MEGLIO TARDI CHE MAI!
DOPO UN LUNGHISSIMO, IMBARAZZATO SILENZIO, DURATO UN MESE E MEZZO DAI FATTI DEL 31 MAGGIO E BEN DIECI DOPO LA DENUNCIA CHE E’ APPARSA SULLA STAMPA INTERNAZIONALE (Financial Times, Stampa, il Fatto) IL 5 LUGLIO, FINALMENTE, A PARTIRE DA IERI E SOPRATTUTTO OGGI, ANCHE L’UNITA’ - DIRETTA DA CLAUDIO SARDO... - E’ COSTRETTA A PRENDERE POSIZIONE
l’Unità 25.7.13
Kazakistan, la Farnesina scarica Alfano
Alfano nell’angolo. La Farnesina accusa
La nota di Bonino: non abbiamo competenze sulle espulsioni
Il Viminale nella bufera. La ricostruzione degli Esteri aggrava le responsabilità del dicastero
Il Viminale nella bufera. Il capo della Polizia ha finito l’inchiesta: tre teste prossime a cadere
Tra queste il capo di gabinetto dell’Interno
di Claudia Fusani
Con un duro comunicato, la Farnesina prende le distanze dal ministro dell’Interno, Alfano: «Non abbiamo alcuna competenza sulle espulsioni». Bufera sul Viminale. Il capo della Polizia ha finito l’inchiesta: tre teste pronte a cadere. Giallo sulla presenza in Costa Smeralda del presidente kazako.
Tre teste sono già pronte a rotolare per la rendition illegale di Alma Shalabayeva e della figlia Alua di sei anni. Mercoledì il Capo della polizia Alessandro Pansa consegnerà la sua indagine al premier Letta e al ministro del'Interno Alfano. Pansa nominato al vertice del Dipartimento quando i buoi erano scappati, cioè a fine mattinata del 31 maggio mentre madre e figlia erano già imbarcate su un volo con destinazione Almaty indicherà, spiega un alto funzionario del ministero dell'Interno, «le responsabilità tecniche». Cioè dove-quando-perché «è stata interrotta la catena decisionale che sovrintende ogni espulsione, vieppiù quella che riguarda cittadini con segnalazioni particolari, soprattutto se sono coinvolti minorenni». In questo caso, Alma Shalabayeva, moglie di Muktar Ablyazov, inserito nella lista dei ricercati Interpol perché accusato nel suo Paese, il Kazakhastan, di aver sottratto 15 miliardi di dollari, e la figlia Alua. Ablyazov è politicamente il nemico numero uno del presidente Nazarbaev, in ottimi rapporti con Berlusconi e, grazie alle ricchezze energetiche, potente che siede al tavolo dei grandi nonostante le costanti violazioni dei diritti umani denunciate da Amnesty international.
Tre teste, si diceva, tre tecnici. Pansa oltre non può andare. Ma è chiaro che quello che è successo tra il 28 e il 31 maggio ha responsabilità politiche. E il giallo kazako, come già denunciò l'Unità la scorsa settimana, ha come principale responsabile il ministro dell'Interno. Il quale in queste ore, vedremo poi come, sta cercando di «scaricare» sulla Farnesina (che ieri in un puntuto comunicato ha sottolineato come il Ministero degli Affari Esteri «non abbia alcuna competenza sulle espulsioni») e su chi lo ha preceduto al Viminale, l'attuale Guardasigilli Anna Maria Cancellieri.
Una partita complessa per il premier Letta. Che venerdì, quando ha revocato la doppia espulsione di Alma e Alua in quanto «illegittima», ha protetto i suoi ministri. E che non vuole di un altro dossier scomodo oltre a quelli su Imu, Iva, sentenze del Cavaliere, proposte sull'incandidabilità etc.. Certo è che ieri lo stato maggiore del Pdl ha messo le mani avanti: «Chi vuole la testa di Alfano, vuole la crisi di governo» ha detto, uno per tutti, l'ex capogruppo Fabrizio Cicchitto, in sintonia con Gasparri e Costa.
È un fatto che tra il 28 e il 31 maggio, mentre il Dipartimento è in fibrillazione per la nomina del nuovo Capo dopo quasi tre mesi di vacatio, succede di tutto nel triangolo uffici della Questura in via San Vitale-Viminale-prefettura. Un «di tutto» dove si mescolano rapporti diplomatici falsati, eccesso di zelo, ambizioni (almeno due dei protagonisti della vicenda in quelle ore sperano di fare il Capo della polizia), colpevole distrazione di un ministro uno e trino (Interni, vicepremier, segretario del Pdl) che forse considera il Viminale il meno importante dei suoi incarichi.
In cima alla lista delle teste rotolanti c'è Giuseppe Procaccini, capo di gabinetto del Viminale, il braccio destro del ministro, salito all'incarico ai tempi del ministro Cancellieri. Un prefetto che, in quota si dice a un'area che fa riferimento a Berlusconi ma anche a Monti, sperava fosse il suo turno alla guida della polizia. È lui a ricevere il 28 maggio l'ambasciatore kazako Andrian Yelemessov e il suo primo consigliere che premono per la cattura di Ablyazov avvistato da agenti privati (anche questo fatto dovrà essere chiarito) in via di Casalpalocco al civico 3. Perché i kazaki salgono la scale del Viminale? Chi dà loro questa sicurezza in casa di altri? Guidati da Procaccini, si rivolgono poi anche al capo della segreteria Alessandro Valeri, ancora più zelante con i kazaki.
La stessa scena si ripete in questura con il questore Fulvio Della Rocca e il capo della Mobile Renato Cortese. Poi, con efficienza inusitata, la notte tra il 28 e il 29 scatta il blitz. Si tratta della cattura di un latitante: solo che Ablyazov non c'é più. Ci sono invece Alma, la figlia Alua, il cognato con la moglie e personale di servizio. Il blitz è, come dire?, molto duro. «Mi gridavano puttana russa» ha scritto la donna in un memoriale pubblicato da Financial Times.
A questo punto, anziché con un latitante, i massimi vertici del Viminale si ritrovano per le mani una donna che, ovviamente, non dice il suo nome da sposata visto che la famiglia è in fuga dal 2009 e a Londra ha già ottenuto lo status di rifugiata. Si presenta come Ayan, cognome da ragazza. Occhio, perché intorno al cognome si sviluppano, diciamo così, gli errori che commettono nell'ordine: l'ufficio immigrazione della questura diretta da Maurizio Improta; l'ufficio passaporti di Polaria; la Farnesina. Alma Ayan infatti è titolare di un passaporto della Repubblica Centroafricana e di un permesso di soggiorno lettone che vengono entrambi dichiarati falsi. Ma falsi non sono affatto. Non solo: a suo nome la Farnesina trova una richiesta di copertura diplomatica che è stata negata. Possibile che nessuno di questi uffici capisca che la donna è la moglie del dissidente kazako e che quindi non si deve espellerla in Kazakhstan?
Quello che non dicono gli uffici passaporti e i diplomatici lo riferisce la stessa ambasciata kazaka il giorno 30 quando svela come Alma Ayan sia la moglie di Ablyazov e la titolare di due regolari passaporti kazaki. Eppure, la procedura si fa, su pressione dei kazaki, ancora più veloce. Il governo di Astana vuole i due ostaggi. Il prefetto Giuseppe Pecoraro, che Alfano voleva a capo della polizia, firma l'espulsione amministrativa. Il giudice di pace, sulla base di parziali informazioni, fa lo stesso. La Procura dà il nulla osta.
Il 31 maggio la bambina viene prelevata con il sotterfugio dalla villetta di Casalpalocco e portata dalla madre a Ciampino, su un jet privato. I legali di Ablyazov non riescono neppure a vederla. Si rivolgono alla Farnesina, parlano con Emma Bonino che, informata trasecola, s'infuria e si attacca al telefono con Alfano. Che si difende: «Non mi hanno informato». Un modo per sviare le accuse su Procaccini? Ma un ministro che non sa quello che succede in casa sua non è peggio di uno che decide e sbaglia?
l’Unità 25.7.13
Aspettiamo risposte chiare
di Umberto De Giovannangeli
Il tempo non dirada le troppe e inquietanti ombre che segnano l’affare-Shalabayeva. Le domande si moltiplicano ma non è più tempo di domande. È invece il tempo delle risposte. Chiare, esaustive.
Che devono venire dalla politica, e non delegate solo ai «tecnici». Perché è la politica che deve mettere una pezza, per quanto tardiva, ad una vicenda che assieme alla credibilità internazionale dell’Italia, mette in discussione, e ciò è ancor più grave, la vita di Alma Shalabayeva e di sua figlia Alua, una bambina di sei anni. Sono ore difficili, queste, per il capo della Polizia, Alessandro Pansa, a cui un irato ministro dell’Interno, Angelino Alfano, ha fatto sapere di «aver dato un tempo massimo di tre giorni per concludere l’inchiesta». Poi, ha aggiunto: «Individuati i responsabili, parlerò con i fatti. Non perdonerò chi mi ha messo in difficoltà». Parlerà con i fatti, il titolare del Viminale. Per adesso, l’unico fatto, concretamente positivo, che la politica ha saputo esprimere in questo brutto pasticcio, è venuto dal presidente del Consiglio, Enrico Letta che, revocando l’espulsione della moglie del dissidente kazako, Mukhtar Ablyazov, ha sostenuto che «ombre e dubbi non saranno tollerati». Una presa di posizione importante, impegnativa. Un punto di partenza, non di arrivo. A non dover essere tollerati, però, sono anche i rimpalli di responsabilità tra ministri e ministeri, tra il Viminale la Farnesina. Tutti i protagonisti di questo caso sono chiamati, ognuno per la parte che gli compete, a dare risposte. Nessuno può, deve chiamarsi fuori da un doveroso esercizio di responsabilità e di trasparenza.
Il non sapere, il non essere stato informato, in vicende come queste non è una scusante, bensì un’aggravante per coloro che sono chiamati alla guida del Paese. Non si tratta di esigere processi sommari, magari a mezzo stampa, ma risposte convincenti, questo sì. Risposte che, ad esempio, spieghino come sia stato possibile che il prefetto Procaccini, capo di gabinetto del ministro Alfano, non abbia sentito la necessità, l’obbligo, di informare il ministro dell’incontro avuto il 28 maggio, al Viminale, con l’ambasciatore kazako Andrian Yelemessov; incontro tutt’altro che di cortesia, visto che il diplomatico chiede la cattura del dissidente Ablyazov. Una richiesta imperativa, tanto che il capo di gabinetto del ministro Alfano associa all’incontro il prefetto Alessandro Valeri, capo della segreteria del Dipartimento della Pubblica Sicurezza. Da quella riunione si mette in moto la macchina che porta al blitz la notte stessa. Viste le ricche relazioni economiche che legano il Kazakistan all’Italia, e la sbandierata amicizia personale tra Silvio Berlusconi e il padre-padrone kazako, il miliardario Nursultan Nazarbayev, i diplomatici kazaki contattano direttamente il titolare del Viminale, il quale dice di ricordare semplicemente di aver girato l’«incombenza» al suo capo di gabinetto. Solo che quell’«incombenza» riguardava un caso esplosivo, non una pratica burocratica da espletare. Una cosa è certa: l’ambasciata del Kazakistan era talmente sicura dell’esito del procedimento da noleggiare un jet privato in Austria e informarne il Dipartimento di Ps. Ma le ombre dell’«affare Shalabayeva» non investono solo il Viminale. In una nota ufficiale, la Farnesina ha avvertito la necessità di puntualizzare che «il Ministero degli Esteri non ha alcuna competenza in materia di espulsione di cittadini stranieri dall'Italia nè, in base alla normativa, ha accesso ai dati relativi a cittadini stranieri ai quali sia riconosciuto da Paesi terzi lo status di rifugiato politico». Dal punto di vista formale, le cose stanno così. Tuttavia, resta da spiegare perché la ministra Bonino e la Farnesina, sollecitati il 30 maggio dall’Ufficio immigrazione, non abbiano sentito la necessità di segnalare che Alma Shalabayeva è la moglie di un noto dissidente kazako. Così come avrebbe dovuto sollecitare qualche approfondimento il fatto che la signora Shalabayeva fosse in possesso di un passaporto diplomatico del Centroafrica, sia pure con le generalità fittizie di Alma Ayan. Non è più tempo di gialli, sospetti e ombre: l’Italia vuole sapere subito la verità.
il Fatto 15.7.13
Dopo Alma può toccare a chiunque di noi
Perché dobbiamo pretendere chiarezza
di Ferruccio Sansa
Cinquanta poliziotti per rapire una madre e la figlia e consegnarle a un dittatore. Pretendiamo che sia accertato cosa è accaduto ad Alma. Perché altrimenti potrebbe toccare a chiunque. A chi protesta nelle piazze, a chi si oppone al Governo, ai cronisti scomodi.
Cinquanta agenti di polizia per prelevare a forza una madre e una bambina. E spedirle nelle braccia di un dittatore. Un raid compiuto sotto le insegne della Repubblica.
Credevamo che il dissidente Mukhtar Ablyzov fosse un criminale, balbetta qualcuno. E con questo? Non hanno nemmeno prelevato lui (sarebbe stato comunque grave, ma addirittura la moglie e la figlia. Ora, poi, c’è la burla della revoca dell’espulsione. Come dire: se le avessero uccise, ci sarebbe il permesso di resurrezione.
Leggi il racconto dell’odissea di Alma Shalabayeva e della sua bambina e ti interroghi sul ruolo della polizia in una democrazia. É un lavoro difficile. Richiede coraggio perché rischi la vita, ma anche senso di responsabilità perché hai in mano quella degli altri. La polizia ha diritto al massimo rispetto per l’alto compito che svolge. Ma deve rispondere del proprio operato. Più degli altri, perché ha in mano la nostra persona. Perché a lei affidiamo un’altra parola grande: legalità, la base di ogni convivenza.
Ma il nervo che questa vicenda scopre è soprattutto un altro: la zona d’ombra dove il potere politico e quello di polizia si toccano. Lì sono nati gli episodi più oscuri della storia recente. A monte di tutto c’è sempre il G8 di Genova. É vero, dopo tanti anni sono arrivate le condanne per una - piccola - parte dei responsabili. Ma le sentenze - per omertà e prescrizioni - hanno lasciato indenni picchiatori e posti di comando. Come se la mattanza fosse avvenuta per improvvisa follia di qualche dirigente. Possibile? Genova è l’inizio, pensate alla notte di Ruby in questura a Milano. Alle inchieste napoletane sugli appalti legati alla galassia Finmeccanica che hanno toccato i vertici della polizia. Troppi scandali che hanno coinvolto il corpo cui affidiamo la nostra sicurezza non sono stati chiariti fino in fondo, nelle responsabilità politiche e gerarchiche oltre che penali. Da parte dei vertici e dei governi - di centrodestra o centrosinistra - non pare esserci stata la volontà di farlo.
E intanto sul ponte di comando restano gli uomini della stessa cordata, cominciata con l’intramontabile Gianni De Gennaro. Che non è rimasto mai senza poltrona e oggi è presidente proprio di Fin-meccanica. Ma quale asso nella manica hanno da decenni questi uomini? Perché centrodestra e centrosinistra hanno di loro tanta considerazione, o forse timore? L’alternanza al potere è valore essenziale per la politica. Ma forse ancor di più per le forze di sicurezza. E così anche il principio della responsabilità, non solo penale. Pretendiamo che sia accertato cosa è accaduto ad Alma. Perché altrimenti potrebbe toccare a chiunque. A chi protesta nelle piazze, a chi si oppone al Governo, a chi da cronista ne racconta le ombre.
il Fatto 15.7.13
Quel “contatto” con Alfano che innesca l’affare kazako
di Marco Lillo
Il ministro Angelino Alfano sta cercando di cavarsela con i classici capri espiatori. Piccoli e ingiustificati, come la funzionaria che ha firmato il decreto di espulsione o i dirigenti che hanno guidato la perquisizione e poi la gestione della pratica all'ufficio immigrazione, che riguardava la signora Alma Shalabayeva. O più grandi, e molto più giustificati, come il prefetto Giuseppe Procaccini, capo di gabinetto di Alfano, regista di questa sgangherata rendition all’italiana, o come Alessandro Valeri, capo della segreteria del Dipartimento di pubblica sicurezza, che non è stato in grado di ostacolarla. Procaccini e Valeri sono vicini alla pensione che dovrebbe accoglierli fra l’ottobre 2013 (Valeri) e aprile 2014 (Procaccini) e chissà se per fedeltà alle istituzioni non accettino di offrire la loro testa al responsabile politico di questa storia. Di certo se si ripercorrono i fatti, Alfano non può cavarsela sostenendo di essere stato ingannato e di volere la verità sui responsabili perchè il primo responsabile, quanto meno per omesso controllo, è lui. La novità di ieri, rivelata da Corriere della Sera e Repubblica, è che l’ambascatopre kazako Andrian Yelemessov ha partecipato il 28 maggio a un incontro con Procaccini e Valeri nel quale ha chiesto l’arresto di Mukhtar Ablyazov dopo aver contattato proprio Alfano. Dopo l’incontro con Procaccini e Valeri, succedono due cose: l’ambasciatore, informato del fatto che è necessaria una nota dell’Interpol che stimoli la cattura, la ottiene in poche ore, così come, grazie al questore di Roma La Rocca, un appuntamento con il capo della Mobile, Renato Cortese. La scena che vi descriviamo non sarebbe stata possibile se a monte di tutto ciò non ci fosse stato un contatto fra il diplomatico e il ministro dell’Interno. Yelemessov varca il portone di San Vitale e all’uomo che ha catturato Provenzano chiede di fare il bis con Ablyazov, dipinto da lui come un pericolossimo ricercato internazionale per truffa, riciclaggio e altre nefandezze. Ma il dirigente della Mobile sa bene che non si può procedere a un arresto, solo perchè gradito da un paese caro alle gerarchie del ministero dell’Interno. Poco dopo però arriva la nota dell’Interpol. Il latitante si trova in via Casal Palocco. Nella notte scatta l’operazione. Infruttuosa: il ricercato non c'è. In compenso viene fermata per accertamenti e portata al Cie la moglie Alma. Ma non finisce qui. Il 31 maggio, e questo dà il senso dell’interesse del governo kazako a prendere il latitante-dissidente giunge una seconda nota dell’Interpol proveniente dalla capitale kazaka, c’è scritto che Ablyazov potrebbe essere nascosto in un bunker segreto scavato sotto terra. La Mobile il 31 maggio alle 6 di mattina rimette a soqquadro la villa, porta in questura due vigilantes assunti per proteggere la figlia del miliardario, poi anche il cognato della signora Alma e infine anche la piccola Alua che viene consegnata alla mamma a Ciampino. Alle 19 decollano verso il loro nemico kazako. Oggi tutto questo sembra un accaniemento dei poliziotti contro la famiglia di un dissidente ma il 31 maggio nessuno aveva spiegato ai funzionari della Mobile, della Digos e dell’Immigrazione, chi fosse davvero Ablyazov. Quella mattina gli agenti si presentarono con un geo radar, un sofisticato apparecchio che permette di rilevare la presenza di latitanti nel sottosuolo. Solo con l’assenza di informazioni di chi aveva avviato quell’operazione si può spieare l’assurdo comportamento dei funzionari. Allo stesso modo gli uomini della polizia dell’Immigrazione guidati da Maurizio Improta erano convinti di avere a che fare con la moglie di un criminale pericoloso e che per di più circolava con un passaporto che secondo la polizia di frontiera era stato falsificato.
In questa tragica commedia degli equivoci la signora Alma evitava in tutti i modi almeno nelle prime ore del suo trasferimento presso il Cie di rivelare chi fosse il marito e le ragioni della sua presenza in Italia. Sventolava il passaporto della Repubblica Centroafricana come uno scudo. Solo dopo essere stata rimpatriata a forza la sua difesa ha inviato finalmente i documenti che attestavano il permesso di soggiorno in Gran Bretagna per asilo politico e in Lettonia per ragioni di lavoro. E solo poche ore prima del decollo da Ciampino sono arrivati sul tavolo del giudice di pace, della Procura e dell'Ufficio della polizia del-l’Immigrazione i fax degli ambasciatori della Repubblica Centroafricana a Ginevra e Bruxelles che attestavano lo status di diplomatico della signora. Probabilmente il sostituto procuratore Albamonte avrebbe potuto fermare il rimpatrio di Alma e di sua figlia Alua se avesse dato più credito a quei fax e alle parole degli avvocati della famiglia di Ablyazov. E probabilmente anche il ministero degli Esteri - che ieri ha ribadito di avere informato il 2 giugno direttamente Alfano e Letta e di non aver competanza sulle espulsioni -ha le sue colpe; quando la polizia dell’Immigrazione chiese notizie sullo status di diplomatico presso il Centrafrica della signora Alma, gli Esteri risposero che risultava solo una pratica per farla diventare console onorario ma di un altro stato, il Burundi. In quel fascicolo però non c’era nessuna informazione su chi fosse davvero Alma, e soprattutto suo marito. Quello che è mancato a tutti gli uffici che hanno avuto a che fare con questa storia è la consapevolezza dell'importanza politica di questo rimpatrio. Le uniche persone che erano consapevoli dell'interesse politico di uno stato straniero all’arresto del miliardaro kazako erano Alfano e il suo capo di gabinetto. Eppure nessuno al Vi-minale ha pensato a chiedere una informativa o a fare almeno uno straccio di telefonata ai Servizi che avrebbero potuto in poco tempo chiarire il senso di quello che l’Italia stava facendo fra Casal Palocco e Ciampino.
il Fatto 15.7.13
Amnesty denuncia
Nazarbayev, torture e impunità
Emblematica la storia della sindacalista Roza Tulataeva, seviziata e condannata
di Valerio Cattano
Roza, Bazarbai, Aron. Nomi che in Kazakistan fanno scattare reazioni diverse; per alcuni sono simboli di determinazione, di desiderio di democrazia, per altri sono un monito. Se alzi troppo la voce, farai la fine di Roza, Barbai, Aron. Le loro storie sono state raccolte in un rapporto di Amnesty International dal titolo “Old Habits-The routine use of torture and other ill-treatment in Kazakhstan” (Vecchie abitudini: l’uso regolare della tortura e dei maltrattamenti in Kazakhistan) reso noto alcuni giorni fa, proprio quando stava per scoppiare la “grana” Ablyazov in Italia.
