l’Unità 1.7.13
Fiom-Fiat, la parola alla Corte Costituzionale
Dopo tre anni di scontri, la Corte valuta l’utilizzo dell’art. 19 per escludere le tute blu Cgil dalle fabbriche Fiat
di M. Fr.
La partita decisiva. I tre anni di scontri tra Fiat e Fiat domani saranno decisi dal verdetto della Corte Costituzionale. Il massimo organo giuridico dovrà esprimersi sull’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori. Lo strumento, il grimaldello usato dalla Fiat per escludere dalle sue fabbriche i metalmeccanici della Cgil.
Dal punto di vista giuridico quello del Lingotto fu un capolavoro assoluto. L’avvocato napoletano Raffaele De Luca Tamajo utilizzò un referendum voluto nel 1995 da Rifondazione Comunista per favorire i Cobas: fece cancellare la parte dell’articolo 19 che prevedeva come sui luoghi di lavoro la rappresentanza fosse garantita a chi si richiamava alle tre confederazioni Cgil, Cisl e Uil. In questo modo però rimase solo il secondo comma dell’articolo: sui luoghi di lavoro la rappresentanza la hanno solo i sindacati firmatari dei contratti collettivi nazionali. E qui arrivò il capolavoro di De Luca Tamajo. Per escludere la Fiom bastava uscire da Confindustria (e Federmeccanica) e creare un contratto collettivo nazionale per tutto il gruppo Fiat. In questo modo Marchionne riuscì ad estendere il modello Pomigliano (meno pause, niente scioperi, straordinario comandato) a tutti gli altri stabilimenti e a togliersi dai piedi la Fiom.
Accadde il 13 dicembre 2010 quando fu firmato il «contratto collettivo di primo livello» valido per tutti gli allora 86mila lavoratori italiani di Fiat, Iveco e Cnh. Lo firmarono tutti (Fim Cisl, Uilm Uil, Ugl, Fismic e Associazione quadri) tranne la Fiom. Che da quel giorno perse il diritto a nominare Rsa (i rappresentanti sindacali aziendali che nelle aziende fuori da Confindustria sostituiscono gli Rsu), ai permessi sindacali, ad indire assemblee con i lavoratori e perfino ad avere una bacheca su cui apporre i propri comunicati. Nonostante fosse il sindacato con più iscritti, la Fiom fu letteralmente esclusa dalle fabbriche Fiat.
Lì però iniziò la vittoriosa «via giudiziaria» della Fiom. A partire dall’accordo di Pomigliano, i giuristi di Landini presentarono ricorsi per ogni società del gruppo sostenendo il comportamento antisindacale della Fiat che stava escludendo il sindacato più rappresentativo. In due anni nei Tribunali del Lavoro di tutta la penisola sono stati discussi ben 61 ricorsi complessivi. Fiat e Fiom danno due interpretazioni antitetiche del tabellino: la Fiat computa il numero dei ricorsi, la Fiom il numero dei verdetti e dei Tribunali. E così tutti e due si considerano vincitori.
Poi è arrivato il verdetto del tribunale di Modena. Che, seguito da quelli di Vercelli, Melfi e ancora Torino, ha sostenuto che l’attuale articolo 19 abbia fondati dubbi di Costituzionalità rispetto all’articolo 39 («I sindacati (...) possono, rappresentati unitariamente in pro-
porzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce») della nostra carta. Chiedendo alla Corte Costituzionale di pronunciarsi.
3 POSSBILI VERDETTI, DUE PRO-FIOM
E questo accadrà domani quando alle 9,30 inizierà la discussione e in giornata un comunicato comunicherà il verdetto. Le possibilità sono tre. E due arridono alla Fiom. Sia un verdetto di accogliemento (l’articolo 19 è incostituzionale) che una sentenza interpretativa di rigetto (l’articolo 19 non è incostituzionale, ma la rappresentanza della Fiom va garantita, sulla falsa riga dei verdetti dei Tribunali che hanno dato ragione alla Fiom) farebbero rientrare i metallurgici della Cgil nelle fabbriche Fiat. Gli avvocati del Lingotto invece punteranno tutto sull’idea che la Fiom non è stata esclusa volontariamente dalle fabbriche e per rientrare ha un modo semplicissimo: firmare il contratto sottoscritto da tutte le altre organizzazioni. Cosa che non succederà mai.
l’Unità 1.7.13
Sergio Cofferati
«Questi piani del lavoro non creano occupazione»
Letta? Legge elettorale e andiamo subito al voto
Il Pd non riflette sui suoi innumerevoli errori
intervista di Rinaldo Gianola
Il pacchetto del governo ha un grosso limite: agisce sull’offerta e non sulla domanda
I fondi europei sono per un piano di ammortizzatori sociali
MILANO «Piuttosto che niente...». Sergio Cofferati, parlamentare europeo e già segretario generale della Cgil, si affida a un vecchio pensiero padano e non si entusiasma del provvedimento sul lavoro deciso dal governo Letta e delle risorse messe a disposizione dall’Europa. «Certo è meglio che niente, ma non vedo proprio una svolta politica, nè provvedimenti coerenti, per riprendere la strada dello sviluppo e affrontare la disoccupazione»
Cofferati, l’Europa ci concede un miliardo e mezzo per il lavoro ai giovani... «Calma. Per ora si tratta di miliardo, forse aumenterà entro il 2016. Le risorse europee, diciamo la verità, sono modeste e andrebbero analizzate con maggiore attenzione. Ma il problema vero è che il pacchetto lavoro del governo Letta e le decisioni dell’Unione europea sono due piccoli provvedimenti, non sommabili nella gestione e nei potenziali effetti della loro applicazione».
Cosa c’è che non va?
«La proposta del governo ha un grosso limite, agisce nella direzione sbagliata, sull’offerta di lavoro, ma in questa fase manca drammaticamente la domanda. Non c’è imprenditore che assumerà una persona se non ha lavoro da fargli fare. Puoi ridurre quanto vuoi il costo all’accesso ma se non c’è mercato e se non lo ricrei, sono risorse inefficaci. In più la modifica alla legge Fornero sulla casuale del lavoro a tempo determinato rischia di creare uno strumento sostitutivo del tempo indeterminato fino ai 29 anni. Rischiamo di creare un enorme parcheggio sociale. In più questi limiti possono deteriorare la situazione sociale».
Perchè?
«Non si sta creando domanda di lavoro, mancano i grandi investimenti, gli effetti ritardati della recessione continueranno a mordere nel 2014 quando la cassa integrazione sarà più breve e più leggera. Nei prossimi mesi le condizioni delle famiglie possono peggiorare per la mancanza di risorse, per gli effetti continui della crisi, per l’assenza di una vera politica di rilancio». Molti ipotizzano una ripresina nel 2014. «Speriamo. Ma cosa ci facciamo di uno 0,5% in più dopo sei anni di caduta verticale del Pil? Le nostre imprese sono in prevalenza orientate sulla domanda interna che soffre terribilmente, quelle che operano sull’export tengono, ma sono una minoranza. Temo che questi provvedimenti non creeranno nuova occupazione, non avranno effetti nemmeno sul turn over. Perchè oggi un’impresa dovrebbe assumere un giovane?».
Forse lei è troppo pessimista.
«Magari è così. Ma sono convinto che solo una forte politica di investimenti pubblici in Italia e in Europa è in grado di creare nuovo lavoro. Si tratta di una elementare politica keynesiana, l’obiettivo è stimolare con la mano pubblica anche gli investimenti privati. Partiamo subito con le infrastrutture, sono importanti per le condizioni di vita delle persone e per l’intero sistema produttivo».
Ma nemmeno i miliardi europei possono dare una mano all’occupazione, in particolare ai giovani?
«Usciamo dalle ambiguità. I 6 miliardi complessivi, che forse diventeranno 8, concessi dall’Europa e il piano “garanzia giovani”, non sono una nuova politica del lavoro. Siamo di fronte a un ammortizzatore sociale che dovrebbe collegare la perdita di occupazione con il nuovo impiego. Ma dov’è il nuovo impiego, chi lo crea? Certo è bene che i giovani facciano un’attività formativa, lo stage, ma poi finito lo stage? Questi sono strumenti per gestire meglio il mercato del lavoro non è una politica per l’occupazione. Aggiungo che in Italia ci mancano gli strumenti per gestire queste risorse: la formazione, chi la fa? Stiamo aiutando i giovani ad aspettare un lavoro, ma non affrontiamo il vero nodo della creazione di lavoro che passa dalla crescita».
Ma per gli investimenti pubblici ci sono i limiti di bilancio, il tetto del 3%, non si può far nulla anche se tutti parlano di investire.
«Tutti in Europa, persino i conservatori, sono convinti che così non ne usciamo. C’è chi si è pentito delle azioni decise “contro” la Grecia. Però le idee non si traducono in azioni politiche: ad esempio il bilancio europeo non concede nuove risorse, ma solo un po’ di flessibilità. Senza inversione di tendenza rischiamo ulteriori fenomeni di de-industrializzazione, non solo nella produzione di beni ma anche di servizi, insieme ad aumento della disoccupazione e della povertà. Ma l’Europa, i governi nazionali non agiscono, aspettano tutti, impotenti, le elezioni tedesche».
Cosa prevede?
«In Italia le elezioni europee hanno sempre avuto un significato interno per valutare la tenuta di una certa maggioranza o di un governo. Nel 2014 penso che saranno differenti: i cittadini si pronunceranno sull’idea di Europa. Un partito come il pd, con i socialisti europei, dovrebbe prospettare subito una revisione dei Trattati. La crisi e la sfiducia verso l’Europa possono avere conseguenze gravi sulla tenuta democratica del nostro Paese».
E il Pd, come lo vede?
«Vedo l’esigenza pressante che questo governo, sostenuto dal Pd, vari al più presto la riforma elettorale e si torni a votare per riportare il Paese in condizioni di normalità».
Adesso si prepara il congresso, come giudica i primi passi?
«Il Pd ha rinunciato a riflettere sui suoi errori, non si può arrivare al governo con il nostro avversario politico. Se ci siamo arrivati è per una somma di errori impressionanti. Quello che è avvenuto dopo il voto non è stato un incidente di percorso, sono esplose le contraddizioni che già esistevano e che sono ancora presenti e irrisolte. Probabilmente il congresso andava fatto subito. Oggi rischiamo di avere una sorta di artificioso prolungamento delle primarie precedenti e non mi pare un gran risultato».
l’Unità 1.7.13
Barca: «Renzi non commetta vecchi errori»
di Giuseppe Vittori
L’orientamento prevalente nel Pd è di mettere fine all’automatismo per cui il segretario del partito è anche il candidato premier, e sono in molti a criticare Matteo Renzi per aver fatto capire di essere pronto a correre per la leadership soltanto se ciò significhi la possibilità di arrivare a Palazzo Chigi. Per Fabrizio Barca il sindaco di Firenze «riflette un errore compiuto da chi ha costruito il Pd». E l’ultima cosa che deve fare il segretario del Pd è «dare fastidio al presidente del Consiglio: anche negli Usa il coordinatore del partito è una persona che non ha niente a che fare con il candidato alla presidenza, deve avere altre doti. Sono due mestieri diversi», dice l’ex ministro in un’intervista al Secolo XIX. Anche più duro con Renzi è il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi: «Non si cambia l’Italia se non si cambia il Pd. Questo è il vero tema del congresso. E il partito non può essere un taxi per la presidenza del Consiglio».
Nel partito le acque sono agitate e tutti i nodi dovranno essere sciolti prima che si riunisca, la prossima settimana, la commissione per le regole del congresso. Con Renzi si schiera Debora Serracchiani, che fa capire di poter anche correre in caso di rinuncia a candidarsi da parte del sindaco. Ma Renzi deve fare i conti con le critiche che gli piovono da più parti. Pippo Civati con cui quattro anni fa il primo cittadino fiorentino lanciò il movimento dei cosiddetti rottamatori, scrive sul suo blog: «Nessuno nega il valore delle leadership ma molti tendono a dimenticarsi che le leadership sono a tempo, hanno un inizio e una fine», mentre il partito deve restare.
Si schiera invece con Renzi, sulla necessità di non modificare lo statuto, anche Rosy Bindi, che però chiarisce subito che non voterà certo per il sindaco: «Sono d’accordo a non cambiare lo statuto, che per un partito è un po’ quello che la Costituzione è per un Paese, non si cambia per quelle che sono le convenienze politiche del momento. Io non lo avrei cambiato lo scorso anno per far partecipare Renzi alle primarie e questa volta non dovremmo cambiare lo statuto perché non intendo ostacolare con una norma cambiata il percorso di qualche candidato, Renzi compreso». Sulla stessa linea anche il parlamentare Pd Andrea Marcucci, che ricorda che lo statuto del Pd «non lo ha inventato Matteo Renzi» e «non si possono cambiare le regole sempre e solo quando all’orizzonte c’è il sindaco di Firenze». Il segretario-candidato premier va scelto «con primarie libere e aperte, e soprattutto senza trucchi», dice Marcucci. Il timore dei renziani è infatti che con le regole congressuali si voglia comunque condizionare una possibile discesa in campo del sindaco.
