizione dogmatica. Mancuso ne ha fatto un libro affascinante, forse il suo lavoro più ardito: dove egli cerca l’incontro con gli esploratori della scienza sul terreno incognito della creazione. E dove la creazione stessa ci si ripropone come opera divina impastata di bene e di male, inspiegabile senza l’ambivalenza della passione.

IL SAGGIO Il principio passione è il nuovo libro del teologo Vito Mancuso (Garzanti, pagg. 495, euro 18,80) In uscita oggi, sarà presentato sabato alle 12 dall’autore a Pordenonelegge

l’Unità 19.9.13
Pd, non c’è l’accordo Si tratta tra i sospetti
Regole, si cerca ad oltranza un’intesa in vista dell’Assemblea nazionale di domani
I renziani accusano i bersaniani di voler rinviare le assise
La replica: Renzi vuol nominare segretari regionali i più fedeli
di Simone Collini


ROMA Un accordo sulle regole del congresso Pd ancora non c’è. Potrebbe arrivare stamattina, quando tornerà a riunirsi la commissione incaricata di portare a casa il risultato, dopo che fino a tarda sera ieri arrivavano soltanto fumate nere. Ma non è scontato. Tutti dicono di voler giungere a un’intesa, da più parti sostengono che ci sono le condizioni per chiudere positivamente prima dell’Assemblea di domani e sabato, che di fatto dà il via al congresso. E però su un punto nessuno intende cedere. Questo: i segretari locali vanno eletti prima o dopo il leader nazionale?
Non si tratta di una formalità perché può definire la fisionomia del Pd che sarà, al di là di quale sia l’esito finale della sfida ai gazebo. Che potrebbe avvenire, a seconda di quale strada si scelga, tra il 24 novembre e l’8 o il 15 dicembre (altra materia di discussione). Ma a pesare sulla mancata intesa tra le diverse componenti del Pd, in modo ben peggiore che qualche settimana in più o in meno per arrivare alle primarie, sono i sospetti reciproci. Non volete far fare il congresso, attaccano i renziani. Che temono anche che il sindaco di Firenze vinca alla fine alle primarie e però si trovi a gestire un Pd controllato a livello territoriale da un’altra maggioranza. Dice Ernesto Carbone: «L’obiettivo di Bersani è non fare il congresso per con-
tinuare a gestire il partito. Il 24 novembre dobbiamo organizzare i seggi, che Bersani voglia o non voglia perché il Pd non è suo». Parlate di meritocrazia ma volete solo luogotenenti fedeli, replicano i bersaniani. Come Alfredo D’Attorre: «Il congresso va concluso entro l’anno, ma bisogna consentire anche ai livelli territoriali del partito di avere quanto prima organismi legittimati democraticamente ed eletti in maniera autonoma rispetto alle correnti nazionali. Renzi dice che vuole un Pd in cui a dirigere siano i più bravi e non i più fedeli. Bene, i più bravi facciamoli scegliere dai territori, non facciamoli nominare da Roma».
I sospetti vengono acuiti poi da un avvenimento estraneo alla discussione interna al Pd sulle regole del congresso: il videmessaggio di Berlusconi, che viene trasmesso proprio mentre dovrebbe cominciare la riunione della commissione congressuale e che viene letto dai vertici del Pd come la prima mossa con cui il Pdl intende logorare Letta e aprire una crisi in tempo per andare a elezioni in primavera. Uno scenario drammatico, secondo Guglielmo Epifani, che accusa l’ex premier di gettare «benzina sul fuoco»: «Da oggi in poi si assumerà le responsabilità di quello che potrà accadere al governo». E uno scenario che, ragionano i sostenitori di Matteo Renzi, consentirebbe ai bersaniani di realizzare il loro piano: far eleggere tra ottobre e novembre i segretari locali e poi, se la situazione dovesse effettivamente precipitare, scegliere con primarie aperte il candidato premier da schierare alle elezioni di primavera, lasciando però di fatto il partito in mano a chi lo sta gestendo ora. Con a capo chi? Epifani? E con Letta schierato alle primarie contro Renzi, come da sospetto sempre del fronte pro-sindaco? O con un ticket che preveda Renzi in corsa per Palazzo Chigi e Gianni Cuperlo alla guida del partito, come da sospetti dei bersaniani che hanno giudicato negativamente un’ipotesi di intesa trovata ad un certo punto da renziani, da una parte, e dalemiani e giovani turchi, dall’altra?
La riunione della commissione è andata avanti fino a tardi e tornerà a riunirsi questa mattina per evitare che all’Assemblea nazionale si vada senza rete. Nessuno ha i numeri per tentare un blitz e a nessuno conviene far partire il congresso con una lacerazione. Di certo, non conviene ai due principali sfidanti, Renzi e Cuperlo. Che, attraverso i membri della commissione congressuale a loro più vicini, stanno tentando di arrivare a un’intesa.
Cuperlo insiste sul fatto che «le regole si cambiano se c’è unanimità, non a maggioranza» e la sfida al sindaco di Firenze la vuole portare piuttosto sul piano dei contenuti: «Renzi vuole un Pd cool? Divertente, certo. Renzi vuole un partito che torni a vincere? Ci mancherebbe. Io voglio un partito che prima di tutto recuperi quei voti, nostri, che si sono persi alle ultime elezioni. E dobbiamo dire che partito vogliamo, chi vogliamo rappresentare, come rispondiamo alla più grande crisi dal dopo guerra ad oggi. Io non voglio un segretario divertente. Voglio un segretario che ricostruisca un partito».
Renzi, ai tanti che ironizzano su quel «cool» pronunciato martedì durante l’incontro con Walter Veltroni, ribatte elencando altri risultati incassati a Firenze, e dicendo via Facebook: «Oh, ma fanno tutti polemica sulle parole. Rottamare non va bene, asfaltare è violento, cool è troppo inglese (e le ironie che facilmente immaginate). Aspetteremo le primarie per vedere se qualcuno vuole discutere anche delle idee, non solo... delle parole».
La prima sfida sarà comunque in queste ore, e poi, nel caso l’accordo non arrivi, all’Assemblea nazionale, in cui si potrebbe andare alla conta. Oppure lasciare tutto così com’è. Il che vorrebbe però dire che, come nel 2009, ci vorrebbero almeno quattro mesi per far svolgere i congressi locali e arrivare poi alle primarie per il segretario nazionale.