UNA DELLE VICENDE più cruente riguarda la protesta di Zhanaozen, nel 2011, da parte degli operai del settore petrolifero per l’aumento dei salari: 15 persone uccise, oltre 100 ferite, arresti. In questo contesto matura la detenzione e la condanna di Roza Tuletaeva, accusata di essere una delle organizzatrici. Il 16 aprile 2012, durante il processo, Roza Tuletaeva ha dichiarato di essere stata torturata in carcere: sacchetti di plastica sul viso sino a quasi soffocarla, appesa per i capelli, ed altro che lei stessa ha dichiarato di non voler rivelare in pubblico, per la vergogna. Il 4 giugno 2012, Roza è stata condannata a sette anni di carcere dal Tribunale di Aktau (articolo 241 del codice penale del Kazakistan), in riferimento all'organizzazione “di disordini di massa accompagnato da violenza, incendio doloso, sabotaggio e distruzione di proprietà, uso di armi da fuoco, esplosivi, o dispositivi di esplosione, resistenza armata”. La pena è stata ridotta da sette a cinque anni nel 2012. Il 13 maggio 2013, nel processo d’appello, il giudice Kozhan Tulebaj ha dichiarato di aver ricevuto una lettera da Roza con una richiesta di perdono; la figlia della sindacalista, Aliya ha denunciato che la lettera è stata scritta dalla madre “sotto pressione”.
LE PROTESTE di Zhanaozen non hanno travolto solo la vita di Roza; Zhalsylyk Turbaev, uno degli attivisti più solerti, ha perso la vita in circostanze poco chiare. Bazarbai Kenzhebaev è morto il 21 dicembre 2011, due giorni dopo essere stato rilasciato dalla polizia; ad un giornalista aveva rivelato di essere stato torturato nela prigione di Zhanaozen. Nel 2006, lo scrittore Aron Atabek era stato condannato per aver preso parte a “disordini di massa”: due anni e mezzo di isolamento: nel 2012 ancora un altro anno di isolamento. Il presidente Nazarbayev nel 2011 ha trasferito il controllo del sistema penitenziario dal ministero della Giustizia a quello degli Affari interni; ovvero alla struttura che ha ricevuto nel tempo la maggior parte delle denunce per i presunti casi di tortura.
l’Unità 25.7.13
Il cavaliere e il satrapo, l’amicizia nell’impero del gas
Quando l’ex premier esaltava il presidente kazako: «Ci dobbiamo ispirare a lui, un esempio di rispetto e tolleranza»
L’allora presidente del consiglio lodò Nazarbayev «votato al 92%, un esempio per tutti»
Per l’Ocse è un «dittatore»
di U. D. G.
Il Cavaliere e il Satrapo. Ovvero: amicizia e affari nell’impero del gas. Cosa pensi Silvio Berlusconi di Nursultan Nazarbayev lo chiarisce lo stesso Cavaliere, allora presidente del Consiglio, nel suo viaggio, in Kazakistan, in occasione del vertice Ocse (l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) di Astana. Testuale: «Ho visto i sondaggi fatti da una autorità indipendente che ti hanno assegnato, Nursultan, il 92% di stima e amore del tuo popolo. È un consenso che non può non basarsi sui fatti». Ma non basta. Il premier italiano prosegue infatti nel suo panegirico, suscitando anche qualche sorriso tra gli altri leader man mano che gli interpreti traducono il discorso. «Ci dobbiamo tutti ispirare al Kazakistan aggiunge Berlusconi -, un esempio di tolleranza e rispetto reciproco nel solco dei valori dell'Osce. In questo Paese convivono 130 etnie e 46 diverse fedi religiose. E dobbiamo trarre esempio da Nazarbayev: quando ci fu l’indipendenza dall’Urss il presidente cedette volontariamente il quarto arsenale nucleare del mondo, diventando così il padre nobile del disarmo».
AMOREVOLI AFFLATI
Cose straordinarie... Peccato che l’Osce (l’organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) definisca il presidente kazako un «dittatore» che governa ininterrottamente il Paese dal 1991. L’«amico Nursultan» è, ancora testualmente, tacciato di essere «un autocrate che ha bandito i partiti d'opposizione, ordinato l’assassinio di due leader, chiuso i giornali indipendenti, perseguitato sistematicamente chiunque si opponga al tentacolare potere esercitato dalla sua famiglia sul Paese». Agli amorevoli attestati dell’amico Silvio, Nazarbayev replica così: «Ringrazio il premier Berlusconi per questo invito a visitare l'Italia e per il calore che ho sentito in tutti gli incontri. Il Kazakistan da quando è diventato uno Stato indipendente ha fatto
tutto il possibile per cooperare con l’Italia. Abbiamo raggiunto molto in questi anni, per un interscambio con l’Italia che tocca quasi 14 miliardi di dollari. Un anno fa ricorda il mio amico Silvio passava da quelle parti, l’ho fermato per due ore e ci siamo messi d’accordo sulla mia visita in Italia». E visita sia. Nazarbayev giunge in Italia nel novembre 2009 con una folta delegazione di ministri per un incontro tra i due Paesi. Al termine del bilaterale, il Cavaliere si lascia andare, davanti a un compiaciuto presidente kazako addirittura nominato Cavaliere di Gran Croce della Repubblica Italiana a una serie di complimenti per l’impressionante crescita demografica del Paese. «Credo che si possa veramente sviluppare una vasta gamma di collaborazione», Berlusconi dixit, «con un Paese che ha grandi risorse naturali e una grande crescita demografica». Una Nazione che, aggiunge con un sorriso malandrino davanti a un compiaciuto Nazarbayev, «dimostra la grande vitalità di tutti i maschi kazachistani».
INTERESSI MILIARDARI
Una visita lampo ma in grado di lasciare un ricordo duraturo nel Cavaliere. Tanto da spingerlo, qualche giorno dopo quella tappa, ad esordire così all'assemblea di Confcommercio. «Andate tutti in vacanza in Kazakistan: lì c'è un signore che è mio amico, non a caso ha il 91% dei sondaggi e ha fatto cose straordinarie». Quali? «Lì aveva proseguito un Berlusconi estasiato ho visitato una diga a forma di fiore da cui mettendo una mano sul pulsante si illumina una città. Ovviamente ho pensato di fare lo stesso in Sardegna». Non c’è che dire, tra il Cavaliere e il Satrapo è nata una grande amicizia, che porta Nazarbayev a soggiornare nella villa di Berlusconi in Costa Smeralda.
Un autentico forziere energetico. Il più ricco tra quelli delle repubbliche caspiche della ex Urss: 2 trilioni di metri cubi di gas di riserve provate, 3 di potenziali; 9miliardi di barili di petrolio che in realtà potrebbero arrivare a 40.
FORZIERE ENERGETICO
E poi il 20% delle riserve mondiali di uranio, che fanno del Paese il terzo produttore del mondo. Oggi il Kazakistan sforna 1,3 milioni di barili di greggio al giorno (contro i 9 della Russia) ma il flusso dovrebbe più che raddoppiare a partire dal 2015, quando il Paese promette di pompare qualcosa come 106miliardi di metri cubi di gas annui, più di quanto brucia la Germania in un anno. Il Kazakistan è dunque una superpotenza degli idrocarburi, e l’Italia è il suo partner nell’export. E nulla interessa al Cavaliere che il Kazakistan è forse il Paese più inquinato del mondo da scorie nucleari e dai sostanze chimiche tossiche: affari non olet. Interessano, e come, Kashagan e Karachaganak: i due grandi progetti di estrazione del gas in Kazakistan. Ed è soprattutto Kashagan il «forziere» (riserve da 13 miliardi di barili) su cui l’Eni fa affidamento. Una «torta», quella dei lavori, da 135 miliardi di dollari. Degli affari tra Italia e Kazakistan si occupano anche diversi report resi pubblici da Wikileaks: dalle mazzette chieste a Italcementi al business dell'Eni. L’Italia è il secondo Paese destinatario dell’export (petrolio in larghissima parte), con una quota del 18% sul suo interscambio totale, seconda solo alla Cina. I dati del ministero degli Esteri la confermano al secondo posto come Paese esportatore in Kazakistan – dopo la Germania – in ambito Ue, ed il sesto in assoluto, con oltre 900 milioni di euro nel 2012 (oltre il 70% di tutta l’Asia Centrale).
Un fatto è incontestabile: Putin, Nazarbayev, Lukashenko...Il Cavaliere ha un debole per i satrapi petroliferi. Un debole che cancella completamente il tema dei diritti umani, sistematicamente violati dagli amici russo-caucasici di Berlusconi. Una cosa è certa: l’«amico Nursultan» non è tipo a cui si negano gentilezze. Il Kazakistan è nel cuore del Cavaliere. Solo nel cuore?
l’Unità 25.7.13
Giallo sul leader kazako in Sardegna
di N.L.
ROMA Una vacanza top secret dall’amico Putin in Russia, dal quale sembra proprio che Silvio Berlusconi sia andato nel week end appena trascorso, dopo aver dato forfait all’improvviso nel maggio scorso. Certo i movimenti del Cavaliere sono tenuti ultimamente in un alone di vaghezza se non di mistero, tra le voci di chi ipotizza che potrebbe migrare all’estero in caso di condanna e il forse più realistico disinteresse per le beghe interne al suo partito.
Dall’entourage dell’ex premier assicurano che ieri fosse in Russia per la visita riservatissima della dacia di Sochi (al riparo da giornalisti poco graditi da quelle parti). Ma un tweet di Maria Latella ha destato non poca curiosità, ieri dopo le quattro del pomeriggio: «Dicono che presidente del #Kazakistan (o uno che gli somi-
glia con molte guardie del corpo) abbia appena lasciato la villa in #CostaSmeralda». Come non pensare a Villa Certosa? Certo il Cavaliere è anche un ospite generoso, ed è accaduto in più occasioni che offrisse la villa in Costa Smeralda agli amici capi di Stato anche in sua assenza. Possibile che proprio mentre infuriano le polemiche e la bufera sul governo per l’espulsione illegittima di Alma Shalabayeva e di sua figlia Alua, il presidente kazako Nazarbayev, magnate del gas e del petrolio, abbia trascorso dei giorni in Italia, facendo un salto in Costa Smeralda ospite dell’amico Berlusconi? Amico come lo è stato di altri dittatori, e anche socio in affari che riguardano le fonti energetiche.
Verso le otto e mezza di sera Maria Latella, autorevole giornalista, rilancia e conferma con un secondo cinguettio: «Confermo mio tweet su presenza in #CostaSmeralda del #presidente del #Kazakistan.Certo era in #Sardegna in una settimana parecchio delicata».
Un giallo nel giallo, quindi, oppure seplicemente uno scherzo estivo,a nche se sembra difficile da parte della giornalista.
Da registrare comunque che Berlusconi, troppo alle prese con il conto alla rovescia da qui all’udienza in Cassazione del 30 luglio, finora non ha speso una parola né sul caso della signora rispedita in Kazakistan in malo modo, né per difendere Angelino Alfano, sotto lente d’ingrandimento per l’errore e a rischio dimissioni come ministro dell’Interno. Altre voci nel Pdl si sono levate in sua difesa, quella di Silvio no.
Sarà per mantenere il profilo da statista che difende il governo e, soprattutto, la bocca trattenuta da commenti poco opportuni, come da consiglio dell’avvocato Coppi, ma l’ex premier tace e semmai cerca di tenere a freno lo zoo pidiellino animato da falchi e colombe. Non gli riesce però con la «pitonessa» Daniela Santanchè, che non ha alcuna intenzione di star zitta.
Libero 15.7.13
Caso Ablyazov, polemica su Alfano. Gli antiCav si attaccano ai kazaki
Il Fatto cavalca i malumori di Bonino e Cancellieri sulla decisione di Angelino di espellere moglie e figlia dell'oppositore del dittatore Nazarbayev, "amico" di Berlusconi: "Lo ha imposto Silvio"
qui
il Giornale 15.7.13
Macché perseguitato, è un avventuriero
Ecco la vera storia di Mukhtar Ablyazov
di Fausto Biloslavo
qui
La Stampa 15.7.13
Prefetti e poliziotti, 5 a rischio per l’espulsione illegittima
Sotto tiro la catena di comando: dal capo di gabinetto del Viminale al questore
di Francesco Grignetti
qui
La Stampa 15.7.13
La verità di Alma sul blitz: “Credevo mi uccidessero”
Il memoriale della Shalabayeva.
di Monica Perosino
qui
La Stampa 15.7.13
Ora Alfano dovrà difendersi anche dal “fuoco amico”
Tra i principali avversari del segretario molti falchi Pdl: se pure venisse scagionato rimarrebbe sempre il danno d’immagine
di Ugo Magri
L’insidia politica del «caso Ablyazov» non è legata agli sviluppi dell’inchiesta interna. Anzi: quando il Capo della Polizia Pansa concluderà le indagini, e additerà i responsabili della grottesca umiliante espulsione di una mamma e di una bambina, è previsione certa negli ambienti governativi che Alfano verrà scagionato. Cioè risulterà confermata la buona fede del ministro, all’oscuro di quanto accadeva nella stanza accanto alla sua. I più speranzosi tra i colleghi di governo sono convinti che la relazione di Pansa, poliziotto che imparò il mestiere a contatto di gomito con Falcone e con Borsellino, metterà «una pietra tombale» sull’intera vicenda, almeno per quanto riguarda il ruolo di Alfano. Il quale, si aggiunge nei palazzi che contano, continua a godere della fiducia del premier. Ancora ieri si sono sentiti, gonfi di sdegno per le bestialità dette da Calderoli sulla Kyenge, e c’è da scommettere che pure al telefono con Letta il titolare dell’Interno abbia manifestato dispiacere per i titoli dei giornali e i sospetti proiettati sulla sua figura. L’asse tra i due regge, né potrebbe essere diversamente poiché le dimissioni di Alfano metterebbero automaticamente in crisi il governo, senza possibilità di rimediare con un rimpasto.
Eppure, come riconoscono sottovoce le «colombe» berlusconiane, «questo incidente proprio non ci voleva». Perfino se d’incanto calasse il sipario sulla vicenda (e non succederà tanto in fretta, perché sono in programma audizioni parlamentari, cui seguiranno le votazioni sulla sfiducia individuale tanto alla Camera quanto al Senato), pure in quel caso sarebbe danneggiata l’immagine di colui che sulla destra più si batte per le larghe intese. Un colpo duro alla sua battaglia dentro il Pdl. Non si spiegherebbe altrimenti la profonda personale irritazione di Alfano, condita dal suo convincimento che pur di dargli addosso si tenda a sorvolare sui lati oscuri dell’esule Ablyazov (trasformato immeritatamente, secondo il compagno di lotta Gasparri, «in una sorta di Garibaldi kazako»). Nella biografia di Angelino, l’omessa vigilanza sui collaboratori più stretti resterà catalogata tra quei peccati di ingenuità che molto raramente vengono perdonati ai politici, costretti a essere sempre più furbi degli altri umani. E sono ancor meno consentiti a chi siede sulla poltrona che fu di Scelba, di Fanfani, di Cossiga, di Napolitano: grandi personaggi che tuttavia si dedicarono con umiltà alle mille incombenze del dicastero. Numerosi amici avevano avvertito Alfano al momento di assumere l’incarico: «Occhio alle trappole del Viminale! ». Senza contare quelle che giornalmente gli tendono nel Pdl, dove ha conservato la carica di segretario a dispetto dei «falchi». Il doppio ruolo (anzi triplo, considerando la carica di vice-premier) gli verrà sicuramente contestato nelle prossime sedute di autocoscienza a Palazzo Grazioli, perché questo oggettivo passo falso permetterà a Verdini, a Bondi, alla Santanché di dargli una pacca sulle spalle e di sussurrargli all’orecchio: «Vedi che non puoi farcela a reggere il peso di tutto quanto? Lascia che ci occupiamo noi del partito, tu concentrati tranquillo sul governo... ».
Peccato che la ricaduta politicamente più grave riguardi proprio l’esecutivo. Come se già non bastassero gli strappi del Pdl sulla giustizia, ecco aggiungersi un ulteriore carico di sofferenza per il Pd. Obbligato a subire un’alleanza dove nessuno dei partner soddisfa, agli occhi della sinistra, i requisiti minimi. E dove perfino i più «presentabili», tra i quali certamente viene catalogato Alfano insieme con Lupi e con Quagliariello, incorrono in simili scivoloni... Ministri Pd che non vogliono essere citati confidano: «Cercheremo di tenere duro, ma per quanto tempo ancora ci riusciremo è impossibile dirlo». Lo spirito di sopportazione reciproca è ridotto al lumicino. E tra due settimane incombe la (probabile) condanna definitiva di Berlusconi in Cassazione. La somma degli stress non promette un’estate tranquilla.
La Stampa 15.7.13
Cicchitto
“Chi attacca il vicepremier vuole la caduta dell’esecutivo”
ROMA Il Pdl fa quadrato e difende il segretario e ministro dell’Interno Angelino Alfano dalla richiesta di dimissioni per la vicenda della moglie e della figlia dell’ oligarca kazazo Muktar Ablyazov.
Tra i più decisi Fabrizio Cicchitto che dichiara: «La ricostruzione del ministro Bonino consente di chiarire in modo ineccepibile i tempi nei quali il ministro Alfano è venuto a conoscenza della questione Shalabayeva: esattamente il 2 giugno quando il ministro degli esteri suonò il campanello di allarme al ministro egli Interni Alfano. Morale della favola: solo chi è in malafede e in effetti gioca a far cadere il governo può aprire una offensiva contro il ministro Alfano in assenza della ricostruzione dei fatti che verrà fatta quanto prima dal capo della polizia». Una ricostruzione che non convince i 5 stelle che confermano la presentazione di una mozione di sfiducia nei confronti del ministro Alfano. «A meno che non escano fuori altri responsabili presenteremo una mozione di sfiducia nei confronti del ministro dell’Interno» spiega il capogruppo M5S alla Camera, Riccardo Nuti che aggiunge: «Non riesco a capire questi autogol del governo. Questa è una nuova figuraccia che il governo fa fare all’Italia». [R. E.]
Corriere 15.7.13
«Spintoni e offese: ho avuto paura di morire»: Shalabayeva racconta la notte del blitz
Sul «Financial Times» la versione della moglie del dissidente
Replica la Questura: «Nessuna violenza»
qui
Corriere 15.7.13
Le zone d’ombra e le inefficienze
di Franco Venturini
Ora che Alma Shalabayeva e sua figlia Alua sono rientrate forzosamente in Kazakistan e devono affidarsi alla dubbia clemenza del dittatore Nazarbaev, pesa sul ministro degli Interni Angelino Alfano la responsabilità primaria di fare chiarezza. Di scoprire e di riferire come mai collaboratori importanti del suo ministero abbiano sì rispettato la lettera delle procedure previste per le espulsioni, ma con modalità assai inconsuete e senza informare tempestivamente il ministro come avviene per molto meno.
Proprio questo estremo riserbo da parte di prefetti e alti funzionari della Polizia autorizza interrogativi sorprendenti che devono essere risolti. È vero che l'irruzione nel villino di Casal Palocco e il fermo di Alma Shalabayeva e di sua figlia avvengono il 28 maggio in un momento particolare, mentre il nuovo capo della Polizia non è ancora in carica. Ma gli altri sono ai loro posti, rispondono con fulminea solerzia alle pressioni dell'ambasciatore del Kazakistan a Roma, percorrono ventre a terra la via burocratico-giuridica che porta all'espulsione, non paiono sapere di chi è moglie la Shalabayeva e le implicazioni umanitarie connesse, trovano normalissimo imbarcare madre e figlia a Ciampino su un aereo noleggiato appositamente dalle autorità kazake. Il tutto senza farne parola al loro capo politico e ultimo responsabile, cioè il ministro. Le stranezze sono evidenti, e ad esse si aggiunge un aspetto che riguarda la psicologia collettiva dominante in Italia: quando c'è il rischio di bruciarsi le dita, non è forse usuale la tecnica di coprirsi le spalle informando il livello superiore? In questo caso sembra di no: perché nessuno si è reso conto di cosa bolliva in pentola, e allora siamo nel campo di una formidabile inefficienza, oppure (ed è peggio) perché esisteva la volontà di procedere così?