Già la proposta di Guglielmo Epifani di rovesciare l’iter congressuale, facendo svolgere prima i congressi di circolo, di federazione e poi, separato da questi, il congresso nazionale, viene giudicato un modo per togliere al vincitore delle primarie la maggioranza nei due principali organismi dirigenti, cioè assemblea nazionale e direzione. I quali, stando alle uscite degli ultimi giorni, dovrebbero subire un dimezzamento dei componenti: da mille a 500 membri la prima e da 200 a 100 la seconda. Questi verrebbero eletti alle primarie per scegliere il segretario solo per la metà (250 all’assemblea e 50 in direzione), mentre la restante metà verrebbe espressa dalle Regioni.
Renzi segue la discussione con attenzione e scioglierà il nodo della sua candidatura soltanto una volta che saranno note le regole congressuali. Il sindaco però guarda con attenzione anche a ciò che si muove nella sinistra del partito e al fiorire di candidature accanto a quelle, già confermate, di Gianni Cuperlo, Civati e Gianni Pittella. Se ora si ipotizza anche la candidatura di Stefano Fassina, Andrea Orlando invita tutti a una seria riflessione: «Credo che in questo momento, all’interno del Pd, ci siano più candidature che opzioni politiche per guidare il partito. Io comunque non mi candido e continuo a sostenere la candidatura di Gianni Cuperlo». Il ministro dell’Ambiente confessa che vorrebbe chiedere al viceministro dell’Economia cosa sia cambiato «da quando lui stesso mi convinse a sostenere la corsa di Cuperlo: la forza della candidatura di Gianni sta proprio nel fatto di mettere al centro del dibattito i contenuti e nella necessità di non vedere marginalizzata una storia importante come quella della sinistra italiana».
l’Unità 1.7.13
Pisapia: «Potrei votare per Matteo leader di coalizione»
«Potrei votare Renzi come leader della coalizione se ha superato, come mi sembra abbia fatto, il concetto della rottamazione cercando invece di arrivare a una sintesi dell’utilità e della ricchezza delle persone che hanno esperienza». Lo ha detto il sindaco di Milano Giuliano Pisapia al programma «In Onda» su La7. «Renzi ha aggiunto deve prendere una decisione. La sfida per la segreteria del Pd è una sfida parziale che riguarda il più importante partito del centrosinistra, non si può porre il problema che il segretario del Pd sia candidato della coalizione».
l’Unità 1.7.13
Roberto Speranza
«Scegliamo un segretario, non un candidato a Palazzo Chigi. Altrimenti rischieremmo il paradosso di un premier costretto a candidarsi segretario»
«Un premier del Pd lo abbiamo già Il congresso non danneggi il Paese»
di Simone Collini
ROMA «Questo è un governo nato per rispondere prima di tutto all’emergenza economica e sociale del Paese ed è dentro questo obiettivo che si trovano le ragioni del nostro sostegno», spiega Roberto Speranza definendo «simbolico» quanto avvenuto al Consiglio europeo della scorsa settimana, nel quale grazie anche all’intervento di Letta al centro dell’agenda è stato messo il tema della disoccupazione giovanile. Il capogruppo del Pd alla Camera guarda però anche al medio-lungo termine, e dice che «se il partito dovesse sbagliare il congresso non farebbe male solo al Pd ma alla democrazia italiana». E un modo per «sbagliare», aggiunge, sarebbe immaginare che il congresso serva a scegliere il candidato premier, perché questo porterebbe «instabilità» e anche un «paradosso», dal momento che a capo del governo c’è un esponente del Pd: «Se il segretario fosse automaticamente il candidato premier cosa avverrebbe? Per paradosso potremmo trovarci di fronte a un nostro premier che si candida a segretario».
Perché, onorevole Speranza, continuare a sostenere il governo insieme a un Pdl che tenta blitz sulla giustizia e sembra interessato più alle vicende giudiziarie di Berlusconi che ad altro?
«Noi sosteniamo il governo perché la sua missione è affrontare la crisi economica e sociale, perché come ha dimostrato l’ultimo Consiglio europeo con questo esecutivo possiamo aggredire il principale nostro problema, che è la disoccupazione giovanile. Questo è l’obiettivo e ora il Pdl deve smetterla di piantare tutti i giorni bandierine, un atteggiamento inaccettabile, che non aiuta e che non è in linea con gli scopi di questo governo. Non si può immaginare che il Pd si faccia carico di tutte le responsabilità mentre il Pdl è libero di fare propaganda e una campagna elettorale permanente».
Lei parla di propaganda, loro della necessità di modificare la Costituzione anche nella parte riguardante la magistratura: serve o no una riforma della giustizia? «Serve, ma non all’interno di un processo di riforma istituzionale che deve affrontare il tema del bicameralismo e la riduzione del numero dei parlamentari. La loro è una provocazione, un tentativo scomposto, fuori luogo e totalmente irricevibile di portare dentro il processo di riforma un tema che invece va affrontato separatamente».
Dice che il Pdl deve smetterla di piantare bandierine perché questo non aiuta il governo, però non crede che anche la discussione congressuale del Pd possa influire sulla tenuta dell’esecutivo? «Questo è un congresso veramente importante e noi dobbiamo avere in testa che il futuro della democrazia italiana coincide molto con la capacità del Pd di essere all’altezza della sfida che abbiamo di fronte. Reichlin, con il suo documento, ha ben evidenziato quali sono le questioni di fondo da affrontare, a partire da qual è l’identità del Pd e quale il progetto che proponiamo per il Paese. E tutti dobbiamo sapere che se noi sbagliamo il congresso, non facciamo male solo al Pd ma alla democrazia italiana».
E qual è secondo lei il modo per non “sbagliarlo”?
«Intanto trovo molto intelligente l’impostazione proposta da Epifani, di un congresso cioè che parta dal basso, da una discussione nei circoli. Non si può esaurire il tutto in chi dovrà fare il segretario nazionale, in uno schierarsi muscolare con questo o quello».
Nel partito si discute se il leader debba essere automaticamente anche candidato premier: la sua opinione qual è? «Che quando si tratterà di scegliere chi deve guidare la coalizione alle prossime elezioni avremo tutto il tempo e le modalità democratiche per farlo. Oggi dobbiamo scegliere il segretario, cioè chi nei prossimi anni si assumerà l’impegno di guidare un soggetto collettivo, di dargli un preciso profilo politico. Dopodiché la carica di candidato premier sarà contendibile, così come è stato in passato».
Ma perché sarebbe sbagliato immaginare che il segretario sia automaticamente candidato premier?
«Perché rischieremmo di trovarci di fronte a un paradosso».
Cioè?
«Se il segretario fosse automaticamente il candidato premier cosa avverrebbe? Che per paradosso potremmo trovarci di fronte a un nostro premier che si candida a segretario».
Per Renzi magari sarebbe un paradosso che il segretario del Pd non possa aspirare a cambiare il Paese, non crede?
«Se Renzi vuole assumere la guida del Pd ha tutte le carte in regola per candidarsi. Ciò che è sbagliato è immaginare che dentro il congresso Pd si sceglie il candidato premier. Per farlo ci saranno primarie ad hoc come si è già fatto quando Bersani, da segretario, ha reso la candidatura a premier contendibile dentro la coalizione e dentro il partito».
Con primarie aperte: sarà così anche per il prossimo segretario o a decidere saranno soltanto gli iscritti?
«Io penso che non dobbiamo avere paura di aprirci, di confrontarci con l’elettorato più ampio possibile».
l’Unità 1.7.13
CaraUnità
Aspettando il Congresso...
Rappresentiamo i circoli Pd di un territorio a nord di Roma: siamo iscritti, coordinatori di circolo e amministratori che vivono in un’area di circa 100.000 abitanti, che si sviluppa intorno all’antica città di Veio e alla Valle del Tevere. In vista dei prossimi appuntamenti (Congresso, elezioni e ricostruzione del partito), formuliamo le seguenti richieste:
1) Gli incarichi di guida del partito devono essere riconosciuti con la partecipazione diretta dei circoli e il voto dei soli iscritti, sui contenuti e non sulle persone. Siamo convinti che la possibilità di scegliere i propri dirigenti: nazionale, regionale, provinciale e locale, spetti esclusivamente agli iscritti al partito. I confronti con i simpatizzanti sono indispensabili per arricchire i programmi e i loro contenuti, ad informare e formare sulle scelte condivise. Solo così potrà essere migliorata la capacità decisionale del nostro partito: una democrazia partecipata e ampia, ben lontana da posizioni di libertinaggio. Liberi di esprimere i nostri contributi, consideriamo tutti potenziali risorse, ma la decisione è sempre della maggioranza, insomma o dentro o fuori il partito!
2) Per gli incarichi istituzionali invece, riteniamo che le primarie aperte, siano più funzionali e significative per esprimere il consenso verso persone considerate idonee al buon governo del territorio, e questo per tutti i livelli: dalla carica di sindaco a quella di presidente del Consiglio.
3) Convinti che il Lavoro e la Riforma Elettorale siano le priorità di studio e di ricerca per giungere a soluzioni condivise , chiediamo di promuovere incontri sui territori, programmati e continui.
4) Chiediamo incontri costruttivi nei territori, con esperti che favoriscano l’analisi delle realtà demografiche e territoriali, per sfruttare e massimizzare le risorse già esistenti. Politici che sappiano indirizzare verso politiche e soluzioni intercomunali, non legate a confini elettorali, ma a esigenze territoriali. Far funzionare al meglio quanto è già a disposizione dei territori, è già abbastanza per il momento storico-politico-culturale che stiamo vivendo. Una buona analisi e una programmazione partecipata, in settori come lo smaltimento dei rifiuti, l’impiego di energia alternativa e la razionalizzazione delle risorse per un welfare coerente ai bisogni del territorio, potrebbero contribuire a migliorare la spesa regionale e nazionale, partendo da interventi di revisione e miglior distribuzione dal basso.
La buona politica non può concretizzarsi se legata a scelte del politico che soddisfa emergenze locali o del suo bacino di voti, senza tener conto di una programmazione territoriale intercomunale, attenta ai bisogni trasversali dei cittadini.
Siamo convinti che i circoli possono favorire politiche costruttive e solidali attraverso un’ampia partecipazione democratica, ma lasciati alle singole iniziative locali, non potranno promuovere e accelerare processi di crescita culturale che guardino all’Europa: «Oltre gli steccati»... del proprio territorio, della propria Regione, del Paese Italia.
Circoli Pd di: Fiano Romano, Civitella San Paolo, Formello, Riano, Torrita Tiberina, Sacrofano, Nazzano, Ponzano, Sant’Oreste
La Stampa 1.7.13
Regole e congresso agitano il Pd
E la fronda anti-Renzi affila le armi
Barca avverte il sindaco di Firenze: premier e segretario mestieri diversi
Chiti e Debora Serracchiani contro il moltiplicarsi delle candidature
qui
La Stampa 1.7.13
Pd, già si alzano le barricate contro Renzi
“Il partito non è un taxi”. Ma i quarantenni sono divisi
di Antonio Pitoni
qui
La Stampa 1.7.13
Orfini al sindaco: insensato pensare ora al premier
“Si farà il segretario. Poi se è Maradona...”
intervista di Jacopo Iacoboni
qui
La Stampa 1.7.13
Ponte Vecchio chiuso per festa privata
Turisti e fiorentini inferociti con Renzi
di Maria Vittoria Giannotti
qui
Repubblica 1.7.13
Antonio Paolucci, ex soprintendente per il Polo museale fiorentino
“Possono noleggiare ogni parte di città ma non i luoghi centrali di passaggio”
FIRENZE — «Come si fa a bloccare Ponte Vecchio? È una via di passaggio, non si può impedire alla gente di attraversarla. Francamente sono un po’ sorpreso». Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani, ex ministro ed ex soprintendente al Polo museale fiorentino, sembra davvero sbigottito.
I Comuni sono in bolletta, Renzi cerca di fare cassa.
«Capisco benissimo le ragioni che spingono i sindaci a cedere spazi ai privati, non sono affatto un talebano anzi. Io stesso quando ero a Firenze ho fatto cose simili agli Uffizi e a Palazzo Pitti, so bene quanto costi mantenere in vita il patrimonio culturale e quanto i fondi scarseggino, benché la Soprintendenza di Firenze sia la migliore d’Italia e capace di un’ottima gestione. Ma un ponte è come una strada, non lo si sbarra al passaggio per darlo in esclusiva a privati».
Hanno pagato centomila euro, per Ponte Vecchio.
