CONTINUA L'OFFENSIVA PAPISTA
L'UNITÀ E I MEDIA "DI SINISTRA" LA APPOGGIANO IN PRIMA LINEA
LEGGI I PRECEDENTI QUI DI SEGUITO
E L'ARTICOLO DI NADIA URBINATI
l’Unità 17.9.13
Il vangelo dei poveri
Con Papa Francesco la «rivincita» della teologia della liberazione
di Serena Noceti
SONO PASSATI SEI MESI DALL’ELEZIONE DI PAPA FRANCESCO: LO STILE DI VICINANZA ASSUNTO FIN DAL PRIMO SALUTO, il linguaggio libero dai paludamenti di un sacro per tanti incomprensibile e non significativo, l’attenzione all’esistenza umana e ai suoi bisogni, il riconoscimento di valore dei cammini plurali e spesso difficili di chi credente e no cerca verità, i segni chiari e incisivi di una fede coerente perché tradotta in scelte di amore e giustizia per tutti, sembrano orientare i cristiani sulle vie di una presenza nuova e insieme offrire un’«anima» alle necessarie, attese ma finora insperate, riforme strutturali che attendono la Chiesa cattolica per una piena attuazione del Concilio Vaticano II.
Già con la scelta del nome, Papa Francesco ha richiamato i cristiani all’essenziale: alla scelta radicale di un vangelo che è pienezza di vita per tutti, in particolare per i poveri, gli emarginati, «coloro che non hanno diritto ad avere diritti» (H. Arendt). È in questo orizzonte di una chiesa che sta esplorando le vie antiche del vangelo di Gesù di Nazareth e le vuole declinare in modo nuovo in un contesto secolarizzato e pluralista, dopo i lunghi secoli della societas christiana, che si può collocare l’incontro avvenuto mercoledì scorso tra il Papa e Gustavo Gutierrez. Il teologo peruviano, riconosciuto come il «fondatore» della teologia della liberazione, era in Italia per partecipare al congresso dell’Associazione teologica italiana, e poi presentare al Festival della letteratura di Mantova il saggio scritto nel 2004 con Gerhard Ludwig Müller, oggi prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, Dalla parte dei poveri. Teologia della liberazione, teologia della chiesa.
Fortemente criticata, quando non avversata, da una parte della gerarchia cattolica, oggetto di due pronunciamenti della Congregazione per la dottrina della fede negli anni 80, accusata di ideologizzazione e immanentizzazione della fede, di ridurre la salvezza a una liberazione dalla povertà economica, di dipendere dalla lettura marxista della storia e di giustificare la lotta di classe e il ricorso alla violenza, rappresenta una delle correnti teologiche più significative e feconde del post-Concilio. Nata nell’America Latina della seconda metà degli anni 60, dalla volontà di incarnare il Vaticano II e di individuare categorie adeguate per pensare i temi classici di ogni teologia (Dio, Cristo, la Chiesa, l’uomo) in un contesto segnato dalla miseria, dalla sperequazione economica, dalla ferocia di dittature militari, ha offerto alla Chiesa intera prospettive inedite per pensare criticamente la fede cristiana, interrompendo di fatto la «pretesa» europea di essere il luogo primario e di riferimento del pensare teologico.
Sono passati 45 anni dalla prima conferenza di Gutierrez (Chimbote, Perù, luglio 1968) che sostituiva al concetto di «sviluppo» il paradigma della «liberazione» e sono innumerevoli le voci di teologi e teologhe che, con sensibilità diverse e in diversi contesti continentali, hanno contribuito a ripensare la fede cristiana in questa prospettiva, tanto che è bene oggi parlare di «teologie della liberazione» al plurale. Per tutti rimane determinante lo sguardo sulla realtà e sulla rivelazione e la collocazione assunta: l’opzione preferenziale per i poveri, per coloro che Gutierrez definisce gli «insignificanti» agli occhi del mondo. In un tempo che sembra accettare passivamente la condizione di miseria di milioni di esseri umani, che misura tutto sul registro economico e non vuole ridiscutere l’attuale assetto neoliberista e gli equilibri della globalizzazione, la teologia della liberazione appare necessaria a una Chiesa che voglia essere «chiesa povera e dei poveri», come dichiara Papa Francesco: essa ribadisce senza paura che il Dio del Vangelo di Gesù sta dalla parte di coloro che sono schiacciati dal peso della vita e delle ingiustizie, senza speranza e senza futuro.
Mentre denuncia che la povertà (economica, culturale, sociale) è inumana (e antievangelica), la teologia della liberazione afferma che è necessario lottare contro la povertà e le cause che la generano, non rassegnarsi all’ingiustizia, promuovere la dignità di tutti. Ai cristiani ricorda che non si aderisce a una verità astratta e astorica su un divino puramente trascendente, ma si opera per una trasformazione del mondo secondo quella rivelazione su Dio e sull’uomo che Gesù ha proposto: nessuna ortodossia che non sia ortoprassi; nessun discorso sulla fede che non nasca da un concreto coinvolgimento nel contesto sociale di appartenenza e da una attenta lettura della storia; nessuna opera di misericordia per i singoli che dimentichi gli scenari dell’interdipendenza del genere umano. Esperienza e riflessione sull’esperienza, mediazione, prassi: tre parole chiave per vivere la vita cristiana anche in Europa, ma anche tre sollecitazioni per una rivisitazione dell’esercizio della politica oggi. Perché la teologia della liberazione rappresenta, indubbiamente, una delle voci più provocatorie nel dialogo culturale, che oltrepassa per le vie di intelligenza della realtà adottate e per il coinvolgimento attivo con i movimenti di lotta per la giustizia il solo ambito della vita della chiesa cattolica per condividere preziose suggestioni sull’umano con chiunque si preoccupi del bene comune.
l’Unità 17.9.13
«Anche l’Europa deve imparare»
Parla Gustavo Gutierrez, il fondatore della teologia della liberazione: la Chiesa non ha un programma politico, ma cambiare il mondo e renderlo più giusto è dovere dei cristiani
intervista di Se. No.
L’elezione di Papa Francesco e il suo auspicio di “una Chiesa povera per i poveri” ha spinto molti osservatori a parlare di una “rivincita” della teologia della liberazione. Che ne pensa e quali ritiene siano le sfide di fronte al nuovo Papa? «Il Papa ama i poveri perché ha letto il Vangelo e l’ha compreso. Può darsi che abbia letto di teologia della liberazione, ma è secondario. La radice non è mai in una teologia, ma nelle fonti. La sfida dei poveri è da tempo presente nell’orizzonte della Chiesa e se n’è tenuto conto, altrimenti non si capirebbe il martirio che abbiamo sperimentato in America Latina, a cominciare da vescovi come Angelelli in Argentina, Romero in Salvador e Gerardi in Guatemala, per non parlare dei moltissimi laici. La povertà resta una grande sfida per la vita della Chiesa, non solo latinoamericana. Già in Argentina l’attuale Papa ha dimostrato il proprio interesse per il mondo dei poveri: e costruire “una chiesa povera per i poveri”, come egli ha detto di desiderare, è una grande sfida».
Si parla molto di riforme della Chiesa che il Papa potrebbe realizzare. Quali pensa sarebbero necessarie da questo punto di vista?
«Nel dire che la povertà è una sfida molto grande alla Chiesa è implicito che ci siano cambiamenti da operare. Si tratta di raccogliere maggiormente la realtà del mondo della povertà e affermare con maggior forza in ciascun Paese la necessità che i bisogni dei poveri siano la principale preoccupazione politica, sia pur senza indicare vie concrete per risolverlo. In diversi casi la Chiesa l’ha già fatto, ma con questo Papa ciò dovrebbe rafforzarsi. C’è quindi molto da fare. E il problema della povertà è complesso, perché non si riduce all’aspetto economico, ma coinvolge, per esempio, la diversità culturale e la convivenza
di storia ed etnie diverse, come accade in tanti Paesi del Sud America. Sono convinto che assumere la prospettiva degli ultimi, del povero, cambia molte cose nel comportamento dei cristiani. E non si può ignorare che dell’America Latina si parla sempre come di un “continente cattolico”, ma poi c’è questa immensa povertà, che va combattuta, perché si tratta di intendersi sul concetto di cattolico, che non si riduce all’assolvere alcuni obblighi religiosi, che sono necessari, ma se non sono accompagnati dalla lotta per la giustizia non hanno molto senso».
Quali riforme vorrebbe veder realizzate?
«Quella già annunciata della Curia romana, che ha conseguenze per la Chiesa universale. Di questa riforma fa parte, per esempio, un diverso orientamento nella nomina dei vescovi».
Quali elementi di continuità vede tra Benedetto XVI e Francesco?
«Hanno un carattere e uno stile personale molto diversi, legati alla provenienza, l’Europa centrale piuttosto che “la fine del mondo”. D’altro canto l’opzione preferenziale per i poveri è così presente nel documento di Aparecida perché Benedetto XVI ne parlò nel discorso di apertura, collegandola direttamente alla fede in Cristo. Credo che se non l’avesse detto, il documento ne avrebbe parlato meno. E naturalmente questa prospettiva è condivisa da Papa Francesco. Quindi c’è una continuità, anche se lo stile è molto differente. Ogni giudizio deve essere comunque prudente, perché il Papa è stato eletto solo pochi mesi fa».
Frei Betto sostiene che oggi la teologia della liberazione ha più ascolto fuori dalla Chiesa che dentro, riferendosi al fatto che nell’ultimo decennio in America latina sono andati al governo leader che si richiamano idealmente alla “opzione per i poveri” e alla Chiesa della liberazione. Condivide questo giudizio?
«Diffido molto di queste identificazioni. Certo, Correa è un uomo di formazione cristiana, avendo studiato a Lovanio con François Houtart: al contempo, però, è un economista con le sue idee. Funes cita spesso Oscar Romero, che peraltro è una figura di riferimento per tutto il Paese. Ma sono singoli casi. Credo che i politici abbiano tutto il diritto di usare questi riferimenti, perché vuol dire che per loro significano qualcosa e questo mi rallegra. Non penso però che si possa dire che in questi Paesi ci siano presidenti legati alla teologia della liberazione, perché essi fanno politica nel loro pieno diritto e ritengo che si tratti della politica necessaria per cambiare un Paese ma una teologia non può essere un riferimento ideologico. Un aneddoto: molti anni fa ricevetti una telefonata da un giornalista di Barcellona che mi chiedeva un parere a proposito della rivoluzione sandinista, definendola “una rivoluzione fatta da persone legate alla teologia della liberazione”. Gli ho risposto che pensavo ci fossero fattori molto più importanti della teologia della liberazione alla radice di quella rivoluzione, prima di tutto la dittatura dei Somoza. Non bisogna perdere il senso delle proporzioni e la capacità di analizzare i molti fattori sociali. Comunque non ho dubbi, e anzi me ne rallegro, che la posizione della Chiesa latinoamericana negli ultimi quarant’anni abbia influito molto nella società: e parlo di Chiesa perché le idee che si attribuiscono alla teologia della liberazione sono poi presenti nei documenti delle conferenze generali dell’episcopato latinoamericano. E, d’altro canto, molta repressione dei governi è stata motivata con la lotta alla teologia della liberazione! Nella conferenza degli eserciti americani del 1987 si sosteneva che la teologia della liberazione era contraria alla «civiltà occidentale cristiana». Quindi la teologia della liberazione è presente nell’ambito politico, nel bene e nel male, ma ci sono altri fattori che influiscono. Credo che abbia motivato molte persone, ma compito della Chiesa è cambiare le coscienze e la teologia contribuisce a questo dando ragioni e fondamenti. Si fa teologia anche per cambiare questo mondo!»