Angelino Alfano è il primo a dover affermare nel ministero che dirige una maggiore trasparenza, o forse una maggiore competenza. Cadano le teste che devono cadere, e il ministro provveda a rendere più compatibile la sua titolarità agli Interni, un ruolo che non ammette pause, con gli altri impegni nel governo e nel partito. Senza che si debba arrivare all'ipotesi di dimissioni: nessuno ha smentito che Alfano abbia saputo dell'imbarazzante vicenda soltanto il 2 giugno, e l'economia italiana non può permettersi la crisi di governo che verosimilmente seguirebbe.
C'è poi un'altra singolarità, che meriterebbe l'attenzione questa volta della Farnesina. Un ambasciatore ha come suo naturale interlocutore il ministero degli Esteri. Cosa ha fatto invece il signor Andrian Yelemessov? Prima ha identificato lui il luogo dove la Shalabayeva e sua figlia risiedevano (vantando una indisturbata azione dei servizi kazaki a Roma), poi si è precipitato in Questura, al Viminale e chissà dov'altro reclamando la cattura del «pericoloso criminale» Mukhtar Ablyazov che invece non si trovava in Italia, e infine ha concesso la sua supervisione alla partenza forzata della Shalabayeva e di sua figlia da Ciampino. Non ha niente da dire, la Farnesina, a un ambasciatore presso lo Stato italiano che si comporta in questo modo?
Al gran circo dei giochi d'ombra, peraltro, non sfuggono nemmeno la stessa Shalabayeva e suo marito. Lui non è uno stinco di santo. Ha rotto con Nazarbaev dopo essere stato a lungo suo socio in affari, ed è così diventato un ricco emigrato dissidente come altri oligarchi in particolare russi. Una certa flessibilità britannica (l'accoglienza data a Berezovsky, la pietra tombale messa sul caso dell'avvelenato Litvinenko) spiega l'asilo che Mukhtar Ablyazov ha ottenuto a Londra. Poi arriva un avviso di pericolo imminente, e così moglie e figlia riparano a Roma. Perché, quando si è vista fermata dalla polizia, Alma non ha fatto riferimento all'asilo inglese, o al permesso di residenza lettone che pare possedesse e che le dava diritto a non essere espulsa? Non è stata ascoltata, non è riuscita a farsi capire, era in preda al panico? Ancora dubbi, tutti da chiarire.
Ma c'è una cosa, almeno una, sulla quale di dubbi non ne abbiamo. Il pasticcio è fatto, quali che siano i chiarimenti che potremo ottenere. Ora l'Italia ha il dovere tassativo di promuovere una sorveglianza internazionale sulla sorte di chi abbiamo così misteriosamente espulso e consegnato a un governo ostile. Non c'è petrolio che tenga.
Financial Times 13.7.13
Italy admits errors in Kazakh deportations
by Giulia Segreti and Guy Dinmore
qui
LA DICHIARAZIONE GIURATA DI ALMA SHALABAYEVA (DAL FINANCIAL TIMES) : QUI
Repubblica 15.7.13
Vertici al Viminale e relazioni sul tavolo ecco perché gli uomini del ministro sapevano
Per un mese e mezzo ignorato il dossier sulla notte del blitz. Davvero il ministro dell'Interno Angelino Alfano nulla ha saputo del destino di Alma Shalabayeva e della figlia Alua se non a cose fatte?
È credibile che l'autorità politica sia stata tagliata fuori dai tecnici che maneggiarono la vicenda tra il 28 e il 31 maggio?
di Carlo Bonini
qui
Repubblica 15.7.13
L’intervista
“Mia madre è ostaggio del regime di Nazarbaev rischia anni di carcere”
Parla Madina, la figlia maggiore di Alma e Mukhtar
di Cinzia Sasso
«ALMA, mia madre, ora è ad Almaty, a casa dei genitori. Viene monitorata, filmata e pedinata da vicino. È trattenutain Kazakhstan come ostaggio».
«IN AEROPORTO, al suo arrivo dall’Italia, le hanno consegnato gli atti di accusa e un provvedimento che prevede l’obbligo di dimora ad Almaty. Rischia anni di prigione ». Madina Ablyazovova, 25 anni, è la figlia maggiore di Alma Salabayeva e di Mukhtar Ablyazov, la coppia kazaka che è sulle prima pagine dei giornali di tutto il mondo e la cui vicenda sta mettendo a rischio il governo italiano. Questa è la sua prima intervista.
Madina, può descrivere lo stato d’animo di sua madre?
«Innanzitutto vorrei dire questo: mia madre non è mai stata una fuggitiva. È una persona molto positiva, e però come madre è preoccupata per il benessere della propria famiglia. Quando il regime kazako l’ha presa, e subito dopo essere stata mandata in Kazakhstan contro la sua volontà, le autorità kazake hanno mosso delle accuse penali nei suoi confronti per poter fare di lei un ostaggio. Ha sempre avuto con sé documenti validi, che confermavano il suostatus sia in Inghilterra che in Europa. Inoltre, ha sempre avuto un passaporto kazako emesso regolarmente».
Mi racconta la storia di sua madre?
«È nata il 15 agosto 1966 a Zhezdi, una piccola cittadina del Kazakhstan, che all’epoca faceva ancora parte dell’Unione Sovietica: divenne uno Stato indipendente nel 1991. Mia madre è vissuta a Zhezdi fino a 18 anni. La sua era una tipica famiglia sovietica: mia nonna era un’infermiera e mio nonno dirigeva una copisteria di proprietà dello Stato. Mia madre ha studiato Matematica all’università statale kazaka, dal 1984 al 1990. Dopo avere incontrato mio padre, è divenuta una casalinga a tempo pieno. In famiglia siamo quattro figli. Lei ha dedicato tutta la sua vita a noi».
Quando ha incontrato Mukhtar?
«Mio padre e mia madre si sono conosciuti nel 1987, durante un torneo di scacchi. Giocavano uno contro l’altro e lei perse. Lei ci restò così male che iniziò a piangere. Mio padre fu talmente commosso dalle sue lacrime, che la invitò ad uscire. Un anno dopo, nel 1988, si sposarono».
Com’era la loro vita insieme?
«Durante i primi anni vivevano in una piccola stanza all’interno di una Comune. Erano entrambi studenti. Dopo la laurea, mio padre iniziò a lavorare nel Dipartimento di Fisica dell’Università Statale kazaka. Scriveva anche articoli per il giornale degli scacchi e per altre riviste. Quando sono nata io, vivevamo tutti e tre in una piccola stanza. A nove mesi, mi ammalai di polmonite. Avevamo bisogno di soldi per pagare i dottori e le cure, ma gli accademici non erano ben stipendiati. Perciò mio padre decise di iniziare una sua attività e diventò imprenditore per mantenere lafamiglia».
Poi tutto cambiò quando Ablyazov divenne ministro e banchiere?
«Mio padre è un gran lavoratore, una persona molto diligente. Insegue le sue passioni e i suoi sogni finché si realizzano. A capo della rete elettrica nazionale, ha ricostruito e dato nuova vita alsettore energetico del Kazakhstan. Ha preso in mano un’industria gestita male e l’ha ricostruita completamente, trasformandola in un sistema moderno e funzionale, ponendo solide basi che hanno permesso oggi all’industria kazaka di essere competitiva. In seguito, in qualità di ministro dell’Energia, dell’Industria e del Commercio, ha implementato riforme rivolte al mercato e ha scritto la bozza della “Nuova politica industriale” del Kazakhstan, un programma per il miglioramento e la diversificazione dell’economia del Paese. In veste di banchiere, ha dimostrato ancora una volta la sua abilità nel seguire le proprie passioni, costituendo una delle principali banche private dei mercati emergenti mondiali. Nonostante la sua carriera e gli impegni, è sempre stato un padre e, per i miei bambini, un nonno meraviglioso ».
Perché ha rotto con Nazarbaev?
«La rottura non è avvenuta da un giorno all’altro. Mio padre criticava il regime intimidatorio, criminale e repressivo costruito da Nazarbayev. Mio padre è un visionario. Ha sempre creduto che la sovranità di una nazione dipenda dalla libertà delle persone che ne fanno parte e dal loro diritto di decidere del proprio futuro. I valori democratici e la libertà di espressione sono sempre stati alla base dei principi e delle ambizioni politiche di mio padre. Poco dopo aver fondato la Scelta democratica del Kazakhstan, il partito politico di opposizione a Nazarbaev, è stato imprigionato e torturato. Sono convinta che ciò non lo abbia mai dissuaso dal credere in un futuro di prosperità per il suo Paese e il suo popolo. Ecco perché questa battaglia politica continua».
Prima di arrivare a Roma, nel settembre del 2012, cos’è successo a sua madre?
«Dal 2003 è vissuta a Mosca, in Russia, dopo che Amnesty International ed altri aiutarono mio padre ad uscire dal carcere. Nel 2005, la mia famiglia si trasferì di nuovo in Kazakhstan dove restò fino a che s’inasprirono i contrasti con il Presidente Nazarbayev. Nel 2009 la famiglia fu costretta a trasferirsi in Inghilterra, dove mio padre ricevette asilo. Durante i loro 26 anni di matrimonio, mia madre gli è sempre stata al fianco, fatta eccezione per il periodo in cui lui era in prigione. Tuttavia, a causa della costante sorveglianza da parte degli agenti del regime di Nazarbayev, cui la mia famiglia era sottoposta in Inghilterra, per tutelare la sicurezza e la privacy della mia sorellina, mia madre lasciò mio fratello minore a vivere con me, e portò lei in una scuola italiana.
«Le possibilità dei nemici di mio padre non hanno limiti né confini, come dimostrato ancora una volta dall’espulsione straordinaria e, di fatto, dal rapimento di mia madre e di mia sorella, da parte dell’Italia. Un oppositore politico come mio padre, e come tutti coloro che protestano contro i regimi dittatoriali, non è al sicuro da nessuna parte».
Repubblica 15.7.13
Alma e la procura
di Luana Milella
Le ricostruzioni giornalistiche del caso Shalabayeva dimostrano, già oltre ogni ragionevole dubbio, che la signora Alma è stata evidentemente danneggiata nei suoi diritti dalla decisione del ministero dell’Interno di espellerla e dalla velocità esecutiva della polizia. Quindi, secondo il codice penale italiano, è più che giustificata un’indagine per abuso di ufficio.
Mi chiedo: ma cosa sta aspettando la procura di Roma? Anche lei, come hanno fatto i ministri coinvolti, Alfano e Bonino, si accorgerà tra un mese che era suo compito intervenire?
Repubblica 15.7.13
Caso kazako: dieci punti da chiarire su Shalabayeva
1. Il 28 maggio, al Viminale, l'ambasciatore kazako chiede la cattura di Ablyazov al prefetto Procaccini, capo di gabinetto di Alfano. È credibile che il ministro non ne sia stato informato?
2. Il ministro dell'Interno ha avuto contatti con l'ambasciatore kazako prima della riunione nell'ufficio del suo capo di gabinetto?
3. Il 3 giugno l'Ufficio Immigrazione invia al Viminale una relazione sull'espulsione della Shalabayeva. Perché Alfano si accorge solo il 12 luglio che qualcosa non ha funzionato?
4. In base a quali elementi il 5 giugno, dopo le prime notizie di stampa, Alfano assicura che 'tutte le procedure sono state correttamente rispettate'?
5. Perché il ministro Bonino e la Farnesina, sollecitati il 30 maggio dall'Ufficio immigrazione, non segnalano che Alma Shalabayeva è la moglie di un noto dissidente kazako?
6. Perché il Prefetto di Roma, il 30 maggio, nel firmare il decreto di espulsione della Shalabayeva attesta che ha precedenti penali, pur essendo la donna incensurata?
7. A che titolo il prefetto Valeri, del Dipartimento Pubblica sicurezza, consiglia i diplomatici kazaki di sollecitare al capo della squadra mobile Cortese la cattura di Ablyazov?
8. Perché i documenti che hanno portato all'annullamento del decreto di espulsione della Shalabayeva spuntano fuori solo un mese e mezzo dopo il suo fermo?
9. E' vero che, dopo il suo fermo, Alma Shalabayeva è stata costretta per 15 ore a non poter bere o mangiare?
10. È vero che i diplomatici kazaki, il 31 maggio, sostennero che la donna doveva essere trasferita in Kazakistan perché un eventuale scalo a Mosca avrebbe provocato un attentato terroristico?
Repubblica 15.7.13
Dimissioni, subito
di Ezio Mauro
Manca soltanto un tripode con un catino pieno d'acqua - come per Ponzio Pilato - in cui lavarsi pubblicamente le mani sul piazzale del Viminale o della Farnesina: sarebbe l'ultimo atto, purtroppo coerente, della vergognosa figura in cui i ministri Alfano e Bonino hanno sprofondato l'Italia con il caso Ablyazov. La moglie e la figlia del dissidente kazako vengono espulse dall'Italia con una maxioperazione di polizia e rimpatriate a forza su un aereo privato per essere riconsegnate al pieno controllo e al sicuro ricatto di Nazarbaev. Un satrapo che dall'età sovietica, reprimendo il dissenso, guida quel Paese e le ricchezze oligarchiche del gas, che gli garantiscono amicizie e complicità interessate da parte dei più spregiudicati leader occidentali, con il putiniano Berlusconi naturalmente in prima fila.
Basterebbero questa sequenza e questo scenario per imbarazzare qualsiasi governo democratico e arrivare subito alla denuncia di una chiara responsabilità per quanto è avvenuto, con le inevitabili conseguenze. Ma c'è di più. Alfano, vicepresidente del Consiglio e ministro dell'Interno, ha pubblicamente dichiarato che non sapeva nulla di una vicenda che ha coinvolto 40 uomini in assetto anti-sommossa, il dipartimento di Pubblica Sicurezza, la questura di Roma, il vertice - vacante - della polizia. Un ministro che non è a conoscenza di un'operazione del genere e non controlla le polizie è insieme responsabile di tutto e buono a nulla: deve dunque dimettersi.
C'è ancora di più. Come ha accertato Repubblica, l'operazione è partita da un contatto tra l'ambasciatore kazako a Roma e il capo di Gabinetto del Viminale che ha innescato l'operatività della polizia. Se Alfano era il regista del contatto, o se ne è stato informato, deve dimettersi perché tutto riporta a lui. Se davvero non sapeva, deve dimettersi perché evidentemente la sede è vacante, le burocrazie di sicurezza spadroneggiano ignorando i punti di crisi internazionale, il Paese non è garantito.
Quanto a Bonino, la sua storia è contro il suo presente. Se oggi fosse una semplice dirigente radicale, sempre mobilitata più di chiunque per i diritti umani e le minoranze oppresse, sarebbe già da giorni davanti all'ambasciata kazaka in un sit-in di protesta. Invece difende il "non sapevo" di un governo pilatesco. Parta almeno per il Kazakhstan, chiedendo che Alma e Alua siano restituite al Paese dove avevano scelto di tutelare la loro libertà, confidando nelle democrazie occidentali. E per superare la vergogna di quanto accaduto, porti la notizia - tardiva ma inevitabile - delle dimissioni di Alfano.
L’Huffington Post 15.7.13
Nel dolce mare sardo
Mentre Alma Shalabayeva era bloccata nel suo Paese, il presidente kazako era in vacanza in Sardegna. Nella villa di un amico di Berlusconi
La moglie del dissidente denuncia maltrattamenti. La questura smentisce. Attesa per domani la relazione del capo della polizia sull'espulsione. Il caso continua a scuotere le istituzioni. Sel e M5s premono per sfiducia a Alfano.
VIDEO: Alma nella casa del padre con la sua bambina
qui
L’Huffington Post 15.7.13
Pippo Civati: "Roberto Calderoli? La risposta è lo ius soli
Sul caso Shalabayeva il Pd non sia timido con Alfano"
intervista di Angela Mauro
qui
Corriere 15.7.13
Giustizia, contromossa del Pdl Firme per i quesiti radicali
Nitto Palma: su tre fronti siamo d’accordo con Pannella
Fabrizio Cicchitto: «i referendum radicali sono un’occasione da non perdere»
di T. Lab.
ROMA — Che fanno sul serio lo si capisce dal tono perentorio di Francesco Nitto Palma. «Coi dirigenti del partito in Campania sono stato chiarissimo. Gli ho detto che voglio sul mio tavolo centomila firme autenticate entro le prossime due settimane». E poi c’è il portavoce del partito Daniele Capezzone, che ha un passato nel Partito radicale: «I nostri sanno che in materia di referendum una qualche esperienza ce l’ho. E posso garantirle che, nelle ultime quarantott’ore, almeno una decina di alti dirigenti del Pdl mi ha telefonato per sapere come muoversi. Come organizzare i tavoli per la raccolta firme, come procedere all’autenticazione... ».
Difficile scambiarlo per un «semplice» sostegno politico all’ultima campagna referendaria di Marco Pannella sulla giustizia. Non a caso, l’input arrivato da Silvio Berlusconi sulla raccolta sui quesiti è stato netto. E la macchina da guerra pidiellina è già partita. Perché se è vero che il diretto interessato smentisce «il voto anticipato» alle Politiche, è altrettanto vero che il Cavaliere è tentato da «un voto» su se stesso nel 2014. E se il Pdl si mette in testa al gruppone guidato per ora da Pannella su sei dei dodici quesiti dei Radicali, l’appuntamento potrebbe essere quello giusto.
L’accelerazione sui tavoli referendari non è casuale. Perché i referendum possano celebrarsi entro il prossimo anno c’è una condizione necessaria, anche se non sufficiente. Ed è raccogliere cinquecentomila firme entro settembre. Obiettivo che, stando ai calcoli di Capezzone, non è impossibile. «Io ho due notizie precise. La prima è che tutto il gruppo dirigente nazionale è impegnato ventre a terra nella raccolta delle firme. E la seconda», prosegue il racconto del portavoce nazionale del Pdl, «è che i segnali che mi arrivano dal territorio vanno tutti nella stessa direzione. I dirigenti dei partiti regionali hanno già allertato i nostri consiglieri comunali, che hanno il potere di autenticare le firme dei cittadini».
La partita si gioca su tre fronti. Il sostegno berlusconiano, per esempio, non arriva fino al quesito che prevede l’abolizione dell’ergastolo. Né è dato sapere se, alla fine, il Pdl raccoglierà le firme anche sul secondo pacchetto di referendum, in cui c’è anche quello sull’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. «Ma su tre fronti ci siamo», dice Nitto Palma. Che li elenca: «Responsabilità civile dei magistrati, separazione delle carriere e intervento contro l’abuso della custodia cautelare, tema su cui nel recente passato s’è fatto sentire anche il Quirinale. Su questi, marciamo spediti».
Marcia spedito Fabrizio Cicchitto, secondo cui «i referendum radicali sono un’occasione da non perdere». Marcia spedita Mariastella Gelmini, che parla del «raggiungimento del quorum» come di un obiettivo «fondamentale» per il partito. Marcia spedito il Pdl toscano, che ha annunciato una mobilitazione straordinaria con gazebo allestiti in fretta e furia. E si marcia spediti anche in Abruzzo, dove il governatore Gianni Chiodi ha firmato alla presenza di Marco Pannella.
Il veterano radicale, negli ultimi contatti (alcuni diretti) con Berlusconi, avrebbe insistito sulla necessaria visibilità da dare alla campagna. Detto fatto. «Tg5, Tg4 e Tgcom24 se ne stanno già occupando molto... », sussurra Capezzone. Né va tralasciato l’effetto collaterale più curioso di tutta la vicenda. Se Beppe Grillo desse seguito alla promessa fatta l’altro giorno ai microfoni di Radio Radicale — «Sono disposto a firmare i referendum. Vedremo, generalmente sono quasi tutti condivisibili» — dalla stessa parte della barricata di Berlusconi, per una volta, si troverebbe anche il Movimento Cinque Stelle. Con ricadute sul quadro politico tutt’altro che scontate.
Repubblica 15.7.13
Il leader 5Stelle aveva dato il suo sostegno ai quesiti radicali sulla giustizia, ma ora ci ripensa
Di Pietro convince Grillo al dietrofront “Non aiuterò Silvio col sì ai referendum”
di Tommaso Ciriaco
ROMA — Sono le 09.40 di sabato scorso. Suona il cellulare di Antonio Di Pietro: «Ciao Tonino, sono Beppe Grillo». È il leader del Movimento a cercare il fondatore dell’Idv. L’hanno appena informato di una lettera aperta con cui “Tonino” lo mette in guardia dal rischio di sostenere i referendum radicali sulla magistratura. Soprattutto, di farlo a braccetto con Silvio Berlusconi. La guida dei cinquestelle raccoglie elementi. Si informa. E con Di Pietro quasi si giustifica: «L’altro giorno mi hanno fatto una domanda e ho detto che avrei sostenuto i referendum. Ma in realtà non conoscevo neanche bene il merito della questione». Grillo stima Pannella e con l’ex ministro non lo nasconde: «È stato più che altro un gesto di rispetto verso di lui. Verso le sue battaglie di civiltà». Ma ora che il quadro è più chiaro, il leader pentastellato innesta la retromarcia: «Ora ho capito. E certo non mi metto con Berlusconi a fare una battaglia contro i magistrati ».