«Direi che hanno pagato poco ma, ripeto, qui non è questione di cifre. Non si chiude un ponte di collegamento, per di più senza avvisare per tempo i cittadini».
Renzi sta anche pensando di brevettare un brand che identifichi Firenze nel mondo, tipo “I love Ny”.
«Detesto la parola brand e gli inglesismi in genere. Se comunque l’uso del marchio può portare dei vantaggi perché no? Niente da obiettare».
Corriere 1.7.13
Renzi. La bulimia del candidato
di Ernesto Galli della Loggia
Sei mesi fa l'Italia era completamente innamorata di Matteo Renzi: con lui il Pd avrebbe di sicuro vinto le elezioni alla grande. Ma pure oggi, e anche domani, egli rappresenterebbe un candidato di certo fortissimo in qualunque nuova elezione.
Le cause della popolarità del sindaco di Firenze sono notissime. All'Italia vecchia e immobile del sempre eguale, all'Italia dell'insipida chiacchiera politica per addetti ai lavori, dell'arabesco concettuale avvitato su se stesso, egli contrappone con la sua figura un Paese giovane, voglioso di muoversi e di mettere nuovamente alla prova le proprie energie, di tentare vie nuove. Che parla senza usare mezze parole. Certo: egli è anche uno portato ad andare a volte oltre il segno, a mostrare un po' troppa disinvoltura e ambizione, a strafare e magari anche un po' a straparlare. Ma al quale tutto si può perdonare grazie a quanto di positivo e di nuovo rappresenta. Perché alla fine, per la maggioranza degli italiani Renzi è questo: la promessa di un cambio di passo, di una rottura, di una reale diversità; una ventata di aria fresca. Per un Paese in crisi non è davvero poco.
Proprio da questo punto di vista appare sostanzialmente incomprensibile quanto egli sta facendo da tre mesi, accettando — e anzi, si direbbe, addirittura sollecitando — di essere coinvolto nelle manovre di un partito, il Pd, che è sì il suo partito, ma che per tantissimi versi è il suo contrario. Un partito vecchio, conteso da anziani oligarchi e quarantenni ribelli ma dell'ultima ora, laddove Renzi è, come che sia, simbolo di una gioventù vera che non ha avuto paura di uscire allo scoperto; un partito campione di conformismo e di omologazione culturale laddove Renzi si fa forte (pure troppo!) della propria spregiudicatezza; il partito di quelli per antonomasia «politicamente corretti» mentre Renzi proprio da costoro è detestato.
È singolare che oggi egli si faccia tentare dall'idea di diventare il segretario di un partito del genere. E dunque s'infili in una trafila quotidiana di trattative e di manovre, di interviste e di dichiarazioni, che hanno il solo effetto di consumarne terribilmente l'immagine. Pur nell'ipotesi che riuscisse a fare il segretario e si andasse entro breve tempo — diciamo un anno — alle elezioni, Renzi, tra l'altro, si troverebbe davanti a un'alternativa comunque scomodissima: o fare la campagna elettorale alla testa di un partito ancora pieno di Rosy Bindi, di Finocchiaro, di Cuperlo e compagnia bella, e magari con un D'Alema passato inopinatamente dal ruolo di Grande Rottamato a quello di Lord Protettore, dunque un partito che sarebbe la smentita vivente di ciò che invece è il suo segretario; ovvero alla testa di un partito da lui appena epurato e rovesciato come un calzino, ma proprio per questo in una difficile fase di riassestamento, ancora né carne né pesce e presumibilmente pieno di rancori più o meno sotterranei. Certo uno strumento inadatto a uno scontro elettorale.
Ma se le cose stanno così non sarebbe assai più conveniente per il sindaco di Firenze stare ad aspettare sotto la tenda? Dopotutto il Pd sa bene che se vuole davvero vincere un'elezione politica altri candidati oltre lui non ci sono (essendo francamente incredibile che a Largo del Nazareno ci sia qualcuno che pensa di convincere gli italiani a farsi governare da Fassina o da Civati). È solo a Renzi che il Pd può ricorrere. E a quel punto egli sarebbe in grado di imporre agevolmente le sue condizioni: sia per il programma che per la composizione delle liste.
Quelle condizioni di rottura e di novità che di fronte al deserto e al vecchiume della Destra egli ha saputo rappresentare e in cui il Paese non vuole cessare di sperare.
Corriere 1.7.13
Primarie aperte, asse anti Renzi Il sindaco: non mi farò impiccare
Fioroni: chi vince candidato premier? È un modo per escludere Letta
di Maria Teresa Meli
ROMA — Matteo Renzi agli amici la racconta così: «La verità è che hanno tutti paura che io scenda in campo. Non solo: sono preoccupati perché non riescono a capire quello che ho veramente in testa. Ma io non pongo questioni di regole, la mia è una questione politica: le primarie devono essere aperte a tutti, e se lo sono sul serio, primo, io concorro, secondo, chi vincerà sarà anche il candidato alla premiership. Per il resto, io non mi impicco alle regole... ma non mi ci faccio nemmeno impiccare».
Dunque parla così il sindaco di Firenze, ma i suoi avversari interni sono agguerriti. In prima fila, contro di lui, Beppe Fioroni, che dà il la a quello che sarà il nuovo tormentone degli antirenziani per fermare la corsa del sindaco e arrivare al 2015, nella speranza che in questi due anni si bruci. Ecco il ragionamento che Fioroni oppone alle dichiarazioni rilasciate da Renzi alla “Faz”: «Dopo quell’intervista dobbiamo ricrederci sul fatto che sarà il Pdl a far cadere il governo. Già, perché se è vero, e su questo io sono d’accordo con Matteo, che non ci devono essere regole per stopparlo, non devono essercene nemmeno per bloccare Letta. E dire, come fa Renzi, che la figura del segretario e quella del candidato premier devono coincidere significa esattamente questo. Così Enrico per potersi candidare ancora a guidare il Paese, nel caso faccia bene, o è costretto a partecipare alla corsa alla segreteria, facendo ovviamente fibrillare il suo esecutivo, oppure deve restare al palo, pronto a cedere il posto a un altro perché così vuole lo Statuto, anche se i sondaggi fossero dalla sua parte».
Ma i renziani sostengono che queste obiezioni lasciano il tempo che trovano: «Guardate i sondaggi, la fiducia nel governo Letta è intorno al 30 per cento e il “Movimento 5 Stelle”, nonostante tutte le mosse sbagliate di Beppe Grillo, sta recuperando almeno due punti in percentuale». Fioroni, però, ce l’ha con il sindaco di Firenze anche per il modo in cui ha impostato la discussione congressuale: «Dobbiamo parlare di contenuti, Matteo non può pensare di fare le assise di Biancaneve (che sarebbe lui) e dei sette nani (che sarebbero gli altri candidati alla segreteria), perché se così fosse, allora si sappia che io sto pensando di candidare l’ottavo nano. Che tale non sarebbe, perché è una donna, cattolica e di successo, il cui nome non farò nemmeno sotto tortura».
Le obiezioni di Fioroni sono comuni sia all’ala moderata del fronte antirenziano che a quella dei pasdaran. Nel primo schieramento c’è Guglielmo Epifani, che ha più volte assicurato i sostenitori del sindaco di Firenze che non c’è bisogno che lui scenda in campo perché «sarò io a fare da garante e non deve preoccuparsi di nessuno scherzetto». Anche secondo il segretario far coincidere la carica di leader di partito e di candidato premier sarebbe come «escludere Letta» e comunque, la maggior preoccupazione dell’ex numero uno della Cgil è quella di «preservare il governo dalle tensioni interne al Pd». Per questo preferirebbe se Renzi continuasse a occuparsi di Firenze.
E’ lo stesso obiettivo di Pier Luigi Bersani capo dei pasdaran del Pd che osteggiano il sindaco. Ai fedelissimi l’ex segretario ha spiegato quali sono, a suo avviso, le intenzioni del primo cittadino del capoluogo toscano: «Ormai è chiaro, quello si candida ponendo determinate condizioni perché vuole accelerare la caduta del governo Letta. È la sua unica chance. Deve farlo cadere sennò non si va a votare prima del 2015 e lui che fa? ». Per questa ragione gli avversari di Renzi sono pure i fautori del rinvio, anche se si rendono conto che ormai i margini per un’operazione del genere sono esigui e che, stando a tutti i sondaggi, l’elettorato del Pd vuole votare per scegliere il proprio leader e non gradisce l’idea di far slittare questo appuntamento a non si sa bene quando.
Dunque, volente o nolente, Renzi fa discutere il Pd. Ieri si è innalzato un coro di critiche contro di lui. Il «governatore» della Toscana Enrico Rossi, che non lo ha mai potuto soffrire, lo ha accusato di «usare il partito come un taxi per andare a Palazzo Chigi». Fabrizio Barca ha ribadito che Renzi sbaglia perché «segretario e presidente del Consiglio sono mestieri diversi». Critici anche Vannino Chiti, Pippo Civati e tanti altri. Ma il sindaco continua a ostentare sicurezza e a ripetere ai suoi interlocutori: «La verità è che hanno tutti paura di me».
Renzi però sa anche che due anni sono lunghi, per lui come per chiunque altro, e che c’è chi vuole prendere tempo e punta le sue carte sul governo Letta proprio per vederlo bruciarsi prima di arrivare al traguardo.
Repubblica 1.7.13
L’altolà di Epifani a Renzi “Distinguere segretario e premier” Il sindaco: subito il congresso
Rossi: il partito non è un taxi per Palazzo Chigi
di Giovanna Casadio
ROMA — Epifani conferma lo stop alle condizioni poste da Renzi che è incerto se candidarsi o meno alla guida del Pd. «Segretario e candidato premier vanno distinti», lo ha detto più volte, il segretario democratico, anche nell’ultima direzione del partito. E ribadisce la linea. Certo sarà il “comitatone” per le regole a stabilire quale sarà la proposta. Lì si vedrà se la posizione di Renzi («Il segretario deve essere anche il candidato premier») avrà una maggioranza. Per parte sua, il segretario democratico avverte: «Si procede in queste settimane solo per atti formali, attraverso la commissione per le regole». Invita a evitare i botta e risposta. «C’è molta confusione...», si sfoga. E lui non vuole aggiungerne.
Ma le polemiche infuriano. Mentre le candidature per il segretario che verrà, si moltiplicano. Non è piaciuta a molti nel partito quell’affermazione di Renzi: «La sfida più grande è la posizione di premier e per questo diventa importante il partito». «Cosa pensa, Matteo, che il Pd sia un taxi per Palazzo Chigi?», lo attacca Enrico Rossi, il “governatore” della Toscana, bersaniano. Aggiunge: «Non si cambia l’Italia, se non si cambia il Pd, questo è il vero tema del congresso». Anche Fabrizio Barca, l’ex ministro che ha deciso alla fine di non candidarsi, è per la distinzione: «Segretario e premier — spiega — sonomestieri diversi, e Renzi riflette un errore compiuto da chi ha costruito il Pd. Anche negli Usa il coordinatore del partito è una persona che non ha niente da fare con il candidato alla presidenza ». Rincara Vannino Chiti: «Il partito ha bisogno di cure e di impegno, per questo è indispensabile togliere dallo Statuto l’automaticità tra il ruolo di segretario e quello di candidato premier». Lo stesso Pippo Civati, che quattro anni fa con Renzi lanciò il movimento dei “rottamatori”, lancia l’affondo: «Nessuno nega il valore delle leadership, ma molti tendono a dimenticarsi che le leadership sono a tempo, hanno un inizio e una fine».
Con l’intenzione di dedicarsisolo alla segreteria, è in gara Gianni Cuperlo, appoggiato dai “giovani turchi” e da D’Alema. Cuperlo ha preparato un documento sul Pd che immagina, con le parole d’ordine della sinistra: uguaglianza, lavoro e una visione federale del partito. Ne presenterà le linee-guida domani. Non arretra, Cuperlo, nonostante sia pronto a candidarsi Stefano Fassina, sempre dell’area della “gauche”. In gara ci sono anche Pippo Civati, outsider; Gianni Pittella; gli ecodem hanno annunciato lacorsa di uno dei loro; Debora Serracchiani, renziana, “governatrice” del Friuli, ha affermato che potrebbe starci, anche se vorrebbe Renzi si decidesse.