Corriere 19.9.13
Regole del congresso, si tratta per ore: l’accordo è lontano
Accuse e veleni nel dibattito in Commissione
di Alessandro Trocino


ROMA — «Rottamare non va bene, asfaltare è violento, cool è troppo inglese». Matteo Renzi passa in rassegna il suo vivace repertorio lessicale e si stupisce delle reazioni: «Oh, ma fanno tutti polemica sulle parole. Aspetteremo le primarie per vedere se qualcuno vuole discutere anche delle idee». E a proposito di primarie, ieri la Commissione congresso ha tenuto una riunione fiume per provare a trovare una prima intesa sulle famose «regole». Oggetto di un duro scontro, con tira e molla continui, nel tentativo di raggiungere un compromesso alla vigilia dell’assemblea del Partito democratico, che comincia domani. Ma l’accordo è difficile. Lo dimostra il fatto che, nonostante diverse ore di discussioni, la riunione è stata aggiornata a questa mattina, nel tentativo di definire tutti gli aspetti, politici e tecnici.
Tre i temi principali: la data del Congresso, l’automatismo segretario-candidato premier e i congressi regionali. Quanto alla prima, lo Statuto stabilisce la data nel 7 novembre. Renzi vorrebbe rispettarla, accelerando il più possibile. Ma alla fine, la soluzione sarà probabilmente compresa tra il 1 e l’8 dicembre. Compromesso da trovare anche sulla questione dell’automatismo tra segretario e candidato premier. Non dovrebbe esserci più l’automatismo, nel senso che verrebbe modificato lo Statuto e si terranno le primarie: è vero che il partito potrà indicare alla premiership il proprio segretario, ma potranno candidarsi anche altri. Il nodo più difficile, il vero punto del confronto, sembra essere quello dei congressi regionali. Renzi non vuole che l’elezione dei segretari regionali avvenga prima di quello nazionale, per evitare che la macchina del partito resti nelle mani dei bersanian-cuperliani. I quali invece volevano cominciare dai provinciali, per seguire con regionali e nazionali, in modo da assicurare all’attuale maggioranza nel partito una posizione di sicurezza. Difficile trovare un punto di incontro.
E che le acque siano ancora agitate lo dimostra anche lo scontro tra il renziano Ernesto Carbone e il bersaniano Alfredo D’Attorre. Il primo dichiara: «Bersani getta la maschera. Il suo obiettivo è non fare il Congresso, per continuare a gestire il partito». Poi l’accusa di «violare sistematicamente le regole»: «Il 24 novembre dobbiamo organizzare i seggi, sia che Bersani voglia, sia che non voglia. Il partito non è suo». Replica di D’Attorre: «Renzi richiami i suoi sostenitori più esagitati almeno all’obiettivo di un Pd civile. Dichiarazioni come quelle di Carbone sono fuori dalla grazia di Dio. Il congresso va concluso entro l’anno, ma bisogna consentire anche ai livelli territoriali del partito di avere quanto prima organismi legittimati democraticamente ed eletti in maniera autonoma rispetto alle correnti nazionali».
Il dibattito verte anche sul ruolo e l’immagine del partito. La parola «cool» diventa oggetto di ironie. Gianni Cuperlo non apprezza: «È divertente, ma io non voglio un segretario divertente. Voglio un segretario che ricostruisca un partito. Ricominciando a recuperare quei voti, nostri, che si sono persi alle ultime elezioni». L’opposto di quello che dice Renzi, proiettato all’esterno e alla conquista dei voti del Pdl e del Movimento 5 Stelle.
Anche Pippo Civati, altro candidato alla segreteria, attacca: «Ho smesso di commentare gli slogan di Renzi, vorrei ogni tanto sentirlo parlare di politica, di questo governo, di quanto debba durare, di quello che è successo a Taranto, del gruppo Riva. E Gianni Pittella, quarto sfidante, conclude così: «Gli italiani non ne possono più di Berlusconi e dei suoi guai giudiziari, ma sono anche arcistufi dello sterile dibattito congressuale del Pd, fatto solo di date e di regole, battute e controbattute».

La Stampa 19.9.13
Bersani avverte Renzi: senza intesa si va al 2014
Resa dei conti sul congresso. Cuperlo ironico sul “cabarettista di Firenze”
di Carlo Bertini


È da poco passato mezzogiorno e nel cortile della Camera Gianni Cuperlo racconta con fervore a Pierluigi Bersani lo spot di una compagnia telefonica asiatica che imperversa sul web: tre minuti e un plot struggente, episodio di umana generosità restituita al suo benefattore trent’anni dopo da un bambino poi divenuto medico, che culminano con il messaggio che «dare è la migliore forma di comunicazione». «Ecco, forse il cabarettista di Firenze farebbe bene a vederlo...», butta lì Cuperlo, sfoderando una verve caustica finora tenuta in serbo per i prossimi duelli all’arma bianca.
Bersani sorride masticando il suo toscano e va da sè che quell’epiteto - «affettuoso, per carità», come tiene a chiarire il candidato - sia riferito al sindaco di Firenze, che per tutto il giorno tiene sulla graticola lo stato maggiore del Pd. Ma dietro il sorriso, l’ex segretario sfodera la sua faccia più dura. Con un preciso avvertimento che ha a che fare con la controversa data del congresso, intorno alla quale si consumano troppe manovre vere o presunte e molti sospetti. «Stanno lavorando. Se si riesce a trovare un accordo su regole e percorso del congresso, credo che entro la metà di dicembre faremo le primarie», dice all’agenzia Adnkronos. E se un’intesa non si trova? «Allora faremo il congresso come l’ho fatto io. Ci abbiamo messo 4 mesi. Se si vuole fare prima bisogna trovare un accordo».
Ecco la minaccia: se Renzi non vuole rischiare di dover aspettare fino a febbraio dell’anno prossimo, è bene che accetti le condizioni degli «altri», senza ribaltare il tavolo, altrimenti la corda si spezza e con le regole attuali può scordarsi i gazebo entro Natale. I sodali del rottamatore sono lesti a parare subito il colpo: chi ha la delega a trattare, cioé Lorenzo Guerini, sul suo ipad ha ben segnate le date del congresso 2009, che partì in luglio e finì ad ottobre, con la pausa di agosto nel mezzo. «Mi son fatto i calcoli e anche con le vecchie regole si possono fare le primarie a dicembre senza problemi, quindi è inutile che minaccino», dice prima di entrare alla riunione che dovrebbe essere «l’ultima» e invece non lo sarà.
Infatti, fino a quando in nottata Epifani riconvoca per oggi i 19 membri della commissione congresso senza poter chiudere un accordo complessivo, i veleni scorrono e le voci corrono: le più funeste per il partito, sull’onda dei segnali che arrivano dai renziani del cerchio stretto, sono quelle che evocano una rottura potenzialmente dirompente. Gli emissari del sindaco fanno infatti sapere che se «loro», cioé i bersanian-dalemiani, vogliono fare il congresso il 15 dicembre, senza far eleggere i segretari regionali lo stesso giorno del leader, allora non ci sarà l’intesa. Tradotto, domani si andrebbe in assemblea nazionale al buio, con gran danno di immagine per un partito che per due giorni potrebbe lacerarsi a colpi di votazioni e attacchi incrociati tra le fazioni. Gli uomini di Epifani invece, mezz’ora prima della riunione della commissione, arrivavano a sospettare che «se lui vuole rompere è perché non si vuole caricare sulle spalle il fardello del Pd e le richieste dei riciclati, si vuole tenere le mani libere, ma per far cosa?».