È Di Pietro a svelare il dietro le quinte della telefonata e della “conversione” anti referendaria. «Ora - sostiene l’ex pm - tocca a Beppe rendere pubblica questa posizione». Così, almeno, gli aveva promesso: «Mi ha detto che aveva intenzione di farlo. Anche perché io gli ho ricordato che ormai il messaggio è passato. La gente fa la fila ai banchetti per firmare. Ecco, caro Beppe, devi rendere visibile quanto mi hai detto in privato».
Per ricostruire al meglio la vicenda, occorre riavvolgere il nastro. Mercoledì scorso, in trasferta romana al Colle, Grillo si concede anche ai cronisti. Dopola conferenza stampa i giornalisti lo intercettano nel cortile del Senato. E lì che il Capo grillino mette il cappello sui referendum radicali. «Se li sosterrò? Assolutamente sì», ripete due o tre volte.
In un attimo, Grillo si ritrova anche al fianco del Pdl, che nel frattempo ha sposato la battaglia referendaria sulla giustizia in chiave antimagistratura. Un inedito asse che il democratico Felice Casson non manca di rilevare: «Grillo si appoggia a uno strumento popolare come il referendum e cavalca un cavallo di battaglia che gli viene utile per attaccare il governo. Se poi in questo frangente si trova alleato del Cavaliere, per lui non è un problema». Di Pietro, intanto, apprende dalle agenzie: «Ero scioccato. Speravo fosse un abbaglio, perché il Paese non merita questa ferita della Costituzione e questo sfregio alla giustizia». Cerca “Beppe”: «Con lui mi sento spesso, ma stavolta non riuscivo a rintracciarlo». Decide di scrivergli una lettera aperta. Il leader del Movimento lo richiama sabato. «Alle 9.40», ricostruisce Di Pietro scorrendo sul cellulare le chiamate ricevute. «Mi ha detto: “Antonio, hai ragione. Mi sono informato. Sai, io ho sempre stimato Pannella, le sue battaglie libertarie. Ma ho fatto una cazzata, perché certo non darò io una mano a Berlusconi”». L’ex pm tira un sospiro di sollievo: «In effetti, che c’azzecca Beppe con Berlusconi? ».
Calderoli non può restare
Dopo le offese a Kyenge, il Pd chiede le dimissioni
un titolo de l’Unità del 15.7.13
il Fatto 15.7.13
Razza leghista
“Kyenge sembra un orango” E Calderoli salva Angelino
di Eduardo Di Blasi
Treviglio, nella bergamasca, tre giorni fa. Roberto Calderoli, vicepresidente leghista del Senato, davanti a 1500 accoliti della locale festa del Carroccio, si lancia in un pericoloso sproloquio contro il ministro dell’Integrazione Cécile Kyenge. “Fa bene a fare il ministro, ma forse lo dovrebbe fare nel suo Paese. È anche lei a far sognare l’America a tutti i clandestini che arrivano qui”. L’intemerata, pubblicata ieri in prima pagina sul Corriere della Sera, continua anche peggio di come è partita: “Amo gli animali, orsi e lupi com’è noto, ma quando vedo le immagini della Kyenge non posso non pensare, anche se non dico che lo sia, alle sembianze di un orango”. Ce n’è abbastanza perchè ne nasca una bufera politica incontrollabile. Il premier Enrico Letta twitta “parole inaccettabili”, seguono sulla stessa linea ministri Pd, Pdl e Sc, i presidenti di Camera e Senato, infine Giorgio Napolitano, “indignato” per “l’imbarbarimento della vita civile”. La stessa Kyenge accetta le scuse arrivate in serata via telefono da Calderoli, ma ne chiede le dimissioni: “Occorre senso della misura e di responsabilità, rispettando la carica che si ricopre”.
Chiedere senso della misura a Calderoli non pare impresa che possa essere coronata da successo. Nel febbraio 2006, ospite in un dopo-Tg, mostrò una t-shirt in cui era raffigurata una vignetta su Maometto che già aveva avuto discrete ripercussioni internazionali. Dopo quelle immagini in tv l’ambasciata italiana a Bengasi fu presa d’assalto. Finì che Berlusconi lo scaricò dal governo in un paio di giorni. Seguì un processo per vilipendio alla religione che si concluse con un’assoluzione un paio d’anni dopo. Gli chiesero all’epoca se fosse pentito. Rispose: “Ma stiamo scherzando? ”. L’anno seguente, infatti, vice presidente del Senato, protestava a modo suo contro l’edificazione di moschee in Italia: “Metto personalmente a disposizione del comitato contro la moschea sia me stesso che il mio maiale”. Oggi come allora, dopo le affermazioni contro la Kyenge, associazioni (Art. 21 in testa) e partiti (Sel e Pd per primi) chiedono le sue dimissioni dalla vicepresidenza di Palazzo Madama. In una settimana che si annunciava rovente per il ministro dell’Interno Angelino Alfano, in Parlamento arriva così il ciclone Calderoli.
Le offese al ministro dell’Integrazione sono già costate del resto la presenza nel gruppo all’europarlamentare leghista Mario Borghezio e quello di consigliera di quartiere a Padova, a Dolores Valandro (oggi a processo) che su Twitter le augurò: “Ma mai nessuno che se la stupri, così tanto per capire cosa può provare la vittima di questo efferato reato? Vergogna! ”. Erminio Boso ha preso una denuncia (di Sel) per odio razziale per aver invitato la ministro “a stare a casa sua in Congo”. Un circolo della Lega di Legnago era della medesima idea. Scrisse su Facebook: “Va a fare il ministro in Congo! Ebete! ”. Mario Pavan, segretario di sezione, provò poi a spiegare: “In dialetto veneto ebete è un aggettivo che diventa perfino affettuoso e vuol dire ingenuo”. Una difesa disperata. Come quella di Matteo Salvini che attacca i giornalisti. Bobo Maroni solo in serata chiosa: “Ha fatto bene a scusarsi”.
Corriere 15.7.13
Non si può alimentare il razzismo. L'Italia è offesa da quelle parole
di Gian Antonio Stella
«Cosa volete, la madre dei cretini è sempre incinta», ridacchiò un giorno Roberto Calderoli smarcandosi dalle sparate razziste di tanti leghisti. Un istante prima aveva chiesto scusa per le sue.
Spara e si scusa spesso, il senatore. L'ha fatto anche ieri, con Cécile Kyenge che aveva associato a un orango. Ma può rimanere, chi dice simili mostruosità, alla vicepresidenza del Senato?
È fatto così, l'ex ministro: Doctor Jekyll e Mister «Pota». E se il primo è riconosciuto come un vicepresidente del Senato attento a stare al di sopra delle parti, il secondo (deve il nomignolo «pota» all'intercalare bergamasco simile al veneto «ciò» o al romanesco «ahò») è incapace di trattenersi. Quando gli scappa, gli scappa.
E gliene sono scappate tante. Ha accusato la sinistra di tentare «un vero e proprio golpe proponendo di dare la cittadinanza ai bingo-bongo». Lanciato l'idea di una nuova moneta battezzata il «Calderolo». Fatto infuriare il mondo musulmano dicendo: «Sul terreno dove dovrebbe nascere la moschea farò pascolare i maiali». Gonfiato il petto vantandosi di non essere «mai andato a cena con un romano». Minacciato «molti personaggi ai vertici delle istituzioni» di un processo del «tribunale del popolo padano» con «l'imputazione di genocidio».
E poi ancora ha scandalizzato i disabili con un paragone indecente: «C'è ancora qualche mongoloide che vota Ulivo». Proposto «una taglia di un milione di lire per chi denunci un albanese irregolare». Insultato il cardinale Tettamanzi reo d'essere ecumenico con gli immigrati: «Col territorio non c'entra niente, sarebbe come mettere un prete mafioso in Sicilia». Irritato i nemici del razzismo e gli amici dell'America tracciando un paragone con la presidenza Obama: «Non vorrei tra cinque anni trovarmi un presidente abbronzato...». Esultato per il trionfo dell'Italia sulla Francia ai Mondiali visto come «la vittoria della nostra identità» contro una squadra che aveva «schierato negri, islamici e comunisti». Sostenuto che «la civiltà gay ha trasformato la Padania in un ricettacolo di culattoni». Indignato la Ue promuovendo una marcia su Bruxelles con la promessa di portare in Belgio «un po' di saggezza della croce a quel popolo di pedofili». Quando mostrò in tv la maglietta con una vignetta su Maometto, dando lo spunto ai fanatici islamici per attaccare il consolato italiano di Bengasi, sollevò un vespaio tale da essere costretto a dimettersi da ministro. Due mesi dopo, grazie a Bossi al quale era fedelissimo («se mi dice "buttati da questo ponte" io mi butto. Magari mi dispiace, ma mi butto») veniva già ripescato come vicepresidente di Palazzo Madama.
Anche ieri, dopo le offese al ministro Kyenge, si è levato un coro: dimissioni! Da sinistra, ma non solo. Basti dire che il ministro Giampiero D'Alia, che sinistrorso non è, si è spinto a paragonare il leghista agli squadristi dell'Alabama: «usa un linguaggio da Ku Klux Klan». Lui fa spallucce: «Ho invitato il ministro Kyenge ad un confronto a Bergamo per scusarmi con lei. Ma non vorrei che il polverone su di me serva a coprire altro, non sarò capro espiatorio». Dice d'aver fatto quella battuta solo «in riferimento ai lineamenti». Peggio il rattoppo che il buco.
E ha spiegato alla nostra Anna Gandolfi che lui ama questi paragoni con gli animali e che vede Enrico Letta come un airone («zampetta nella palude») e Angelino Alfano come una rana e Anna Maria Cancellieri come un San Bernardo e via così... La tesi di Francesco Speroni, che da Bruxelles si è precipitato a difendere il camerata padano: «Noi dicevamo che Leopoldo Elia assomigliava a un tapiro, non è mica offensivo. Il figlio di Bossi è stato battezzato il Trota, ma siccome è bianco nessuno si arrabbia...». Del resto, aggiunge, «anche Celentano dicevano che si muovesse come uno scimpanzé!». Ora, a parte il fatto che il soprannome a Renzo fu dato da Umberto Bossi («Mio figlio il mio delfino? Per ora è semmai una trota») l'uno e l'altro fingono di ignorare il nodo: ogni parola è figlia della storia e va collocata nel suo contesto. I soprannomi dati a Bettino Craxi («il cinghialone»), Vittorio Sbardella («lo squalo»), Romano Prodi («il mortadella»), Silvio Berlusconi («il caimano») o Daniela Santanchè («la pitonessa») possono essere di buon gusto o no, bene accetti o no, ironici o no. Ma non sono «razzisti». Dare del «pony di razza» per la bassa statura ad Amintore Fanfani o dell'ippopotamo per la stazza a Giuliano Ferrara, invece, anche se entrambi si sono sempre sforzati di sorriderne, è un'altra faccenda.
E dare del «banana», «bingo bongo» od «orango» a una persona di colore è un'insolenza infame. Sulla quale non si può scherzare perché getta sale sulle ferite di ogni nero che si trascina dietro i dolori dell'apartheid e della schiavitù di decine di milioni di schiavi, ridotti in catene proprio perché catalogati come «razza inferiore». Non c'è nero che non porti addosso come un marchio a fuoco quei paragoni teorizzati da «scienziati» quali Georges Cuvier («I movimenti della Venere Ottentotta avevano qualcosa di brusco e capriccioso che ricordava quelli delle scimmie...») o Cesare Lombroso: «Nel negro la faccia predomina sulla fronte, come le passioni affogano l'intelligenza (...) Le suture del capo (...) gli si ossificano prestamente come nell'idiota e nelle scimmie». Per non dire de La difesa della razza fascista. Non ricordarsene o peggio ancora riderne è buttar brace su quelle piaghe.
Quanto al fatto che «scegliere dei ministri stranieri è una scelta sbagliata» e che lui non conosce casi di «italiani ministri all'estero», l'ancora (incredibilmente) vicepresidente del Senato scorda che Henry Kissinger era nato in Baviera ma diventò il potente segretario di Stato americano. Che il premier belga Elio di Rupo per «ius sanguinis» è italiano. O che a salvare l'onore della Francia dopo la disfatta di Sedan, dopo che «il più francese dei francesi» Napoleone III si era arreso ai prussiani, fu il figlio d'un immigrato, Leon Gambetta. Che era diventato francese solo undici anni prima.
Repubblica 15.7.13
Fuori i razzisti dalle istituzioni
di Gad Lerner
Con il suo ignobile giro di parole al comizio di Treviglio cercava la provocazione, in un momento di massima difficoltà della Lega Nord afflitta da una vera e propria emorragia di militanti; e sua personale, visto che dall’interno lo accusavano di eccessi di moderatismo.
Provocazione studiata, dunque, con il primo stadio di quell’odioso riferimento allo stereotipo coloniale più classico, l’uomo-scimmia, riferito agli africani. Ma l’intento razzista, se ancora ce ne fosse bisogno, è stato confermato da Calderoli nelle dichiarazioni successive, rilasciate ieri a Radio Capital, quelle in cui fingeva stupore per le reazioni alla sua battuta “innocente”. Ebbene, più volte al microfono, e con inequivocabile spudorata tenacia, egli ha insistito a negare che la cittadina italiana Kyenge, peraltro eletta nel Parlamento della nostra Repubblica, abbia il diritto di ricoprire un incarico di governo. «Può fare il ministro, ma in Congo – ha sostenuto Calderoli – non può fare il ministro in Italia». Con ciò lasciando intendere che a suo parere la Kyenge non solo non avrebbe il diritto di fare la ministra in Italia, ma non avrebbe neppure il diritto di considerarsi cittadina italiana.
Simili affermazioni non soltanto contraddicono la verità dei fatti: Kyenge è naturalizzata per legge cittadina italiana né più né meno di Calderoli, e ha quindi i tutti requisiti necessari per assumere incarichi di governo. Di più, queste falsità recitate con leggerezza da Calderoli determinano un vero e proprio vulnus istituzionale: può infatti un’istituzione parlamentare come il Senato della Repubblica avere fra i suoi vicepresidenti un esponente politico che nega l’altrui cittadinanza con argomenti relativi al luogo di nascita? Può permettersi, la nostra Repubblica, di concedere un tale ruolo pubblico a chi semina veleno razzista e alimenta il pregiudizio verso unaparte dei suoi concittadini?
C’è da augurarsi che oggi stesso il Senato provveda a sollevare Calderoli dalla carica che indegnamente ricopre, dopo che per troppi anni s’è finto di ignorare il cumulo di volgarità razziste che di volta in volta ha profuso contro singoli interlocutori o contro popoli e fedi religiose nel loro insieme.
La nomina di Cécile Kyenge come ministra dell’Integrazione è stato forse l’atto più innovativo (l’unico?) del governo Letta. Ma ha letteralmente scatenato una piccola minoranza di esagitati che l’hanno percepita come offesa intollerabile al loro ego xenofobo e hanno scatenato contro di lei una vera e propria guerra dei nervi. Cécile Kyenge ha mostrato una pazienza degna di miglior causa ogni qual volta l’hanno chiamata in causa a sproposito perché si giustificasse di fronte a episodi di violenza sessuale; hanno messo in dubbio la sua competenza in quanto è laureata in oculistica; hanno ironizzato sulla sua numerosa famiglia; l’hanno accusata di godere di protezioni eccessive, nel mentre che aizzavano con toni minacciosi la gente a manifestare contro di lei. L’esito di questa sollevazione contro la Kyenge è stato fallimentare, ma la ricerca della provocazione non si arresta nella speranza che possa derivarne il recupero di uno spazio politico perduto. Per questo è importante seguire cosa succederà nelle prossime ore.
Così come Borghezio è già stato espulso dal gruppo parlamentare cui era iscritto a Strasburgo, in seguito alle offese profferite contro la Kyenge, ci attendiamo che altrettanto faccia il gruppo dei senatori della Lega nei confronti di Calderoli. Non sarà una gran perdita. E servirà a ristabilire anche in Italia quella prassi europea per cui i razzisti vengono tenuti ai margini delle istituzioni, anche perché la destra liberale e moderata per prima si impegna a non dare loro spazio.
BISOGNA vincere la tentazione di rispondere per le rime a Roberto Calderoli. Lui non chiederebbe di meglio che un confronto sui tratti somatici e i quozienti intellettuali. Ma stavolta non potrà cavarsela rifugiandosi nella buffoneria un personaggio come lui, che la politica italiana ha tollerato rimanesse ai suoi vertici per quasi un ventennio.
L’aggressione verbale alla ministra Cécile Kyenge, mascherata come al solito da battuta di spirito, è stata un atto premeditato di violenza razzista. Calderoli sapeva bene quel che stava facendo.
il Post 15.7.13
Il manifesto degli scienziati razzisti
75 anni fa un gruppo di scienziati - ma molte liste che circolano sono false - scrisse che per gli italiani era arrivato il momento di diventare razzisti
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La Stampa 15.7.13
Letta irritato per il tour europeo di Renzi
Scontro finale sul congresso: segretari regionali eletti solo dagli iscritti, il sindaco di Firenze dice no
di Carlo Bertini
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Libero 15.7.13
Partito a picco
Il capolavoro di Bersani: ha perso 320mila iscritti
Quando Pier "prese il potere" nel Pd nel 2009 i tesserati erano 820mila, oggi poco più di 500mila
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La Stampa 15.7.13
Viaggio nel Pd
Centomila tessere in meno. La difficile battaglia per recuperare consenso
L’obiettivo resta 750mila iscritti in vista del congresso Per ora sono mezzo milione: l’80 % dei quali maschi
Per aderire non sarà più necessario passare dai circoli. Basterà internet
La Calabria è l’unica regione in cui crescono i militanti
Gli iscritti al partito democratico due anni fa erano oltre seicentomila. L’anno scorso il crollo
54 anni: l’età media" per i cinquecentomila iscritti. Pochi i giovani. Dato che si è riflesso anche nel voto dello scorso febbraio"
di Federico Geremicca
L’ anno scorso hanno disertato in centomila. Uno dopo l’altro, in silenzio, spariti nel nulla, eclissati. I capi, quelli di Roma e quelli della periferia, speravano tornassero. E lo sperano ancora. Anzi: oggi ancora di più. Perché sono loro, i fuggiaschi, la voce del Partito, nelle fabbriche, negli uffici e nei luoghi in cui si formano il consenso e le opinioni. E perché sono loro, gli iscritti, che dovrebbero affrontare i malumori ed i malesseri di quel «ventre molle» democratico confuso e senza più riferimenti, da quando Enrico Letta è entrato a Palazzo Chigi con gli auguri e i voti del nemico di sempre. Nel 2011 erano 602.488; l’anno dopo 500.163. Fuggiti. Può esser che già aver tenuto bordone a Monti ed ai suoi tecnici non fosse stato apprezzato granché dagli iscritti; e figurarsi, allora, l’allegria oggi, a sentire Berlusconi ripetere «Letta vada avanti, ha tutta la mia fiducia»... A volte uno s’arruffa a pensare, per cercare una spiegazione alla cosiddetta «rivolta della base Pd», immagina disagi esistenziali, perplessità ideologiche e chissà cos’altro, mentre la spiegazione – invece – ce l’hai davanti, semplice semplice, niente di stupefacente, di imprevedibile: solo che ammetterlo è imbarazzante. E a volte doloroso...
Eppure, il Pd è sicuro che, nonostante il ribollire delle proteste in circoli e associazioni, i fuggiaschi – gli iscritti, cioè – torneranno a casa: e porteranno con loro molti nuovi amici. A Largo del Nazareno, sede del quartier generale democratico, ci credono a tal punto da aver fissato a quota 750 mila l’obiettivo per il tesseramento 2013. «Siamo già partiti e faremo il punto la prossima settimana – spiegava l’altro giorno Davide Zoggia, responsabile organizzativo Pd –. Pensiamo che le nuove modalità di iscrizione – via Internet, senza dover nemmeno passare dai circoli – potranno sicuramente aiutarci a raggiungere l’obiettivo».
E così, se il signor Simone Furlan, 37 anni, padovano, albergatore di professione (il suo hotel si chiama «Glamour»...) è il capo dell’Esercito di Silvio – ed è pronto a scatenare le sue eleganti milizie in difesa del Cavaliere – così Davide Zoggia, 49 anni, ragioniere commercialista e deputato da appena cinque mesi, è il mite capo dell’Esercito del Pd, e lavora per riorganizzare le truppe in vista di una battaglia della quale solo i tempi sono incerti. Nonostante il gran parlare che si fa di partiti liquidi e di social network – che starebbero suonando la campana a morto per la militanza così come finora intesa – le falangi democratiche sono tutt’oggi una cosa molto seria: un esercito di professionisti, potremmo dire, se paragonato all’Esercito di Silvio (a ieri 19 mila in tutto) che somiglia fin troppo ad un’adunata di giocatori di paintball attivi solo la domenica...
Un esercito un po’ in là con gli anni, però, quello del Partito democratico. L’eta media dei 500 mila dell’anno scorso era di 54 anni, stagione in cui più che alla guerra si comincia a pensare alla pensione. L’età è un problema, e del resto lo scarso appeal della politica e del Pd presso i giovani, è ben confermato dai risultati elettorali... È un problema l’età, come lo è anche la traballante distribuzione sul territorio, visto che il grosso delle truppe (praticamente la metà) è dislocato lungo la dorsale Lazio-Toscana-EmiliaLombardia. Il Sud risulta a corto di guarnigioni, perché è proprio in quest’area del Paese – infatti – che negli ultimi anni si è registrata una allarmante diserzione di massa. Valga per tutti quel che è accaduto in Puglia: 31.281 iscritti nel 2010, meno della metà (15.110) nel 2012.