La Stampa 17.9.13
L’intervento del Papa
Francesco: «I cattolici si immischino in politica E chi governa sia umile»
L’indicazione durante l’omelia a Santa Marta: «I governanti amino il loro popolo»
di Andrea Tornielli
Chi governa deve avere come caratteristiche «umiltà e amore per il popolo». E il buon cattolico deve «immischiarsi» in politica. Lo ha detto ieri mattina Papa Francesco nell’omelia della messa celebrata a Santa Marta, commentando il Vangelo del centurione che chiede con umiltà la guarigione del servo, e la lettera di San Paolo a Timoteo con l’invito a pregare per i governanti. Brani che sono serviti a Bergoglio per spiegare il «servizio dell’autorità».
Chi governa, ha detto Francesco, «deve amare il suo popolo», perché «un governante che non ama, non può governare: al massimo potrà disciplinare, mettere un po’ di ordine, ma non governare». «Non si può governare senza amore al popolo e senza umiltà! - ha spiegato il Papa - E ogni uomo, ogni donna che deve prendere possesso di un servizio di governo, deve farsi queste due domande: “Io amo il mio popolo, per servirlo meglio? Sono umile e sento tutti gli altri, le diverse opinioni, per scegliere la migliore strada? ”. Se non si fa queste domande il suo governo non sarà buono. Il governante, uomo o donna, che ama il suo popolo è un uomo o una donna umile». Parole distanti mille miglia da una politica caratterizzata da tatticismi, lotta per il mantenimento del potere o interessi personali. Parole che mettono nuovamente al centro il «bene comune».
Ma Bergoglio, riecheggiando San Paolo che invita i cittadini ad elevare preghiere «per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo condurre una vita calma e tranquilla», ha ricordato che non ci si può disinteressare della politica. «Nessuno di noi può dire: “Ma io non c’entro in questo, loro governano”. No, no, io sono responsabile del loro governo e devo fare il meglio perché loro governino bene e devo fare il meglio partecipando nella politica come io posso. La politica dice la Dottrina Sociale della Chiesa - è una delle forme più alte della carità, perché è servire il bene comune. Io non posso lavarmi le mani, eh? Tutti dobbiamo dare qualcosa!».
Francesco ha quindi osservato come sia invalsa l’abitudine di dire soltanto male dei governanti, lamentandosi per le «cose che non vanno bene». «Tu senti il servizio della Tv e bastonano, bastonano; tu leggi il giornale e bastonano. Sempre il male, sempre contro!». Forse - ha proseguito il Pontefice - «il governante, sì, è un peccatore, come Davide lo era, ma io devo collaborare con la mia opinione, con la mia parola, anche con la mia correzione» perché tutti «dobbiamo partecipare al bene comune!». E se «tante volte abbiamo sentito dire: “Un buon cattolico non si immischia in politica” - ha aggiunto - questo non è vero, quella non è una buona strada».
«Un buon cattolico - ha precisato Bergoglio - si immischia in politica, offrendo il meglio di sé, perché il governante possa governare. Ma qual è la cosa migliore che noi possiamo offrire ai governanti? La preghiera!». Pertanto, ha concluso Francesco, «diamo il meglio di noi, idee, suggerimenti, il meglio, ma soprattutto il meglio è la preghiera. Preghiamo per i governanti, perché ci governino bene, perché portino la nostra patria, la nostra nazione avanti e anche il mondo, che ci sia la pace e il bene comune».
Così come aveva fatto in occasione del drammatico appello per la pace in Siria, richiamando all’impegno di tutti nella preghiera e nel gesto concreto del digiuno, Francesco invita dunque a una responsabilità simile verso la politica, chiedendo che si preghi per chi ha responsabilità di governo. Ma chiedendo allo stesso tempo ai governanti umiltà e amore per il popolo. (ha collaborato Mauro Castagnaro)
Repubblica 17.9.13
La propra storia con Dio
di Mariapia Veladiano
Il nostro interrogare la vita accade sempre dall’interno di una storia personale che segna il confine del nostro meraviglioso essere unici. Poi il dialogo nasce se ci riconosciamo parte di qualcosa di comune, che possiamo chiamare per nome oppure sentire in altro modo, ma c’è, e ci permette di non trovarci costretti dentro il micidiale sentimento di esclusione che ci fissa all’angolo di una solitudine dalla quale sembra possibile solo scagliare frecce. Vien da dire che è facile dare un nome a questo appartenere, è semplicemente la nostra comune umanità. Esser fatti di corpo e pensare e parlare e avere emozioni, la vita come piacere, dolore, stupore, in un movimento che dà ritmi sempre diversi al tempo, più veloce o più lento, al passo con il nostro essere sereni o afflitti. Non c’è giorno che non ci veda diversi da quel che eravamo e che saremo. E in questo trascolorare del sentire c’è tutta la contiguità di cui siamo intessuti. Sconfinamento che ci impedisce di esser felici solo noi alla faccia dell’ingiustizia.
In questa comune umanità non esiste un luogo da cui interrogare la vita che sia proprio solo dell’intelligenza oppure solo della fede. È inimmaginabile sul piano della storia della salvezza cristiana un Dio che chiama alla vita (comunque si intenda l’espressione) l’uomo e la donna e chiede il sacrificio del pensiero nel momento in cui il loro interrogare incontra quel che più importa: la felicità o il dolore.
Dentro questa comune umanità, chi crede è chi ha una storia con Dio. Oltre che con gli uomini e le donne che nel tempo hanno costruito, cambiato, sfiorato la sua vita, ha anche una storia personale, vera con Dio. Un incontro avvenuto in forme diverse, a volte così particolari che non si possono raccontare. Più spesso invece è possibile trovare le parole. Papa Francesco ha raccontato la sua, limpido incontro nato dentro una comunità di fede. Ed è spiazzante e bello che il suo intervenire nel discorso sulla verità e sul credere sia partito da una storia, la sua storia, e non da una dottrina.
Altri che credono possono raccontare incontri più segreti, un trovarsi a essere portati e sollevati proprio nel momento del più nero sprofondare. Scarti inattesi in una vita che si pensava finita.
Quel che cambia in chi crede non è la possibilità finalmente raggiunta di ottenere geometriche risposte alla vita tutta. L’interrogativo sul dolore è scandalo per chi crede e per chi non crede. La misura è la stessa, e così l’impotenza rispetto a tutto il male della natura, che non dipende da noi, e spesso anche rispetto al male della storia, che molto dipende da noi. I tentativi di chiudere il cerchio del male dentro un confine concettuale hanno portato a risultati impronunciabili. A una insopportabile retorica che sui temi più tremendi vorrebbe essere devozione ed è solo contraddizione e anche offesa a chi patisce e muore. Nessuna algebra del bene e del male può essere evocata davanti al dolore. Anche chi crede conosce tutta la tentazione del disperare. E a volte dispera. Ma non per sempre e certo non grazie a una malintesa devozione che blocca il pensiero davanti al dubbio, ma perché non è proprio capace di farlo. La sua storia con Dio lo fa rialzare. Nel corpo che si rimette in piedi anche suo malgrado quando cade e nello spirito che non sa pensarsi finito. E allora grazie alla sua storia con Dio, non lascia Dio da solo davanti all’ingiustizia del mondo.
E la verità che noi possiamo e di cui parliamo è sempre verità umana. Anche da credenti. Quel veder per speculum in aenigmate, in modo confuso, come in uno specchio, che può essere inganno qui e ora e ci fa innamorare di un’ombra, idolo che si chiama denaro, ambizione, potere. In realtà tutte variantidel potere. Del voler essere Dio invece che figli e fratelli. E quanto dolore ha portato all’umanità e alla chiesa la verità in forma di idolo. Già questo dovrebbe trasformare il nostro parlare di verità in ascolto silenzioso sul confine del mondo.
È un credere e non un sapere il nostro, dentro l’umana libertà e dentro un umano fluttuare di maggiore o minore chiarezza e convinzione. È a volte un sollevarsi di allegria contagiosa, altre un quieto attendere, a seconda dei momenti e della qualità del sentire non solo individuale ma anche sociale e storico che ci investe. È poter credere che il buon esito del nostro agire è assicurato perché non dipende da solo da noi. Perché è stato promesso da chi ha mantenuto la più impensabile delle promesse, la sconfitta della morte e in noi questo poter rinascere lo abbiamo vissuto. E non sappiamo perché altri no, ma non vogliamo essere noi l’inciampo, con la nostra verità scolpita e contundente, o con la nostra identità coltivata come separatezza, idolo ancora una volta, oppure ancora con i nostri valori non negoziabili. Orribile espressione mercantile.
Tutto il resto rimane, è comune umanità di chi crede e chi non crede: lo scandalo del male, il mistero dell’impotenza storica dell’azione, l’ingiustizia che imperversa a dispetto di un diritto che ha oggettivamente disegnato un immenso progresso nella nostra storia. La coscienza che si interroga. E nella battaglia buona per la nostra convivenza, guai a lavorare per dividere le buone forze in campo. Insieme è già un credere. Che spendersi per la vita buona valga la pena. Quanto alla chiesa, chi crede affida a Dio i confini di questa immensa patria di uomini liberi. Intanto nel bene operare e pensare ci si fa compagnia. Esser soli moltiplica la paura. E anche la Trinità si fa compagnia.
Corriere 17.9.13
I quadri preziosi del prelato nell'inchiesta sui conti Ior
I pm chiedono per Scarano il giudizio immediato
di Fiorenza Sarzanini
ROMA — Giudizio immediato per gli illeciti compiuti attraverso il trasferimento di denaro dall'estero. La procura di Roma stringe i tempi e chiede che monsignor Nunzio Scarano sia subito processato. I reati contestati all'ex contabile dell'Apsa, l'Amministrazione del patrimonio della sede apostolica, tuttora detenuto, sono la corruzione e la truffa per un'operazione da 20 milioni di euro degli armatori D'Amico da far rientrare dalla Svizzera. Ma altri filoni di indagine si sono già aperti e l'attenzione degli inquirenti si concentra su tutti i conti correnti aperti presso l'Apsa e soprattutto presso lo Ior, gestiti proprio dall'alto prelato.
I soldi da Montecarlo
L'istanza del procuratore aggiunto Nello Rossi e del sostituto Stefano Pesci è stata depositata ieri mattina nell'ufficio del gip. E i difensori di Scarano, gli avvocati Francesco Caroleo Grimaldi e Silverio Sica, anticipano che non chiederanno alcun rito alternativo proprio perché si possa celebrare il dibattimento «e dimostrare che in realtà il nostro cliente ha sempre agito a fin di bene». In realtà sono state proprio le dichiarazioni del monsignore — che ha accettato di rispondere a numerosi interrogatori — a svelare un sistema di reimpiego dei capitali di imprenditori e banchieri attraverso i cosiddetti «conti laici». E al nucleo Valutario della Guardia di Finanza guidato dal generale Giuseppe Bottillo sono state delegate verifiche su tutti i passaggi di soldi, ma anche sulle «operazioni di aggiotaggio» che secondo Scarano sarebbero state compiute dal banchiere Nattino, il fondatore di Banca Finnat.