l’Unità 19.9.13
Civati: Matteo ogni tanto parli di politica

«Ho smesso di commentare gli slogan di Renzi, vorrei ogni tanto sentirlo parlare di politica, di questo Governo, di quanto debba durare, di quello che è successo a Taranto, del gruppo Riva». Così Giuseppe Civati, candidato alla segreteria del Pd, ha commentato le dichiarazioni del sindaco di Firenze che lunedì aveva affermato nel
dibattito con Walter Veltroni di volere un partito «che torni a essere cool».
Sulla questione interviene anche il candidato Gianni Pittella: «Gli italiani non ne possono più di Berlusconi e dei suoi guai giudiziari ma sono arcistufi dello sterile dibattito congressuale del Pd fatto solo di date e regole, battute e contro battute».

La Stampa 19.9.13
“Sui temi ancora possibili intese Pd-M5S”
Cinque domande a Giuseppe Civati


Onorevole Civati, dopo il voto su Berlusconi, l’M5S non potrà più dire che siete uguali al Pdl.
«L’M5S usa toni da campagna elettorale. Ma noi non siamo mai stati uguali al Pdl. E in verità sono molte le situazioni in cui la nostra sensibilità è stata comune a quella dei Movimento. Penso, per restare all’attualità, alla legge sull’omofobia. Certo che se continui ad insultare le persone con cui potresti collaborare è difficile andare avanti».
Casaleggio giura che con voi non farà mai accordi.
«Casaleggio sbaglia. In questo modo dà un alibi a chi sostiene che il governo delle larghe intese sia necessario. A meno che, a differenza degli otto milioni di elettori che gli hanno dato fiducia, non sia lui a volerlo».
È ancora possibile un’alleanza Pd-M5S?
«Sì. Ma concentrandoci su temi specifici. A partire dalla legge elettorale. E per un tempo definito».
Dopo di che?
«Ognuno per la sua strada. E se io fossi il segretario del Pd cercherei di rimettermi in contatto con la sensibilità della nostra gente. Riprendendo proprio quei milioni di voti che sono finiti a Grillo».
Come giudica il video di Berlusconi?
«Non so se prenderlo come una serie di promesse o una serie di minacce. Ma se potessi fare una battuta direi che ci ha lasciato con il cerone in mano». [A. MALA. ]

il Fatto 19.9.13
Signorini, faccia a faccia con Renzi: “È un monaco”
A Firenze il direttore di “chi” incontra il sindaco
In ballo potrebbe esserci materiale “scottante” ma il giornalista di gossip smentisce l’indiscrezione
di Wanda Marra

Pensiamo a un nuovo business plan facciamolo durante un briefing o con un brainstorming. Pensiamo a cos'è cool facciamolo per la community. Parola di Renzo Mattei, ovvero il Fake Twitter di Matteo Renzi. Sui social network impazzano le prese in giro (o le prese per il “cool”) che dir si voglia sull’ultima definizione del Pd targata Matteo Renzi (con gli altri candidati alla segreteria, Civati e Cuperlo intenti a condannarla seriamente). Ma non c’è giorno che l’”asfaltatore” non riservi qualche sorpresa. Non pago delle uscite mondane di questa settimana (presentazione dell’autobiografia di Roberto Cavalli, apparizione in veste di guest star alla conferenza stampa dei mondiali di ciclismo su strada di Firenze con il presidente del Coni, Giovanni Malagò), ieri è andato a pranzo con Alfonso Signorini, direttore di testate del gruppo berlusconiano Mondadori, nonchè conduttore di trasmissioni di cronaca rosa per Mediaset. Un fedelissimo del Cavaliere.
I due si vedono in un ristorante al centro di Firenze, e la notizia esce su Dagospia. Signorini si dà un gran daffare a confermarla. “Di Renzi non si butta niente”, commenta. E in effetti è stato il direttore di Chi a volere un appuntamento col Sindaco, visto che ieri era a Firenze. Peraltro, i due si conoscono da anni, sono in ottimi rapporti. “Per me è stata un’ottima occasione di approfondire la conoscenza con Renzi”, dice Signorini. Due ore di pranzo. E poi giù complimenti: “Riconosco la sua grande capacità di leadership”. Di più: “Non è come la maggior parte dei politici italiani. Finalmente uno che sta in mezzo alla gente, che ha rapporti con tutti. Uno che sa comunicare”. In effetti il Sindaco veniva dalla presentazione di un progetto per le bici riciclate dai detenuti. Signorini è pronto al tradimento, vuole Renzi a Palazzo Chigi? “No, io sono berlusconiano”. Però, “lui non è come gli altri”. Il giovane Matteo è una miniera d’oro per un settimanale di gossip. Una copertina con lui e suo padre Chi già l’ha fatta. Poi, questa estate, l’ha paparazzato a torso nudo e pantaloncini. E poi con indosso una maglietta-bandana in stile berlusconiano. Le mosse del sindaco di Firenze fanno sempre sorgere sospetti: non è che ha accettato di incontrare il direttore di Chi perché lui è in possesso di materiale scottante? Signorini nega: “Per quel che ne so io è un monaco”.
Mentre il candidato favorito, il Pd è riunito in conclave permanente per arrivare a un accordo sulle regole del congresso. Riunione fiume dalle 18 in poi, in contemporanea col video-messaggio di Berlusconi. Aggiornamento in serata e poi a stamattina. Oggetto del contendere, i tempi delle elezioni dei segretari regionali (l’apparato è incerto se gli convenga metterle prima o dopo le primarie nazionali). I vertici del Nazareno non si rassegnano a dare il via a un congresso con Renzi vincitore-predestinato. Domani e dopodomani c’è l’Assemblea: senza accordo può succedere di tutto.