Ma chi sono i soldati dell’esercito democratico? Chi sono i «soldati» che dovrebbero spiegare e difendere il verbo del Pd in periferia, mentre invece – a volte – si ritrovano a esser più critici dei semplici elettori? Più uomini o più donne? Colti o poco scolarizzati? I dati dell’ultimo anno sono ancora in elaborazione, ma si può provare una radiografia attraverso le caratteristiche dei segretari dei circoli a cui quei «soldati» rispondono. È vero, naturalmente, che in periferia è tutto un ribollire di contestazioni (si pensi alla nascita di OccupyPd...) e di iniziative critiche verso il centro del Partito: ma la spina dorsale degli iscritti ancora tiene, e assieme al pattuglione dei sindaci e degli amministratori rappresenta una sorta di garanzia e assicurazione sulla vita per l’intero Pd.
Quarantaquattro anni, soprattutto maschi (79%: un altro problema...), ben acculturati (il 42% è laureato, il 39% è diplomato) il plotone dei segretari di circolo che prendiamo in esame (6.123 unità) sembra appartenere al mondo dei «garantiti»: il 73% ha un’occupazione, il 14% è composto da pensionati, il 10% da studenti. La regione con più iscritti, naturalmente, è l’Emilia (ma il calo dal 2011 al 2012 è allarmante: da 104.445 a poco più di 82 mila); quella col numero minore, la piccola Val d’Aosta (che pure ha dimezzato i suoi soldati, tra il 2011 e il 2012: da 249 ad appena 112). Da segnalare – e forse da indagare – il boom in controtendenza della Calabria, che nello stesso periodo ha invece addirittura guadagnato iscritti (da 24 mila a 28.756).
Il clima del Congresso – più o meno imminente – e la prospettiva di possibili elezioni già la prossima primavera stanno favorendo l’arruolamento di nuovi iscritti. Dunque, perplesso verso la linea del partito, turbato dal patto con Berlusconi e sconcertato dalle vicende del dopo-voto, l’esercito del Pd è comunque pronto alla battaglia. A condizione, naturalmente, che quel tempo arrivi: e non resti sospeso, come sono sospese troppe cose in questo impensabile avvio di legislatura...
Corriere 15.7.13
Primarie e scelta del premier Nel partito tre piani anti Matteo
Diritto di voto solo a chi si iscrive a un albo
di Maria Teresa Meli
La paura fa le regole. O almeno così sostengono gli uomini del sindaco di Firenze
Infatti, di fronte alla discesa in campo a passo di carica di Matteo Renzi, i bersaniani puntano a fermarlo con delle regole ad hoc. L’ex premier Massimo D’Alema spera invece in un metodo più sofisticato per impedire al primo cittadino del capoluogo toscano la presa del palazzo del Nazareno. Infine, se non dovesse andare bene nessuno dei due piani ce n’è un terzo, la cosiddetta ultima spiaggia.
Ma occorre andare per ordine. Le regole sono il metodo prescelto da Bersani e dai suoi, come fu anche la volta scorsa. Ieri era Nico Stumpo, oggi è Davide Zoggia, attuale responsabile dell’organizzazione del Pd, che è incaricato di bloccare Renzi, o, meglio, di renderlo inoffensivo. Sarà lui a proporre alla prossima riunione della Commissione per il congresso le regole anti-sindaco.
La prima: il segretario non sarà automaticamente candidato alla premiership. La seconda, i segretari regionali verranno scelti solo dagli iscritti, e prima del leader nazionale. Questo per impedire che vengano votati alle primarie, in collegamento con il loro candidato segretario nazionale, com’è stato finora. Già, perché se questa norma fosse mantenuta Renzi avrebbe la maggior parte dei leader regionali, e quindi il partito sarebbe interamente nelle sue mani. Facendoli invece votare dai soli iscritti — che, a oggi, sia detto per inciso, sono 500 mila, ossia 250 mila in meno di quelli che votarono nel 2009 per Bersani segretario — l’apparato del Pd e la vecchia maggioranza possono sperare di spuntare più segretari regionali possibili mantenendo il loro potere sul partito.
E non finisce qui, per mantenere la presa sul Pd si stabilirà anche che l’assemblea nazionale, attualmente eletta alle primarie sulla base delle percentuali ottenute dai candidati segretari, verrà eletta per il 40-50 per cento dai territori. Che tradotto significa, ancora una volta, dagli iscritti dei circoli. Un modo per cercare di «ingabbiare Matteo», denuncia il neo deputato Dario Nardella.
Ciliegina sulla torta: chi vorrà votare alle primarie dovrà iscriversi a un albo degli «aderenti», un modo, secondo i renziani di «appesantire il voto anche nei termini». Secondo un altro neo-deputato, Davide Faraone, queste «sono sottigliezze che gli umani normali non possono capire».
Ma il parlamentare siciliano, gran sostenitore del sindaco, ha poca voglia di fare dell’ironia. È fuori di sé per questa storia delle regole: «Se fanno veramente una cosa del genere vuol dire che il Pcus rispetto a noi era un “open space”. Ricordo a Zoggia e a quanti si affannano a predisporre gabbie per Matteo che le regole si cambiano in assemblea nazionale con il quorum prestabilito. L’idea, poi, che per i congressi locali votino solo gli iscritti sa tanto di volontà di costituire qualcosa di simile all’esercito egiziano, pronto a intervenire se il leader sbaglia... ».
Angelo Rughetti, un altro parlamentare renziano, avverte: «Sappiano che non possono permettersi di portare un documento con delle regole che noi non votiamo». Già perché la contro-minaccia è quella di far saltare il tavolo e questa è una prospettiva che il gruppo dirigente non può permettersi, non nelle difficoltà in cui versa per ora.
Perciò si tenta la trattativa. Renzi è disposto a cedere sul segretario-candidato premier perché «i leader si fanno sul campo», ma non sul tentativo di ingabbiarlo in un partito d’apparato in cui i segretari locali non rispondano a lui. Ma se il confronto è su questi punti significa che Bersani si è rassegnato al fatto che Renzi sia destinato a diventare segretario. Prospettiva alla quale, invece, non si è rassegnato Massimo D’Alema, il quale è disposto a non appoggiare più Gianni Cuperlo se si trova un altro candidato alla leadership del Pd che possa stare bene anche a Renzi, evitando così che il sindaco scenda in campo. Dicono infatti che l’ex premier, in questi giorni, si stia dando molto da fare su questo versante, incontrando diversi esponenti del partito.
Dovessero andare male entrambi questi piani, c’è l’ultima carta: moltiplicare a dismisura il numero dei candidati alla segreteria per evitare che Renzi superi il 50 per cento. In questo modo il sindaco andrebbe sì alla guida del Pd, ma sarebbe un leader dimezzato, costretto a scendere a patti con i maggiorenti del partito.
Corriere 15.7.13
E Grillo attacca «Renzi in Germania da pellegrino ossequioso»
Beppe Grillo contro Matteo Renzi e contro l’atteggiamento della Germania. In un post intitolato «Non possiamo morire per Berlino», il leader del Movimento attacca: «Il pellegrinaggio ossequioso, subito dopo il loro insediamento, dei nostri primi ministri, come Rigor Montis e Capitan Findus Letta, presso la Merkel (e persino del voglioso ebetino di Firenze, che non vanta alcuna credenziale se non quella di aver vinto alla Ruota della Fortuna) ricorda la ricerca della benedizione papale dei grandi feudatari del medio evo. In ginocchio, baciando il sacro anello. “Gott mit uns”». Secondo Grillo, «gli interessi economici della Germania e quelli dell’Italia non coincidono più da molto tempo, dal nostro ingresso nell’euro, che in realtà è un marco mascherato. È necessaria una mediazione, un confronto alla pari, per uscire dall’attuale impasse, non la continua genuflessione dei nostri politici». E conclude: «Nell’euro, a queste condizioni, non possiamo più restare». Il leader lamenta anche il fatto che la Germania non abbia chiesto un incontro ufficiale con lui dopo le Politiche. In realtà l’ambasciatore tedesco in Italia, Reinhard Schaefers, ha incontrato ad aprile i capigruppo dei Cinque Stelle.
Libero 15.7.13
Derive sinistre
Berlusconi ineleggibile, Flores D'Arcais e Micromega preparano la gogna per le colombe Pd
La rivista dei giustizialisti girotondini invita i lettori a fare stalking sui senatori: "Devono votare l'ineleggibilità"
qui
il Fatto 15.7.13
La nuova legge
Mai più distinzioni. Si chiamano solo figli
Resta una sola definizione: figlio. Nel codice civile non ci sarà più nessuna distinzione tra bambini di nascita illegittima, adottati o naturali. La decisione è arrivata venerdì 12 luglio con l’approvazione da parte del Consiglio dei ministri del decreto legge sulla filiazione.
“E’ un fatto di civiltà, finisce una “distinzione che nella storia del Paese ha accompagnato drammi umani veri e propri”, ha commentato il premier Enrico Letta. Nella pratica si annuncia come una vera e propria rivoluzione. Ora il testo sarà esaminato dalle commissioni di Camera e Senato, prima di ritornare al consiglio dei ministri per l’approvazione finale. Il testo stabilisce ufficialmente la fine delle discriminazioni per i figli adottivi: nei casi di adozione piena, ossia che riguardi persona minorenne, si acquisisce lo stato di figlio "nato nel matrimonio".
Esclusa, invece, l'equiparazione per gli adottati maggiorenni, per i quali non sorge alcun vincolo di parentela con i parenti degli adottanti. A essere toccati dal provvedimento inoltre vi sono numerosi ambiti. Innanzitutto l’asse ereditario: d’ora in avanti i figli, illegittimi o naturali o adottati, avranno gli stessi diritti e gli effetti successori varranno nei confronti di tutti i parenti, non solo dei genitori. Si sostituisce inoltre la nozione di potestà genitoriale con quella di “responsabilità genitoriale”. A essere modificati saranno numerosi articoli del codice civile che dovranno adattarsi alla giurisprudenza degli ultimi anni, così come stabilità dalla Corte di Cassazione e dalla Corte Costituzionale. Un capitolo è dedicato anche al disconoscimento della paternità: questo non potrà avvenire da parte di madre e padre una volta trascorsi cinque anni dalla nascita. A quel punto infatti la norma fa prevalere l’interesse del figlio a conservare lo Stato. "E' una buona notizia per il nostro Paese”, ha commentato Vincenzo Spadafora, Autorità Garante per l'Infanzia e l'Adolescenza, “quando il Governo si occupa di politiche per l'infanzia. Negli ultimi anni questo è avvenuto sempre meno ed in maniera poco incisiva, quindi auspico che sia un segnale di come l'esecutivo voglia impegnarsi maggiormente nell'affrontare temi centrali per la famiglia e i minorenni”.
l’Unità 25.7.13
L’America in piazza. Cortei contro l’assoluzione
Assolto l’assassino del ragazzo nero «È una sentenza razzista»
Chiesta alla Giustizia un’indagine sulle violazioni dei diritti civili subite dal giovane
di Gabriel Bertinetto
La sera del 16 febbraio 2012 Gerge Zimmerman scaricò la sua pistola su un ragazzo nero di 17 anni, uccidendolo. Trayvon Martin stringeva in pugno un sacchetto di dolciumi che Zimmerman disse di aver scambiato per un’arma. Ieri il tribunale della Florida lo ha assolto. Cortei di protesta.
L’arma che Trayvon Martin, ragazzo nero di 17 anni, stringeva in pugno la sera del 16 febbraio 2012 a Sanford, in Florida, era un sacchetto di dolciumi. Il cappuccio che si era calato sul capo serviva a proteggerlo dalla pioggia incessante. Tutto semplice, chiaro e pulito. Tranne che per George Zimmerman, 28 anni, bianco di origini ispaniche, che se ne stava lì appostato in attesa di veder transitare una sagoma corrispondente ai fantasmi delle sue ossessioni. Zimmerman scambiò il giovane Martin per un delinquente in procinto di colpire, forse diretto al vicino supermercato. Lo seguì e gli sparò con la pistola che le ultra-permissive leggi americane gli consentivano detenere, e che portava con sé ogni qualvolta era il suo turno di vigilanza volontaria nel quartiere. Imputato di omicidio, rischiava l’ergastolo. Ma dopo una camera di consiglio durata sedici ore, il tribunale l’ha assolto con formula piena, accettando la tesi della legittima difesa. Sentenza shock. Accolta da manifestazioni di protesta in numerose città americane, da Washington a Philadelphia, da Atlanta a San Francisco a Chicago. Barack Obama, senza commentare la scelta dei giudici, si è sintonizzato sulla lunghezza d’onda dello sdegno diffuso nella comunità afro-americana per un verdetto in odore di pregiudizio razziale, e ha dichiarato: «Se avessi un figlio, somiglierebbe a Trayvon». La dinamica dell’episodio ha un solo punto oscuro, quello chiave. È vero che l’adolescente avvicinato da Zimmerman che voleva bloccarlo, gli si è rivoltato contro e ha cercato di strappargli la pistola? L’imputato lo ha raccontato e alla fine gli hanno creduto. A suo beneficio è stata applicata la controversa legge vigente in 21 Stati dell’Unione, chiamata «Stand your ground», che permette l’uso della forza anche letale da parte di chi si senta in imminente pericolo. Grazie alla stessa normativa, la polizia inizialmente evitò persino di incriminare Zimmerman, il quale fu finalmente arrestato solo sei settimane dopo l’omicidio. La vicenda ripropone tragicamente una serie di problemi che affliggono la società statunitense: dalla eccessiva diffusione delle armi da fuoco fra i privati, al pregiudizio razziale, all’imparzialità della giustizia penale. La Naacp (National association for the advancement of coloured people) ha chiesto al ministero della Giustizia una «immediata inchiesta sulle violazioni dei diritti civili commesse ai danni di Trayvon Martin». Secondo la presidente di Naacp, Roslyn Brock, l’andamento di questa triste storia non può che «rilanciare il movimento per arrestare i condizionamenti razziali» nel funzionamento della società statunitense. Sui cartelli retti dai manifestanti che sfilavano ieri nelle strade d’America si leggevano slogan come: «Solo la vita dei bianchi è protetta negli Usa», «Non c’è pace senza giustizia». Ora c’è il timore che la rabbia degeneri in reazioni violente. Uno degli avvocati di Zimmerman lo ha detto espressamente subito dopo la lettura della sentenza di assoluzione, che il suo cliente ha ascoltato impassibile, mentre i genitori si abbracciavano e la moglie scoppiava in lacrime: «George dovrà essere molto prudente e attento a proteggersi perché c’è una frangia che ha già promesso vendetta». Di questa frangia non fa sicuramente parte il padre della vittima, Tracy Martin, che non era in aula per l’ultima e decisiva udienza. «Anche se il mio cuore è spezzato ha detto la mia fede rimane intatta. Amerò sempre il mio piccolo Trayvon. Anche se è morto, so che lui è orgoglioso della lotta che tutti noi siamo portando avanti per lui». La famiglia, dice l’avvocato di parte civile Benjamin Crump, è incredula sull’esito del processo e non esclude di avviare un’azione civile nei confronti di Zimmerman. «Hanno un profondo desiderio di ottenere giustizia, affinché la morte del figlio non sia vana». Il mondo politico si divide secondo il grado di sensibilità ai temi dell’equità sociale. Il deputato repubblicano, Steve King lamenta presunte interferenze governative «per trasformare una vicenda giudiziaria in un caso politico». Ne ha anche per i media, che a suo avviso hanno inventato i risvolti razziali della vicenda. Viceversa il suo collega democratico, Raul Grijalva esprime sostegno all’iniziativa dello Naacp per un’inchiesta del ministero della Giustizia. Un altro parlamentare del partito di Obama, Chaka Fattah, teme che la sentenza suoni come un incoraggiamento a comportamenti sbagliati per chi si trovi in futuro al posto di Zimmerman in circostanze analoghe. Una sorta di implicita promessa di impunità, «un cattivo segnale». Dal reverendo Jesse Jackson arriva l’invito a manifestare pacificamente. «Ci saranno proteste, ma anche per richiesta della famiglia devono svolgersi con dignità e disciplina, evitando azioni che possano screditare il lascito morale di Trayvon».
Repubblica 15.7.13
I punti di attrito
Tutti i nemici di Francesco così i vecchi padroni della curia resistono alla grande riforma
Burocrati, potentati e conservatori: il partito degli scontenti
di Paolo Rodari
CITTÀ DEL VATICANO DOPO ogni conclave è fisiologico un lasso di tempo nel quale la curia romana è chiamata a prendere le misure con il nuovo eletto al soglio di Pietro. Questi propone e impone nuovi stili, e adeguarsi non è semplice.
UN PO’ come avvenne dopo la morte di Pio XII, il Papa che — parole che gli sono state attribuite — «non voleva collaboratori ma esecutori». Allora i familiari della corte pontificia si videro interdetti persino l’ingresso in Vaticano. A conti fatti, si tratta del medesimo smarrimento che ha colpito alcuni filoni della curia romana dopo l’11 febbario, il giorno della rinuncia di Benedetto XVI. «Non è facile — ha detto recentemente non a caso Francesco all’amico giornalista Jorge Milia — qui ci sono molti “padroni” del Papa e con molta anzianità di servizio».
La curia ogni giorno deve fare i conti con la “novità Francesco”. Con lui, infatti, è sempre un nuovo inizio. Sono anzitutto le messe a Santa Marta di prima mattina a destabilizzare la routine di una corte secolare, soprattutto dei sui rami più conservatori e tradizionalisti. È qui che il Papa dice a braccio ciò che pensa, spesso riferendosi proprio alla vita interna del Vaticano. Ma le parole non vengono fuori dal nulla. Bensì da più di un’ora di dialogo silenzioso e riservato con Dio.
Nessuno può intromettersi in questo dialogo. Nessuno può dettare al Papa le parole che Dio gli suggerisce. La parola divina è spada e non risponde a logiche politiche o di potere. E, di conseguenza, sempre più spesso ciò che dice Francesco diventa una lama conficcata nella carne viva di una curia abituata ad agi e privilegi. Dopo ogni omelia spetta all’Osservatore Romano e alla Radio Vaticana farne un resoconto. Ma le difficoltà sono evidenti. Ad esempio, l’esplicito accenno allo Ior che Francesco ha fatto nella sua omelia del 24 aprile — «Lo Ior è necessario ma fino a un certo punto», aveva detto — il quotidiano vaticano non lo ha riportato.
Non è facile per gli “officiali” tenere il passo di Francesco. Anche perché sullo sfondo incombe la volontà di pulizia, di riforma. Si dice che in seguito a Vatileaks presto vi saranno rami secchi, uomini da cambiare, strutture da chiudere. Anche se molto, a onor del vero, già sta avvenendo,con gli scossoni che hanno travolto i vertici dello Ior (costringendo alle dimissioni il direttore generale e il suo vice) e che promettono nelle prossime settimane d’investire anche gli altri dicasteri con competenze finanziarie.
Certo, non si può generalizzare. Oltre il Tevere, sono in molti a invitare alla prudenza. Come Hegel parlò della «notte in cui tutte le vacche sono nere» per significare una speculazione incapace di cogliere la complessità del reale, allo stesso modo si deve ricordare che seppure la curia nella buia notte che sta seguendo i mesi di Vatileaks e la clamorosa rinuncia di Ratzinger, sembri tutta uguale, non è così. Non tutti tremano, insomma, in attesa della grande rivoluzione d’ottobre. Soltanto alcuni.
Questi stanno in silenzio, quasi non respirano. Trattengono il fiato in attesa cheFrancesco decida di loro. Già, perché la “Relatio” su Vatileaks redatta dai cardinali Julián Herranz, Josef Tomko e Salvatore De Giorgi sembra che proprio di loro parli. Non di altri. Chi sono esattamente? Difficile rispondere. La “Relatio” è top secret. E anche Francesco su di essa mantiene il riserbo. Seppure, a volte, picchi duro: «In Vaticano — ha detto un mese fa — esiste una lobby gay». Egli, insomma, conosce chi ha remato contro, sa nomi e cognomi e dice che fanno parte di una lobby, persone accomunate dalla medesima tendenza sessuale. Uomini capaci, evidentemente, di ricattare chi è cascato nella loro trappola.
La lobby ha usato il Vaticano per fare carriera, e anche per ostacolare le carriere altrui. Tanti i casi illustri. Anche recenti. Difficile enumerarli tutti. Su cardinali in procinto di arrivare in importanti incarichi venne fatta girare la voce che nei loro Paesi d’origine avevano coperto casi di pedofilia. Altri vennero fermati nel nome di una loro presunta linea teologica troppo “progressista” e tendente a negare addirittura la risurrezione di Cristo: «Nega che la risurrezione di Cristo è un fatto storico », dissero ad esempio del cardinale Gianfranco Ravasi. Il quale però, stimato da Ratzinger, ha avuto il posto che la sua statura merita. Su una presunta e inesi-stente grave malattia puntarono invece quando presidente della Conferenza episcopale italiana dopo Camillo Ruini poteva diventare Angelo Scola. E ancora, per anni, il cardinale Walter Kasper dovette subire le arringhe di chi vedeva nelle sue aperture ecumeniche un tradimento del primato petrino. E come lui tanti altri.