Non solo. Di fronte ai pubblici ministeri di Salerno che indagano su alcuni investimenti effettuati dall'alto prelato, compreso l'acquisto di immobili per oltre un milione e mezzo di euro, Scarano ha delineato il percorso spesso utilizzato per occultare i soldi. E l'11 giugno scorso, circa venti giorni prima di essere arrestato per ordine del giudice della Capitale, aveva dichiarato: «I fondi dei D'Amico arrivano sui conti Ior attraverso bonifici estero su estero, cioè disposti da Montecarlo o dal Lussemburgo verso il Vaticano benché la sede legale della società sia a Roma». Inizialmente aveva giustificato queste modalità sostenendo di «non essere a conoscenza delle motivazioni, ma ritengo che sia una ragione di comodità dei D'Amico». Poi si è scoperto che il sistema era stato «testato» più volte.
Conti correnti e quadri preziosi
In realtà nei successivi interrogatori, messo di fronte a quanto era stato scoperto dagli investigatori del valutario, ha ammesso le operazioni illecite effettuate all'estero e soprattutto l'utilizzo di «conti laici» per schermare le operazioni sospette. È la parte più delicata dell'indagine, quella che genera preoccupazione all'interno della Santa Sede. Perché il regolamento dell'Apsa, così come del resto quello dello Ior, vieta di intestare i depositi a persone che non siano religiose. E invece, come ha raccontato proprio Scarano, il via libera veniva concesso regolarmente, tanto che anche lui ha detto di aver utilizzato questi conti. Ma soprattutto ha ammesso di averli messi a disposizione di persone che volevano spostare fondi senza lasciare tracce. Compresi faccendieri e 007 che adesso si ritrovano sotto inchiesta con lui proprio per aver concorso nei reati.
La «rete» di amicizie sulla quale Scarano poteva contare emerge proprio dal suo racconto ai magistrati di Salerno, in particolare quando si sofferma sui regali ricevuti. E spiega: «Il piccolo crocifisso del Bernini è un oggetto donatomi da Antonio D'Amico. Il Marc Chagall l'ho acquistato a titolo di investimento. I sei quadri di De Chirico, la cui autenticità deve essere comunque provata, sono un regalo della principessa Giudy Caracciolo di Castagneto».
il Fatto 17.9.13
Vogliono zittire i cittadini
di Paolo Flores d’Arcais
L’altra mattina, in una trasmissione di Radio3, è toccato sentire uno dei partecipanti, che per professione dovrebbe avere la vocazione a informare, definire bassa manovra demagogica la raccolta di firme che questo giornale ha lanciato in difesa della Costituzione. Siamo ormai dentro un disgustoso mondo alla rovescia, dove la virtù repubblicana diventa colpa inemendabile, mentre i ciclopici vizi della più inetta e corrotta e mediocre e bugiarda e infingarda classe politica d’occidente vengono santificati a baluardo contro la catastrofe, quando ne sono causa e motore.
Perché in una democrazia anche le migliori leggi, le più oculate balances des pouvoirs, la migliore Costituzione, possono essere aggirate dalla prepotenza degli establishment, come la storia ha troppe volte confermato e in Italia stiamo di nuovo sperimentando, e dunque alla fine la tenuta di una democrazia si fonda sull’ethos repubblicano diffuso tra i cittadini. Passione civile, partecipazione, intransigenza sui valori di giustizia e libertà che informano la Costituzione, sono gli ingredienti della Cittadinanza Attiva che, sola, è baluardo di democrazia. Hannah Arendt sosteneva che il grande criminale del XX secolo fosse stato “il buon padre di famiglia” che si era estraniato dalla vita pubblica per curarsi solo del “particulare”, aprendo la strada al totalitarismo nazi-fascista.
Questo giornale ha motivato quasi mezzo milione di cittadini a firmare in difesa della Costituzione, minacciata dalla vera e propria manovra eversiva delle larghe intese per annullare l’articolo 138 (lo hanno scritto fior di giuristi che, tutti, avrebbero meritato il posto vacante della Consulta ignobilmente assegnato da Napolitano ad Amato). Il 12 ottobre l’Italia repubblicana e civile scenderà in piazza a Roma per esigere la “realizzazione” della Costituzione e per chiudere il ventennio nauseabondo del berlusconismo e degli inciuci. Ma tanti che si definiscono “giornalisti” continuano a spurgare ingiurie sui cittadini civilmente impegnati e menzognero giulebbe di servilismo su un governo e un presidente che pretendono intoccabili.
Vogliono che i responsabili della catastrofe di crescente impoverimento, inefficienza, ingiustizie e infine macerie materiali e morali, cui hanno ridotto il paese dai loro Palazzi e Colli, vengano incensati e santificati. Vogliono che i cittadini tacciano, o si genuflettano belanti. E invece la rivolta morale dei cittadini, con le firme, nel web e nelle piazze, li seppellirà. Albert Camus del-l’etica e del cittadino ha scritto: “Mi rivolto, dunque sono”.
l’Unità 17.9.13
No al congresso senza politica
di Alfredo Reichlin
Che congresso vogliamo fare? La risposta a questa domanda non mi è ancora chiara. Noi non siamo una associazione ricreativa la quale deve rinnovare i suoi dirigenti perché si è arrivati a una scadenza statutaria. Siamo un partito politico, anzi il solo che bene o male è tale, non essendo nato da una avventura personale ma essendo l’erede delle storie secolari del socialismo e del cattolicesimo democratico.
Una storia grande. Saremo pure una piccola cosa rispetto alla grandezza del mondo nuovo e alle sue inedite sfide ma dopotutto siamo nani seduti sulle spalle di giganti. Nessuno però lo dice e assistiamo invece a vecchi dirigenti in fuga.
Io sono molto colpito. Non so separare la vicenda del Pd da quella più grande di un Paese in grande sofferenza, anche morale. Una crisi di identità sembra colpire gli italiani. La cosa che più mi preoccupa è lo sfarinarsi di quel grande deposito di valori che è la solidarietà. Il Papa ha sollevato questa questione e la grida al mondo. Mi chiedo se la crisi della sinistra sia anche causa ed effetto di questo fenomeno più grande. Eppure, piaccia o non piaccia, è solo a noi che la gente può chiedere una guida, uno sguardo sul futuro, una risposta ai suoi problemi di vita e al suo enorme bisogno di giustizia. A chi, se no? Guardiamo il panorama politico che ci sta intorno: Grillo gioca allo sfascio e il mondo moderato sembra incapace di separare la sua sorte da quelle di Berlusconi. È per tutte queste ragioni che io mi chiedo se ci rendiamo conto del danno enorme che fanno le nostre beghe interne. Non possiamo continuare a parlare solo di noi stessi.
Ripeto dunque la domanda: che congresso vogliamo fare? In altre parole, quale grande proposta politica facciamo a questo Paese. Non solo come parliamo con efficacia nei comizi ma come facciamo la cosa essenziale che deve fare un partito politico, cioè una proposta politica, una scelta qui e ora sul come far leva sulle forze reali, come tornare a schierarle e portarle all’azione e alla lotta. Questa è la politica. E quindi è dall’Italia che dobbiamo partire, non da noi. E allora: quale Italia? Basta alzare un poco lo sguardo per rendersi conto della grandezza dei problemi che ci interrogano. Con l’uscita di scena di Berlusconi finisce una intera fase della vita italiana, un ventennio. Ma non è come se si chiudesse una parentesi. Si aprono nuovi scenari, e il terreno è coperto di macerie. Nulla tornerà come prima. Le responsabilità di Silvio Berlusconi sono evidenti ma, dopotutto, costui non è arrivato dall’estero. Bisogna quindi fare i conti con problemi più di fondo la struttura dello Stato, il vecchio modo dello stare insieme degli italiani cioè con quei problemi da gran tempo irrisolti e che non sono separabili dalla straordinaria avventura del Cavaliere. Poniamoci con freddezza e realismo di fronte alla realtà. Il dato di fondo è che l’Italia si è impoverita ed è diventata più piccola in tutti i campi dello sviluppo economico scientifico e culturale. Solo rispetto al 2007 abbiamo perso dieci punti di ricchezza, ma è dai primi anni Novanta che avevamo cessato di crescere. Perché?
Alla base c’è la sostanziale incapacità della compagine statale e dei compromessi sociali e politici che ne sono l’ossatura, di riformarsi in rapporto alle nuove sfide dell’internazionalismo. Noi abbiamo sottovalutato la grandezza e la natura di quella vera e proprio mutazione rappresentata dalla mondializzazione dell’economia. Sono state ridisegnate le identità collettive e i saperi diffusi, non solo le forme dell’economia. Sono state investite le figure sociali, i poteri dello Stato e i vecchi diritti di cittadinanza. Sono venute meno le armi fondamentali del mondo del lavoro, come il sindacato e lo Stato sociale, si è rotto il compromesso del capitalismo con la democrazia. E, come risposta, ognuno ha cercato di difendersi da solo a scapito di quel cemento essenziale che è la solidarietà con gli altri. È vero anche che si sono allargate le conoscenze e che nuovi popoli sono venuti alla ribalta. Ma la società è diventata più egoista e più ingiusta. Il potere politico ha ceduto il passo di fronte alla potenza senza limiti dell’economia finanziaria e alla sua logica del breve periodo: prendi i soldi e scappa. L’Italia è finita ai margini perché investire sul futuro, sui giovani, sul meraviglioso patrimonio umano e culturale italiano è meno conveniente.
Questo a me pare il cuore del problema politico italiano. I programmi restano vani annunci se non partiamo dall’anima della nazione, se non ridiamo una identità agli italiani, una nuova idea di sé, un nuovo orizzonte e quindi una fiducia nella politica e nel cambiamento. Non si va da nessuna parte con questa rissa continua. Guardare i talk show televisivi fa orrore: una marea di fango, di insulti, di risse senza capo né coda. In quale Paese del mondo civile un uomo politico condannato per frode allo Stato, invece di dimettersi, può ricattare il Paese minacciando il caos?
Dunque, non piccoli cambiamenti ma una grande svolta è necessaria. Ma nella realtà in cui siamo la condizione di una svolta (ecco ciò che voglio dire) è come spostare le risorse che nonostante tutto esistono e sono grandi perché sono le risorse umane, le conoscenze, il capitale sociale italiano verso l’investimento produttivo, i beni pubblici, la difesa dell’ambiente, i nuovi bisogni. Ma come? Io credo che c’è un solo modo, ed è quello di mettere in campo non solo un leader ma una forza reale, un movimento civile, una soggettività organizzata, una forza politica, un partito, cioè lo strumento che trasforma una somma di individui in una comunità pensante.
Questa è la grande responsabilità che pesa su tutte le correnti del Partito democratico. Cerchiamo di vedere il grande spazio che si apre dopo il berlusconismo. È lo spazio nuovo che la crisi del vecchio ordine ultraliberale dovrà per forza restituire alla politica. È l’enorme bisogno di guida, di certezze, di valori. È il bisogno di luoghi dove possa costruire uno stare insieme e un nuovo alto compromesso civile e sociale tra gli italiani.