il Fatto 19.9.13
Qualcuno risponda al ricatto
di Antonio Padellaro


Le domande sono molte. Come possono il presidente della Repubblica e le più alte istituzioni tollerare che un individuo, condannato in via definitiva per aver frodato il fisco, si rivolga da tutti gli schermi alla Nazione intera accusando la magistratura di essere il braccio armato dei suoi nemici politici (peraltro alleati)? Ed è accettabile che lo stesso pregiudicato inciti i propri sostenitori alla rivolta di piazza contro gli organi giudiziari (“reagite, protestate, fatevi sentire”) senza che lassù i garanti della Costituzione si facciano sentire? Certo è che da ieri sera diventa assurda qualunque ipotesi di concessione della grazia o di pene alternative a chi si è divertito a sputare sulle sentenze e a minacciare i giudici. Come può il Partito democratico restare in maggioranza con il Pdl il cui proprietario resuscita la vecchia Forza Italia con la evidente intenzione di far cadere il governo Letta alla prima occasione propizia (per lui e i suoi accoliti), per poi andare a elezioni anticipate e chiudere la partita? E come può Enrico Letta fare finta di niente, pur sapendo che d’ora in poi avrà il nemico in casa disposto a sfasciare i già malconci conti pubblici per un pugno di voti in più?
Il video vaneggiamento di ieri ha chiarito una volta per sempre l’essenza deleteria delle larghe intese. Create per risolvere i gravi problemi della nostra economia, di problemi ne hanno risolti pochi. Ma come arma di ricatto hanno funzionato eccome. Del resto, sono vent’anni che la storia è sempre la stessa. Quella di un Paese ostaggio di un signore che ha fondato le sue fortune su comportamenti illeciti e delinquenziali, approfittando dell’assenza di un’opposizione sempre pronta, del resto, a correre in suo soccorso. Adesso il segretario Pd Epifani definisce “irresponsabili e sconcertanti” le affermazioni del pregiudicato. Forse ha capito in quale trappola lui e i suoi compagni si sono cacciati. Forse è troppo tardi.

La Stampa 19.9.13
Un messaggio duro che allontana la via della grazia
Il rifiuto di accettare la sentenza ne ostacola la concessione
Antonella Rampino


Sembra accettare la decadenza dal mandato parlamentare, quando dice «non serve un seggio per far politica», e forse - forse - sembra cominciare a prendere in considerazione l’affidamento ai servizi sociali. Ma di certo, dopo un discorso nuovamente aspro nei confronti della magistratura - a dir poco - individuata come origine di tutti i mali, «comunista» e «persecutoria» con «un innocente», non mostra alcun interesse a una possibilità della grazia. Se si potesse dire in una riga, la grazia quirinalizia con il discorso di ieri Silvio Berlusconi se l’è giocata. Per capirlo, mentre nulla né di ufficiale né di ufficioso trapela dal Quirinale, basta andare a rileggersi quello che Giorgio Napolitano ha messo per iscritto il 13 agosto, scritto al quale occorre attenersi anche per il semplice motivo che nulla è intervenuto e nessun segnale indica che il presidente abbia mutato posizione. Il quadro di riferimento descritto allora per prendere in considerazione una richiesta di grazia, avanzata di persona dal condannato o per suo conto da un parente stretto o dal proprio avvocato, è anzitutto accettare la sentenza e riconoscere la magistratura che è uno degli «altri poteri dello Stato», oltre - ma questo era sottinteso nella consuetudine - ad aver scontato almeno un tratto della pena.
Berlusconi, con i 16 minuti di videomessaggio, ha fatto esattamente il contrario. Rifiutando la sentenza definita come «una persecuzione», ad opera della magistratura «comunista» contro «un innocente». Peggio, ha detto addirittura «siamo un Paese senza più certezza del diritto», ha invitato a «scendere in campo contro la magistratura», e ha aggiunto la ciliegina sulla torta nel definire «un’idea della sinistra» che una condanna di terzo grado, della Corte di Cassazione, sia una condanna definitiva quando lui non la considera tale - dunque, ponendo se stesso al di sopra della legge - tanto che «ricorrerà alle corti internazionali».
Il presidente non ha visto il videomessaggio in diretta, e in differita l’han dovuto vedere anche tutti i membri della Corte Costituzionale considerati vicini al centrodestra, come Niccolò Zanon o il forse prossimo presidente Mazzella, accorsi al Quirinale con i presidenti di Camera e Senato, il premier Enrico Letta e altri membri del governo, per assistere al giuramento del nuovo giudice della Corte Costituzionale Giuliano Amato: cerimonia brevissima, ma che accadeva in perfetta contemporanea col videomessaggio berlusconiano. Poi tutti i presenti si sono trattenuti un po’, e Napolitano ha ancora avuto un colloquio nel suo studio con Grasso e Boldrini, esprimendo solidarietà a quest’ultima per «gli attacchi inammissibili subìti, che non possono essere tollerati, ai principi della convivenza democratica e al rispetto dovuto alla dignità della persona». Con i presidenti dei due rami del Parlamento Napolitano ha parlato - dice il comunicato - della «fase altamente impegnativa dell’attività parlamentare», ricordando che serve «un clima di civile confronto e di scrupoloso rispetto dei regolamenti», com’è noto travisati in Aula proprio ieri dai grillini che hanno contestato Boldrini.
Quanto al resto del videomessaggio, se di certo non si stacca la spina al governo ritirando i ministri, Berlusconi non si assume alcuna responsabilità. Anzi, se ne assume l’irresponsabilità, sostenendo che i suoi ministri son lì «per vigilare sulle tasse», e dunque come potesse staccare la spina quando gli aggrada. Dell’umore in genere ondivago del Cavaliere, di cui Napolitano dopo otto anni conosce anche le pieghe, occorrerà verificare nei prossimi giorni la tenuta, e quale piega quell’umore prenderà nella politica. Perché Berlusconi potrebbe fare col governo Letta quel che fece con Monti negli ultimi mesi: indebolirlo.