Ratzinger sapeva? Probabilmente sì. E quando si è accorto che la misura era colma, ha deciso di rinunciare al pontificato mettere così in campo l’azione di governo più potente del suo ministero. La maggior parte dei cardinali elettori ha capito che occorreva seguirlo, e dunque reagire, e chiamare al soglio di Pietro un cardinale proveniente da un Paese «ai confini del mondo», e chiedere a lui di assestare il colpo definitivo a una lobby che ha fatto il bello e cattivo tempo anche gestendo a piacere i canali finanziari vaticani.
Francesco ha spiazzato tutti istituendo una Commissione di cardinali esterna alla curia, con la sola eccezione del curiale (ma di formazione diplomatica) Giuseppe Bertello, con compiti di riforma e di governo. Si dice che questi otto prelati fossero amici da tempo. Un’amicizia accomunata dalla volontà di salvare Roma, il centro della cristianità, dalle grinfie di pochi corrotti e arrivisti. Con loro altri amici fidati: l’arciprete di santa Maria Maggiore Santos Abril y Castello e l’emerito della Congregazione del Clero Claudio Hummes.
Francesco ritiene che redenzione epentimento siano possibili per tutti. Per questo è azzardato fare previsioni su quali curiali verranno spostati, dimessi, pensionati. Può anche darsi che qualcuno della lobby resti al suo posto, nel nome di una volontà di espiazione e di pentimento reale. Ciò che conta è altro. È il fatto che la lobby non possa più operare e agire come gruppo, come enclave dalla volontà distruttiva. L’istituzione della Commissione degli otto ha in qualche misura svuotato di senso molte delle stanze della vecchia curia. E in futuro lo svuotamento potrà essere maggiore, come confermano le parole che nei giorni scorsi il capo della Commissione, Oscar Rodrìguez Maradiaga, ha detto alla rivista Il Regno: «Serve maggiore collegialità».
Francesco ha affrontato il nocciolo malato della curia da lontano, anche disertando i luoghi in cui esso era solito incontrarsi e alimentare il proprio potere. Insomma, di sedie vuote come quella per il concerto nell’Aula Paolo VI, Francesco ne ha lasciate tante. Gli strappi sono continui. E colpiscono al cuore i gruppi più conservatori d’Oltretevere. A coloro che per anni nell’era Ratzinger hanno spinto per portare agli onori degli altari insieme a Karol Wojtyla anche Pio XII, l’ultimo papa preconciliare, egli ha risposto canonizzando Giovanni XXIII derogando al miracolo secondo la formula “ex certa scientia”.
Certo, non è escluso che la causa di Pio XII sotto Francesco non possa subire comunque un’accelerazione. Ma non ora. Prima c’è da far respirare il Concilio in sé. «Perché lei parla poco del Concilio?», hanno chiesto recentemente al Papa. E lui: «Citarlo è inutile. Lo addita ai suoi nemici. Il Concilio basta farlo». Bergoglio non ha seguito lo schema applicato da Wojtyla nel 2000 quando, per placare le polemiche seguite all’annuncio dellabeatificazione di Pio IX, l’ultimo papa re, beatificò con lui Roncalli. Piuttosto ha deciso di derogare all’obbligo del secondo miracolo per marcare ancora più nettamente la propria paternità nella canonizzazione di Giovanni XXIII. Un modo per dire: «Questa è la figura alla quale mi ispiro ». E, insieme, un modo per ricordare che il problema non è l’ermeneutica del Concilio, ma l’attuazione completa delle sue costituzioni.
La lontananza dai circoli tradizionalisti trova svariate conferme, inclusa la clamorosa decisione di non nominare più nuovi gentiluomini di Sua Santità e di alleggerire il cerimoniale in occasione delle visite dei capi di Stato. Compreso il “consiglio” al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano di non indossare il frac d’ordinanza in segno di vicinanza al nuovo stile contrario alla pompa pontificia.
Un certo smarrimento è anche fuori le mura leonine, ad esempio in quella Conferenza episcopale italiana che la sera dell’elezione si complimentò «per l’elezione di Angelo Scola». Insomma, ce ne sarebbe abbastanza per richiudere le finestre dei palazzi della nobiltà nera come accaddedopo Porta Pia. Nel 1870, in segno di lutto, le residenze degli aristocratici papalini furono sbarrate per testimoniare l’estraneità alla nuova epoca che si apriva. Parimenti oggi, in quei salotti, al solo sentire nominare il nuovo pontefice c’è chi s’irrigidisce per un nuovo corso giudicato eccessivamente “popolare”. Ma Francesco, come Roncalli, pur provenendo da una comune radice conservatrice, si sta smarcando da appartenenze e “abbracci” che rischiano di limitarne la forza innovatrice.
La Stampa 15.7.13
Guerra in Afghanistan
Tra i soldati britannici più suicidi che uccisi
Almeno 50 i militari suicidati
Almeno 50 militari britannici reduci o combattenti nella guerra in Afghanistan si sono suicidati nel 2012, superando in numero il bilancio dei soldati di Sua maestà morti in combattimento l’anno scorso nel teatro afghano, che è di 44. Lo rivela l’agenzia afghana Pajwhok, citando alcuni quotidiani britannici.
Almeno otto, secondo i media, si sono tolti la vita sul fronte, mentre gli altri 42 hanno commesso il suicidio in caserme e strutture della difesa britannica, 23 dei quali in Gran Bretagna. Il Ministero della Difesa di Londra nega l’esistenza di un legame fra le operazioni militari in Iraq e Afghanistan e i suicidi: «Nell’insieme i tassi di suicidio sono più bassi nelle forze armate che nella popolazione civile», ha dichiarato un portavoce.
Repubblica 15.7.13
Viaggio nella “Collum coal mine”, simbolo degli investimenti cinesi nel Paese I minatori denunciano il saccheggio delle loro terre. E si ribellano a Pechino
Zambia, la trincea d’Africa della guerra al Dragone
di Rosalba Castelletti
LUSAKA Lo “Shaft 3” della Collum è una fossa ripida e stretta, scavata sotto un tetto di lamiera: da qui al ventre della Terra sono più di mille passi. L’unico bagliore che s’intravede dal pertugio proviene dalla lampada di un minatore, che sta risalendo l’intestino bollente di questa miniera di carbone a 325 chilometri da Lusaka. Da quando nel 2003 Xu Jianxue, un uomo d’affari del Sud Est della Cina, ne ha preso il controllo, la Collum Coal Mine è diventata la prima linea di un’aspra battaglia che oppone i lavoratori dello Zambia agli abusi degli imprenditori cinesi. Proprio davanti a questo varco, le tensioni latenti nel Paese hanno raggiunto un punto di rottura. È successo tre anni fa: assiepati attorno alla cancellata, i lavoratori chiedevano salari adeguati. Due supervisori cinesi aprirono il fuoco contro i manifestanti. «C’è chi, sotto la cicatrice, ha ancora in corpo il proiettile, eppure le incriminazioni contro i due responsabili sono state rimosse », racconta Leonard Kwapizi, padre del più giovane fra gli 11 feriti. L’anno scorso, l’amara rivalsa: durante una nuova protesta in un pozzo vicino, lo “Shaft 5”, un minatore spinge un vagoncino carico di carbone contro i dirigenti cinesi. Uno muore, altri due restano feriti.
Come in molte altre nazioni africane, i cinesi sono un’importante presenza economica in questo Stato dell’Africa centromeridionale sin da quando, tra il 1970 e il 1975, questi costruirono la ferrovia che collegò il Paese, privo di sbocchi sul mare, alla città portuale di Dar es Salaam in Tanzania. Oggi lo Zambia è terzo al mondo per investimenti da Pechino: oltre due miliardi di dollari, per l’89 per cento concentrati nel settore minerario. I 50mila posti di lavoro creati sono una manna in una nazione di quasi 13 milioni di abitanti dove l’80 per cento non ha un impiego. Però i frequenti incidenti, le paghe sotto il minimo salariale nazionale e la costante violazione dei diritti della manodopera hanno convinto gli zambiani a vedere i cinesi non come benefattori, bensì come nuovi “dominatori”, più intenti a saccheggiare che a promuovere la loro patria. «Abbiamo un disperato bisogno di lavoro, è vero», inveisce un minatore. «Ciò non vuol dire che possono sfruttarci come schiavi». La rabbia contro il Dragone ha determinato l’esito delle presidenziali due anni fa. A vincerle è stato il presidente del Fronte patriottico Michael Sata: in campagna elettorale aveva equiparato illavoro nelle miniere controllate da Pechino allo schiavismo, e minacciato di deportare gli investitori che ignoravano le norme locali, guadagnandosi il soprannome di “Re Cobra” per le sue taglienti invettive. Conquistato il potere, però, il “Cobra” ha affidato ai cinesi la costruzione di strade e ferrovie, e ha incontrato il presidente Xi Jinping a Pechino in aprile.
«Il presidente Sata ha portato avanti una campagna populista per proteggere i lavoratori, perciò la mancanza di progressi significativi nel settore minerario è deludente », commenta DanielBekele, direttore della divisione africana di Human Rights Watch. L’associazione nel 2011 ha diffuso un rapporto sulle miniere della provincia di Copperbelt — letteralmente “cintura del rame”. Qui giacciono le riserve che fanno dello Zambia il terzo produttore al mondo di rame, e il primo in Africa. Benché quelle risorse contribuiscano al 75 per cento delle esportazioni nazionali e sino ai due terzi delle entrate governative, la popolazione non ne vede i benefici. Colpa del sistema fiscale, che permette alle multinazionali di non pagare tasse in Zambia. E della privatizzazione delle industrie minerarie imposta negli Anni ‘90 dalla Banca mondiale e dal Fondo monetario internazionale in cambio della parziale cancellazione del debito.
Ora quasi tutte le miniere di rame sono in mano a compagnie cinesi sussidiarie della “Non-ferrous metals mining corporation” (Cnmc), un’impresa sotto l’autorità del governo di Pechino. A Chambishi è ancora vivo il ricordo della tragedia di Bgrimm: il 20 aprile 2005 un’esplosione nella fabbrica di dinamite di proprietà della cinese Nfc provocò la morte di 52 zambiani. Anni dopo, ha accertato Human Rights Watch, i pericoli restano. I dipendenti lavorano per 12 o persino 18 ore consecutive senza elmetti di protezione, e la ventilazione nei tunnel sotterranei è insufficiente. «Respiriamo agenti chimici», racconta un dipendente della Sino Metals. «Se ti trovi in un punto pericoloso, ti dicono di continuare a lavorare. Pensano solo alla produzione, non alla sicurezza. Se qualcuno muore, potrà essere rimpiazzato l’indomani. Se denunci un problema, vieni licenziato ».
Recriminazioni a cui, in un delicato esercizio di equilibrismo, il governo di Lusaka, pur bisognoso di investimenti stranieri, cerca di dare risposta. Lo scorso febbraio, raccogliendo il malumore dei lavoratori per i frequenti incidenti alla Collum, ha revocato le licenze a Jianxue. A rilevarle sarà un’azienda sussidiaria della compagnia mineraria statale (Zccm-Ih) le cui priorità, assicura Richwell Siamunene, vice ministro per il Commercio e l’Industria, saranno «la sicurezza e la salute dei dipendenti ». Questo precedente fa sperare ai lavoratori locali che “Lo Zambia agli zambiani”, gridato più volte dal presidente Sata durante i comizi due anni fa, non resti un vuoto slogan elettorale.
Corriere 15.7.13
Israele
La sfida di Aliza la religiosa contro gli ultraortodossi
Nella città dei marciapiedi «separati» per le donne
di Davide Frattini
BEIT SHEMESH (Israele) — Il cartello davanti alla sinagoga ordina alle donne: «Non camminate su questo marciapiede». Dall’altra parte della strada una mamma spinge la carrozzina, la gonna lunga a coprire le gambe, il cappello per nascondere i capelli. A pochi metri un manifesto avverte in lettere cupe da annuncio mortuario: «Internet è la porta dell’inferno».
Beit Shemesh sta a una ventina di chilometri da Gerusalemme, tra le colline pietrose dove sessantacinque anni fa l’appena nato Stato israeliano ha combattuto la sua prima guerra contro i Paesi arabi. Oggi sono diventate la prima linea della battaglia tra laici e ultraortodossi. La città ha raggiunto gli 80 mila abitanti, quasi la metà religiosi oltranzisti che provano a imporre le loro regole a tutti quanti: alle ragazze che passeggiano con abiti considerati inappropriati, agli uomini che guidano di sabato, ai ragazzi che ascoltano la musica dalle autoradio.
Il sindaco Moshe Abutbul è del partito religioso Shas, non ha mai investito per aprire un cinema o un teatro, era disposto a chiudere una elementare per bambine perché infastidiva gli haredim. A ottobre si vota per il municipio e la metà laica o religiosa ma non intollerante si è coalizzata per mandarlo a casa. Ha scelto come leader una donna: Aliza Bloch, praticante e devota, 46 anni e quattro figli, ha fondato e dirige una scuola media. «Dove i 1.300 ragazzi e ragazze stanno insieme, senza differenze, senza imposizioni su come si devono vestire, chiediamo solo che indossino una polo bianca, nera o blu».
Per lei la campagna elettorale è cominciata due settimane fa, quando ha accettato la proposta di Focolare ebraico, il partito nazionalista religioso che con Naftali Bennett è arrivato al governo. Anche a Beit Shemesh l’alleanza è con Yesh Atid (C’è un futuro) di Yair Lapid e con il Likud. I laburisti pur di sconfiggere quella che chiamano l’«invasione» sono pronti a sostenere la candidata di centrodestra.
Nell’ufficio di Aliza sta appesa la mappa con i quartieri che seguono una linea di confine invisibile, la stessa che per le strade prende il colore nero dei pastrani indossati dagli ultraortodossi. La coalizione considera le prossime elezioni come l’ultima occasione, uno dei consiglieri indica sulla cartina il verde di una collina: «I permessi sono già stati dati dal sindaco, vogliono costruire un’altra zona a totalità ultraortodossa, a quel punto l’equilibrio demografico salterebbe, perché con i nuovi arrivi diventerebbero la maggioranza in città».
Aliza indossa un cappello (è previsto per le donne sposate) e un completo color crema come le scarpe dal tacco basso. È convinta di poter realizzare quel che promette il suo slogan («Tutti insieme, uniti per il cambiamento») e di poter favorire la coesistenza. «In mezzo alla comunità “nera” esistono colori differenti, uomini che vogliono lavorare e non solo studiare la Torah, guide spirituali aperte al dialogo».
A Beit Shemesh vive anche il rabbino Dov Lipman, eletto in gennaio alla Knesset con Yesh Atid. È stato tra i protagonisti della battaglia di due anni fa, quando gli estremisti hanno tentato di impedire l’apertura di una scuola elementare per bambine: l’istituto è religioso e sionista, all’ingresso è issata la bandiera israeliana. Un simbolo inaccettabile per leader oltranzisti come Meir Heller, che aveva minacciato Lipman: «Non sventolerà mai davanti a casa mia».
Per mesi le piccole sono state perseguitate sulla via di scuola, sputi e insulti, calci ai poliziotti che le scortavano. Fino a quando quegli occhi terrorizzati e pieni di lacrime sono finiti in televisione: la loro sfida e quella delle loro madri è diventata la sfida di tutte le israeliane, Beit Shemesh è diventato un caso nazionale. «La questione — ha spiegato Lipman al quotidiano Haaretz — non è mai stata la decenza o come le bambine erano vestite. Era la scusa per il controllo del territorio, per dimostrare chi comandava e imporre i propri rituali a tutti». Aliza che santifica lo shabbat vuol farsi eleggere perché altri siano liberi di non imitarla.
Repubblica 15.7.13
Siria
Il Nyt: “Il porto di Latakia bombardato da aerei israeliani”
WASHINGTON — Israele il 5 luglio ha condotto attacchi aerei contro i missili antinave forniti dalla Russia, colpendo un deposito vicino al porto di Latakia, in Siria. La notizia data dal New York Times, secondo il quale l’azione è stata fatta in stretto coordinamento con Washington, viene riportata anche dalSunday Times, che però attribuisce l’attacco a un sottomarino, sempre israeliano, e non a degli aerei. Israele non conferma.
Lo scorso 5 luglio una catena di esplosioni ha devastato dei magazzini militari a Latakia, colpendo i missili Yakhont P-800 di produzione russa. Se confermato, questo sarebbe il quarto attacco aereo israeliano di cui si ha notizia, secondo ilNew York Times.
IL CAIRO — Il riformista Mohammed El Baradei ha giurato come vice presidente ad interim dell’Egitto, nelle mani del presidente ad interim Adly Mansour, l’uomo succeduto a Mohammed Morsi dopo che era stato deposto dall’esercito meno di due settimane fa. Nelle stesse ore, la procura del Cairo ha deciso di congelare i beni di 14 alti dirigenti della Fratellanza, inclusa la Guida generale Mohammed Badia.
Da ieri sera è al Cairo il sottosegretario di Stato Usa Bill Burns, veterano del Medio Oriente e vice di John Kerry, per colloqui con gli attuali leader. Visita che, come ha spiegato il Dipartimento di Stato, «sottolinea il sostegno degli Stati Uniti al popolo egiziano».
Corriere 15.7.13
I movimenti pacifisti non sono sempre pacifici
risponde Sergio Romano
Sono indignato dal fatto che i «pacifisti» si agitino quasi esclusivamente quando si tratta di episodi che riguardano Israele. Viceversa, silenzio assoluto quando si tratta di episodi estremamente più efferati in cui Israele non è coinvolta. Trovo inaccettabile che questi signori scendano in piazza e scrivano frasi virulente contro Israele per l'episodio della nave Mavi Marmara che causò purtroppo la morte di 9 attivisti, mentre nessuna manifestazione di sdegno si dispieghi per episodi infinitamente più cruenti: vogliamo parlare degli 80.000 uomini, donne e bambini massacrati in Siria? Così come nessun sdegno di fronte all'assassinio di un prete copto davanti alla sua chiesa in Egitto. E omertà assoluta di fronte al massacro di 42 studenti cristiani in Nigeria. E si potrebbe citare un'infinità di altri tristi casi simili: stragi in Iraq, lapidazioni in Iran, ecc. Agli occhi di qualsiasi osservatore imparziale risulta evidente che Israele è oggetto di una odiosa discriminazione. Mi sembrerebbe lecito che le persone o i «movimenti» venissero definiti dai media con una definizione appropriata: nel caso specifico non ipocritamente «pacifisti», ma semplicemente «anti-israeliani (e di conseguenza antisemiti).
Franco Cohen
Caro Cohen,
Il pacifismo di massa risale agli anni Trenta del secolo scorso ed è il risultato dell'impatto della Grande guerra sulle generazioni successive. Film come «All'ovest niente di nuovo», dal romanzo di Erich Maria Remarque, «Westfront 1918» di G. W. Pabst e «La Grande illusione» di Jean Renoir contribuirono, soprattutto nelle grandi democrazie, alla nascita di una pubblica opinione che rifiutava la guerra come mezzo per la risoluzione delle controversie internazionali. Uomini come il francese Aristide Briand e il tedesco Gustav Stresemann (entrambi insigniti del Premio Nobel per la pace nel 1926) ebbero il merito di costruire progetti politici che cercavano di realizzare quegli obiettivi. Sin dagli inizi fu chiaro, tuttavia, che nel pacifismo di massa vi era una componente ideologica. Chi manifestava contro la guerra ne attribuiva la responsabilità alla classe dirigente degli Stati borghesi, capitalisti, autoritari o pseudo-democratici. Il fenomeno divenne ancora più evidente all'epoca dell'aggressione italiana contro l'Etiopia e della guerra civile spagnola. Non furono pochi i pacifisti che corsero ad arruolarsi nelle Brigate internazionali per combattere contro i franchisti.
Più tardi, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, i pacifisti trovarono una nuova motivazione ideale nella campagna antinucleare. Ma di lì a poco ci accorgemmo che i loro appelli e manifesti erano firmati da intellettuali comunisti o filosovietici e che Mosca stava facendo del suo meglio per favorire le loro agitazioni. Di fatto, quindi, erano semplicemente contrari alla bomba atomica americana in un momento in cui l'Unione Sovietica non era ancora riuscita a dotarsi della stessa arma.
Il fenomeno si ripetè in altre forme e circostanze quando l'Urss, verso la fine degli anni Settanta, cominciò a stanziare nuovi missili nucleari nei suoi territori occidentali. La Nato annunciò che avrebbe fatto altrettanto in cinque Paesi dell'Alleanza e il pacifismo europeo scese in piazza per manifestare, anche violentemente. Ma l'obiettivo della sua indignazione erano i missili della Nato, non quelli dell'Urss.