Questo è il tema di fondo del Congresso, il banco di prova di questo partito. Il Pd non può esistere come grande partito se non è utile al Paese e se non ridefinisce il suo ruolo a fronte di questa crisi di identità, di valori e di prospettive. È qui che io vedo, nel concreto, nel qui e ora, la necessità e il realismo di una grande proposta politica che il nostro congresso dovrebbe avanzare. La proposta di un nuovo patto tra gli italiani. Qualcosa di analogo a ciò che ispirò Berlinguer nel suo assillo di tenere insieme la politica con la società e con la cultura. Non quella dei libri e dei dotti, ma quella di un popolo che si fa Stato e crea, non gli «inciuci», ma una religione civile. Fummo sconfitti, prevalse un’altra idea della politica. Più la grande politica perdeva basi popolari e il potere delle grandi decisioni veniva assunto dall’economia, più i leader si illudevano di difendersi puntando tutto sul potere personale e sul consenso dei «media». Cominciava l’era degli uomini soli al comando (Craxi, Berlusconi, Di Pietro, Grillo, ecc.).
È questa la vera «roba vecchia». Il mondo è inondato dai debiti e i ricchi sono diventati più ricchi. Mentre il nuovo, a mio parere, sta nel dare agli uomini strumenti capaci di restituire ad essi la padronanza delle loro vite. Penso che bisognerebbe dare voce al «primo popolo» (come lo chiama De Rita), cioè quelli che stanno sotto. Non è solo con le primarie che si forma un popolo, qualcuno deve pur dirlo. Io non credo che il Pd possa avere un grande avvenire isolando le forze che vengono dalla lunga storia del socialismo.
il Fatto 17.9.13
Pd, l’incubo dell’assemblea al buio
Convocata per venerdì
Nessun accordo sulle regole
I lettiani sempre più neri col rottamatore
di Wanda Marra
“Adesso! ”: il congresso, Matteo Renzi lo vuole fare subito. Il vocabolo chiave delle scorse primarie si potrebbe applicare all’ultima battaglia ingaggiata dal sindaco di Firenze. E “adesso”, l’accordo non c’è, la trattativa è ancora in alto mare e all’assemblea di venerdì e sabato si rischia di arrivare al buio totale. Intanto, Letta e i suoi sono sempre più irritati col sindaco di Firenze e il Pd epifanian-bersaniano lo accusa più o meno di tutti i mali politici del momento. Primo tra tutti, voler accelerare sul congresso per far cadere il governo da segretario. Sono mesi che i Democratici discutono delle regole e della data del congresso e a tre giorni da un incontro già rinviato più volte, si brancola nel buio. L’ultimo oggetto del contendere sono i congressi locali: “Si era arrivati a un punto d’accordo. Fare quelli provinciali prima dei congressi nazionali”, spiega Nico Stumpo, bersaniano. E quelli regionali? “Noi vogliamo tenerli slegati da quelli nazionali”. Quindi, al limite anche dopo. Ora Renzi però chiede che i congressi regionali siano fatti insieme alle primarie per la segreteria.
UNA SCELTA che lo avvantaggerebbe: la sua figura farebbe da traino per i “suoi” candidati alle segreterie della regione. “Ma possiamo mediare sulla mediazione? ”, si chiede ancora Stumpo. E allora, ecco l’incubo della conta. Magari persino su un ordine del giorno imprevisto, per esempio sulle larghe intese. O anche l’incubo del nulla di fatto. “Loro i congressi locali vogliono farli prima di quello nazionale per far slittare l’elezione del segretario”, attacca Lorenzo Guerini, renziano. Nel frattempo, Renzi, è partito all’attacco sugli iscritti. “Sostiene che dopo le primarie per il segretario farà il tesseramento? Strumentale”, dicono i bersaniani. Perché in realtà vorrebbe solo affrettare i tempi, per far cadere il governo. “Bersani è riuscito quasi a dimezzare gli iscritti, si sono persi 3,5 milioni di voti”, ha detto Renzi a Porta a Porta. Nel 2009, quando Bersani diventò segretario gli iscritti erano 900mila, nel 2012 500mila, quest’anno siamo a 270mila. Spiega Stumpo: “Tra le primarie, le elezioni e le feste democratiche siamo stati occupati a fare altro. Ma abbiamo ancora qualche mese davanti”. Evidentemente, il Pd è stato talmente travolto dagli eventi che le tessere sono andate a picco. Tema politico, più che organizzativo. Per domani Epifani dovrebbe convocare la commissione sulle regole pre-Assemblea. Non l’ha ancora fatto. Chi sta nel bunker del Nazareno ragiona più o meno così: “Ma mettiamo conto che c’è la crisi di governo: come si fa a fare un congresso in quelle condizioni? E poi, che congresso viene fuori? ”. Di certo, nessuno ha deciso ufficialmente che cosa accadrebbe se si andasse a elezioni. E l’ex Rottamatore è sempre più nel mirino di Letta: non passa giorno che non ci sia un altolà, una reprimenda, raccontano gli uomini di Matteo.
il Fatto 17.9.13
Le grane del Pd 1
Arrestata la Lorenzetti, ex governatrice dell’Umbria
Corruzione per l’Alta velocità, la presidente di Italferr ai domiciliari. Intanto i 5Stelle e Felice Casson (“fatti gravi”) chiedono le dimissioni del neo-giudice costituzionale per la telefonata, svelata dal “Fa t to”, in cui l’ex braccio destro di Craxi metteva il silenziatore a una teste in un processo per tangenti
il Fatto 17.9.13
Le grane del Pd 1
Amato poco costituzionale Casson: “È un fatto grave”
I “consigli” intercettati nel 1990 imbarazzano ancora l’ex tesoriere Psi
“Non fare nomi, niente frittate”, fu il consiglio di Amato alla vedova di un socialista da poco defunto
di Emiliano Liuzzi
Più che la giunta, Berlusconi, i falchi e le colombe, è la telefonata di Giuliano Amato, rivelata dal Fatto Quotidiano, dove l’allora vice segretario del Psi di Craxi “consiglia” la testimone di un processo, a tenere il banco sulla scena politica. E non solo per parte del Movimento 5 stelle che ha già chiesto le dimissioni di Amato da giudice della Corte costituzionale. Ieri è stato un senatore del Pd, Felice Casson, ex magistrato, a non girare molto attorno alla questione: “Ho ascoltato e riascoltato la registrazione. Il fatto è grave, non ci sono dubbi. Ma non potete chiedere a me cosa farei io al posto di Amato, è questione di sensibilità personale. Posso dire invece quello che non avrei mai fatto: quella telefonata”. Massimo D'Alema, ai microfoni di Lilli Gruber, se la cava con un "non scherziamo" e l'aria di chi la sa lunga. Non entra nel merito, però, la sua diventa una difesa d'ufficio: “Il prestigio di Amato non è in discussione”. Non lo mette in discussione neppure Giorgia Meloni di Fratelli d'Italia, il prestigio. Ma chiede che Amato lasci l'incarico.
Certo che quel processo, datato 1990, di interferenze ne ha viste assai. Da una parte quella di Amato che chiama la vedova del senatore Paolo Barsacchi, morto quattro anni prima. Sulle scrivanie dei magistrati c’è una tangente da 270 milioni di lire che funzionari del Psi della Versilia chiesero a un imprenditore per aggiudicarsi i lavori della pretura. E la linea difensiva fu una soltanto: scaricare le responsabilità sulla persona che non c’è più, il senatore Barsacchi, appunto. In quel modo – siamo alla vigilia di Mani Pulite, non c'erano pool di Milano, ma un tribunale di provincia, quello di Pisa – i giudici avrebbero dovuto dichiarare il non luogo a procedere nei confronti del-l’imputato che non poteva difendersi, stroncato da una malattia a 50 anni. Sarebbe filato tutto liscio se la vedova del senatore, Anna Maria Gemignani, non si fosse opposta con tutte le forze. E’ a questo punto che entrano in gioco, nel processo, due pezzi da novanta: Amato e quello che all'epoca dei fatti era il ministro della Giustizia, Giuliano Vassalli. Anche l’ex ministro, così come Amato, vengono chiamati a testimoniare, e nel depositare le motivazioni della sentenza, i tre giudici del collegio del tribunale di Pisa, Alberto Bargagna, Carmelo Solarino e Alberto De Palma, esprimono disappunto. “Suscita perplessità”, scrivono, “il fatto che Vassalli chiami la vedova di Barsacchi a Roma per parlarle, quasi a non voler dire cose compromettenti per telefono”. Espliciti lo sono anche sulla posizione di Amato, oggi giudice della Consulta: “È preoccupato solo di evitare una frittata intendendo per tale un capitombolo complessivo del partito. Ma come mai _ si chiedono i giudici _ nessuno di questi eminenti politici si e' sentito in dovere di verificare tra i documenti giacenti nella segreteria centrale del partito per quali tramiti fossero arrivati a Roma quei 270 milioni riconducibili alla tangente? ”. Amato e Vassalli vennero chiamati a testimoniare, dissero che non c’era nessuna congiura, e tornarono a Roma. Nessuna congiura, ma un malaffare da quattro miliardi di lire, poi diventati sette, affidati al costruttore Luigi Rota in cambio di una tangente. Finì con quattro condanne, tra i sette e i due anni, e il riconoscimento dell'estraneità nei confronti del senatore Bar-sacchi, l’uomo che gli imputati volevano incolpare. Finì con le condanne e iniziò una telefonata di Amato fa alla vedova del senatore: “Troverei giusto che tu entrassi in quel maledetto processo e dicessi che quello che dicono di tuo marito non è vero. Punto. Ma senza un’operazione che va a fare quello non è lui, ma è Caio, quello non è lui ma è Sempronio. Hai capito che intendo dire? Tu dici che tuo marito in questa storia non c’entra. Questo è legittimo”.
il Fatto 17.9.13
Le grane del Pd 2
Tunnel di Firenze, retata per corruzione negli appalti Tav
L’ex governatore piddì umbro arrestata per essere a “capo” di una associazione a delinquere
Da presidente di Italferr ha agito anche contro la società pubblica
di Davide Vecchi
“Parlo io con Anna (Finocchiaro) non preoccuparti”, “ora deve chiamarla Pier Luigi” (Bersani). La dalemiana Maria Rita Lorenzetti, 13 anni da parlamentare e due mandati da governatore dell’Umbria nonché membro della direzione nazionale del Pd, nominata presidente di Italferr, usava le amicizie politiche e la società pubblica del gruppo Ferrovie dello Stato per trarne “vantaggio personale”, “del marito” e della sua “squadra”. A scapito della stessa Italferr. Lo scrive il gip di Firenze, Angelo Antonio Pezzuti, nell’ordinanza di arresto emessa ieri a carico di Lorenzetti e altre dieci persone con le accuse di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e abuso d’ufficio nel-l’appalto per l’attraversamento di Firenze della Tav.
AI DOMICILIARI con Lorenzetti sono finiti Gualtiero (detto Walter) Bellomo membro della commissione Via del ministero dell’Ambiente; Furio Saraceno presidente di Nodavia; Valerio Lombardi tecnico di Italferr; Alessandro Coletta consulente e all’epoca dei fatti membro del-l’Autorità di vigilanza sugli Appalti pubblici; Aristodemo Busillo della società Seli di Roma, che gestisce la grande fresa sotterranea “Monna Lisa” per realizzare il tunnel Tav sotto Firenze. Una “squadra”, la definisce il Gip, ben collaudata e “più volte richiamata da Lorenzetti che riporta a un articolato sistema corruttivo”.