La Stampa 19.9.13
Il messia sfinito e la tentazione della “bella morte”
Un video teatrale per invitare i suoi all’ultima battaglia
di Mattia Feltri


Tutto ciò che rimane ancora in movimento sono le mani. Non gliele tieni, le allarga sconsolato, se le batte a ripetizione sul cuore. Unisce pollice e indice ed è il mirino che gli è stato puntato contro. E poi l’indice va verso la telecamera: è te che voglio, dice febbrile. Un frullare animoso nella fissità ormai eterna, e in mezzo c’è lui, Silvio Berlusconi, riemerso dalle offese e dalle umiliazioni. È attorno a sé, sfigurato dall’ingiustizia e dall’odio, che chiama a raccolta il popolo, lo vuole indignato, ribelle, vuole che reagisca, che si faccia sentire in suo nome perché è col suo nome che coincide la libertà. Nel millesimo video addobbato di libri, di foto dei figli e dei nipoti, di tende e di soprammobili argentei, di ammiccamenti scenografici dell’altro secolo, la volontà irriducibile e disperata è di diffondere un carisma ormai quasi immobile. Non c’è una parola nuova. Una suggestione. Un colpo di residuo genio. Niente che esca dal clima da derby in cui siamo immersi da due decenni. Non c’è la compostezza del messaggio del gennaio 1994 quando, alla durezza dei toni, Berlusconi aveva contrapposto una voce suadente, una postura solida, un sorriso che saliva di lato a testimoniare una serenità agguerrita.
Tutto ciò che di Berlusconi abbiamo oggi davanti è una figura disunita che pronuncia un discorso disunito, in cui prevale il rancore, l’incredulità per un passato che lui rivendica impeccabile, anzi glorioso, e che va riscattato dal fango del quale è stato inzaccherato. Non c’era in un quarto d’ora di monologo una sola promessa, una visione, un progetto, un’idea per affrontare la crisi e dare risposte agli interlocutori europei, se mai gliene volesse dare. C’era invece una chiamata alle armi dai contorni ampollosi, ridondanti, volutamente teatrali. «Scendi in campo anche tu», ha detto. Ancora: «Diventa un missionario della libertà», in un ribaltamento spettacolare dell’epitaffio di Bettino Craxi, per il quale «la mia libertà equivale alla mia vita». Qui no, qui la libertà di Berlusconi equivale alla vita nostra, nientemeno, perché «Dio ha creato l’uomo e lo ha voluto libero». La questione è questa, dunque. È una questione altissima, ben altro che politica: siamo ai confini del trascendente, alla mobilitazione dal malinteso senso messianico. Dobbiamo essere missionari per un’esplosione di sentimento, per uno scatto d’orgoglio non più rinviabile, perché l’ingiustizia sta travolgendo lui e pertanto sta travolgendo tutto. È Berlusconi stesso che ne prende atto, infila gli occhi nella telecamera, quegli occhietti ormai disarmati dalla disastrosa battaglia contro gli anni, due fessure che si inumidiscono, la voce incrinata dalla commozione, come succede sempre più spesso.
Che cosa è tutto questo? Il milionesimo ritorno (con annessa resurrezione di Forza Italia, come se il tempo si fosse fermato attorno alla rovina del Capo) ha forse uno spiffero di concretezza, diciamo così, in un passaggio svogliato sull’«oppressione giudiziaria, fiscale e burocratica» di cui li si occuperebbe così volentieri, e con gran profitto, se soltanto gli si desse il consenso della metà più uno degli elettori. Alla sua sinistra giace il libro azzurrino di tante stagioni fa, «l’Italia che ho in mente» e che è rimasta lì, nella sua mente e in tante speranze. Berlusconi la verità ce l’avrebbe anche in tasca, ce l’avrebbe in Forza Italia, nel libro azzurrino, nelle soluzioni che hanno vigore eterno ed evangelico, e che si tradurranno in rivelazione quando arriverà «la vittoria dell’amore sull’invidia e sull’odio». Soltanto allora, alla fine della guerra totale e irrimediabile. Non c’è più tempo da perdere: «Forza Italia è l’ultima chiamata prima della catastrofe». Gli «italiani onesti e perbene» devono reagire, devono «farsi sentire», devono compiere «qualcosa di grande». Non c’è nemmeno sorriso. Non c’è solidità. Si avverte la tempra sfumare in un uomo sfiancato, che cerca di rialzarsi un’altra volta, incapace di riconoscere che lo hanno combattuto con armi non convenzionali, ma la partita è comunque persa. Pensa di avere ancora una chance, ci si butta senza agilità ma a capofitto, venderà cara la pelle, chi lo ama lo seguirà, gli farà scudo. A cercare la bella morte che invece bella non è mai.