«Basta questa imbarazzante emorragia di candidati che si sta alimentando, più idee e meno nomi», è l’appello di Dario Ginefra. Pure Serracchiani vorrebbe si evitasse «la girandola di nomi». I Popolari di Fioroni promettono un loro candidato se si va avanti così, a furia cioè di posizionamenti. E Renzi? Insiste: «Subito ilcongresso». I renziani chiedono regole certe, una deadline per la convocazione delle assise democratiche, e non transigono sulle primarie aperte, non riservate ai soli iscritti come invece vorrebbero i bersaniani. «Lo Statuto del Pd non lo ha inventato Matteo Renzi, ma è in vigore dalla nascita del partito. Errare è umano, perseverare è diabolico — sostiene il renziano Andrea Marcucci — non si possono cambiare le regole sempre e solo quando all’orizzonte c’è il sindaco di Firenze. Il segretario di un grande partito ha la naturale ambizione di governare il paese. Scegliamolo con le primarie libere e aperte, e soprattutto senza trucchi». Il sindaco “rottamatore” ha denunciato i tentativi di trabocchetti per metterlo fuori gioco. A sorpresa, Rosy Bindi, l’ex presidente del partito che di Renzi è sempre stata avversaria, riconosce che ha buone ragioni. «Sono d’accordo a non cambiare lo Statuto, che è per un partito la stessa cosa della Costituzione per un paese, non si cambia per quelle che sono le convenienze politiche del momento ». Bindi per la verità non l’avrebbe modificato per fare partecipare il sindaco fiorentino alla sfida con Bersani per la premiership, nel novembre scorso. «Credo che non voterò Renzi — precisa — perché, almeno ad oggi, non riesco a capire cosa voglia, non ci ha mai detto in modo compiuto la sua idea di Pd e di Italia».
Repubblica 1.7.13
La Repubblica dei partiti provvisori
Tutti i partiti e tutti i leader che hanno guidato il Paese negli ultimi vent'anni sono a fine corsa
Fra un anno, al massimo, il sistema partitico sarà diverso. Molto diverso
di Ilvo Diamanti
qui
Repubblica 1.7.13
Non si gioca con le riforme
di Piero Ignazi
LA RIFORMA del sistema elettorale rischiava di essere inghiottita dai veti incrociati dei partiti e di diventare merce di scambio nel“grande gioco” delle riforme.
Per riprendere ilKim di Rudyard Kipling non sappiamo chi sia, tra i colli di Roma, l’emissario zarista o l’agente britannico, ma certo tutti stanno cercando di sottrarsi all’imperativo, oseremmo dire “categorico”, di produrre un nuova legge elettorale. Per fortuna il presidente del Senato ha riacceso i riflettori su questa inadempienza del Parlamento. Nel farlo con un’intervista ieri su Repubblica, ha ricordato le recenti sollecitazioni della Consulta ad intervenire e, soprattutto, ha segnalato la priorità e l’urgenza della riforma del sistema elettorale rispetto a tutto l’impianto costituzionale.
Il fuoco di sbarramento alzato dal Pdl rende l’idea del grande gioco dietro alle riforme: non si può far avanzare una pedina (conquistare un emirato, avrebbe detto Kim) se non si sono già definite le altre mosse in vista dell’obiettivo finale (la conquista del diamante della corona britannica, l’India), vale a dire un presidenzialismo populista ritagliato su misura per il Cavaliere. Eppure, per procedere sulla strada delle riforme, bisogna togliere dal tavolo delle trattative la legge elettorale. Questa materia è, in quasi tutti i paesi, affidata alla legislazione ordinaria, non a quella costituzionale, e quindi va distinta dai rapporti tra i poteri dello Stato che sono invece, giustamente, materia propria delle costituzioni. All’obiezione che legge elettorale e ridefinizione della forma di governo vadano trattate insieme, è facile rispondere che i sistemi elettorali non sono concepiti per quello scopo bensì per “trasferire” i voti in seggi.
Questo trasferimento può avvenire in mille modi. Due soli però sono i criteri fondamentali a cui tutti si riconnettono: quello di assicurare la più fedele trasmissione delle scelte degli elettori garantendo il massimo della proporzionalità (come in Olanda e in Israele dove basta lo 0,67% dei voti per eleggere un deputato), oppure quello di favorire i partiti maggiori distorcendo la proporzionalità in cambio di una probabile, ma non certa, maggiore governabilità (si veda l’inedito governo di coalizione prodotto dalle elezioni britanniche del 2010).
Ai sistemi elettorali sono poi attribuite anche molte altre proprietà, a volte del tutto taumaturgiche, come quella di migliorare la qualità della classe politica. Al di là di queste e altre illusioni va ripetuto ancora che qualche buona pratica il sistema elettorale maggioritario a doppio turno può innescarla. Lo abbiamo già sperimentato qui da noi con le elezioni per il sindaco. La competizione che prima consente il massimodella libertà di scelta tra i candidati (al primo turno) e poi seleziona il vincente (al secondo turno) ha portato alla ribalta spesso figure nuove e di rilievo, e ha spinto i partiti ad allearsi in coalizioni alternative. Chi ha memoria della rissosa politica locale pre-1993 non può che convenire sulla bontà del nuovo sistema adottato per le cariche elettive sub-nazionali. Dinamiche simili scatterebbero anche a livello nazionale per l’elezione dei parlamentari.
Non è una panacea, ma quanto meno la frammentazione viene ridotta, i partiti estremisti emarginati e la tenuta delle coalizioni rafforzata. Tutto questo non ha nulla a che vedere con la scelta per un presidenzialismo intero o dimezzato, oppure per un parlamentarismo con premier super parteso meno. Se il sistema elettorale è indipendente da queste opzioni allora non ci sono motivi per attendere ancora il treno delle riforme istituzionali. Anche perché il sistema vigente piace pochissimo agli italiani: un sondaggio del 2010 lo vedeva preferito da meno del 10% degli intervistati. E pure i grillini, in un loro sondaggio online dell’agosto scorso, scartavano decisamente il Porcellum in favore di sistemi maggioritari (39%). Ritornare a votare con le stesse regole sarebbe un insulto alle domande dell’opinione pubblica (oltre che della Consulta e delle maggiori cariche istituzionali). Insomma, il “grande gioco” va interrotto: venga presentata — da chi ha il coraggio — e messa ai voti una nuova legge elettorale.
Repubblica 1.7.13
Contro la disoccupazione ci vuole della fantasia
di Mario Pirani
La grande depressione degli anni Trenta venne affrontata in modo diverso dai Paesi totalitari europei e dalla democrazia americana. Quest’ultima ebbe nella esperienza rooseveltiana del New Deal la sua guida di scorrimento, i cui risultati cominciarono però ad incidere soprattutto dal coinvolgimento Usa nel conflitto mondiale. L’Urss di Stalin per attivare la sua industria pesante anche a fini bellici promosse, combinando l’entusiasmo alla repressione, il funzionamento coattivo dei piani quinquennali. L’Italia di Mussolini si affidò alla creazione dell’industria di Stato attraverso l’Iri, supportata da una nuova legge bancaria e degli istituti di credito pubblico. Hitler, alla vigilia e subito dopo il 1933, fece della lotta alla disoccupazione la sua bandiera per l’accesso al potere, attraverso iniziative di clamoroso rilievo propagandistico: dalla creazione dell’Esercito del Lavoro dove venivano reclutati i giovani disoccupati ad una lettera personale da lui indirizzata ad ogni imprenditore, dal grande industriale al bottegaio perché assumesse un giovane privo d’impiego nella sua azienda, prima di lanciarsi nel rilancio del riarmo. È interessante inoltre rammentare che il piano delle autostrade in Germania, concepito dalla Repubblica di Weimar e rallentato dalle pastoie burocratiche, tipiche delle democrazie, fu attuato cancellando ogni remora dal nazismo che lo battezzò come grande opera del regime.
Abbiamo ricordato queste premesse storiche perché esse fanno risaltare in primo luogo i cambiamenti che esse comportarono sui sistemi politici dell’epoca; in secondo luogo come la lotta alla disoccupazione sviluppò iniziative straordinarie che toccarono gli estremi della pianificazione, dalla più autoritaria alla più democratica, dalle trovate demagogico-popolari alle innovazioni di una economia fantasiosa (un certo clamore nell’ultimo dopoguerra suscitò la proposta di un grande economista democratico, Paolo Sylos Labini, di riprendere nell’Italia repubblicana l’idea dell’Esercito del Lavoro). Naturalmente le premesse storiche non sono ripetibili e per certi versi neppure auspicabili, e le richiamiamo solo per sottolinearne la eccezionalità politica che una depressione delle dimensioni attuali, paragonabile anche se in chiave meno macroscopica a quella degli anni Trenta, necessiti. Ma anche iniziative alla nostra portata sembrano difficilmente percorribili. Vediamo, ad esempio, laspending review (in italiano: revisione delle spese) introdotta dal compianto e illuminato ministro Tommaso Padoa Schioppa e dal suo valente capo di gabinetto, l’economista Paolo de Joanna, che avrebbe dovuto comportare il riesame analitico delle specifiche voci di spesa dei bilanci ministeriali, così da introdurre criteri di razionalità sia ai tagli che agli investimenti. Si arrivò a completare 36 voci poi subentrò Tremonti e al ministero del Tesoro i tagli lineari di spesa, più facili da maneggiare, senza entrare nel merito. Così, come ricorda sulMessaggeroOscar Giannino, a cui le disavventure elettorali non hanno annullato la capacità di una lucida critica economica, la
spending review applicata nell’ultimo bilancio del governo inglese ha portato al taglio non lineare di 144mila dipendenti pubblici , scelti oculatamente tra i diversi dicasteri in una forbice tra il 6 e il 10%, compensati da aumenti di bilancio per l’istruzione, la sanità e le infrastrutture. Un quadro, quanto meno comprensibile. Quanto alle ultime misure del nostro governo ve ne sono di apprezzabili (l’utilizzo dei fondi europei per tirocinio formativo al Sud che stavano per essere annullati, aiuti per il sostegno alla povertà) ed altri di cui è ancora in forse l’effettivo utilizzo (decontribuzioni per contratti a tempo indeterminato derivanti da una revisione della Fornero). Non solo siamo lontanissimi dalle grandi misure epocali che pure occorrerebbero, ma non ci avviciniamo neppure alla buona amministrazione britannica.
l’Unità 1.7.13
Bray: «Sulla cultura il governo si gioca tutto»
Il ministro interviene dopo l’ultimatum Unesco per la chiusura di Pompei
«Sul patrimonio del Paese dobbiamo investire e soprattutto assumere»
«Dobbiamo tornare ad assumere le professionalità necessarie Servono duemila persone»
intervista di Francesca De Sanctis
ROMA «Sull’emergenza culturale si gioca la credibilità del governo. I soldi devono arrivare e sono certo che arriveranno». È ottimista Massimo Bray, ministro dei Beni e delle attività Culturali e del Turismo da appena un paio di mesi. «Mi ci devo ancora abituare... ».
Intanto accetta per la prima volta di rispondere alle nostre domande nelle vesti di ministro. Prima di questo incarico, lo avevamo più volte ascoltato come direttore editoriale della Treccani, direttore della rivista Italiani/ Europei e come presidente della Fondazione Notte della Taranta. Pugliese, 54 anni, ora ha una sola e unica missione: salvare la cultura.
Ministro, in questi due mesi l’abbiamo vista girare come una trottola per l’Italia, da Pompei al Maggio fiorentino. Le priorità sono tante... partiamo dal Colosseo, nei giorni scorsi chiuso al pubblico a causa delle proteste di lavoratori e sindacati che chiedono più tutela contrattuale e professionale e soprattutto un progetto di rilancio del settore. C’è il rischio che il Colosseo possa restare ancora una volta chiuso davanti ai turisti?
«Sono intervenuto per sboccare le risorse necessarie per riconoscere il lavoro straordinario fatto in questi mesi, sensibilizzando la ragioneria della Stato. Resta la questione del personale che abbiamo in tutte le strutture dei Beni culturali. Colpisce che questa sia una cosa che sottolinea anche l’Unione Europea per Pompei. Abbiamo stimato che in Italia c’è la necessità di circa 2mila persone. L’ultimo concorso, quello del 2008, prevedeva solo 400 assunzioni, quindi il problema del Colosseo è il problema di Pompei, degli archivi, delle biblioteche... Ancora una volta insisto su un punto: se il governo ha realmente messo la cultura al centro deve trovare assolutamente le risorse per tutelare il patrimonio e consentire di poter assumere quelle professionalità necessarie: archeologi, architetti, bibliotecari, archivisti ecc..».
Ci vorrebbe un bel concorsone...
«Bisognerebbe innanzitutto andare oltre il blocco delle assunzioni e attingere alla lista degli idonei e poi sarebbe necessario poter ripartire con le assunzioni, ma le risorse devono essere rivolte anche alla formazione. Se il patrimonio culturale del Paese merita attenzione allora dobbiamo crederci e investire. Tutelare e valorizzare vuol dire che il futuro del Paese va verso questa direzione. È una scelta politica molto precisa che il governo deve fare».
Ha avuto rassicurazioni da Letta in questo senso?