Dietro il pacifismo, quindi, vi è molto spesso un pregiudizio politico, un partito preso, una lealtà ideologica. Non è escluso quindi che dietro certe manifestazioni contro la politica israeliana nei territori occupati vi sia una ostilità preconcetta contro lo Stato d'Israele. Ma la tesi secondo cui ogni critica indirizzata a Israele sarebbe una manifestazione di antisemitismo mi sembra, nel dialogo fra punti di vista diversi, un'arma impropria, quasi un tentativo di chiudere la bocca a qualsiasi interlocutore critico. Non dimentichi che anche nel mondo ebraico il sionismo suscitò una forte opposizione e che gli ebrei critici di Israele sono ancora oggi numerosi.
Corriere 15.7.13
Le illusioni svelate dal grande Furet
di Pierluigi Battista
Nell'anniversario della presa della Bastiglia che incendiò la Francia del 1789, è giusto ricordare, come ha fatto Marina Valensise sul Foglio, la figura dello storico François Furet, scomparso proprio sedici anni fa. La sua «critica della Rivoluzione francese», nel cuore degli anni Ottanta, fu uno straordinario gesto di libertà intellettuale e di rivisitazione non apologetica della mitologia giacobina che oggi, in tempi di sventurata riabilitazione della «democrazia totalitaria» di stampo roussoiano, appare una salutare medicina culturale. E la demolizione dell'impostura comunista, realizzata con uno dei libri più belli degli ultimi decenni, Il passato di un'illusione, è la dimostrazione di come si possa rileggere un pezzo della storia senza occhi indulgenti, auto-assolutori, nostalgicamente giustificazionisti.
La litania autocelebrativa dello «sbagliavamo, ma eravamo i più buoni», «prendemmo cantonate ma rappresentavamo comunque la meglio gioventù» venne sbriciolata dalla lucida analisi di Furet, uno storico delle idee e dei sentimenti potenti che animano le vicende umane. Furet costringeva chi, come se stesso anche oltre il '56, era stato comunista e aveva creduto a quella macchina utopistica responsabile dell'oppressione e della morte di milioni di esseri umani a guardare dentro anche alla parte più «bella» di se stesso. Le ideologie totalitarie, quella giacobina e quella comunista, promettono un futuro di giustizia e di armonia ma è proprio in questa promessa, spiegava Furet anche con una potenza letteraria rara in uno storico di professione, che si annida il pericolo di un progetto coercitivo che non si limita a voler cambiare la società, ma vuole cambiare l'anima e la natura umane sradicando il Male dal cuore dell'umanità. Il muro di Berlino, osservava Furet, è crollato miserevolmente scoprendo lo squallore delle società dell'Est europeo, ma quella «illusione», quella pulsione a schiacciare l'umanità in nome della sua futura redenzione, coprendosi di buone intenzioni e ammantandosi di un nobile linguaggio utopistico, si riaffaccia periodicamente nelle società dell'Occidente. Questo, purtroppo, è uno di quei periodi molto vulnerabili a quel richiamo.
Furet faceva parte di quegli intellettuali inclassificabili secondo lo schema consunto destra-sinistra. Era un liberale in cui il liberalismo aveva funzionato come antidoto culturale per uscire dai vecchi schemi. Considerato un «traditore» dalla sinistra più restia a fare i conti con se stessa, certo non poteva consegnarsi a una destra di cui non condivideva ideali e filosofa. Era, felicemente, un apolide della cultura, un eretico incapace di sottomettersi alle appartenenze convenzionali, e proprio per questo i custodi delle ortodossie non lo hanno mai amato, preferendogli altri storici del Novecento come Eric Hobsbawm che ha passato una vita ad adorare il feticcio sovietico. Ricordarlo, ogni tanto, servirebbe a riossigenare le nostre capacità critiche.
Repubblica 15.7.13
Il futuro dell’universo
Quei segreti del cosmo che nessuno capirà più
Complice l’energia oscura, le altre galassie si allontanano: non potremo studiare lo spazio come oggi
Rimarremo soli come in un guscio di noce E gli astronomi rinunceranno a sentirsi come Amleto
di John D. Barrow
La nostra collocazione nell’Universo, sopra un pianeta roccioso con tanti pianeti vicini che orbitano tutti intorno a una stella dalle caratteristiche standard, è stata utile sotto diversi aspetti per aiutarci a comprendere l’universo che ci circonda. Il nostro sistema solare contiene numerosi pianeti e per secoli gli astronomi si sono arrovellati per comprendere il loro moto. Se fossimo stati l’unico pianeta a orbitare intorno al Sole, il nostro movimento sarebbe stato estremamente semplice. Grazie agli studi del sistema solare condotti da Keplero, Copernico, Galileo e Newton, è stato possibile dedurre le prime leggi universali della dinamica e della gravitazione. Anche quando, nel 1915, arrivò la teoria della relatività di Einstein a estendere queste leggi, si riteneva che le differenze osservabili fra la descrizione di Newton e quella di Einstein fossero molto piccole, di poche parti su centomila. Fortunatamente, il sistema solare conteneva un piccolo pianeta interno, Mercurio, che con la sua orbita stretta e vacillante consentiva di testare le previsioni di Einstein. L’altra cosa nuova che predisse Einstein — la deflessione dei raggi luminosi provenienti da stelle lontane nel loro passaggio vicino al Sole, prima di arrivare ai nostri telescopi — poteva essere osservata solo durante un’eclissi totale di Sole. Il fenomeno dell’eclissi si verifica a causa di una coincidenza stretta fra le dimensioni apparenti del Sole e della Luna nel cielo. In nessun’altra parte del sistema solare il cielo offre uno spettacolo così prolungato.
Ci sono molte altre caratteristiche locali specifiche che hanno guidato il nostro sviluppo scientifico in determinate direzioni. Per la maggior parte del tempo, i nostri cieli sono relativamente sgombri di nubi, e questo ci consente di osservare il cielo astronomico. Se il tempo fosse perennemente nuvoloso non saremmo stati in grado di compiere le osservazioni dei moti dei pianeti e delle stelle che ci hanno consentito di comprendere la gravità e l’universo astronomico; forse avremmo dedicato più attenzione allo studio della meteorologia. I minerali magnetici presenti nelle rocce hanno facilitato la nostra comprensione del magnetismo e dell’elettricità, e i materiali radioattivi vicini alla superficie hanno condotto alla fisica atomica e nucleare.
Nel corso dell’ultimo decennio abbiamo costruito gradualmente un’immagine dell’universo in espansione, dove circa il 68 per cento del suo contenuto assume la forma di un’“energia oscura” che accelera questa espansione. Il resto sembra consistere per il 27 per cento di qualche forma di materia oscura simile a neutrini, di cui speriamo di riuscire a scoprire presto la natura grazie agli esperimenti in corso nel Cern, e solo il 5 per cento assume le forme ordinarie di materia di cui noi e le stelle siamo composti.
Il ruolo dominante giocato da questa sfuggente energia oscura ci induce a prevedere un futuro particolare per chiunque cerchi di comprendere l’universo. A causa dell’espansione nel tempo a velocità esponenziale determinata da questa energia, quando l’universo sarà circa sette volte più vecchio di com’è adesso lo studio del medesimo di fatto terminerà. Raggiungeremo un limite assoluto alla distanza a cui saremo in grado di guardare: sarà come vivere dentro un grande buco nero. Tutto nel cielo apparirà sempre più rosso, finché non saremo più capaci di individuare altri fotoni emessi da galassie sempre più lontane. Quando tutte queste altre galassie avranno oltrepassato il nostro limite di visibilità, ci aspetterà un futuro in cui tutto quello che potremo fare sarà osservare la Via Lattea e i suoi vicini più prossimi, avvinti a essa dalla gravità. Gli astronomi non saranno più in grado di vedere l’espansione dell’universo o la presenza di altre galassie oltre alla Via Lattea e alla sua manciata di vicini prossimi. Non vedranno il cielo pieno di galassie e ammassi stellari che vediamo oggi, e non saranno in grado di usare queste galassie e questi ammassi per capire com’era l’universo in un lontanissimo passato. Il loro piccolo universo non sarà in espansione. E purtroppo non saranno nemmeno in grado di capire perché, dato che gli effetti dell’energia oscura nella piccola fetta di universo che rimarrà visibile saranno troppo limitati per essere individuabili, nonostante sia la forma di materia dominante: noi l’abbiamo scoperta solo perché i suoi effetti aumentano man mano che spingiamo più in là lo sguardo, e li vediamo sulle scale astronomiche più grandi.
Notizia ancora più triste per i cosmologi del futuro, le radiazioni termiche dei bollenti inizi dell’universo, di cui il satellite Planck recentemente ha tracciato una mappa dettagliata, non saranno più visibili dalla Terra. I cosmologi non saranno più in grado di studiarle quando l’universo avrà appena 50 volte circa l’età che ha oggi, perché le radiazioni non potranno penetrare il plasma che occupa lo spazio tra le stelle della nostra galassia. In ogni caso, l’espansione dell’universo avrà allungato la loro lunghezza d’onda e ridotto la loro intensità a un punto tale da renderle inosservabili in quanto radiazioni termiche.
Il nostro Sole si sarà espanso e avrà inghiottito i pianeti più interni del sistema solare quando subirà una crisi energetica, fra circa 5,5 miliardi di anni. Se i nostri discendenti riusciranno a sopravvivere a questo cataclisma, o si saranno trasferiti in massa altrove prima che arrivi, potranno portarsi dietro una conoscenza dell’universo che non sarà più accessibile a esseri intelligenti dell’universo che non possono contare su una storia altrettanto lunga. Viviamo in un’epoca della storia cosmica che apparentemente ci offre le chance migliori per comprendere la storia, l’espansione e la maestosa struttura dell’universo. L’universo a disposizione degli astronomi del lontano futuro sarà un universo impoverito. Non potranno vendere la grandiosità dell’espansione, l’eco delle radiazioni del calore iniziale o la parata di ammassi stellari dispiegati nel cielo. Chiusi in un guscio di noce, non potranno più considerarsi, come Amleto, re dello spazio infinito.
John D. Barrow è professore di scienze matematiche all’Università di Cambridge e autore de “Il Libro degli Universi” (Mondadori) (Traduzione di Fabio Galimberti)
Repubblica 15.7.13
Partigiani a Paraloup
Così rivive il borgo da cui pertì la resistenza
Il 20 luglio sarà festeggiato il restauro del villaggio dove il gruppo “Italia libera” avviò la lotta a fascisti e nazisti
In una delle baite Duccio Galimberti scrisse un testamento con il quale lasciava i suoi averi ai compagni
Dopo la guerra quelle case furono abbandonate. Ora ospiteranno rifugi, sale per mostre e anche un ristorante
di Massimo Novelli
Il 26 luglio del 1943, poche ore dopo la caduta del fascismo e il discorso alla radio di Pietro Badoglio, l’avvocato Tancredi Galimberti, da tutti chiamato Duccio, parlò alla folla che si era radunata davanti al terrazzo della sua casa di Cuneo, in piazza Vittorio. Badoglio aveva detto che la guerra continuava e che l’Italia sarebbe restata alleata dei tedeschi. Rifacendosi al discorso del nuovo capo del governo, Galimberti, da tempo attivo nel movimento antifascista, affermò invece che «la guerra continua fino alla cacciata dell’ultimo tedesco, fino alla scomparsa dell’ultima vestigia del regime fascista». Queste parole possono essere considerate l’atto fondante della Resistenza. All’indomani dell’armistizio dell’8 settembre, Duccio e altri amici, tra i quali Dante Livio Bianco, Dino Giacosa e Leo Scamuzzi, davano inizio alla lotta armata, raggiungendo le vallate cuneesi fra il Gesso e la Stura.
Qualche giorno più tardi, mentre i tedeschi bruciavano Boves, la banda partigiana detta 'Italia Libera' saliva alla borgata di Paraloup, a oltre 1300 metri di altitudine, sul crinale che separa la Valle Stura dalla Valle Grana. A loro si unì Nuto Revelli, reduce dal fronte russo, eun giorno vi giunse con gli sci Giorgio Bocca, come racconta nell’intervista inedita del 2009 al regista Teo De Luigi di cui pubblichiamo qualche brano, insieme ad altre carte: tra queste il testamento di Duccio.
I partigiani restarono nelle case di pietra di Paraloup, che a Nuto ricordavano le povere isbe della Russia, fino alla primavera del 1944. È verosimilmente in una di quelle baite che Galimberti scrisse il testamento, datato 20 novembre 1943. Il documento, poco noto, è conservato negli archivi della Fondazione Nuto Revelli di Cuneo; soltanto Antonino Repaci, il magistrato che istruì il processo ai fascisti che uccisero Duccio il 3 dicembre del 1944, ne aveva pubblicato una foto in un libro del 1971.
Dopo la guerra, Paraloup cadde nell’abbandono. Divenne un 'mondo dei vinti', quello descritto da Nuto Revelli. Se ne andarono gli ultimi montanari e pastori, costretti a emigrare dalla nuova Italia così come i loro padri erano stati costretti da Mussolini a morire sul Don, nei Balcani, in Africa. Adesso, proprio nei giorni in cui Cuneo e il suo Istituto storico della Resistenza intitolato a Dante Livio Bianco ricorderanno, la sera del 26 luglio, il discorso di Galimberti, anche Paralouprinasce grazie a Marco Revelli, il figlio di Nuto, e a sua moglie Antonella Tarpino, che hanno acquistato ciò che restava delle vecchie case. Con i loro progettisti, Daniele Regis, Valeria Cottino, Dario Castellino e Giovanni Barberis, il 20 luglio festeggeranno il restauro del secondo gruppo di baite. Insieme alle altre, già rimesse a posto, formano un piccolo villaggio con cui si vuole contribuire «a riportare vita nelle terre alte» della montagna povera, coniugando storia e cultura, economia e turismo non devastanti per il territorio. «Un villaggio della libertà', lo definisce Marco Revelli. Si traduce in rifugi con posti letto, sale per mostre, un ristorante di qualità (il menu, a prezzo economico, è stato ideato dagli studenti dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo), oltre a un archivio dedicato alle donne di questi posti, montanare e partigiane, e soprattutto al progetto, in cantiere, di riportare presto a Paraloup attività agricole e pastorizie. Dante Livio Bianco scrisse che «le montagne furono davvero la casa dei partigiani ». Consapevoli di ciò, Marco, Antonella e i loro collaboratori ne raccolgono memoria e ideali, guardando al futuro.
Repubblica 15.7.13
Un giorno decisi di fucilare un tedesco, ma oggi non so se lo rifarei
Era un maresciallo delle Ss. Nessuno voleva eseguire la condanna. E per questo l’ho fatto io
di Giorgio Bocca
Il testo è la trascrizione di un’intervista filmata a Giorgio Bocca curata da Teo De Luigi e realizzata nel 2009. L’intervista verrà pubblicata nel volume Resistenze. Quelli di Paraloup, a cura di Beatrice Verri e Lucio Monaco in uscita prossimamente presso le Edizioni Gruppo Abele.
La motivazione principale era salvarsi dall’arrivo dei tedeschi, che sicuramente sarebbero [venuti]. Erano già giunte le notizie che i tedeschi a Torino avevano arrestato soldati e che stavano disarmando l’esercito italiano. Dovevamo fuggire: e questo era il primo motivo. E poi la voglia di uscire dal fascismo e la voglia di libertà erano tutte cose allo stato fluido. Per noi non c’era una chiarezza politica e quindi era fondamentale la presenza di forze di Giustizia e Libertà, di persone come Duccio Galimberti, Dante Livio Bianco, Giorgio Agosti eccetera, che erano dei professori universitari, persone colte:erano già degli antifascisti coscienti.
Una delle cose fondamentali dell’inizio partigiano è che ha giocato molto l’amicizia: vanno in montagna quelli che sono amici in quel momento. Ad esempio in Valle Po, cosa stranissima, diventano i fondatori del movimento garibaldino con Barbato gli ufficiali di cavalleria di Pinerolo.
***
C’era giunta notizia che l’altro gruppo di Giellisti, che era salito con Dante Livio Bianco a Madonna del Colletto, si era trasferito a Paraloup. Noi pensammo che ciconveniva diminuire le distanze e andammo a cercare questo villaggio, i Damiani, che era già sul versante destro della Val Grana, da cui si poteva arrivare a piedi a Paraloup. Era arrivata una staffetta - noi le chiamavamo “staffette” - a cercare il contatto con noi. C’era già stato un rastrellamento ed eravamo rimasti in pochi nelle baite dei Damiani, che erano state incendiate tutte: arrivò la staffetta a dirci che a Paraloup c’erano dei partigiani. Pensai allora che mi sarei dovuto mettere io in contatto con loro. Eravamo rimasti tre o quattro ai Damiani: Detto e altri erano scesi in pianura a rifugiarsi perché non stavano bene e io, che ero lì solo, decisi di andare a vedere chi erano quelli di Paraloup. Sapevo la direzione e andai da solo, con gli sci in spalle perché aveva già nevicato, e trovai quelli di Paraloup che stavano facendo una torta di mele, me ne diedero una fetta e trovai questo gesto molto benaugurante. Non mi ricordo di Galimberti in quella zona, ma c’era Bianco e c’erano anche i fratelli Acchiardo di Dronero, che erano venuti a prendere collegamento anche loro: erano miei compagni nel corso alpini. In quel momen-to tutti si cercavano. Arrivato lì, gli ho riferito la nostra situazione, che era molto critica perché eravamo rimasti in quattro o cinque, e ci siamo accordati per vederci nei giorni seguenti. Alla sera ci fuuna nevicata fittissima e io ripartii coi miei scii e tornai ai Damiani. Io sono sciatore, ho fatto molte gare di sci e mi ricordo uno dei sogni tipici che fanno gli sciatori: di sciare su una neve bellissima edi fare tutte le curve che si vuole. Ebbene, quella sera lì, al chiaro di luna, era così: scendevo sulla neve fresca, facendo delle curve meravigliose, e sono arrivato benissimo ai Damiani, che erano di-stanti 4 o 5 km. *** Avevamo questo prigioniero tedesco, un maresciallo delle Ss, che era terrificante perché durante il periodo di prigionia stava sempre a torso nudo, d’inverno faceva il bagno nel ghiaccio, era un uomo fortissimo. Conosceva tutti i posti a disposizione delle nostre bande. A un certo punto viene un rastrellamento e io dico: «Questo qui non possiamo lasciarlo andare, perché va immediatamente a rivelare tutte le nostre posizioni, bisogna fucilarlo». L'ho detto ai miei comandanti di banda, che uno dopo l’altro sono venuti a dirmi: «Io non ce la faccio! ». Abbiamo persino tirato la pagliuzza per vedere a chi toccava e, visto che nessuno si decideva, l’ho fatto io. L’ho fatto io... e ancora adesso mi chiedo se ho fatto bene o se ho fatto male. Allora ero certo di aver fatto bene: per spiegare agli uomini che era una guerra spietata e che non si potevano avere pietà o pentimenti, bisognava che il comandante si assumesse le responsabilità. Ma adesso, dopo tanti anni, non so sefosse giusto o non giusto.
l’Unità 25.7.13
La bella politica che fa cultura
Visita alla Fondazione Basso insieme al direttore scientifico Marramao
di Stefania Miccolis
NON SI VEDE, È ACCANTO A PALAZZO GIUSTINIANI, HA UNA PICCOLA PORTICINA MARRONE E UNA VETRATA DA CUI SI SCOPRE UNA BIBLIOTECA CON SALA LETTURA; senza accorgersene, molti tirano diritti a bere il miglior caffè del mondo nella piazza Sant’Eustachio giusto a lato. Eppure è un luogo prezioso, meglio, come dice il professor Giacomo Marramao, dal 1991 direttore scientifico della Fondazione Basso, un vero e proprio bene culturale da salvaguardare.
In esso sono conservati più di 100mila volumi e 5000 testate giornalistiche «defunte e accese». È racchiusa la storia del ‘700-‘800 con un prezioso fondo francese, tra cui la prima edizione dell’ Encyclopédie di d'Alembert, con manoscritti di quel periodo; e la storia tra ‘800 e ‘900 «chiunque volesse fare delle ricerche può realizzare un lavoro straordinario» sull’intero movimento operaio italiano ed europeo specie della Germania e il movimento socialista e anarchico in Italia; la storia costituzionale, la teoria dello stato della società e dei movimenti politici, «tutto materiale che non si trova da nessun parte se non alla Fondazione Basso».
«Nei nostri archivi e nella nostra biblioteca ospitiamo studiosi stranieri di primissima qualità, studiosi europei in particolare tedeschi, francesi, inglesi e spagnoli, ma anche americani. Se non ci rendiamo conto del valore di queste istituzioni, se non si provvede in tempi rapidi a un finanziamento-reinvestimento nella cultura, l’Italia sarà gravemente colpita in ciò che più ha di prezioso. Penso che queste istituzioni rischino seriamente di scomparire e con loro scompare una delle principali attrazioni a livello internazionale. L’Italia è nota non solo per le sue opere d’arte, ma anche per le sue grandi biblioteche. Alcune di esse specializzate nel settore della politica, della teoria sociale giuridica, della storia della storiografia; sono le biblioteche delle Fondazioni, della Basso, del Gramsci, dello Sturzo».
Ha rischiato di chiudere, il personale si è notevolmente ridotto, la sua principale custode che fungeva da segretaria generale, instaurava rapporti con altre istituzioni e curava e controllava la biblioteca e l’archivio, Lucia Zannino, è scomparsa da poco; chi ci lavora, lo fa solo per passione e a titolo gratuito.