La Stampa 19.9.13
Non video più
di Massimo Gramellini


La prima volta che lo sentii gridare Forza Italia al riparo di una siepe di finti libri rilegati in pelle, ero preoccupato ma incuriosito. Ancora non sapevo che il set era stato montato in un cantiere: se la telecamera avesse allargato l’inquadratura, avremmo scoperto che la scrivania si affacciava su un cumulo profetico di macerie. Quell’uomo d’affari uscito da un telefilm degli Anni Ottanta rappresentava la novità, la sorpresa, per molti la speranza. Ma quando di lì a qualche mese lo rividi arringare il popolo da una videocassetta, lo stupore aveva già ceduto alla delusione. Il terzo filmato produsse sconforto, il quarto fastidio. Non ricordo quando il fastidio si sia trasformato in noia. Io e i suoi video siamo invecchiati insieme: a me cadevano i capelli che crescevano a lui, nella mia libreria i volumi cambiavano mentre nella sua erano sempre gli stessi, miracolosamente intonsi. Logore, invece, le parole: promesse e minacce, sempre più vaghe. Sempre meno riusciva a farmi sorridere e spaventare, alternando la maschera tragica con quella comica sullo sfondo di arredamenti barocchi e bandieroni pomposi.
Ora è tornato a Forza Italia, ma i suoi proclami mi rimbalzano addosso come palline di pongo scagliate da una fionda sfibrata. Vedo le rughe infittirsi, le labbra spezzarsi al pari della voce. Sento parole d’amore che sprizzano livore. Dovrebbe farmi paura e invece non mi fa neanche pena. Solo tanta tristezza: per lui, per me, per noi che da vent’anni scandiamo il tempo delle nostre vite con i videomessaggi di un tizio che ha sostituito la politica con l’epica dei fatti suoi.

da Spinoza.it:
«Ora Berlusconi dovrà svolgere lavori socialmente utili. Tipo togliersi dai coglioni».

«Scontri a Roma tra sostenitori e avversari di Berlusconi. Era Letta che si schiaffeggiava da solo».

«Berlusconi ribadisce di essere estraneo alle accuse, sostiene di aver dato prestigio al Paese e annuncia la rinascita di Forza Italia. Ma ormai è tardi per puntare all’infermità mentale».

«La Santanchè: “Ho paura per i miei figli”. Devono averle spiegato cos’è l’imprinting».

l’Unità 19.9.13
Femminicidio, il decreto va cambiato
di Celeste Costantino

Deputata Sel

IL GOVERNO DELLE LARGHE INTESE CI HA ABITUATO AI DECRETI OMNIBUS, VERI E PROPRI ZIBALDONI DAI CONTENUTI PIÙ DIVERSI. Lo ha fatto anche con il femminicidio che sta dentro un decreto «sicurezza» che contiene incomprensibilmente anche norme sulle proteste contro la Tav, sugli stadi, l'organizzazione delle Province, l'inasprimento delle pene per furti di rame. Un quadro ancora più indigeribile del solito. E questo perché quando si vuole legiferare sul corpo delle donne il simbolico gioca un ruolo primario: pensare di utilizzarlo, come si fa in questo decreto «sicurezza», come specchietto per le allodole per far passare tutto il resto è molto grave. Per una ragione di forma e di sostanza: perché ci restituisce in maniera plastica l'idea di come la politica istituzionale in questi anni sia rimasta cieca e sorda davanti alla denuncia pubblica delle donne.
Colpevolmente. Perché, come hanno giustamente ribadito tutti i soggetti ascoltati nelle audizioni delle commissioni parlamentari, «nessuno poteva non sapere»: i fatti di questi anni dimostrano in maniera inequivocabile che la violenza contro le donne non si contrasta con un approccio securitario, ma attraverso la prevenzione, la formazione e il rafforzamento delle strutture già esistenti.
E invece in questo decreto non c'è la scuola, non ci sono i servizi sociali, non c'è la rete dei centri antiviolenza (che è in grave difficoltà, come sto verificando nel tour #restiamovive) e dei centri per gli uomini maltrattanti (com'è stato sperimentato a Torino e in altre città italiane). Piuttosto è un insieme di maggiori poteri alla polizia giudiziaria e di aggravanti processuali.
Su un punto in particolare, e mi riferisco alla «irrevocabilità della querela» spacciata per una rivoluzione positiva, non si tiene in nessun conto della volontà della donna che, invece, viene lasciata sola ad affrontare quello che è molto simile a un «inferno». Perché gli uomini denunciati dalle donne sono compagni, mariti, padri. E quindi, se non si interviene sul sostegno economico, sull'assistenza e le si vincola, si crea un effetto contrario: farle decidere di non denunciare per la paura della finitezza di questo gesto. L'impossibilità di poter cambiare idea mette ancora più angoscia: la paura di «rovinare» le vite dei loro uomini.
Tutto ciò alla luce ha ancora più valore se si pensa che il 75% dei casi di femminicidio era stato preceduto da segnalazioni alle istituzioni. Cosa ha fatto lo Stato per queste donne? E come sarà accanto a loro se dovesse passare questo decreto «sicurezza»?
Bisogna allora intervenire a sostegno di chi deve operare ed opera insieme alle donne vittime di violenza per capovolgere questo sguardo. Sapendo che non è facile perché interviene dentro una relazione sentimentale. Anche per questo motivo sarebbe stato importante introdurre, già in questo decreto, l'educazione sentimentale nelle scuole (proposta di legge che ho già depositato), il potenziamento dei centri antiviolenza, l'istituzione dei centri per uomini maltrattanti, il rafforzamento delle politiche sociali territoriali e la formazione continua per magistrati e forze dell'ordine. Tutti strumenti che intervengono da una parte sulla prevenzione del fenomeno e dall'altra sulla protezione della vittima nel suo percorso di liberazione dalla violenza.
È necessario allora come chiedono anche tutte le donne impegnate contro la violenza cambiare radicalmente questo decreto. Non potremo votare un provvedimento in cui violenza sessuale, stalking, violenza di genere sono usati come se fossero sinonimi. Senza neppure distinguere livelli e i piani del linguaggio. Oppure continueremo, come sempre, a non ascoltarci e a parlare con lingue incomprensibili e avremo soltanto l'ennesima – e inutile per le donne – legge spot per questo governo.

il Fatto 19.9.13
La rabbia nera di Atene uccide il cantore rosso
Sostenitore dell’estrema destra accoltellano il rapper Fyssas: scontri ad Atene
Spirale di violenza scatenata dalla crisi
di Rob. Zun.