Il sistema era semplice. E ben collaudato. “Lorenzetti – scrive il gip fiorentino – svolgeva la propria attività nell’interesse e a vantaggio della controparte Novadia e Coopsette, da cui poi pretendeva favori per il marito, e mettendo a disposizione le proprie conoscenze personali, i propri contatti politici e una vasta rete di contatti grazie ai quali era in grado di promettere utilità ai pubblici ufficiali avvicinati”. Ed era Lorenzetti che faceva in modo, secondo la ricostruzione degli inquirenti, “grazie a modifiche normative e accomodanti disposizioni delle pubbliche amministrazioni a copertura dell’operato” della squadra, “la gestione degli scarti della fresa (per scavare il tunnel sotto Firenze, ndr) ” (..) venisse “fatta in deroga alla disciplina sui rifiuti”. Inoltre a lei spettava “risolvere positivamente le problematiche insorte, anche penali, relative alla scadenza dell’autorizzazione paesaggistica dell’opera”; “ottenere il massimo riconoscimento possibile delle riserve contrattuali poste dagli appaltatori (Nodavia e le società subappaltatrici, ndr) per una maggiorazione delle spettanze economiche di centinaia di milioni di euro aggiuntivi rispetto al prezzo di aggiudicazione”, “ottenendo i favori e la disponibilità di pubblici funzionari coinvolti nel-l’associazione ” a delinquere.
Che l’obiettivo sia far approvare il decreto per la gestione della collina Santa Barbara (dove stoccare i rifiuti), ottenere l’autorizzazione paesaggistica, aiutare il marito Domenico Pasquale (“inserito negli appalti posi-terremoto in Emilia Romagna”), raccomandare gli amici o far nominare qualcuno in posti chiave, il metodo usato – ricostruisce il gip – è sempre lo stesso: “La ricerca di contatti affidabili”.
Lorenzetti si muove anche a Bruxelles. Al telefono con Grillo la presidentessa garantisce che neanche alla Ue ci saranno problemi. “I nostri uffici Bruxelles consigliano di attendere con fiducia senza forzare... (inc.)... ovviamente Bruxelles... adesso io... ecco un'altra cosa... eh... ho risentito... questi nostri uffici di Bruxelles... (...)... che consigliano... eh... di... di... non... cioè di non scapizzare come dire... casomai di utilizzare visto che lì il parlamento è chiuso... (...)... di utilizzare gli eurodeputati che com... che sono nella commissione Ambiente e Territorio... (...)... in questo caso... o... Vittorio Prodi... ”.
LA RICERCA di appoggi si rivolge persino al Consiglio di Stato. Quando Valeria Lombardi apprende che il presidente di sezione di tale organo deve cambiare, invita, nel corso della telefonata del 18 aprile 2013, Lorenzetti a informarsi sul nuovo arrivato. Lei si riserva di chiedere ad Anna Finocchiaro qualcosa: “Adesso guarda sto andando al Senato perché devo andare a prendere un caffè con Anna... sento se lei conosce... lo conosce... se ha notizie da dove provenga... chi sia insomma”. E coinvolge Finocchiaro anche in occasione del decreto del Fare che dovrebbe azzerare i cda delle controllate pubbliche. L’ex presidente di Palazzo Madama è più volte coinvolta da Lorenzetti. Il 27 luglio 2012 si accorda con Bellomo: “Io sto andando al Senato (...) io fra 5 minuti ci sono (...) ci vediamo lì da Anna... insomma via! ”.
La Stampa 17.9.13
Renziani e bersaniani uniti “Non ci sarà un Letta bis”
Nel Pd lo scenario più accreditato in caso di crisi è un governo istituzionale a tempo
di Carlo Bertini
Vietato parlarne pubblicamente, «perché solo mettere in discussione le larghe intese significa indebolirle e fare un cattivo servizio a Enrico», ma nel Pd ormai sono in molti a pensare che se Berlusconi staccasse la spina, l’unico sbocco accettabile non sarebbe certo un Letta bis, ma un governo istituzionale non guidato da un premier Democratico; un governo a scadenza breve, utile solo a portare il paese alle urne senza il porcellum. Con un profilo istituzionale e molto tecnico, a cui il Pd darebbe un appoggio esterno, «perché non vogliamo ripetere l’errore facendo un Monti due», spiegano dalle parti di Epifani. Sembrerà paradossale, ma questo scenario mette d’accordo le due truppe avversarie di renziani e bersaniani, che su tutto il resto sono su barricate opposte, a cominciare dal nodo se congelare il congresso o no nel caso venisse giù tutto l’impianto attuale. Ma c’è anche chi fa notare come allo stesso Letta non converrebbe logorarsi guidando un esecutivo debole e raffazzonato, poco credibile in Europa, che non sarebbe certo un buon biglietto da visita per sfidare alle primarie Matteo Renzi. Tanto che il contrattacco del premier da Vespa e quell’uscita sulla volontà di ridurre le tasse sul lavoro come priorità, al Nazareno viene considerata già un segnale che «anche Enrico si sente già in campagna elettorale».
Dunque, se pubblicamente lo scenario di un Letta bis viene brandito per frenare la voglia di Berlusconi di staccare la spina alle larghe intese, in realtà nei colloqui privati tra i dirigenti del Pd questo sbocco è visto come altamente improbabile, «a meno che non si verifichi un vero smottamento nel Pdl e tra i 5Stelle, noi riusciremmo ad accettare solo un governo guidato istituzionale, magari retto dal presidente del Senato, per fare la legge di stabilità e quella elettorale», spiega uno di quelli che tengono i contatti con tutti, in primis con Matteo Renzi.
Anche nell’inner circle del «segretario emerito», così viene chiamato scherzosamente Bersani dai suoi detrattori, la musica è la stessa. «Un Letta bis con numeri risicati, sotto il bombardamento costante di tivvù e giornali della destra, non conviene a nessuno ed Enrico ha fatto già capire di non essere uomo per tutte le stagioni», dicono gli uomini ancora fedeli all’ex leader. Il quale non crede affatto che una situazione come l’attuale possa reggere a lungo e che Berlusconi proverà comunque a provocare la crisi. «E’ possibile che mercoledì non succeda niente e che anche a metà ottobre quando arriva la sentenza da milano sull’interdizione di Berlusconi non succederà niente?», chiede il bersaniano Nico Stumpo seduto su un divano alla Camera. «Non sappiamo quali scenari, se ce ne fosse uno con Letta che mettesse in pratica quanto dice sempre, cioè che lui non resta lì a tutti i costi?».
Una delle teste pensanti del renzismo, Paolo Gentiloni, la mette giù così per spiegare quanto sia poco probabile un Letta bis. «Le larghe intese nascono da uno stato di necessità e sosteniamo questo governo per questo, ma se tale opzione fallisse per colpa di Berlusconi, allora si torni a votare». Un modo elegante per dire che i numeri per un Letta bis nei gruppi parlamentari del Pd non ci sarebbero, punto. Altra storia invece è l’accordo con Renzi sui tempi del congresso, ancora in alto mare. Lo stesso Stumpo, che lavora gomito a gomito con Epifani, annuncia che «le primarie si riusciranno a fare il 15 dicembre se venerdì in assemblea si trova un’intesa politica per abolire l’automatismo tra segretario e candidato premier e sulla tempistica, per far partire prima i congressi locali e separare l’elezione dei segretari regionali da quella del leader. Ma se per assurdo l’8 dicembre venissero sciolte le Camere, non si può chiedere al paese di aspettare il nostro congresso per le consultazioni...».
Repubblica 17.9.13
Il grande freddo tra Enrico e Matteo il premier tentato dal sì a Cuperlo
Ancora niente accordo su regole e data del congresso
di Giovanna Casadio
ROMA — Ad ogni bordata di Renzi contro il governo, il gelo si accentua. Enrico Letta ovviamente dice che non si occupa e non si occuperà del congresso del Pd, ma la presa di distanza dal “rottamatore” sembra ormai irreversibile. Basta osservare le mosse dei lettiani. Paola De Micheli ad esempio, è sempre più tentata dal sostegno a Gianni Cuperlo, il candidato anti Renzi. Così un altro lettiano doc, Francesco Russo. A tessere la tela e mantenere i contatti in questi giorni sono i bersaniani, Nico Stumpo, Davide Zoggia. Del resto Bersani stesso l’ha ripetuto a ogni piè sospinto: appoggio Cuperlo a patto che non si crei una ridotta della sinistra post comunista. «Dobbiamo portare altri, dell’area lettiana, dei Popolari di Marini», ha ribadito l’ex segretario. Colloqui, incontri e endorsement: a 48 ore dall’Assemblea nazionale di venerdì che darà formalmente il via al conto alla rovescia per il congresso, il meteo democratico segna burrasca.
I posizionamenti spappolano correnti e sodalizi: Cesare Damiano ha detto all’amico di una vita, Piero Fassino di non chiedergli di appoggiare Renzi; Stefano Bonaccini, segretario emiliano e grande sostenitore di Pierluigi Bersani alle primarie del 2012, ha informato Pierluigi che Matteo è meglio, e sta trascinando con sé tutto il Pd dell’Emilia. Renzi che ormai non fa nulla per nascondere le sue critiche al presidente del consiglio, va avanti per la sua strada: «A me di queste storie di correnti e di sostegni non me ne importa nulla», fa sapere. Ma molto invece importa ai renziani delle tagliole che potrebbero essere disseminate nella corsa per la segreteria democratica. Alla vigilia dell’Assemblea l’accordo sulle regole ancora non c’è.
Il segretario Epifani garantisce che oggi cercherà di evitare la conta in Assemblea: «Prenderò in mano la situazione e proverò a fare un accordo, riparlerò con Renzi». Il leader, ex segretario della Cgil, sa bene che le trattative si concludono all’ultimo minuto. Lorenzo Guerini, renziano nel “comitatone” per il congresso, sostiene che ancora non si vede l’approdo. Gli uomini del sindaco non vogliono le lungaggini dei congressi locali se questo significa spostare alle calende greche le primarie per il segretario. Percorso indicato invece da Epifani. I “giovani turchi” si fidano di Roberto Gualtieri, il “mediatore”, e ritengono che la base per chiudere c’è e quindi i renziani non agitino altre scuse. Ma Margherita Miotto, bindiana, dà l’altolà a qualsiasi ipotesi di cambiare lo Statuto del partito nel punto fondamentale, ovvero quello percui il segretario è anche il candidato premier del centrosinistra. «Una cosa è prevedere una proroga della norma transitoria che Bersani volle modificare per consentire a Renzi di sfidarlo alle primarie, e cioè che non c’è automatismo; altra cassare l’identità stessa del Pd e la sua scommessa bipolare». Spiega Miotto. Come lei la pensano Morassut, i veltroniani e Renzi. Bindi non ha ancora scelto chi appoggiare: la polarizzazione tra Renzi e Cuperlo crea smarrimento, è il suo leit motiv. Sarà alla festa di Left Wing, la rivista dei “giovani turchi”, dal 26 al 29 settembre a Roma. Però Matteo Orfini ha chiamato a raccolta un po’ tutti, renziani inclusi, anche Yoram Gutgeld, consigliere di Renzi per l’economia. Conclusione con Cuperlo.