«Nell’incontro che ho avuto con lui circa una settimana fa, il presidente del Consiglio mi ha assicurato che insieme valuteremo un piano di lavoro sui Beni culturali e insieme vareremo questo piano nella consapevolezza che tutto il governo ha che la cultura è al centro della sua attenzione. Sono sicuro che Letta dedicherà i prossimi giorni a varare un piano per fronteggiare le emergenze. Dal governo mi aspetto tutte le risorse necessarie. Il ministero ha un bilancio che è un terzo rispetto a quello che aveva. Alcuni numeri sono significativi. La riduzione del 58% delle risorse per le cosiddette emergenze è indicativo che qualcosa non funziona. Quando sono arrivato c’erano 8mila bollette non pagate, tutti segnali che indicano che non ci sono i soldi per andare avanti... I soldi devono arrivare, è un problema di credibilità mia e del governo. Se così non è significa che si è persa una sfida».
Nei prossimi giorni ha fissato un incontro con i lavoratori del Colosseo. Cosa vi direte?
«Parlerò del mio impegno ad investire nella cultura e nella turismo come scelta di uno sviluppo differente. Mi piacerebbe tornare a fare sistema in un Paese che ormai non ha più questa capacità. Anzi, lancio un appello: i progetti devono essere progetti in cui crediamo. L’unico modo in cui possiamo dimostrare di saper lavorare in modo differente».
Questo implica anche una riforma del ministero? Ci sta pensando? Nei giorni scorsi ha parlato di una Commissione, come funzionerà?
«Ci sto mettendo tutto l’entusiasmo... Molti scherzano sul fatto che ho perso 4 chili in due mesi, tra un po’ non rimane nulla... Un’idea di trasparenza in tutte le sue parti. Mi piacerebbe farlo insieme a tutte le parti sociali, ai governi locali e penso soprattutto al turismo dove è necessario un dialogo con le Regioni, fare sistema significa avere come obbiettivo promuovere il nostro Paese. Dal Turismo può arrivare la risposta di crescita e di ricchezza per il Paese. Bisognerà fare presto delle scelte, per esempio trovare soluzioni per favorire chi nel turismo crede (per esempio con le agevolazioni fiscali). Per quanto riguarda la Commissione ci saranno tre gruppi di lavoro, uno che riguarderà appunto la riorganizzazione, un secondo che curerà i rapporti tra pubblico e privato, un terzo si occuperà della manutenzione del codice del paesaggio. Dovranno naturalmente lavorare in sinergia». Parliamo di Pompei: secondo l’Unesco il governo italiano ha tempo fino al 31 dicembre 2013 per adottare misure idonee... ce la faremo?
«Pompei è da sempre il mio chiudo fisso. Il simbolo prestigioso del nostro Paese. La mia prima visita da ministro è stata proprio a Pompei. Lì c’è il problema della Circumvesuviana e fa capire che le questioni di Pompei bisogna affrontarle da più punti di vista. Anche lì bisogna fare sistema».
E le basi ci sono?
«Abbiamo una grande sfida da affrontare: entro il 2015 varare tutti i cantieri, certo quello dell’Unesco non è un dictat ma un allarme che prendo in seria considerazione, però due dei primi 5 cantieri sono stati avviati, il terzo partirà presto. Entro 2015 dovremo aprirne 39, il governo è impegnato a vincere questa sfida, Pompei può essere un gioiello assoluto».
Le faccio almeno una domanda su un’altra questione cruciale: le Fondazioni lirico-sinfoniche rischiano di non sopravvivere se non si interviene subito. Come pensa di intervenire?
«Dieci giorni fa, dopo aver fatto una riunione sul Maggio fiorentino, ho chiesto quale era la situazione generale delle fondazioni lirico-sinfoniche e ho trovato una situazione debitoria di oltre 330milioni di euro. Mi sono chiesto: il Paese può permettersi di perdere una parte così importante della nostra cultura? Ecco perché chiedo al governo e agli enti locali di intervenire. Il mio ruolo deve essere quello di essere al loro fianco. Dobbiamo impegnarci tutti per trovare una soluzione».
Cinema e teatro: ripristino del tax credit e legge sullo spettacolo. Sono nel suo calendario?
«Con il cinema italiano riusciamo a mostrare l’identità di un patrimonio culturale. Il ministro Saccomanni ha creato questo primo fondo impegandosi a trovare da qui al 31 dicembre risorse per mantenere vivo un meccanismo capace di aiutare il cinema. Dovremmo anche sottolineare l’importanza di valorizzare il Festival del cinema di Venezia. Tra le priorità c’è naturalmente anche una legge sullo spettacolo. Il teatro è una tradizione del Paese. Bisognerà affrontare anche i tagli dell’Istat che mettono a rischio la vita di teatri come il Piccolo di Milano. Il governo dovrà intervenire anche su questo».
l’Unità 1.7.13
L’Italia che investe poco su scuola e formazione
Il rapporto annuale Ocse «Education at a Glange» punta il dito contro le scarse risorse
che il nostro Stato destina all’educazione
di Benedetto Vertecchi
Per molti anni la pubblicazione di Education at a Glance (il rapporto annuale che l’Ocse dedica all’educazione) è stata l’occasione che ha consentito a troppi improvvisati soloni, e ad esperti ancora più improvvisati, di tuonare contro gli sprechi di pubblico denaro che sarebbero propri del modo di funzionamento delle nostre scuole. Per altri versi, era sempre l’Ocse a segnalare, tramite i rapporti periodici relativi alle rilevazioni Pisa (Programme for International Student Assessment) che i risultati mediamente conseguiti nelle prove di apprendimento avevano raggiunto livelli petroliferi, che ci vedevano solidamente attestati nelle posizioni di coda per quel che riguardava aspetti qualificanti del profilo culturale, come la capacità di comprensione della lettura, le competenze matematiche e quelle scientifiche. L’effetto combinato dei rilievi critici presenti in Education at a Glance e dei bollettini di Caporetto costituiti dai volumi di presentazione e commento dei dati Pisa è stato di offrire la parvenza di un fondamento di ricerca alle scelte malthusiane di politica scolastica che hanno caratterizzato i governi che si sono succeduti dall’inizio del secolo.
In pratica, la scuola è stata accusata di dilapidare risorse senza assicurare al Paese la qualità attesa nell’educazione di bambini e ragazzi (ricordo che le rilevazioni Pisa riguardano i quindicenni scolarizzati: danno perciò un’idea riassuntiva del repertorio di cultura che si osserva alla fine dell’istruzione obbligatoria).
L’edizione 2013 (che può essere scaricata all’indirizzo www.oecd. org), pur conservando un’impostazione teorica per la quale le scelte educative sono considerate subalterne rispetto a quelle economiche, giunge a conclusioni abbastanza diverse. Non solo non si rilevano più gli sprechi ravvisabili nelle condizioni di funzionamento in precedenza oggetto di più severa attenzione (per esempio, il numero complessivo degli insegnanti o il numero degli allievi per classe), ma si segnala la limitatezza delle risorse che caratterizza l’impegno pubblico per l’educazione.
ZITTITI I SOLONI
Non è un caso che alla pubblicazione del rapporto 2013 abbia fatto riscontro un silenzio inconsueto da parte dei soloni prima menzionati, e che, al contrario, certi rilievi critici siano stati colti e apprezzati proprio da quanti, in precedenza, rifiutavano associazioni troppo semplici tra i dati relativi al funzionamento e quelli descrittivi dei risultati. Non è un buon segnale quello che deriva da un confronto che si sviluppa sulla conformità o meno dei dati rispetto alle scelte contingenti di politica scolastica, perché quella che emerge è solo la povertà delle interpretazioni. Purtroppo, è quel che accade in Italia. Non c’è stato quell’impegno per lo sviluppo della ricerca educativa interna che avrebbe consentito sia di far corrispondere il governo del sistema a ipotesi di sviluppo sostenute dalla conoscenza dei fenomeni, sia di trarre reale vantaggio dalla partecipazione alle rilevazioni e alle comparazioni internazionali.
È quindi accaduto, e continua ad accadere, che quel poco di elementi descrittivi sul funzionamento del sistema e sui risultati dell’attività provengano da progetti che rispondono a logiche piuttosto diverse da quelle che il nostro sistema scolastico dovrebbe perseguire. Sono, infatti, soprattutto logiche tese a porre in evidenza le ricadute in tempi brevi dell’attività educativa, mentre il nostro sistema scolastico, al pari di molti altri, è soprattutto orientato (o, almeno, lo era) a favorire nei processi educativi la comune acquisizione dei repertori culturali necessari per caratterizzare il profilo dei cittadini nell’intero corso della vita. All’enfasi posta sui risultati a breve termine si oppone l’impegno a favorire processi di adattamento che continuino a dispiegarsi nel corso della vita. L’aridità di una cultura immiserita dalla rincorsa di un’utilità immediata finisce col sopraffare la possibilità di sviluppare un disegno educativo volto ad accrescere la comprensione.
Bisogna superare la tendenza al manicheismo che il più delle volte si manifesta quando si affrontano questioni educative. I rapporti dell’Ocse non sono, in sé, portatori d’interpretazioni, non importa se positive o negative, ma sono occasioni per avviare una riflessione sostenuta soprattutto da considerazioni che si riferiscono ad aspetti specifici del funzionamento e della cultura delle nostre scuole. Per esempio: si potrebbe osservare che i livelli degli apprendimenti scientifici sono migliori quando gli allievi hanno maggiori opportunità di verificare tramite pratiche di laboratorio (reale, non virtuale!) ciò che loro si propone di apprendere. In Italia, è raro che ciò accada. Anzi, in troppe scuole le dotazioni esistenti sono state dismesse.
SCELTE IDEOLOGICHE
È difficile negare che si sia trattato di una scelta ideologica: non c’era ragione per affermare che i vecchi laboratori (che potevano essere aggiornati) dovessero essere sostituiti da soluzioni alle quali si riconoscevano qualità didattiche non dimostrate, ma accreditate per l’alone di modernizzazione che le circondava.
È evidente che se ci fosse stata una ricerca interna di qualche dignità non si sarebbe stati esposti, come si continua a essere, al condizionamento esercitato da ideologie antagoniste della cultura dell’educazione. E si avrebbero elementi per cogliere la continuità tra l’evoluzione in atto nel nostro sistema educativo e quella che parallelamente si riscontra altrove.
Repubblica 1.7.13
“Io, espulso dall’Italia dopo trent’anni ma ormai non so più nemmeno l’arabo”
La denuncia dell’algerino Cherif: “Prigioniero nel Cie di Bari”
di Giuliano Foschini
BARI — «Senato’, m’hanno detto che mi riportano nel mio paese. Benissimo, allora fatemeuscire da qui. Perché io sto già nel mio paese». Fuori diluvia, eppure è estate. Ma il cortocircuito di Cherif, l’italiano clandestino, è un ossimoro ancora più efficace. Cherif ha poco più di cinquant’anni. Da trenta vive in Italia. Ha tre figli nati a Pomezia, dove da sempre lavora come carrozziere: uno è maggiorenne con passaporto e cittadinanza italiana, gli altri due aspettano i documenti al compimenti dei 18 anni, «come El Sharawy e Balotelli, ha presente?». Parla con una marcata cadenza romana: «Me portano li giornaliin arabo. E chi lo sa l’arabo, senato’? ». Cherif da qualche settimana è rinchiuso nel Cie di Bari, in attesa di espulsione verso il «suo» paese, l’Algeria. Dopo cinque anni in carcere per una storia di droga, il giudice di sorveglianza lo ha bollato come “pericoloso”, ritirandogli il permesso di soggiorno. «Ero a casa mia, con mia moglie e i ragazzi. Sono venuti i carabinieri e m’hanno detto, devi tornare in Algeria. Ma che ci vado a fare? Io ci manco da una vita. Hosbagliato, questo sì, ho pagato ma non cacciatemi: io sono italiano ».
Questo signore, la sua tuta di acetato blu, le ciabatte di plastica «è la prova del paradosso e della pericolosità che queste strutture possono produrre» spiega Luigi Manconi, senatore del Pd e presidente della commissione Diritti Umani di Palazzo Madama che sabato ha voluto visitare il Centro di identificazione ed espulsione (Cie) di Bari. Non è un caso che lui (insieme con le sue due assistenti, Valentina Calderone e Valentina Brinis e la funzionaria del Senato Vitaliana Curigliano) abbia scelto proprio questo posto per cominciare un viaggio nei Cie italiani: l’International Herald Tribunee ilDie Spiegelnelle scorse settimane avevano denunciato le condizioni «inumane» dei centri, citando Bari tra i casi più eclatanti. «Casi raccapriccianti che non assicurano agli immigrati una necessaria assistenza e il pieno rispetto della loro dignità» aveva scritto il perito del tribunale di Bari un anno fa, costringendo la Prefettura a effettuare nuove opere all’interno della struttura. Alcuni lavori sono conclusi. Altri partiranno a breve. L’ingegnere arriverà presto a controllare lo stato dell’arte in attesa — dopo la class action presentata dall’avvocato Luigi Paccione — che il tribunale civile (ma c’è anche un’inchiesta della Procura) siesprima sull’eventuale chiusura della struttura.