Marramao crede che forse l’handicap della Fondazione Basso sia il non aver dietro un’area identitaria fortemente caratterizzata o un partito. «L’area cattolica sta dietro lo Sturzo, il Pd dietro il Gramsci, noi siamo una Fondazione indipendente e teniamo moltissimo alla nostra libertà, ma questo rischia di penalizzarci rispetto alle altre». La cosa più grave è che nella lista del Mibac (Ministero dei beni ambientali e culturali) vi sono fondazioni fai da te improvvisate, sorte per ragioni di clientela politica e che prendevano cifre piuttosto cospicue, senza avere veramente nulla. «Bisogna stabilire parametri obiettivi in base ai quali inserire fondazioni al livello di beni culturali, che abbiano delle biblioteche significative. Il loro numero nel corso degli anni ’80 è enormemente aumentato; è evidente che il sistema del finanziamento a pioggia non funziona. Non è colpa di nessuno se le fondazioni più rilevanti sono quelle riferibili alla tradizione democratica e se si vuole di tradizione della sinistra. La destra non può pretendere di avere finanziamenti secondo il sistema del manuale Cencelli. È da suicidio».
Da alcuni anni alla Fondazione Lelio e Lisli Basso Issoco (Istituto per gli studi della società contemporanea) per la ricerca storica, si è saldata la Fondazione Internazionale Lelio Basso per i diritti e la liberazione dei popoli (con il fondo del tribunale permanente dei popoli), diventata sezione internazionale. È un importantissimo appoggio al lavoro dei tribunali Russell «una delineazione di prospettiva di democrazia e di difesa dei diritti umani e dei popoli contro ogni forma di violazione, indipendentemente dalle logiche territoriali degli Stati. È uno dei fattori che hanno reso la Fondazione Basso molto famosa e stimata nel mondo insieme al suo patrimonio storico».
Alla Fondazione sono europeisti convinti; hanno puntato moltissimo sulla scommessa Europa, l’unica via di uscita per affrontare le grandi sfide del mondo globale. «Oggi non si parla del mondo – continua Marramao -: una volta i discorsi dei grandi politici italiani, soprattutto quelli della sinistra o socialisti o laici, erano rivolti prima al mondo, poi all’Europa infine all’Italia». Il mondo si sta organizzando per grandi aree macroeconomiche e strategico-politiche e se l’Europa non diventa un soggetto forte e unificato nel contesto di questa sfida, rischia di rimanere schiacciata.
«Vi è un deficit culturale della politica italiana che si manifesta nell’incapacità di inquadrare i nostri problemi nazionali all’interno del contesto globale. Una decadenza enorme rispetto alla cultura politica della prima repubblica, della quale non sono un nostalgico, ma ha prodotto leader e partiti che invece avevano tale capacità». «Manca ai politici quella che i greci chiamavano l’enkràteia, il governo di sé e il controllo degli effetti, perché, diceva Machiavielli, il politico deve non solo sapere agire, ma controllare anche gli effetti di quello che fa».
Quando si sente un cittadino urlare «Di voi filosofi ci fidiamo e dei politici no», vuol dire che c’è una crisi molto grave e molto seria della democrazia e questo fa paura; «le piazze sono piene per ascoltare i filosofi, non i politici». È un filosofo di confine Marramao, ha avuto rapporti stretti con gli scienziati sociologi, con i giuristi, gli economisti, i sociologi teorici della comunicazione; insegna alla Sapienza filosofia teoretica e filosofia politica: «il mio modo di fare filosofia è teoretico, legato alla ricostruzione concettuale, alla politica e all’ analisi della società e dei fenomeni del potere. Due ambiti che polarizzano i miei due interessi filosofici: la questione del tempo e la questione del potere». Ritiene fondamentale il ruolo della filosofia nella società, perché «a partire dalla modernità, dall’Illuminismo, la filosofia ha smesso di essere un esercizio per pochi iniziati e affiliati a una scuola di pensiero. La filosofia ha come oggetto cruciale del proprio lavoro l’analisi e l’interpretazione del proprio tempo, del proprio presente. La grande novità del mondo moderno a partire dal ‘700, dall’epoca della rivoluzione è concettualizzare il presente, il tentativo di comprendere attraverso i concetti il tempo. Marx non sarebbe comprensibile senza questa grande svolta del pensiero filosofico».
La Fondazione Basso nasce nel 1973 voluta dallo stesso Lelio Basso che ebbe sempre in mente «l'idea di un centro di studi politici, in cui si realizzasse questa saldatura fra politica e cultura troppo spesso nei fatti separate». Studioso e interprete di Marx (si laureò in legge con una tesi su La concezione della libertà in Marx) e Rosa Luxemburg, tra i primi collaboratori della rivista di Piero Gobetti Rivoluzione liberale, padre costituente dell’Italia repubblicana, segretario del Psi e del Psiup, sempre in difesa dei diritti di libertà dei cittadini e nel tribunale Russell per giudicare i crimini di guerra, egli credeva che con la Fondazione «potesse costituire un servizio utile a tutta la classe politica, quello di mettere a disposizione un centro di studi che fosse al tempo stesso luogo di studio e di formazione di giovani e, insieme, sede d'incontri, di dialogo, di discussione permanente, interpartitica e interdisciplinare tanto per i politici puri quanto per gli uomini di cultura e gli stessi professori universitari».
Corriere 15.7.13
Naoki è autistico e non sa parlare Il suo libro è primo in classifica
Ha usato il cartone con i caratteri disegnati sul quale imparò a scrivere
di Guido Santevecchi
PECHINO — C'è il libro di un tredicenne questa settimana in testa alla classifica dei bestseller stilata dal Sunday Times. L'autore è un ragazzo giapponese, Naoki Higashida, che oggi ha 21 anni. Titolo «The reason I jump» (La ragione per cui salto). Naoki è autistico e non riesce a parlare. Ma sa scrivere e si è raccontato in questo libro-testimonianza che comprende una storia breve e una serie di domande: «Perché un sacco di volte la stessa richiesta?» e «Perché non guardi i tuoi genitori negli occhi?».
Ci sono anche le risposte elaborate da Naoki, che danno un gran colpo ad alcune convinzioni, come quella che l'autismo porti necessariamente con sé l'impossibilità di capire gli altri e il rifiuto di stare in compagnia. Naoki scrive della bellezza, del tempo, del rumore, della gente che lo circonda, ma anche degli attacchi di panico, del senso di isolamento.
Il libro è stato scoperto da David Mitchell, l'autore famoso per «Cloud Atlas» (L'Atlante delle stelle, Frassinelli). Mitchell ha un bambino autistico e una moglie giapponese, Keiko Yoshida, che ha trovato online gli scritti di Naoki e ha cominciato a leggerli al marito. La coppia è stata conquistata e ha pensato di tradurli in inglese per aiutare le persone che curano il loro bambino a capire meglio i suoi problemi. Poi Mitchell ha deciso di suggerirlo al suo editore. Pubblicato due settimane fa a Londra, «The reason I jump» è in cima alla importante classifica del Sunday Times per la sezione non-fiction.
Naoki, che vive a Tokyo con i genitori, è felice, sul suo blog ha scritto: «Questa cosa mi ha sorpreso così tanto che credevo di cadere per terra».
I medici giapponesi si accorsero che Naoki era affetto da autismo quando aveva cinque anni. Il bambino fu mandato in una scuola speciale vicino a Tokyo e per aiutarlo a imparare l'alfabeto, siccome non era in grado di parlare, i maestri misero i caratteri in una griglia disegnata su un grande foglio di cartone e con molta pazienza riuscirono a insegnargli come indicarli uno ad uno e poi a formare frasi.
Il risultato, anni dopo, è stato «The reason I jump»: un salto che proietta il giovanissimo autore fuori dalla gabbia della sua condizione: «Quando ho appreso a scrivere frasi ho voluto raccontare storie da protagonista in un mondo di persone normali, così ho viaggiato libero nel loro mondo».
Ma anche Mitchell dice che da quando ha letto il libro-messaggio di Naoki si è liberato da una costrizione auto-inflitta, la relazione con suo figlio malato è migliorata: «Adesso lui viene spesso nel mio studio, mentre lavoro al nuovo romanzo; prima cercavo di farlo concentrare su qualche altra cosa, perché io dovevo finire il mio libro. Ora invece lo faccio sedere sulle mie ginocchia, apro una pagina e lo incoraggio a pronunciare le lettere che compongono le parole. E lui sta imparando a usare la tastiera».
Mitchell spiega che anche per sua moglie la lettura è stata un grande aiuto. E ricorda che la traduzione del memoriale di Naoki è stato un impegno duro: «Lei ha fatto la parte pesante di trasportarlo dal giapponese all'inglese, io ho cercato di dargli un ultimo tocco stilistico. Ma dovevo rispettare il fatto che quando Naoki ha scritto aveva tredici anni ed era un ragazzino, non un romanziere di quarantaquattro anni: ho dovuto fare molta attenzione a non trasformarlo in un saggio pensato per una rivista letteraria». Mitchell ha firmato la prefazione dell'edizione inglese e ha rivelato un segreto dell'autore giapponese: «Lo ha scritto indicando ogni carattere con il dito, sulla griglia di cartone. Un assistente raccoglie le parole, le frasi e i capoversi; Naoki sa usare una tastiera di computer, ma sente che questo sistema appreso a scuola contiene meno distrazioni, lo aiuta a concentrarsi».
Come in ogni bella storia di speranza e successo, c'è anche una polemica fastidiosa su Naoki: qualcuno sostiene che non può essere autistico, perché il suo lavoro è troppo sofisticato e ricco di immagini e metafore; sospettano che soffra della sindrome «locked-in».
Corriere 15.7.13
Pubblicata la mappa del Dna della «materia oscura» della vita
Pubblicata la prima mappa genetica della «materia oscura della vita», ossia del Dna dei microrganismi più primitivi, e finora più sconosciuti, che vivono sul pianeta. Leggere il Dna di questi archeobatteri è stato possibile grazie a nuove tecniche di sequenziamento. Il risultato, pubblicato su Nature, si deve a un gruppo coordinato da Tanja Woyke del Joint Genome Institute del Dipartimento di Energia degli Stati Uniti a Walnut Creek, in California. I ricercatori hanno sequenziato il genoma di campioni provenienti da nove diversi habitat: dagli abissi oceanici alle sorgenti idrotermali, fino alle miniere. Sono stati identificati 201 microrganismi diversi, afferenti a 29 gruppi di cui due nuovi.
Corriere 15.7.13
Un «ponte degli asini» per i triangoli di Euclide
di Armando Torno
Nell'espressione latina pons asinorum si riflettono piccoli enigmi. Significa ponte degli asini e numerose storie della logica sostengono che fosse applicata figurativamente a un diagramma di Pietro Tartareto (il Petrus Tartaretus autore di commenti a Pietro Ispano, a Porfirio e ad Aristotele), databile intorno al 1480. Con esso egli si proponeva di aiutare gli studenti a trovare il termine medio di un sillogismo, vale a dire di quell'argomentazione che consta di tre proposizioni connesse in modo che dalle prime due (premesse) deriva necessariamente una terza, detta conclusione (o illazione). Per esempio: tutti gli uomini sono mortali, Teodoro è un uomo: quindi Teodoro è mortale. Tartareto era convinto che fosse tanto facile individuare il termine medio quanto far passare su un ponte degli asini. Ma è altresì vero che codesta espressione si estese per ogni prova senza particolari difficoltà. Un altro esempio: si disse e si ripetè che nascesse già con Euclide: il teorema «se due lati di un triangolo sono eguali, devono esserlo anche gli angoli ad esso opposti» era anticamente considerata pons asinorum degli studi di geometria. Ma poi l'espressione finì ovunque. Per ricordarne due momenti, diremo che lo scozzese Thomas Campbell, vissuto tra il '700 e l'800, concepì un poemetto umoristico dal titolo The Pons asinorum, dove una classe dà l'assalto al teorema euclideo così come una compagnia di soldati si scaglia contro una fortezza; e che John Stuart Mill definì la «Teoria della rendita» di Ricardo pons asinorum dell'economia.
Corriere 15.7.13
Pubblicati in Irlanda inediti di Joyce «Sono dieci pezzi facili»
Curati dallo specialista Denis Rose, sono stati pubblicati per la prima volta 10 brevi racconti di James Joyce (nella foto) finora inediti, che appartengono a un’epoca successiva al capolavoro Ulisse e sono composti da favole ed «epiclets» (piccole epiche, secondo il neologismo dello stesso scrittore). I corti di Finn’s Hotel, questo il titolo della raccolta (che richiama quello di Finnegans Wake, ed è il nome dell’hotel in cui lavorava la futura moglie di Joyce, Nora Barnacle), escono solo ora per l’editore irlandese Ithys Press, sebbene siano noti agli esperti da tempo, perché il diritto d’autore sulle opere di Joyce è da appena due anni nel pubblico dominio. Un precedente tentativo di pubblicazione da parte di Penguin nell’edizione critica di Finnegans Wake (curata dallo stesso Rose), vent’anni fa era stato complicato da una lite giudiziaria con la fondazione che deteneva i diritti di Joyce. I testi ora pubblicati (tra cui anche un abbozzo di Finnegans Wake già edito nel 1963, di cui però Rose sostiene l’autonomia rispetto all’opera maggiore) vengono definiti nella prefazione «insieme un lavoro a sé e anche una meravigliosa, serio-comica, e facile introduzione a temi e personaggi chiave delle notoriamente difficili opere tarde». (i.b.)
il Fatto 15.7.13
Salento
La Taranta, quel morso che ti inietta la vita
di Franco Patrizi
In Salento si ha rispetto per il tempo. Il tempo non è solo un concetto, è cultura e sangue. Specie nelle terre di confine. Forse è per questo che il ritmo, fino a qualche decennio fa, è stato cura per figure drammatiche. In questa terra volta ad oriente, uomini e donne ballavano sul ritmo frenetico dei tamburelli e guarivano (momentaneamente) dal morso del ragno mitico. La taranta che avvelenava. E la musica, la danza e i colori che liberavano dal veleno. Ernesto De Martino, scrivendo ‘La terra del rimorso’, spiegava tutto con una sintesi definitiva: ‘questo rito altro non e' che la rappresentazione del loro dolore’.
QUANDO IL FENOMENO del tarantismo, con la scomparsa della civiltà rurale, è divenuto definitivamente passato, ha lasciato in eredità la sua musica. Il filo della storia ha tramandato ossessioni, versi e nostalgie.
L’operazione di rimozione storica, altrove devastante, qui era avvenuta solo in parte. Anzi. Grazie a quella musica, il Salento era diventato (dopo secoli di semi-oblio) una nuova meta, per ri-ascoltare, per comprendere.
’L’uomo salentino – raccontava Donatello Pisanello (uno dei musicisti del Salento della ‘riscoperta’) – è un po’ come uno zingaro al contrario: mentre lo zingaro attraversa le culture, il salentino viene attraversato dalle culture, è geneticamente pronto all’accoglienza’. E dunque, nella gran parte dei casi, ad essere accolto.
E’ anche per questo che la ‘pizzica’ (nome della più nota musica salentina) ha navigato i mari, è arrivata in America (gli Aramirè ieri, il Canzoniere Grecanico Salentino oggi), in Giappone (con Officina Zoè), in Cina (con l’Orchestra della Notte della Taranta).
Sono solo esempi per capire come questa tradizione musicale abbia avuto la protezione della storia, la cura della sua gente. Per attraversare il tempo.
OGGI QUESTO ritmo terzinato ed ossessivo (o la sua evoluzione) accompagna le notti d’estate. Non più quelle dei contadini che ballando, dice il ricercatore Luigi Chiriatti, ‘esorcizzavano la consapevolezza di morire giorno per giorno’, ma quelle della gente di oggi, fusa e confusa in un rito collettivo di umanità. Sono ormai decine e decine i gruppi musicali della tradizione (e forse non importa se talvolta la qualita' e' concetto relativo). C’è dentro la voglia di ritrovarsi, il gusto di condividere.
In estate questa terra si sveglia, si racconta attraverso le sue melodie e i suoi ritmi e concerto dopo concerto, piazza dopo piazza, si arriva alla fine di agosto a Melpignano, per il concerto della Notte della Taranta. L'appuntamento e' ormai un classico: centomila persone ad ascoltare ogni anno i migliori artisti salentini. Accanto a loro musicisti dell'area mediterranea: sonorita' e ritmi che si fondono in una notte di accoglienza. Quest'anno l'appuntamento e' per il 24 agosto e Maestro Concertatore sarà' Giovanni Sollima.
Oggi dunque, su note originariamente drammatiche, si balla e si canta la voglia di vivere. Come i contadini di allora, malgrado tutto.
Ma proprio come allora, Il Salento della contemporaneità non è solo allegria, è terra problematica, spesso dimenticata. E’ terra, ancora oggi, di gente che va via a cercare nuova vita. Anche per questo, nel codice genetico-musicale dei salentini, sono rimasti più o meno intatti i canti di lavoro, quelli di protesta, le nènie o quelli d’amore, struggenti e soffici come il vento della sera.
SEMPRE DE MARTINO scriveva che ‘non tutte le cose che abbiamo reso lievi meritavano di diventarlo’.
Ma il Salento oggi è questo: una terra forte e inquieta che guarda all’Africa e all’Oriente, un posto dove continuano a confondersi ritmi, odori e sapori, dove si intrecciano idee e sogni. Con un sorriso amaro.
Dario Muci, musicista e poeta, scrive: ‘Racconto la mia terra, il mio Sud, con i suoi problemi e la sua lentezza nel risolverli. Sembra impossibile risolvere il problema del lavoro nero, dell’emigrazione, dello sfruttamento della malavita, dell’arricchimento a scapito della povera gente. Per questo mi dirigo su un percorso nuovo che parla di Sud, non solo come identità sonora, ma come realtà anomala’.
Una realtà' anomala, già', che continua a raccontare una storia antica. Per chi ha voglia di ascoltare e di rispettare il tempo.
La Stampa 15.7.13
Le banche del tempo crescono e diventano protagoniste del welfare locale
Sono oltre 500 e non usano denaro: investono sullo scambio e sull’inclusione sociale
di W. P.
La regola principale è lo scambio e la reciproca convenienza. Non è volontariato, imperniato sul dono unilaterale. Qui la solidarietà è reciproca e alla pari. E’ lavoro: nelle Banche del tempo si scambiano competenze e servizi, ma senza usare denaro. Il tempo è il misuratore, in ore: un’ora vale sessanta minuti per tutti, senza distinzione di professione, classe sociale e condizioni economiche delle persone. Le Banche del tempo sono istituti di credito con speciali conti correnti in ore. Soddisfano bisogni materiali e immateriali. Tra i primi, le prestazioni minute della vita quotidiana (spesa, cucina, lavanderia, relazioni con enti pubblici, bambini, anziani); tra i secondi la socializzazione e lo scambio di saperi, a mercato (computer, lingue, pittura, fotografia) e fuori mercato, a cui non viene solitamente attribuito un valore economico (ad esempio, fare compagnia a un anziano). Le Banche del tempo crescono in Italia, soprattutto negli ultimi due anni, anche per la crisi economica, che riduce i redditi e le prestazioni del welfare pubblico, i cui vuoti vengono colmati dallo scambio e dalla reciprocità. Oggi sono circa 500, non tutte censite dall’Associazione nazionale che le riunisce (www.associazionenazionalebdt.it), guidata da 17 donne in rappresentanza delle principali regioni italiane, capitanate da Maria Luisa Petrucci (presidente della banca del tempo di Roma) e Grazia Pratella (presidente delle banche del tempo di Milano e provincia). Le regioni in cui sono più presenti sono Lombardia, Piemonte, Lazio, Emilia Romagna e Sicilia. Chiunque può fondare una Banca del tempo, bastano quattro-cinque persone, ma si devono rispettare precise regole, etiche, innanzitutto, e poi organizzative, perché l’eguaglianza e la reciprocità non si inventano. Ci vuole una sede, un telefono, dei computer. Una segreteria, per la gestione della domanda e dell’offerta, della tempo-contabilità. Nella banca del tempo non esiste circolazione di moneta, non è un lavoro, di conseguenza non viene pagato del personale. Esiste anche un software che regola il valore degli scambi tra le diverse prestazioni, e un’assicurazione, Caes, una polizza consortile etica e sociale, perché non si sa mai, meglio essere previdenti. Le prime banche del tempo nascono nel Regno Unito negli anni Ottanta, con il nome di Local exchange trading system (Lets) e conquistano subito molti proseliti, sensibili a un’idea di economia diversa e solidale. Sono diffuse in Francia con il nome di Sel (Système d’échange), nei paesi scandinavi, in Germania, Paesi bassi, Svizzera, Spagna, Portogallo e America latina. In Italia, la prima vera Banca del tempo nasce a Santarcangelo di Romagna, nel 1995, ad opera di un gruppo di donne, che aiuta a far decollare il progetto in altre località a livello nazionale. Sono strutture leggere, che basano la loro fonte normativa soprattutto sulla legge 53/2000 e su diverse leggi regionali. Il loro è un ruolo di tipo inclusivo che di fronte al declino dello Stato sociale costituisce il trampolino di un welfare territoriale. Tema centrale che sarà al cuore del dibattito nella giornata nazionale delle Banche del tempo, che si terrà a Torino il prossimo 21 settembre.