Su una cosa i renziani non transigono: niente allungamenti dei tempi, il congresso a norma di Statuto è previsto per il 7 novembre e massimo può slittare al 24. Né l’elezione dei segretari regionali può essere sganciata dal leader nazionale, rendendolo ostaggio del partito. Il “comitatone” dovrebbe essere riunito domani. E se l’intesa non c’è? «Si vota e la maggioranza decide», sfidano i renziani.
Corriere 17.9.13
Renzi vede Pisapia
Tra i sindaci un asse che guarda a Roma
di Elisabetta Soglio
Dopo Bersani e Vendola, Renzi e Pisapia. L’idea del nuovo ticket che potrebbe affrontare la prossima campagna elettorale piace a molti ed è stata rafforzata dagli incontri e dalle dichiarazioni di questo ultimo week end. Un ticket che viene considerato vincente perché i protagonisti, caratterialmente agli antipodi, hanno in comune la capacità di rivolgersi a mondi diversi da quelli della sinistra tradizionalmente intesi. Una strana coppia, a dire il vero: tanto il trentottenne Renzi è esuberante, affabulatore, amante della ribalta, quanto Pisapia è timido, schivo, molto low profile. I due, come hanno ricordato ieri, si sono conosciuti a Firenze nel 2010 in occasione di un festa organizzata da Emergency. Prima di allora, non era stato propriamente amore: Pisapia aveva dichiarato di non condividere l’approccio da «rottamatore» del collega sostenendo la necessità di cercare un leader capace di aggregare. Col tempo, soprattutto dopo la sconfitta alle primarie, Renzi ha modificato quel suo atteggiamento puntando più sui contenuti e sulle proposte. Tolto di mezzo quell’argomento, sono emersi i molti aspetti che li rendono affini ed è scattato il feeling. Primo punto: entrambi hanno alle spalle un’esperienza negli scout, che significa avere nel dna il senso del servizio, dell’impegno, dell’attenzione al prossimo. Secondo: nessuno dei due nasce politico, dal momento che dopo la laurea Renzi fa esperienza di manager nell’azienda di famiglia, mentre Pisapia è avvocato molto affermato. Terzo: entrambi stanno facendo la difficile esperienza di amministratori in tempo di crisi ed entrambi governano nel “tartassato” centro-nord. Devono far quadrare i bilanci, mentre lo Stato taglia; devono rispondere ai bisogni dei loro cittadini; devono cercare di fare fronte comune contro lo Stato che scarica tutte le tensioni sul livello locale.
Durante l’incontro di ieri, a Palazzo Marino, i due hanno rinnovato l’asse «sulle questioni concrete, perché a noi interessano quelle, mentre voi giornalisti vi occupate solo del congresso del Pd». E quindi, alleanza Milano-Firenze a 360 gradi: dalla moda all’Expo, passando per la necessità di avviare azioni con l’Anci a tutela dei trasferimenti agli enti locali. E la politica nazionale? Inutile stuzzicarli evocando possibili impegni comuni: Renzi prima spiega che «mi piacerebbe fare l’assessore di Pisapia»; poi, ulteriormente sollecitato su un trasferimento di entrambi a Roma, taglia corto sorridendo: «Dovete chiederlo al sindaco Marino».
In realtà, qualcosa si è già mosso. Come detto, entrambi hanno dimostrato la grande capacità di parlare a mondi diversi dal loro. Per questo motivo, Pisapia ha vinto le elezioni a Milano sgretolando 14 anni di dominio del centrodestra, preceduto dal quadriennio della Lega. Per lo stesso motivo, l’altra sera alla Festa del Pd Renzi ha ribadito che «per vincere bisogna allargare il consenso».
Ed ecco che la strana coppia potrebbe scendere in campo. Renzi ha stima totale per Pisapia e potrebbe affidare a lui il compito di parlare al mondo di sinistra più duro e perplesso nei confronti del sindaco di Firenze. Inoltre il sindaco meneghino potrebbe rappresentare, in questa alleanza, l’uomo forte del Nord che sostiene le istanze delle regioni più avanzate. Un primo risultato, Renzi lo ha già portato a casa: Pisapia ha infatti già esercitato una sorta di effetto trascinamento sulla sua giunta, che alle primarie era in maggioranza schierata con Bersani. L’endorsement più importante è stato quello del vicesindaco Ada Lucia De Cesaris, che alle primarie era addirittura stata coordinatore dei comitati di sostegno all’allora segretario e che l’altra sera ha ammesso: «Sento dire che le feste danno il polso degli umori del partito. La popolarità di Renzi non può essere ignorata e i giovani che fanno la coda per ascoltarlo sono un chiaro segnale». In effetti, sarà un caso ma Milano ha già cambiato atteggiamento nei confronti del sindaco fiorentino: tiepida alle primarie, dove Bersani l’aveva fatta da padrone sia in città che in Lombardia, Milano ha accolto Renzi con affetto e ovazioni alla Festa dell’Unità. E sicuramente in parte è stato merito di Giuliano Pisapia.
Repubblica 17.9.13
Aborto, crescono gli obiettori
di Guglielmo Pepe
L’aborto è un evento drammatico e doloroso. Pertanto la notizia che il numero delle Interruzioni di gravidanza (Idv) è sceso nettamente (4,9% in meno rispetto allo scorso anno: 106 mila casi a fronte degli oltre 111 mi-la), è molto positiva. Ma la relazione presentata al Parlamento sull’attuazione della legge 194 dice un’altra cosa, negativa: aumentano gli obiettori di coscienza. Con punte di quasi il 90% dei ginecologi in Campania e di oltre l’80 in tutto il Sud. Anche gli anestesisti meridionali obiettano in massa, con medie superiori al 70 per cento. Dunque i medici del Mezzogiorno d’Italia sono 'più sensibili' degli altri? E quali conseguenze ha questo comportamento? Si può ipotizzare che il calo del numero di Idv è dovuto in parte a questa diffusa obiezione di coscienza. Né si può escludere il ritorno della clandestinità o dei viaggi all’estero. Visto che la legge 194 non viene applicata in modo uniforme, il ministro ha fatto avviare un monitoraggio per verificare le situazioni critiche. Bene. Però se in una struttura 9 medici su 10 sono obiettori, il problema non è solo organizzativo ma culturale e politico: forse c'è chi vuole boicottare la legge 194.
La Stampa 17.9.13
“È il precariato che uccide la ricerca”
Il fisico del Cern Fabiola Gianotti: basta saltare una generazione per bloccare tutto
intervista di Gabriele Beccaria
«La ricerca si fa per passione, non per la fama o i soldi». Così dice Fabiola Gianotti, la scienziata italiana più famosa al mondo, a capo del team che l’anno scorso ha annunciato la scoperta del bosone di Higgs, la particella che, dando massa alle altre, fa esistere ciò che conosciamo, compresi noi stessi. A Torino per il «Premio StellaRe 2013», consegnato dalla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, è inevitabile ricordarle la polemica del giorno, lanciata dalla neo-senatrice a vita, Elena Cattaneo, stupita dalla differenza tra i suoi due stipendi: 3300 euro al mese per dirigere il maggiore laboratorio d’Italia di cellule staminali e 12 mila per lo scranno. Risposta: «E’ un problema ancora più generale».
Ci spieghi.
«Anche gli insegnanti sono pagati poco, dalle elementari all’università. Gli stipendi non sono paragonabili a quelli della Svizzera, dove lavoro. Non sono adeguati al loro ruolo».
Cosa si deve fare per guarire quella malata cronica che è la ricerca italiana?
«Fare ricerca nel proprio Paese è quanto di più bello si possa immaginare. Però devono sussistere le condizioni: stipendi decorosi, appunto, e un sistema meritocratico. E si deve risolvere la piaga del momento, il precariato. Non si può pensare che un ricercatore rimanga fino a 40 anni nell’incertezza. A quel punto la scelta dell’estero diventa obbligata. E’ il precariato a uccidere la ricerca».
E così continua la fuga dei cervelli.
«Il flusso dei cervelli è positivo se è bilanciato: i nostri giovani vanno all’estero e altrettanti dovrebbero venire da noi. Il problema è quando il flusso ha una sola direzione e diventa “fuga”. E la ricerca si impoverisce. Penso al patrimonio della fisica, che si basa sui “Ragazzi di Via Panisperna”, Fermi, Rasetti, Pontecorvo, Segrè e Amaldi: è una tradizione che si è perpetuata anche grazie all’Infn, l’Istituto di fisica nucleare, e alle università. Ma, quando i giovani se ne vanno, basta saltare una generazione per bloccare tutto. Accade come con le botteghe del Rinascimento: il sapere deve tramandarsi di padre in figlio».
Non crede che gli scienziati debbano farsi sentire di più?
«Ci sono segnali forti che vengono dagli scienziati italiani. Dall’Infn, che si impegna a spiegare ai politici ciò che fa facciamo e l’impatto sulla società, e dall’estero, dato il prestigio dei nostri scienziati. Ma ci deve essere la volontà politica di investire nella ricerca».
Come si convincono i politici?
«In un momento di crisi la tentazione è tagliare gli aspetti che non hanno un’influenza immediato sulla vita quotidiana, ma è una reazione a corto raggio. Senza ricerca fondamentale non ci sono idee, senza idee non ci sono applicazioni e senza applicazioni non c’è progresso. Alla lunga si paga. Un Paese costretto a comprare conoscenza all’estero è senza futuro».
Va però peggio per le donne: perché quello della fisica è un mondo ancora maschilista?
«C’è un aspetto storico: 30-40 anni fa non erano molte le donne che studiavano le “scienze dure”. Oggi al Cern sono il 20%, ma la percentuale cresce, anche se una donna fa ancora un po’ più fatica dei maschi».
Ha subito discriminazioni?
«Non sento di averne subite. Lo dimostra il fatto che sono stata eletta da 3 mila fisici per coordinare il test “Atlas” al Cern di Ginevra».
Lei è celebre. Copertina di «Time», citazione di «Forbes» e tanti premi: come ci si sente a essere la scienziata italiana numero uno?
«Non sono sicura di essere la più famosa! L’Italia produce tanti scienziati di alto livello».
Com’è cambiata la sua vita?
«Quello che ha cambiato la mia vita - prima di tutto scientifica è il bosone di Higgs: trovare una particella così importante è il coronamento di anni di lavoro collettivo, di migliaia di scienziati, tra cui 600 italiani. Ma anche il resto della mia vita è cambiata: non mi sarei mai aspettata una risposta così positiva dai giovani per una scoperta da “addetti ai lavori”».
Come se lo spiega?
«Credo sia il fascino che il bosone esprime. E’ una particellachiave per capire la struttura e l’evoluzione dell’Universo. Molti, anche i teenager, mi scrivono e vengono alle mie conferenze».
Lei che consiglio dà?
«Inseguire i propri ideali, con determinazione ed entusiasmo».
L’ha sorpresa la nominadi Carlo Rubbia ed Elena Cattaneo a senatori a vita?
«Napolitano ha fatto scelte eccellenti e forti».
Ora sogna il Nobel?
«Premiare la scoperta del bosone è difficile, perché si tratta di una collaborazione di migliaia di scienziati. E prima di loro ci sono stati i fisici che hanno sviluppato la teoria. Vedremo che ne pensano a Stoccolma!».