«Ora le condizioni sono molto migliorate», giurano dalla Prefettura. La capienza è stata ridotta, da 196 a 112. In questi giorni i migranti erano 106, in prevalenza algerini, marocchini, tunisini.Qualche nigeriano. Nessuna donna. Da qualche mese c’è una nuova cooperativa che gestisce il centro: psicologi, assistenti sociali, informazione legale. I corridoi sono tirati a lucido, in occasione della visita. Le stanze meno, con le brande sgarrupate e armadi e comodini in cemento armato. «Per evitare che si facciano male» dicono. Ogni mese si verificano almeno due atti di autolesionismo. Gli schizzi di sangue sul muro, e le cronache degli anni scorsi, raccontano di piccole risse e vecchie rivolte. Recentemente un ragazzo georgiano ha provato a scappare. È caduto, hanno ricostruito, e si è fratturato tutto. Lo hanno curato e rimandato a casa. Uno su tre qui dentro fa uso di psicofarmaci. In una delle stanze, a pochi metri dai tappeti e due disegni che dovrebbero fare da moschea del braccio numero cinque, c’è un cappio esposto. Dicono che non sia un simbolo. Ma un’aspirazione.
«Dopo il carcere pensavo di tornare libero: poi mi hanno portato qui. Ma io che ci sto a fare qui?» racconta un algerino che ha vissuto anni e anni a Pistoia. Lamenta la schizofrenia di tutti coloro che vivono questi posti. Una schizofrenia anche lessicale: per lo Stato sono «ospiti» e da tutti gli altri invece «trattenuti» o «detenuti». Non sanno perché entrano e non sanno quando usciranno. Vivono tra le sbarre ma usano i telefonini, non ci sono guardie carcerarie ma le porte quando si chiudono a chiave fanno le stesso rumore delle prigioni. «Si percepisce chiaro— dice Manconi — quel senso di tensione, tra i ragazzi, che soltanto chi ha un’esperienza delle carceri conosce. Ma in un posto come questo ci sono delle condizioni, se possibile, ancora più terribili ». La noia, l’inattività. A Bari c’è un campo di calcio dove possono andare dieci per volta una volta alla settimana. Un televisore per ogni blocco. E basta. «Basterebbe portare giornali italiani, visto che circolano solo quelli in arabo e l’arabo qui dentro lo parlano pochissimo. Creare una biblioteca o fare entrare le associazioni per attività ludiche. Serve dare un senso alle giornate di queste persone». Manconi chiede due cose subito: «Più informazione legale: molti qui sono trattenuti illegalmente perché non c’è stata una verifica preventiva della legittimità del loro status. E maggiore attenzione ad alcuni casi sanitari». Un ragazzo ha raccontato di essere a letto da una settimana, per problemi alla schiena. Sopra di lui un murales domandava: «Dove va il mio destino?».
Corriere 1.7.13
Quell’orecchio degli Usa in Europa, ma la storia è piena di spie amiche
di Guido Olimpio
Silenzio, l'amico ti ascolta. Il famoso monito può essere modificato senza paura di essere smentiti. Le rivelazioni di Edward Snowden, l'ex tecnico della Nsa, raccontano molto su come gli americani tengano le orecchie elettroniche puntate sugli alleati. La Germania, in particolare. E non sorprende, visto il suo peso economico. Gli agenti seguono sempre il denaro, «follow the money» è la parola d'ordine non in codice. Così le loro antenne scrutano — si dice — la Bce, vanno a caccia di indiscrezioni tra le delegazioni europee, seminano cimici nei palazzi dell'Europa che conta. Altra sorpresa? Non direi. Credo che gli stessi diplomatici lo diano per scontato anche se forse non immaginavano l'estensione della rete tesa dai pescatori dell'Nsa. Globale, gettata in tutti quei mari dove gli obiettivi statunitensi possono collidere con quelli dei partner.
Siamo amici, certo, però al momento del conto ognuno bada a se stesso. Il presidente Obama quando va all'estero, Europa compresa, è attento a quello che dice in privato. Il Secret service crea una «bolla», una stanza sicura a prova di intercettazione. Ufficialmente è per tenere distante gli avversari, i ficcanaso cinesi e russi. Però lo scudo respinge tutti. La storia dei rapporti tra alleati è piena di sgarbi. Jonathan Pollard è in una galera americana dall'85: ha rubato, per conto di Israele, segreti importati agli Usa. All'epoca della presidenza Clinton si raccontava che l'Fbi desse la caccia ad una spia del Mossad fin dentro alla Casa Bianca. Mai trovata. Trame che hanno poi portato a parlare di sistemi sofisticati in grado — pensa le coincidenze — di captare sospiri e telefonate, di software rubati, di morti misteriose.
Oggi l'Europa, a ragione, protesta. Chiede spiegazioni immediate agli Stati Uniti per tutti quei dati finiti negli archivi dell'Nsa. E c'è chi invoca ritorsioni commerciali. Però nessuno può negare che i governi dell'Unione, quando vogliono, collaborano con gli americani e contribuiscono a rastrellare i tasselli del mosaico. Con i britannici solidamente al fianco dello zio Sam. Senza dimenticare che nei momenti critici, per scelta e per mancanza di mezzi, siamo dipendenti dai «maghi» della tecnologia Usa. È una vecchia storia, ma sempre valida. Gli interessi vanno difesi con strumenti efficaci e autonomi. Perché anche «l'amico ti ascolta».
l’Unità 1.7.13
L’Egitto torna in piazza. Cartellino rosso a Morsi
Milioni manifestano pro e contro il Capo dello Stato
A un anno dalle elezioni gli oppositori sperano in una nuova primavera. Lui: «Non me ne vado»
di Umberto De Giovannangeli
Una folla oceanica tinge di rosso Piazza Tahrir. Rosso: il colore dei cartellini con cui l’«altro Egitto» decreta l’espulsione di Mohamed Morsi, un anno dopo la sua elezione a primo presidente del dopo-Mubarak. Il giorno più lungo per il Paese delle piramidi è il giorno in cui nasce forse una nuova «Primavera egiziana». Una marea umana ha riempito nuovamente piazza Tahrir scandendo lo slogan della rivoluzione che ha deposto Hosni Mubarak nel 2011: «La gente vuole la fine del regime», e urlando: «Morsi vattene!». Vattene: è l’unico slogan gridato dalla folla. «Siamo qui per riprendere la rivoluzione dove ci è stata strappata di mano, eravamo molto ingenui e abbiamo fatto tanti errori gravi, ma ora abbiamo imparato la lezione», dice Ahmed, 23 anni, studente universitario. «Pensavamo che i Fratelli Musulmani fossero più astuti politicamente, invece si sono gettati sul potere come fiere, facendoci un favore in fondo, perché gli egiziani si sono resi conto rapidamente della loro vera natura», gli fa eco Salleh, impiegato, 30 anni. A partire dal primo pomeriggio almeno otto marce da quartieri diversi del Cairo si sono indirizzate verso piazza Tahrir. A mettersi in marcia anche la Confederazione dei sindacati egiziana, il Consiglio dei giudici, l’Unione dei giovani di Maspero, che raccoglie rivoluzionari a prevalenza copti, e il sindacato degli attori.
La manifestazione di ieri, nel primo anniversario delle elezione di Morsi, rappresenta il culmine di una campagna di opinione che è andata crescendo negli ultimi giorni, con scontri che hanno già causato sette morti (tra cui un ragazzo americano accoltellato ad Alessandria).
IL GIORNO PIÙ LUNGO
Non solo tensione. C’è anche un’aria di festa a piazza Tahrir, dove centinaia di migliaia di persone (uomini, donne, ma anche bambini) sventolano oltre alle bandiere egiziane, il cartellino rosso, soffiano nei fischietti e nelle «vuvuzelas», come allo stadio. I sostenitori di Morsi, esponente dei Fratelli Musulmani, sono invece riuniti da sabato sera davanti ad una grande moschea nella parte orientale della capitale egiziana. Il palazzo presidenziale di Ittahadeya, al Cairo, è completamente blindato: un muraglione di blocchi di cemento è stato allestito lungo il muro di cinta per tenere lontano i manifestanti, che sopra hanno stesso un lunghissimo striscione con l’immagine della guida spirituale della Fratellanza barrata con una X. Le strade di accesso sono bloccate e i servizi d’ordine organizzati dai manifestanti controllano l’identità e le borse delle persone che entrano nella zona della manifestazione.
Morsi ha incontrato i ministri dell’Interno e della Difesa chiedendo loro che si evitino scontri.
Almeno diciotto persone sono state fermate mentre erano in viaggio da Alessandria verso il Cairo in possesso di armi e munizioni. Lo ha riferito il capo della sicurezza di Alessandria Amin Ezzeldin aggiungendo che i fermati stavano andando alla manifestazioni dei movimenti islamici davanti alla moschea di Rabaa el Adaweya. Secondo fonti della Sicurezza, tre uffici della Fratellanza Musulmana sono stati dati alle fiamme dai dimostranti in città del Delta del Nilo, e in serata va a fuoco anche il quartier generale della
Fratellanza al Cairo. Proteste anti-Morsi anche ad Alessandria, nelle città del delta del Nilo (Menuf, Mahalla), in quelle sul Canale di Suez, a Port Said, e anche nella città natale di Morsi, Zagazig. Una persona ha perso la vita e trenta sono rimaste ferite negli scontri fra pro e anti Morsi nella città di Beni Suef nell’alto Egitto.
Col passare delle ore, e con il calar del sole che stempera la calura opprimente, la marea umana s’ingrandisce ulteriormente. Gli organizzatori di Tamarod (Ribelle), il movimento ispiratore della protesta, annunciano o di aver raccolto 22 milioni di firme per la destituzione di Morsi, otto milioni in più dei voti ottenuti dal presidente al voto dello scorso anno. In serata, l’ufficio del presidente ha rimarcato che il dialogo è l’unico modo per uscire dalla crisi politica che attanaglia il Paese. «Il dialogo è il solo modo attraverso cui possiamo raggiungere la comprensione... La presidenza è pronta a un autentico e serio dialogo nazionale», dice il portavoce di Morsi, Ehab Fahmy, ai reporter riuniti al palazzo di Hadayek El-Qobba. Ma forse è troppo tardi per ridare un senso concreto alla parola «dialogo». Il giorno più lungo dà conto di un Paese lacerato, insicuro, oltre che più povero. In migliaia decidono di trascorrere la notte in Piazza Tahrir. La polizia e i soldati sono schierati vicino ai principali edifici e il ministero della Sanità ha preannunciato che gli ospedali sono in allerta. «Non vado via», proclama Morsi. «Vattene», ribattono i manifestanti. La sfida continua. E l’Egitto trema.
l’Unità 1.7.13
Presidente sotto assedio, radiografia di una crisi
I Fratelli musulmani non hanno prodotto una classe dirigente
Fuga nell’islamizzazione forzata
di U.D.G.
La piazza in rivolta. Il palazzo presidenziale di Ittahadeya, completamente blindato. Un presidente sotto assedio. È Mohamed Morsi, nel primo anniversario della sua elezione ai vertici del più popolato, e nevralgico, Paese arabo. La marea umana che ha invaso le vie del Cairo, invocando le sue dimissioni, non sembra aver intimidito il primo presidente dell’era post-Mubarak. «Ci possono essere dimostrazioni ma non si può mettere in discussione la legittimità costituzionale di un presidente eletto», ha sostenuto Morsi in una lunga intervista al quotidiano britannico The Guardian, una delle rare concesse a un media straniero.
«Se cambiassimo qualcuno eletto secondo la legittimità costituzionale, ci sarà qualcuno che si opporrà anche al nuovo presidente e una settimana o un mese dopo chiederanno anche a lui di dimettersi», ha detto il primo presidente dei Fratelli musulmani al Guardian. «Non c’è spazio di discussione su questo punto. Ci possono essere manifestazioni e le persone possono esprime la loro opinione ma il punto cruciale è l’applicazione della Costituzione», ha insistito. Morsi ha quindi accusato «i resti del passato regime» per le violenze dei giorni scorsi, che hanno preso di mira sedi della Fratellanza. «Hanno i mezzi, che hanno ottenuto con la corruzione e li usano per pagare teppisti e così scoppia la violenza». «È stato un anno difficile, molto difficile e penso che gli anni a venire lo saranno ancora, ma spero di fare sempre il mio meglio per il pio Paese».