Tra-tra-tra-tra. Questi qui, quelli di sinistra e i politici li dobbiamo ammazzare tutti, ci hanno rovinato” disse al Fatto un militante di Alba Dorata in maglietta nera la sera precedente le elezioni del giugno 2012, mentre mimava il suono di un mitra. Dopo nemmeno un anno e mezzo, uno di quelli, un rosso, un rapper di 34 anni Pavlos Fyssas, è stato fatto fuori in un sobborgo di Atene con due coltellate al cuore inferte da Giorgos Poupakiàs, un quaranticinquenne simpatizzante del partito neonazista, razzista, antisemita e ultranazionalista greco, oggi terzo secondo le indicazioni di voto. Forse un kalasnikov sarebbe piaciuto di più al giovane proprietario di un autolavaggio che alla lista di “animali” aveva infine aggiunto gli immigrati, per ricordarci uno dei primi bersagli del partito che il giorno dopo avrebbe votato. In Grecia la tensione è di nuovo alle stelle. L'efferato omicidio a sfondo-politico è avvenuto mentre il Paese è paralizzato da un ennesimo sciopero generale contro la politica di austerità del governo. Migliaia di persone - almeno 10.000 ad Atene e 7.000 a Salonicco – in questi giorni sono scese in piazza.
L’OMICIDIO DI FYSSAS è preoccupante perché racconta di una polarizzazione sociale sempre più forte tra militanti di estrema destra e sinistra in un periodo di lotte sociali. Tutto era cominciato intorno alla mezzanotte in un bar nel quartiere operaio di Keratsini, alla periferia di Atene, al termine della partita di calcio Olympiakos-Paris St Germain. Dopo un’accesa discussione degenerata in politica, Poupakiàs era uscito dal locale. Ma quando anche il rapper è uscito dal bar, l'uomo - spalleggiato da una quindicina di persone - lo ha bloccato e pugnalato "da professionista", come hanno precisato gli inquirenti. Subito soccorso, Fyssas è riuscito a fare il nome dell’aggressore ma è morto poco dopo in ospedale. Ma ad Atene è avvenuta un'altra aggressione sconcertante: una donna ha preso a calci una bambina rom sotto l'Acropoli. Dopo che i giornali avevano pubblicato la foto, il Dipartimento per la protezione dell’Infanzia della regione di Attica ha avviato un’inchiesta per identificare la donna.
 
il Fatto 19.9.13
Onda lunga elettorale
L’alba neonazi illumina Bruxelles
di Valeria Gandus


È lo spauracchio agitato da Beppe Grillo: “Se non ci fossimo noi, ci sarebbe un’Alba Dorata anche in Italia! ”. E il faro dei gruppi di estrema destra come Forza Nuova, che ha invitato i suoi rappresentanti al famigerato raduno di Cantù nel weekend scorso. Ma, soprattutto, è la minaccia che incombe sulle prossime elezioni europee del 2014: i sondaggi danno Alba Dorata, il movimento neonazista guidato da Nikolaos Michaloliakos, al 15%. E già a Strasburgo ci si interroga su come affrontare l’umiliazione dell’ingresso nel Parlamento europeo di una folta pattuglia di eurodeputati nazisti. In quello greco, Alba Dorata ne conta già 18 e centinaia di migliaia sono i simpatizzanti nel Paese, spesso responsabili di violenze e aggressioni soprattutto ai danni degli immigrati e degli avversari politici. L’ultima, pochi giorni fa, ha mandato all'ospedale nove giovani comunisti che stavano allestendo il palco per un festival.   Com  ’è potuto succedere? Come si spiega un tale travolgente successo nel Paese culla della democrazia? A queste domande risponde il saggio Alba Dorata (Fandango) di Dimitri Deliolanes, per 30 anni corrispondente dall’Italia per la Ert, la radio-tv pubblica greca. Intanto Alba Dorata non è un fenomeno recente, il suo leader e ideologo Michaloliakos, 56 anni, è su piazza da tempo, avendo fondato la sua creatura, all’epoca solo una rivista, nel 1980. Più volte arrestato, radiato dall’esercito, passa la sua giovinezza a cercare di diffondere il verbo di Hitler e a tessere legami con organizzazioni “sorelle” del neofascismo europeo. Nel 1984, entra in politica con l’Epen (Unione politica nazionale) il partito lanciato dal carcere da Papadopoulos, ma è troppo estremista perfino per gli ex colonnelli e nel 1985 viene costretto alle dimissioni. Così nel 1987 torna a occuparsi della sua creatura che adotta come simbolo la runa, simbolo neonazi della IV Polizei Division delle SS inviata in Grecia nel ‘43 per reprimere il movimento partigiano.
MA È CON UN ALTRO simbolo, simile alla svastica nazista, che nel 1994, dopo aver definito il Parlamento “una fogna ebraico-massonica” da “bruciare con i deputati dentro”, che Michaloliakos presenta Alba Dorata alle elezioni europee, dove raccoglie solo lo 0,11%. Per anni il movimento vivacchia, ma a portare sugli allori e in Parlamento Michaloliakos e Alba Dorata è la crisi del 2010, humus ideale per la crescita del movimento. L’immigrazione, soprattutto, è il grande punto debole su cui Alba Dorata ha facile gioco. Alle elezioni del 2012 diventa la terza forza politica nazionale. I neonazisti dilagano nei quartieri popolari delle grandi città, scatenando un’ondata di aggressioni razziste, antisemite e xenofobe. Picchiano, uccidono, insultano. Conquistano rapidamente nuovi adepti, indicando nella democrazia la causa della crisi.
Ora le forze democratiche sembrano paralizzate in attesa del boom di Alba Dorata alle Europee del 2014. Messa al bando, repressione, isolamento politico sono i rimedi finora indicati per arrestare questa onda lunga. Ma, come dice il sindaco di Atene Giorgos Kaminis, “è evidente la difficoltà della sinistra, dei democratici e dei liberali di parlare con sincerità delle vere dimensioni dell’immigrazione clandestina ed elaborare una risposta politica seria”. “Il problema è restituire al sistema democratico la credibilità perduta”, chiosa Deliolanes. Un problema che in Italia conosciamo bene.