La Stampa 17.9.13
A Pechino la censura non basta Carcere per i blogger scomodi
Nuova legge contro social network e microblogging: chi ha più seguaci paga di più
Tre anni di detenzione se una notizia «non vera» viene ritwittata
I colpevoli devono fare pubblicamente mea culpa con le manette ai polsi
di Ilaria Maria Sala
Secondo alcuni sondaggi il traffico su Sina Weibo, il sito di microblogging più popolare, sarebbe già diminuito del 30%
«Non credere alle voci infondate. Non spargere voci infondate. La spiegazione del governo è l’unica prova fondata»: la frase, scritta in caratteri bianchi su drappi rossi, è l’ultima arrivata nell’infinita serie di slogan propagandistici che dagli Anni Cinquanta segnano le campagne politiche in corso in Cina. Veicolata come sempre con striscioni per le strade, quest’ultima campagna segna anche il momento in cui la censura ha finalmente marcato il passo con la tecnologia, riuscendo a dare il colpo più duro ai social network. Finora ci avevano provato con la censura diretta. Un esercito di sorveglianti dei siti social, che cancellavano in tempo reale ogni post troppo critico nei confronti del Partito o del governo, o troppo impertinente nel proporre riforme. Ma i social e i siti di microblogging simili a Twitter, chiamati in Cina weibo, vanno troppo veloci, e qualcosa sfuggiva sempre da sotto le maglie. Cancellato, il post ricompariva ritwittato da altri, e l’esercito di sorveglianti doveva comunque agire in difesa. Ora, con la nuova legge contro le «voci infondate» in vigore da lunedì, invece, si gioca d’attacco: una notizia che il governo considera «non vera» distribuita sui social e ritwittata 500 volte può costare tre anni di detenzione. Lo stesso vale per una pagina web, di nuovo contenente le notizie che il governo dichiara«infondate», visitata 5000 volte. E dopo alcuni arresti eccellenti, cos’altro resta se non l’autocensura? Secondo alcuni conteggi, infatti, il traffico su Sina Weibo, il sito di microblogging più popolare, sarebbe già diminuito del 30%.
Le nuove misure colpiranno più duramente quelli che in Cina sono chiamati i «Grossi V», ovvero i titolari degli account weibo più popolari. Sono contraddistinti da una piccola V di fianco al nome, che sta per «verificato». La stessa lettera compare anche su Twitter, accanto ai nomi delle celebrità o di chi ha molti follower. Fra di loro c’è Charles Xue Manzi, un uomo d’affari sino-americano che aveva 12 milioni di «seguaci» su weibo e che era noto per i suoi post critici delle autorità, arrestato ad agosto con l’accusa di aver adescato alcune prostitute. Due anni fa aveva lanciato una campagna per salvare i bambini rapiti, ma le sue dichiarazioni pro-democrazia lo avevano reso un blogger-non-gradito. Ora, è divenuto il bersaglio di articoli che lo denigrano e lo ridicolizzano, come quello pubblicato ieri da Xinhua, l’agenzia di stampa cinese: «Si comportava come un imperatore su Internet… un uomo arrogante che prima non era nessuno…» e che, in una confessione trasmessa dalla televisione, ha detto «la mia irresponsabilità nel diffondere notizie online era solo un modo per sfogare i miei umori negativi». Xue, dice Xinhua, «vergognandosi delle sue azioni passate ha offerto di comparire in televisione in manette, per servire da esempio negativo». Non c’è più la gogna, non ci sono più i cartelli appesi al collo della Rivoluzione Culturale, ma ci sono queste terribili confessioni in tv, per umiliare i condannati davanti a tutti e per costringerli ad accettare la loro «giusta» punizione.
Venerdì scorso, divenuto noto come il «venerdì nero» per i social media in Cina, è stata la volta di Wang Gongquan, altro «Grosso V» arrestato per aver «disturbato l’ordine pubblico», in cui per la prima volta la parola «pubblico» è utilizzata per indicare il web, spazio comune che può essere «disturbato» da post impertinenti. Wang, con 1.6 milioni di follower, è un amico stretto di Xu Zhiyong, l’avvocato per i diritti civili detenuto da aprile, ma arrestato formalmente solo dal mese scorso, a causa del suo «Movimento dei Nuovi Cittadini» che proponeva maggior supervisione del Partito e varie riforme civiche e politiche. Wang, noto per aver perorato in modo pubblico le cause di chi ha subito angherie dalle autorità, ha scritto vari post chiedendo la liberazione di Xu, segnando il suo destino. È probabilmente il primo miliardario cinese finito agli arresti non per corruzione o frode, ma come vittima illustre della campagna contro le «voci infondate», con cui la nuova leadership cinese ha detto chiaro e tondo che il potere di Internet può essere limitato e messo sotto controllo. A cominciare da chi si era illuso che la celebrità, o il successo in affari, potessero servire da scudo di protezione.
Repubblica 17.9.13
RUSSIA, SPARATORIA DOPO UNA LITE SU KANT
MOSCA — Una discussione filosofica sfociata in un’incredibile sparatoria. Nella notte tra domenica e lunedì a Rostov sul Don, nel sud della Russia europea, due giovani del posto (di 28 e 26 anni) erano in fila presso un chiosco di alcolici. A un certo punto, nel-l’attesa, hanno intrapreso una discussione su Immanuel Kant, filosofo amato da entrambi. Stando al racconto della polizia, dopo aver discusso pacatamente su diverse opere di Kant, i due avrebbero cominciato a litigare sulla “dialettica trascendentale”. Alla fine, uno dei due ha tirato fuori dalla giacca una pistola scacciacani e ha sparato all’altro, ferendolo alla testa, ma non gravemente. Non è chiaro se il ragazzo che ha sparato sia stato arrestato.
Corriere 17.9.13
Antifascisti sepolti nel Gulag
L'indifferenza di Togliatti per gli esuli arrestati in Urss
di Aldo Cazzullo
«Non rivedrò più te, né mio figlio, né fratelli, né compagni. E io che sognavo una morte gloriosa all'ombra di quella bandiera per cui ho dato e sono pronto a dare la vita! Mi trovo nella regione più infame che ci sia: 40 gradi di freddo e manca tutto. Guai se mi mettessi a raccontare quello che mi capita... Ti pare giusto arrestare altri dieci italiani solo perché erano miei amici, e tre operai russi che della mia questione non sanno nulla?».
È straziante rileggere — nel nuovo saggio di Arrigo Petacco A Mosca, solo andata, che la Mondadori manda oggi in libreria — la lettera scritta dal Gulag alla moglie Angelina da Luigi Calligaris, un uomo che Leo Valiani — confinato con lui a Ponza — definì «una delle figure più eroiche della lotta antifascista», arrestato e deportato all'inizio delle purghe staliniane. «Angiolina mia, ti supplico, anche se non dovessi più scrivere, fin che hai un attimo di respiro insisti di voler sapere dove sono finito. Scrivi alla Croce Rossa, a Parigi, va a Roma dall'ambasciatore russo e insisti per sapere cosa hanno fatto di me. Se ti diranno che mi sono ammazzato, che sono finito sotto un'automobile, non credere e non credere neppure se ti mostrassero le firme dei testimoni. Questo (...) è il grido disperato di un comunista che, dopo avere visto la morte sui campi di battaglia della guerra imperialista e della lotta politica, non vuole fare una morte ingloriosa per mano dei propri fratelli».
L'angoscia di Calligaris non era immotivata. Non era solo la prospettiva della persecuzione, dell'arresto, della tortura, della morte a terrorizzare i comunisti italiani riparati in Unione Sovietica per sfuggire alla dittatura fascista, e finiti nelle grinfie di un altro regime fintamente amico e in realtà di paranoica spietatezza. Ancora più dolore dava la prospettiva di non lasciare traccia, di sparire nel nulla, di lasciare un nome infangato da false accuse agli occhi dei compagni. E infatti Calligaris finirà inghiottito dalla macchina della repressione. Di lui non si è saputo più nulla. Con lui nel gennaio 1935 furono arrestati altri otto comunisti italiani, sotto l'accusa di avere mantenuto contatti con i bordighisti-trotzkisti all'estero. Furono i primi di una lunga serie. Tra loro c'era anche Ezio Biondini, il ragazzo che nel 1924, a 17 anni, era riuscito a issare sul castello di Udine una enorme bandiera rossa che vi sventolò per tre giorni (i fascisti non riuscivano ad ammainarla). La sorte di Biondini fu terribile. Condannato ai lavori forzati in Siberia, ricondannato a fine pena, condannato per una terza volta, liberato nel 1946, tornato a Mosca nel 1950, arrestato per aver chiesto il rimpatrio all'ambasciata italiana, si vide infliggere altri 25 anni di lavori forzati. Morì poco dopo nel campo di Krasnojarsk.
Il libro di Petacco, uno scrittore che studia come uno storico e racconta come un giornalista, va letto sia perché restituisce memoria a tante storie perdute o dimenticate, tra cui quelle di molte donne. E perché affronta un tema essenziale: le compromissioni del comunismo italiano, a cominciare da Togliatti, nei crimini dello stalinismo. Petacco individua una figura-chiave in Paolo Robotti, il marito di Elena Montagnana, sorella di Rita, la moglie del segretario generale. Robotti, «l'uomo di marmo» incaricato di sorvegliare i compagni espatriati a Mosca, divenuto a sua volta vittima, invano torturato dalla polizia politica nella speranza di incastrare il suo illustre parente. Il rimorso lo accompagnerà per tutta la vita, ma quando nel 1961, otto anni dopo la morte di Stalin, cinque dopo il XX congresso del Pcus, Robotti preparò una lista di 125 compagni fucilati da riabilitare (una piccola parte di quelli travolti dalle purghe), Togliatti lesse il foglio svogliatamente, poi lo accartocciò e lo gettò nel cestino: «Queste sono cose da dimenticare. Meglio non parlarne».
Il ruolo di Togliatti — controllore e controllato — e del Pci in quegli anni terribili è rimasto limitato al dibattito accademico, e le rare volte in cui è entrato nella discussione pubblica è stato strumentalizzato e piegato a fini di parte, come nel caso della lettera — manipolata — di Togliatti a Stalin sulla sorte degli alpini prigionieri in Russia. Invece è possibile, e anzi doveroso, affrontare l'argomento senza secondi fini, ad esempio senza affievolire la fermezza della condanna del fascismo e delle sue atrocità, che pure ci furono, ma anche senza nascondere che il mito del comunismo italiano è stato costruito anche occultando le responsabilità del suo leader storico e dei più stretti collaboratori.
È impressionante come fino all'ultimo anche le vittime, tornate dall'Urss dopo anni di prigionia e di stenti, continuassero a mentire o a tacere, pur di non incorrere nella condanna massima: il disconoscimento del partito. E allora è importante scrivere e leggere le loro storie, anche quando sembrano tratte dal teatro dell'assurdo. Come la vicenda di Andrea Bertazzoni, alias Mukas, specialista caseario di Mantova messo a capo di un kolkhoz agricolo di Rostov che produceva formaggi. Bertazzoni pensò di far conoscere ai russi il gorgonzola. Sorpreso mentre iniettava la muffa nella pasta, fu creduto un sabotatore, torturato, condannato a morte. Lo salvò dal plotone d'esecuzione il commissario agli Esteri Maksim Litvinov, che alla conferenza di Genova del 1922 aveva apprezzato il gorgonzola.