BILANCIO NEGATIVO
Voleva essere il presidente di tutti. Ha finito, forse al di là delle sue intenzioni, per spaccare l’Egitto in due. Ed è innanzitutto per le mancate risposte a una crisi economica sempre più devastante che gli egiziani occupano di nuovo le piazze e chiedono le dimissioni di Mohamed Morsi. Gli analisti rimarcano che il debito pubblico è passato da 33 a 45 miliardi di dollari: se per la fine dell’anno non si troveranno altri 20 miliardi, oltre a quelli già dati dagli arabi del Golfo, dalla Libia e dalla Turchia, l’Egitto fallirà.
Nell’ultimo rapporto del World Economic Forum l’Egitto è stato dichiarato uno dei luoghi più pericolosi al mondo per i turisti: più di Pakistan, Colombia e Yemen. Nella classifica generale l’Egitto si trova al 129° posto su 140. Dal 2010 ad oggi ha perso circa 4 milioni di turisti su 14. Mentre le strutture turistiche sul Mar Rosso sono ancora molto frequentate, grazie soprattutto al turismo russo, al Cairo gli alberghi sono pieni solo per il 15 per cento della loro capacità. A Luxor per il 5%. Il turismo è uno dei settori più importanti dell’economia egiziana. Impiega direttamente l’11% della forza lavoro totale e genera poco meno di una decina di miliardi di euro l’anno. Il turismo è importante anche perché è una delle principali fonti di valuta estera che è a sua volta uno dei tasselli fondamentali non solo dell’economia, ma dell’intera società egiziana di oggi. Quello del turismo è uno degli aspetti più gravi della crisi economica che sta colpendo l’Egitto. Una crisi acuitasi nel primo anno della presidenza Morsi.
Il malessere sociale si fonda sull’incapacità dimostrata dai Fratelli musulmani nel far emergere una nuova classe dirigente, capace di coniugare tradizione e modernità. Da qui il tentativo di ritrovare un rapporto con la propria base attraverso l’islamizzazione forzata della vita sociale come della Costituzione. Una fuga in avanti per Mohamed Morsi. Una fuga verso la sconfitta. E così un Paese spaccato, sembra marciare verso il disastro. «Sentiamo di aver raggiunto un’impasse, con il Paese che sta crollando. Questo non perché il presidente appartenga alla Fratellanza Musulmana, o perché sia una sola fazione a governare, quanto perché il regime è stato un completo fallimento», ha sintetizzato Mohammed El Baradei, uno dei leader dell’opposizione, in un messaggio video diffuso l’altra notte. «La gente ha votato per Morsi, ma ora dice di voler tornare alle urne», ha aggiunto l’ex capo dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (Aiea), esortando gli egiziani a scendere in strada per protestare. Un appello raccolto da milioni di egiziani. Ma da oggi, il problema sarà: che fare? E nessuno oggi in Egitto sembra possedere la ricetta giusta. A cominciare da Mohamed Morsi.
il Fatto 1.7.13
Egitto nel caos
Il ruggito di Tahrir tra Morsi e l’esercito
di Francesca Cicardi
Morsi si blinda a palazzo l’esercito in massima allerta
Centinaia di migliaia di persone in piazza, incendiata la sede dei Fratelli musulmani
Manifestazioni in tutto il paese per chiedere la cacciata del leader islamico. Scontri e feriti. Al Cairo Piazza Tahrir invasa dai dimostranti Le Forze armate pronte a intervenire
Il Cairo Centinaia di migliaia di egiziani hanno estratto il cartellino rosso e l’hanno mostrato al presidente Mohamed Morsi, chiedendone le dimissioni nelle strade di tutto il paese. “Irhal” (vattene) è lo slogan e il cartellino rosso il simbolo delle proteste che sono iniziate venerdì e potrebbero proseguire per giorni, se non settimane. I manifestanti sono sicuri che possono indurre il presidente Morsi a lasciare il potere.
UN ANNO DOPO le elezioni, per moltissimi egiziani, il Fratello musulmano ha perso la legittimità, così come dichiarava in un comunicato il “Fronte 30 di Giugno”, che ha convocato e organizzato le manifestazioni. “La volontà del popolo è stata espressa in modo alto e chiaro”, assicura il Fronte, chiedendo agli egiziani di mantenere la pressione sul Governo, continuando gli scioperi e le proteste nei prossimi giorni.
Abdelhany è accampato alle porte del palazzo presidenziale di Ittihadiya, al Cairo, da venerdì scorso, e assicura che rimarrà fino a quando Morsi non se ne andrà. Questo professore della provincia di Dakhliya (nord del Cairo), definisce così questa nuova ribellione popolare: “Non è una rivoluzione, è la continuazione della rivolta del 25 di gennaio”. Ma anche coloro che non sono scesi in piazza contro l’ex dittatore Hosni Mubarak, lo stanno facendo adesso, come Ibrahim, un dottore sulla cinquantina, che assicura che Morsi ha fatto peggio all’Egitto in un anno che Mubarak in 30.
Gli egiziani hanno fiducia e speranza nel fatto che potranno mandare via Morsi nello stesso modo in cui hanno costretto il faraone alle dimissioni, dopo 18 giorni di proteste tra gennaio e febbraio del 2011. La stessa strategia e la stessa innocenza di allora, con la differenza che Morsi è stato eletto democraticamente.
Il presidente si trasferiva ieri dal palazzo di Ittihadiya a quello di Al Qubba, a poca distanza, nel quartiere di Heliopolis, e continuava l’attività quotidiana: la presidenza convocava la stampa per dare un immagine di normalità, condannava la violenza e assicurava che l’Esercito è dalla sua parte.
In un giorno cruciale per l’E-gitto, tutti gli occhi erano puntati sui generali, che sono rimasti in disparte e non hanno dovuto pacificare la situazione. L'esercito mantiene comunque lo stato di massima allerta, pronto ad intervenire. La violenza che si è ripetuta negli scorsi giorni è scoppiata di nuovo nel Delta del Nilo fra fedeli e oppositori dei Fratelli Musulmani, e diverse sedi del gruppo e del partito islamista sono state incendiate e saccheggiate sia nel Delta che nella valle del Nilo. Una persona è morta a Beni Suef, al sud del Cairo.
GRANDI MANIFESTAZIONI
anche ad Alessandria, ma senza dubbio, il Cairo ha registrato la partecipazione più elevata, malgrado il caldo e la paura di scontri sanguinosi nelle strade. Nella capitale, i pro e anti Mursi hanno mantenuto le distanze di sicurezza. Anche gli islamisti sono scesi in piazza numerosissimi, per difendere la “legittimità” democratica del presidente, ma sono rimasti isolati nel quartiere di Medinat Nasser, dove hanno rafforzato le misure di sicurezza intorno alla piazza Rabaa al Adawiya. I Fratelli, accompagnati dai salafiti (islamisti radicali) sono accampati da venerdì, e importanti leader religiosi si sono recati da loro.
Ieri, sono circolate notizie in merito al fatto che persino il famoso calciatore egiziano Mohamed Abu Trika fosse andato a Rabaa al Adawiya, ma questo ha smentito, e non ha dichiarato a chi mostra il suo cartellino rosso.
Corriere 1.7.13
Egitto, una marea umana contro Morsi
Milioni in piazza, date alle fiamme le sedi dei Fratelli musulmani al Cairo
di Cecilia Zecchinelli
IL CAIRO — Forse non erano tanti quanti aveva sperato l’opposizione i manifestanti anti Morsi ieri in Egitto. Certo i 22 milioni di firme contro il raìs islamico raccolti dal movimento Tamarrod (Ribellione) non si sono tradotti in altrettante presenze alla Grande protesta. Ma dai cortei di feluche nel Nilo di Luxor, alle manifestazioni nel Delta e ad Alessandria, nelle città sul Canale di Suez e soprattutto al Cairo, centinaia di migliaia di egiziani, forse un paio di milioni, hanno sfilato al grido di Irhal, vattene, sventolando la bandiera nazionale e un cartellino rosso. Era dai giorni della Rivoluzione che non si vedevano dimostrazioni così massicce. E, almeno fino a tarda notte e con qualche eccezione — cinque morti negli scontri a Beni Suef, Assiut e Fayoum, qualche arresto e sequestro di armi, nuovi attacchi alle sedi dei Fratelli musulmani tra cui il quartier generale del Cairo, incendiato da un centinaio di persone — questo è avvenuto senza il bagno di sangue che tanti temevano. La Ribellione però non si ferma: mentre le piazze nella notte restavano piene e le tv seguivano passo passo gli eventi, il Fronte nazionale di salvezza che riunisce l’opposizione ha chiamato a «manifestare ad oltranza fino alla caduta di Morsi». Poco dopo, un portavoce militare ha dichiarato che il capo delle Forze armate e ministro della Difesa Abdel Fattah Al Sisi «ha lanciato lo stato di massima allerta e stabilito un’unità di crisi per assicurare il più rapido spiegamento in caso di crollo della sicurezza». Due notizie che insieme alle voci non confermate di un imminente abbandono di Morsi da parte dei vertici dei Fratelli musulmani da cui proviene, hanno alimentato le aspettative della caduta del raìs già nei prossimi giorni, probabilmente prima dell’inizio del Ramadan l’8 luglio.
Nella capitale le proteste avevano annullato fin dal mattino i soliti ingorghi infernali. Quasi sparite le auto, chiusi negozi e uffici nonostante il giorno lavorativo, nel pomeriggio fiumi di persone avevano invaso le strade e perfino i viadotti diretti verso il palazzo presidenziale a Heliopolis e alla piazza-simbolo di Tahrir. Ragazzine dei quartieri chic in jeans attillati e donne velate, contadini con turbanti e professionisti in grigio, avevano marciato in un clima in fondo gioioso nonostante il caldo e le preoccupazioni per il futuro. «Abbiamo tutti la sensazione di camminare su una strada a fondo cieco, con il Paese vicino al collasso», aveva dichiarato in mattinata Mohammad ElBaradei, il premio Nobel tra i leader dell’opposizione. E se il raìs aveva ribadito in un’intervista al britannico Guardian che non intendeva dimettersi, che la legittimità era dalla sua parte, già prima dell’inizio dei cortei si erano diffuse voci di dimissioni del ministro degli Interni, che molti avevano salutato come «l’inizio della fine di Morsi». Notizia non vera, si è saputo poi, ma vero è che il ministro si era rifiutato di schierare la polizia, da sempre ostile alla Fratellanza, a difesa del palazzo presidenziale e di altri punti caldi. Molti poliziotti hanno anzi partecipato alle proteste, portati in trionfo dai manifestanti. Il palazzo di Morsi, da cui questi è assente da giorni, era invece protetto dalla Guardia repubblicana e da massicce muraglie di cemento su cui qualcuno era riuscito a scrivere «Vattene». Come sullo scheletro bruciato della sede dell’ex partito di Mubarak, vicino a Tahrir, qualcun altro aveva messo un grande striscione con scritto «La fine del potere dei Fratelli. Morsi = Mubarak».
A proteggere il presidio dei fedeli al raìs, molto meno numerosi nel quartiere di Nasr City, erano invece schierate già da venerdì minacciose file di Fratelli musulmani con elmetti gialli da lavoro, scudi e mazze di legno. Un clima molto meno gioioso rispetto ai cortei degli avversari, una tensione palpabile. Era da queste file che molti temevano un attacco ai «ribelli», anche se varie voci raccolte tra i manifestanti dicevano di «non temere i Fratelli, abbiamo anche noi molte armi, e poi ci sono i militari che ci proteggono». Proprio l’esercito, ancora una volta, sarà l’arbitro del destino egiziano, cosa che in fondo piace a gran parte del Paese. La sua presenza ieri è stata tanto discreta da esser quasi invisibile, solo a protezione di alcuni edifici chiave come i ministeri e il Parlamento. Ma i voli di elicotteri militari sopra Tahrir, fino nella notte, sono stati salutati dai «ribelli» con applausi e grida di benvenuto.
Corriere 1.7.13
«Dai diritti delle donne all’economia il fallimento politico del governo islamico»
di C. Zec.
IL CAIRO — Storica femminista egiziana, dirigente del partito laico d’opposizione Tagammu e direttore del suo giornale Al Ahali, Farida Al Naqqash non ha dubbi nel valutare nel peggiore dei modi il primo anno (e lei come tanti si augura l’ultimo) della presidenza di Mohammad Morsi. «La libertà personale in Egitto oggi non è ancora garantita, anzi ci sono stati arresti, censure e perfino torture in carcere come e più che sotto Mubarak o Sadat», dice Al Naqqash, che sotto quest’ultimo finì due volte in carcere per motivi politici.
Questo vale anche per i diritti delle donne?
«Certo, i Fratelli Musulmani da sempre ci considerano cittadine di seconda classe, da controllare e tenere a casa. Negli ultimi mesi avrebbero voluto passare varie leggi contro di noi: sull’età del matrimonio, sulla custodia dei figli, sul divorzio. Vorrebbero cambiare tutto, se finora non ci sono riusciti è solo perché il Parlamento è ufficialmente sciolto da un anno. Se resteranno al potere sarà solo questione di tempo perché quelle leggi entrino in vigore».