MicroMega 16.9.13
Nazisti sull’orlo del potere. Il caso Alba Dorata
di Leonardo Bianchi

qui

il Fatto 19.9.13
Festival di filosofia
Si può ancora parlare d’amore?
di Roberta De Monticelli


Pubblichiamo un estratto della lectio magistralis tenuta da Roberta De Monticelli al Festival della Filosofia di Modena

Il Festival quest’anno ha avuto un bel coraggio. Già in poesia ci vuole coraggio a parlare d’amore. Ricordate Umberto Saba? “Amai trite parole che non uno/ osava. M’incantò la rima fiore / amore, / la più antica, difficile del mondo”. Il tema del festival, “Amare”, fu scelto in tempi in cui era ancora lecito sperare che la politica sarebbe presto tornata a essere quello che dovrebbe, quando delle istituzioni ci si può fidare. È vero, né la vita privata né la vita interiore delle persone possono fermarsi solo perché le istituzioni vivono un momento di crisi, soprattutto in un paese dove questi momenti durano interi decenni. Si può e si deve anche parlare d’altro. Ma credo che nei limiti del possibile bisogna farlo in modo che non sia come “far finta di niente”. Altrimenti noi tutti incorreremo di nuovo nella colpa che Piero Calamandrei chiamava “la cieca e dissennata assenza”. Di quelli che, quando un vigliacco imboscato vicino a Chiasso (per scappare) spedì le sue squadracce alla marcia su Roma, si tirarono da parte per far posto. E così fecero silenziosa eco al sublime Luigi Facta, ultimo presidente del Consiglio prima di Mussolini: “Nutro fiducia”.
IN TEMPI di comparabili “nutro fiducia” sentir parlar d’amore può far l’effetto che farebbe a uno che sta morendo avvelenato l’offerta di una torta alle meringhe. A scanso di equivoci devo chiarire cosa intendo per “comparabili”. Non intendo affatto paragonare alcuno al Duce. Intendo dire che un Parlamento che accetta di mercanteggiare sul principio dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge sta privando di ogni credibilità e di ogni autorità le istituzioni. Ed è questo che intendo per “morire avvelenati”. Non avere né accettare altra difesa dalla nostra stessa libertà (la quale nove volte su dieci non è orientata al bene comune, e nonostante questo è irrinunciabile) che quella delle regole e delle istituzioni che noi stessi ci siamo dati per porre limiti alla nostra ferinità rapace: e vedere che questa difesa non c’è più. Un Parlamento che accetta un ricatto e trasforma in negoziato politico la rivolta contro la legge. E sotto il clamore, ancora di peggio.
Un Parlamento che approva un decreto somigliante a un piè di porco: quello che serve per scassinare la serratura della Costituzione (l’art. 138), nonostante le ragioni in contrario cui si sono appellati mezzo milione di cittadini, che sono poi le ragioni di tutti i migliori costituzionalisti. Un governo che crede di sedere sopra la Costituzione e non sotto, un capo dello Stato che da un lato prende atto di una condanna definitiva di un cittadino, e dall’altro ritiene “legittime” le rimostranze contro magistrati e sentenza, in sede politica. E la grande stampa che commenta come se si trattasse di normale dialettica di opinioni.
È questo che chiamo veleno. La colpevole, interessata – e ancor più orrenda se inconsapevole – confusione di diritto e potere, di giurisdizione e politica, peggio, di tutto ciò che è vigente dover essere e di ciò che è dato di fatto e di forza. Il fatto dell’impunità, il fatto del delinquere e il fatto di voler continuare così, confuso con la norma di ciò che deve essere: del dovere. Il veleno peggiore è proprio questo: che la normalità di questa Repubblica sia diventata il fatto di disprezzarla, che oggi nessuno senta più nella parola “normale” il significato della norma, della normatività che diamo a noi stessi per diventare civili, e ci distingue non dalle bestie, che incivili non sono, ma dalle cosche e dalle bande di briganti.
E in queste condizioni noi dovremmo parlare d’amore. Io dovrei parlare del “risveglio del cuore”. Ebbene, anche se non sembra, lo sto facendo. Sto tentando di dare espressione all’unico amore di cui io mi senta di parlare oggi senza vergognarmi: l’amor di patria. E vorrei continuare a farlo.
SABA CI AIUTA. La poesia continua: “Amai la verità che giace al fondo / quasi un sogno obliato, che il dolore / riscopre amica. Con paura il cuore / le si accosta, che più non l’abbandona”. La cognizione del dolore è la cognizione del valore. Niente ci appare più prezioso, di valore più inestimabile, di quello che rischiamo di perdere, o che abbiamo già perduto. Il dolore per la bellezza dissipata, per esempio, per lo scempio che si continua a fare dei paesaggi italiani, con una legge sull’edilizia che piace al pregiudicato e alle mafie. Ma anche il dolore per le istituzioni infangate dalla confusione di diritto e potere, di norma e forza, di legge e calcolo politico è cognizione del valore di ciò che perdiamo. Ecco due esempi di cognizione del valore attraverso il dolore. Cognizione del valore in senso lato estetico – bellezza, e del valore in senso lato etico – giustizia. L’uno inerisce al fondamento direi esistenziale e spirituale della nostra vita, la terra che ci sostiene e ci circonda in quanto è carica di passato e di memoria, terra dei nostri padri, patria. O matria, se preferite.
L’altro fonda l’aspetto ideale della nostra convivenza, dove per “ideale” intendo appunto non ciò che è di fatto, ma ciò che dovrebbe essere, non il costume vigente, ma la norma civile, la norma pre-politica, appunto, il fondamento di una politica che non sia priva di vincoli o di limiti. E anche questo valore fa di un paese una patria: una patria ideale, appunto, una specie di sogno per noi, il sogno che era quello dei padri e delle madri o degli avi, alcuni dei quali morirono ragazzi con questo sogno in cuore…

Avvenire 19.9.13
Gli italiani traditi da Stalin
di Edoardo Castagna

qui

L’Osservatore Romano 18.9.13
Dante e la fantamedicina
Narcolessia?
«Nel mezz...zzzzzz» ironizza un tweet
di Silvia Guidi

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MicroMega Il rasoio di Occam
In uno tempore, tempora multa latent
Sul concetto di “temporalità plurale”
di Vittorio Morfino

qui