Repubblica 17.9.13
Il Profeta contro la crisi
Bolle, speculazioni e debito ecco l’insegnamento di Maometto
Per l’Islam, l’economia si fonda su regole morali
di Roger Scruton
Ognuno di noi ha una sua opinione su cosa si dovrebbe fare per raddrizzare la nostra spaventosa situazione economica. Un’idea? Perché non ascoltare Maometto? È vero, il Profeta non aveva un retroterra da economista né poteva collegarsi a talk show dedicati alla finanza. I tempi sono cambiati dal VII secolo. Ma Maometto conosceva un paio di cose sulla natura umana che non sono per nulla cambiate.
Un versetto del Corano dice: «O voi che credete, non divorate vicendevolmente i vostri beni, ma commerciate con mutuo consenso, e non uccidetevi da voi stessi» (4,29). Questo è uno dei versetti e haddith interpretati come proibizione dell’interesse, delle assicurazioni e del commercio sui debiti. Il Profeta era rimasto sconvolto dalla vendita e dall’acquisto di cose non reali, specialmente quando le persone cercavano di non rispettare il volere di Dio vendendo quello che non possedevano o quello per cui non sarebbe mai stato chiesto loro conto. La legge islamica tradizionale perciò proibisce molte delle strategie commerciali che noi diamo per acquisite: per esempio, la responsabilità limitata, che permette alle persone di sfuggire alle conseguenze di ciò che fanno indossando una maschera aziendale.
Certamente un’economia senza interessi, assicurazioni, responsabilità limitata o commercio sul debito sarebbe una cosa molto differente dall’economia mondiale di oggi. Sarebbe molto lenta, ristretta e, in paragone, impoverita. Ma non è questo il punto: l’economia proposta dal Profeta era giustificata non su basi economiche, ma su un piano morale; era un’economia virtuosa. E non si trattava del desiderio di un’economia morale confinata al solo islam. Anche nel mondo dell’ultimo dopoguerra nel quale io sono cresciuto, la vita economica è stata circoscritta da editti di carattere morale.
Per molti anni dopo la Seconda guerra mondiale una cosa chiamata “capitalismo” è stata guardata con grande sospetto dalle élite europee e anche da larghi strati della popolazione. Capitalismo significava “avidità”, “profitto” e “sfruttamento”. Gli affari privati venivano visti come un attacco al sistema pubblico, o almeno morale, e nell’Inghilterra delle industrie nazionalizzate e degli imponenti progetti statali non era raro che il “motivo del profitto” evocasse una certa ripugnanza.
Poi venne la rivoluzione thatcheriana. Abbiamo vissuto quella che è stata, vedendola retrospettivamente, una radicale trasformazione nel mondo delle idee e anche nella politica quotidiana. Molto in fretta il sistema che veniva condannato come “capitalismo” iniziò a essere lodato come “il mercato”. L’economia, ci venne detto, non riguardava lo sfruttamento, ma la libertà. Il mercato non era solo una necessità sociale, ma anche qualcosa di moralmente buono. Perciò era il mercato ciò con cui ogni persona doveva avere a che fare, apertamente e onestamente, per il beneficio di tutti. Esso offriva libertà e chiedeva come suo prezzo la responsabilità. Lo Stato non era più il guardiano del bene comune, ma il grande intruso, la clausola condizionale di tutti i nostri contratti, il ladro che prendeva i guadagni degli onesti lavoratori e li distribuiva ai suoi viziati clienti. Dopo i cupi anni del socialismo puritano, questa nuova moralità era indubbiamente liberante. Ma liberava sia cose buone sia cose cattive, e non ha mai fatto i conti con la verità che era stata segnalata da Maometto, ovvero che, in un’economia di finzione, nessuno può essere chiamato a render conto.
Non so se le “bolle” che abbiamo visto di recente fossero necessarie per il commercio immobiliare. Io ho il sospetto che lo siano, e che la ricerca di regole che dovrebbero prevenirle sia un uso futile di denaro pubblico e di energia politica. Nessuno può giocare con la vita delle persone e diventare ricco trasformando in rifiuti i pochi risparmi degli altri. Ma le cose non migliorano quando lo Stato vi mette becco.
La premessa originaria dell’interferenza statale è che lo Stato e i suoi clienti vengono prima. La principale preoccupazione della classe politica è di assicurare che coloro i quali dipendono da essa per una vita facile – i burocrati e i loro clienti – vengano debitamente foraggiati, con un fondo di riserva per comprare il favore degli scontenti. Il commercio in un mercato irreale procede così.
La norma europea, nella quale la parte maggioritaria dell’economia è controllata dallo Stato, rappresenta una sorta di posizione debole per le moderne democrazie e appunto verso quella stanno or ora andando anche gli Stati Uniti, sebbene per lungo tempo abbiano costituito un’eccezione. Tasse alte per tutti coloro che lavorano duramente, che prendono rischi e permettono all’economia di funzionare, e un atteggiamento libero verso tutti quelli i cui voti si possono facilmente comprare: questa è la tendenza degli Stati democratici. Nessuno in Grecia o in Portogallo ne ha mai dubitato e solo un barlume residuo di etica del lavoro protestante non ha distratto i tedeschi dalla verità nei confronti della quale essi non hanno realmente dei titoli per lamentarsi nel momento in cui la classe politica greca cerca di trasferire il costo dei prestiti che riceve, un costo insolubile, sui contribuenti tedeschi, i quali invece potrebbero rifondere quel prestito. Questo infatti è ciò che significa la democrazia sociale, e la socialdemocrazia è stato il prodotto da esportazione più grande della Germania postbellica.
Vari economisti hanno scritto articoli tecnici molto dotti per spiegare come è sorta l’attuale crisi del debito e come si potrebbe gestirla. La teoria di rifinanziare e rendere sovrano il debito ha riempito un volume di grafici e statistiche. Ma questo non dovrebbe renderci ciechi rispetto alla verità che il Profeta ci ha mostrato, ovvero che vi è un altro modo, più vero, di percepire questi problemi: la strada del giudizio morale. Se prendiamo a prestito del denaro, siamo obbligati a rifonderlo. E dovremmo rifonderlo guadagnando la somma richiesta, non prendendone a prestito ancora, e ancora, e ancora. Per alcune ragioni, quando ciò capita a degli Stati e ai loro clienti, queste elementari regole morali vengono dimenticate. Si potrebbe dire che in questo caso vi è uno iato tra la sapienza morale e quella economica.
Non ne sono convinto. Mi sembra che il senso morale sia emerso negli esseri umani precisamente perché esso, a lungo andare, va a loro vantaggio. Sono i fatti che mettono un freno a comportamenti spericolati, che causano il costo deglierrori per chi li commette, e che espellono dal giro chi bara.
Essere puniti è una cosa che ferisce, ed è naturale che gli Stati che agiscono male cerchino di evitare la punizione. E siccome nel sistema attuale essi possono molto facilmente trasferire a noi le loro ferite, noi chiudiamo un occhio sul loro comportamento. Ma penso che nel migliore dei casi il risultato sia un vantaggio economico di breve durata e che i costi a lungo termine saranno molto più grandi. Per quel che abbiamo visto, in Europa e in America, questa situazione causa una “demoralizzazione” economica. I debiti non vengono più visti come un obbligo da ottemperare ma un asset su cui fare affari. E il loro costo sta per passare ai nostri figli, per i quali noi cerchiamo protezione e che giustamente ci disprezzeranno per aver passato i nostri debiti sulle loro spalle.
(Traduzione di Lorenzo Fazzini)
La Stampa 17.9.13
Firenze celebra il centenario di Camus con due giorni di eventi e dibattiti
Nel centenario della nascita, Firenze vara una due giorni di eventi in omaggio ad Albert Camus (1913-1960), lo scrittore, filosofo e drammaturgo francese, premio Nobel per la letteratura nel 1957. L’iniziativa «Albert Camus, solitario solidale», si terrà il 26 e 27 settembre. Primo appuntamento per l’incontro «Sulle tracce di Albert Camus» che vedrà gli interventi di Valerio Magrelli, Sergio Givone e Italo Dall’Orto. Proprio quest’ultimo leggerà alcuni brani del Deserto, un testo giovanile scritto da Camus durante il suo soggiorno a Firenze nel 1937. Sempre il 26 settembre, al cinema Odeon alle 21,30, proiezione del film di Gianni Amelio Il primo uomo , tratto dall’omonimo libro di Camus, preceduto da un incontro con il regista intervistato dai critici Gabriele Rizza e Claudio Carabba. Venerdì alle 11, al giardino di Boboli, «percorso camusiano» verso il Forte di Belvedere. A seguire, alle 17 all’Institut Français, si terrà un incontro sull’opera di Camus, con interventi di Maissa Bey, Sandra Teroni e Benjamin Stora. Alle 21, proiezione del film che Luchino Visconti ha tratto da Lo straniero .
il Fatto 17.9.13
LA7D. Psicoanalisi on line la terapia dura tre minuti
di Chiara Daina
Con internet il mondo entra in casa tua. Con internet tutto è a portata di clic e tutto diventa fai da te, dalla vacanza all’università, foto, video, film, libri, ricerca di casa, aereo, babysitter, corso di inglese, orto sul balcone, trucco, cucina, chitarra. Si dice che internet rende gli umani pigri, crea posti di lavoro, ruba posti di lavoro, taglia fuori gli anziani, uccide l’innovazione, spegne la creatività, stimola i neuroni. Dunque, lo spazio virtuale è di tutto e di più. O, se si preferisce, è ciò che di più controverso possa esistere. È anche il lettino dello psicanalista, incluso lo psicanalista. La nuova grammatica della psicologia si chiama Webtherapy, in onda su La7d. Non richiede niente di fisico, nessuno in carne e ossa. Basta munirsi di un computer, perfino un iPad o uno smartphone, una connessione internet, una webcam e un account su Skype. E la psicoterapia è quasi fatta. Dal-l’altra parte dello schermo, infatti, si deve palesare il volto della dottoressa Fiona Wallice, alias Lisa Kudrow. Cioè l’ex attrice di Friends, esilarante e fortunatissima sitcom made in Usa. Capello lungo, biondo, liscio e voluminoso e tanta faccia tosta. Suo marito è un avvocato. Lei viene da una famiglia benestante. Per lei il lavoro è soltanto un hobby, anzi il capro espiatorio delle sue nevrosi: Wallice è egocentrica, isterica, pungente e arrogante. I problemi degli altri sono la fonte del suo business: il franchising della web therapy. Si procaccia i pazienti online grazie al sito internet e fa sedute esclusivamente mordi e fuggi. Durata: tre minuti. Non un secondo di più, altrimenti perde la pazienza e le staffe.
UN PAZIENTE gli chiede un appuntamento di 50 minuti. Lei replica così: “In tre minuti si è obbligati ad arrivare al punto”. Come fa lei, che spiattella la verità in un colpo senza farla digerire agli assistiti: “Lei si attacca agli uomini che fuggono perché è stata cresciuta da una coppia di lesbiche e quindi senza una figura paterna, per cui è familiare vivere l’assenza maschile”. Oppure “A lei sono mancate le attenzioni di sua madre e quindi non cerca la donna indipendente ma la badante”. Un altro le chiede di essere ricevuto di persona nel suo studio. La dottoressa inorridisce e lo taccia di stalking. Dinamiche surreali, analisi forzate, sprazzi di lumi freudiani qua e là. Il pubblico da casa vede due finestre della video chat aperte. Nessun montaggio, mai cambi di inquadratura. Per fortuna è solo una serie tv.