E sul fronte economico?
«Forse i guai sono ancora più grandi: in un anno hanno compiuto un totale disastro, la nostra valuta è crollata, la disoccupazione e la povertà sono enormi, per il livello di vita di milioni di egiziani è stato un enorme passo indietro».
Per questo Tamarrod è riuscita a raccogliere 22 milioni di firme della petizione per deporre Morsi?
«Sì, la gente, e soprattutto la gente normale, non solo gli intellettuali, non ne possono più dei Fratelli Musulmani. Ma in realtà non si fidano dei politici in generale. Imputano, a ragione, all’opposizione di essere troppo divisa e inconcludente, accusano i suoi leader di pensare di più ai talk show in tv che al bene del Paese. E’ con questo spirito che oggi tantissimi sono in strada, non ne possono più di parole al vento».
Ma quindi Tamarrod e la gente cosa vorrebbero, un ritorno dei generali?
«Sì, quasi tutti pensano che i militari potrebbero garantire finalmente stabilità, sicurezza e benessere dopo tanto tempo. Personalmente io sono contraria al fatto che l’esercito assuma nuovamente il potere politico come fu dopo la caduta di Mubarak, ma come fase di transizione mentre si preparano nuove elezioni sarebbe il male minore».
Ma chi le vincerebbe le elezioni oggi?
«La Fratellanza ha ormai dimostrato di non essere in grado di governare, questo è certo. Vincerebbe il Fronte nazionale di salvezza, ovvero l’opposizione che alla fine troverebbe un accordo. Unendosi a una parte dei giovani di Tamarrod. Il movimento non vuole diventare un partito ma ha tanta gente valida, lo ha dimostrato in questi giorni».
Sempre che Morsi se ne vada. E’ possibile?
«Non so. Tutto dipende dai generali che a loro volta sono molto vicini a Washington, anche finanziariamente. Finora gli americani hanno sostenuto Morsi, l’ambasciatrice Usa al Cairo lo ha fatto esplicitamente. Ma il presidente Obama sabato ha dichiarato che “gli Stati Uniti non si schierano con nessuno in Egitto”. Un piccolo segnale che forse stanno cambiando idea».
Corriere 1.7.13
In Egitto presidente sotto scacco. Il dialogo impossibile dei fronti opposti
di Antonio Ferrari
L'Egitto, gigante fiero e derelitto, alla fine è stato travolto dallo tsunami politico-sociale più pericoloso, che rischia di minarne seriamente la stabilità. Quanto sta accadendo va ben oltre la volontà di una parte consistente della popolazione di rimandare a casa subito il tentennante e inadeguato presidente Mohammed Morsi, ostaggio della Fratellanza musulmana, eletto un anno fa. Il rischio, adesso, è che Il Cairo diventi l'infuocato e duraturo scenario di nuove avventure che avrebbero ripercussioni non soltanto nel mondo arabo, di cui l'Egitto è la guida, ma nell'intera regione. Quando si crea e si consolida la polarizzazione, è difficile poter immaginare spazi per una soluzione condivisa. Morsi, che ha scelto di abbandonare il palazzo presidenziale per una residenza temporanea più periferica, dimostra palesemente la propria insicurezza. E l'evidente incapacità di fronteggiare, evitando scontri sanguinosi, l'onda d'urto dei suoi contestatori che si affollano attorno al palazzo della presidenza, blindato da sicurezza e Forze armate.
Il problema più serio è che il capo dello Stato in realtà non ha tutti i torti. Come ha dichiarato in un'intervista al Guardian, per motivare il suo rifiuto ad andarsene, «se cambiassimo qualcuno eletto secondo la legittimità costituzionale, ci sarà chi si opporrà anche al nuovo presidente, e una settimana o un mese dopo chiederanno anche a lui di dimettersi». Questo, per concludere con un'offerta di dialogo ma senza concessioni, quindi senza tener conto della fiumana di cartellini rossi da espulsione sportiva che centinaia di migliaia di dimostranti agitano in piazza Tahrir e in tutto il Paese. Tuttavia Mohammed Morsi non può ignorare che la «primavera delle piramidi» non aveva come obiettivo di consegnare l'Egitto alla Fratellanza musulmana, spaventando moderati (anche islamici), progressisti, liberali, riformatori e cristiani copti; allontanando i turisti e gli investimenti stranieri; impoverendo ulteriormente un popolo sofferente; creando imbarazzi con scelte quantomeno poco avvedute. Di sicuro, politicamente discutibili, socialmente deleterie, economicamente devastanti. Dalle piazza laiche sono partite milioni di saette, dalle moschee si è mossa la potente armata della Fratellanza, che difende a ogni costo la legittimità del presidente. Prevedere quanto potrà succedere non è facile. È però ovvio che molto dipenderà dall'atteggiamento delle Forze armate. Neutrali, ma fino a quando?
Repubblica 1.7.13
Egitto in marcia: “Morsi vattene” scontri e vittime, esercito in allerta
Milioni in piazza per mostrare il “cartellino rosso” al nuovo raìs
di Fabio Scuto
UNO solo slogan diretto al primo presidente islamista eletto appena un anno fa: «Erhal!», Vattene. È stata la più grande manifestazione di protesta nella storia dell'Egitto, stimeranno in serata i vertici dell’esercito. Le proteste più imponenti nella capitale, dove Piazza Tahrir ieri sera era colma come durante la rivoluzione, il palazzo presidenziale - che fu di Hosni Mubarak e che oggi è del “nuovo raìs islamico” Mohammed Morsi - era pacificamente assediato da decine di migliaia di manifestanti. Una folla quasi festosa fatta di famiglie, di uomini, di donne col velo e senza, di bambini che sventolavano il tricolore egiziano, in un caos di campanelli, tamburi e “vuvuzelas”, ha risposto con entusiasmo all’appello di Tamarod – la Rivolta - di scendere in piazza per il “giorno del giudizio” sul presidente Morsi, forti degli oltre 22 milioni di firme raccolti con la petizione che ne chiede le dimissioni immediate. I timori di un’altra giornata di sanguinosa battaglia per le strade della capitale, a ora di pranzo si sono rapidamente ridimensionati, e il timore che una ondata di violenze potesse investire tutti e tutto che aveva spinto ambasciate e enti stranieri a un rapido esodo dei dipendenti non indispensabili – si è dissolto per un clima festante che avevano tutti i cortei confluiti sulla Tahrir, la piazza diventata il simbolo della richiesta una democrazia compiuta che viene da milioni di egiziani: studenti, rappresentati della magistratura, comitati di quartiere, sindacati, associazioni femminili, la Lega per la difesa delle donne. Nessuno ha tentato di scavalcare i muri, rapidamente rinforzati dalla polizia nei giorni scorsi, che chiudono le strade per Garden City, l’elegante zona delle sedi diplomatiche. La polizia è stata schierata lontano e con discrezione, ma diverse volte elicotteri militari hanno sorvolato la zona.
Nell’altra Piazza, con il sit-in a favore di Morsi, nei pressi la moschea di Rabaa al-Adawiya, ventimila sostenitori della Fratellanza musulmana si battevano il petto in difesa della “legittimità” del loro presidente. «Il primo eletto democraticamente in questo paese », vuole sottolineare Youssuf Adel, insegnante di scuola media e da sempre sostenitore della Confraternita. Ma ammette che suo figlio ventenne Bassam è «su quell’altra piazza», insieme ai ragazzi di Tamarod, del Fronte di salvezza nazionale, dei movimenti giovanili.
«Siamo qui e certamente non ce andremo», annuncia Ida Ghali, una ragazza di trent’anni ingegnere,con il “cartellino rosso perMorsi” appeso al collo mentre sventola un bandierone egiziano sull’angolo fra la Tahrir e l’American
University.Anticipa di qualche ora la nuova parola d’ordine chepassa con la “Dichiarazione rivoluzionaria n.1” del Fronte di salvezza nazionale che fa appello a tutti i cittadini perché «mantengano l’occupazione pacifica di strade e piazze in tutto il Paese, fino alla caduta dell’ultimo esponente di questo regime».
Sarà quindi confronto a oltranza fra l’opposizione e gli islamisti che sostengono Morsi, un confronto dal quale il Paese può solo uscire in condizioni peggiori rispetto a quelle disastrate di adesso. Al vuoto politico, si somma la crisi economica, la disoccupazione, la penuria di benzina, la deriva della sicurezza. Rapine, furti e stupri si sono moltiplicati, come i casi di giustizia sommaria, perché la polizia è semplicemente scomparsa dalle strade. La gente è esasperata. In un contesto così esplosivo il presidente Morsi ieri sera ha fatto annunciare di «essere pronto al dialogo ma senza nessuna concessione» alle richieste dell’opposizione,un’affermazione grottesca se non arrivasse in una situazione drammatica.
A sera il confronto pacifico delle piazze è cambiato, è arrivata la notizia di due morti nel Delta del Nilo, quattro negli scontri in tutto il Paese. Sulla collina di Moqattam, che domina la città, il Quartier Generale della Fratellanza musulmana è stato assaltato da qualche centinaio di giovani a colpi di bottiglie molotov, altre scaramucce sono segnalate nell’immenso “faubourg” del Cairo, gettando un’ombra sui prossimi giorni: il volto “pacifico” della protesta potrebbe rapidamente cambiare. La sicurezza egiziana ha arrestato ieri in un appartamento 26 militanti islamici che custodivano pistole, coltelli, giubbotti antiproiettile; altri a bordo di alcuni pullmini sono stati invece bloccati mentre cercavano di entrare nella capitale con armi e bottiglie incendiarie. Per il Cairo inizia un’altra notte col fiato sospeso. Specie dopo che ieri sera il ministro della Difesa Abdel Fattah el Sissi ha posto l’Esercito in stato di “massima allerta”. Un ulteriore segnale - dopo l’avvertimento già lanciato giovedì scorso in cui si annunciava che la Difesa «non avrebbe accettato una deriva dello Stato senza intervenire» - che l’Esercito è pronto a tornare sulla scena come nel dopo-Mubarak. Questi sei giorni che precedono il Ramadan, il mese sacro per i musulmani che inizia domenica prossima, saranno determinanti per il futurodell’Egitto.
Repubblica 1.7.13
L’incognita delle Forze armate sul duello tra Fratelli musulmani e pionieri della Rivoluzione laica
Malumore dei generali per un presidente senza carisma
di Bernardo Valli
DUE legittimità, una rivoluzionaria e una rappresentativa, si sono affrontate con manifestazioni di massa ieri in tutto l’Egitto. In molti hanno temuto che il più grande paese arabo stesse per slittare verso unaguerra civile.
SULLE sponde del Nilo hanno sfilato le folle dei grandi, imprevedibili avvenimenti, in bilico tra cronaca e storia. Sono scesi per le strade le forze, non soltanto laiche, all’origine della primavera araba che ha travolto nel 2011 il trentennale regime di Hosni Mubarak. Ma a Heliopo-lis, a difesa della residenza presidenziale, c’erano gli altri, gli avversari.
C’erano legioni di Fratelli musulmani armati di bastoni e sbarre di ferro, decise a difendere se necessario la loro vittoria. Quella acquisita, scippata, alla minoranza dei pionieri laici di piazza Tahrir, rovesciando nelle urne i voti della maggioranza religiosa della società sotto la loro influenza. Così hanno conquistato il potere ufficiale e hanno eletto come capo delloStato uno di loro, per la prima volta un estraneo alle forze armate, nella storia dell’Egitto repubblicano. Quest’ultimo, Mohammed Morsi, ha celebrato ieri l’anniversario della sua elezione nel peggiore dei modi.
L’opposizione, animata dalla convinzione di essere la depositaria della legittimità rivoluzionaria, ha mobilitato centinaia di migliaia di manifestanti, e ha chiesto le dimissioni di Morsi. Una richiesta basata su un documento firmato da 22 milioni di egiziani, un numero superiore ai voti (13,23 milioni) ottenuti un anno fa da Morsi. I Fratelli musulmani, forti della legittimità rappresentativa, hanno invece giurato che il presidente arriverà fino alla fine del suo mandato. Tra i due contendenti, le forze armate, garanti di un ordine messo a dura prova, hanno oscillato, incerte e sibilline. Forse in dubbio se imporre la loro legittimità: quella militare.
L’esercito è la sola forza finora stabile. riceve consistenti aiuti dagli Stati Uniti, non solo in dollari ma anche sul piano tecnico militare, in quanto garante degli equilibri mediorientali. E’ una componente essenziale del rapporto Egitto-Israele, codificato negli accordi di Camp David. Inoltre gli americani hanno riconosciuto i Fratelli musulmani come interlocutori inevitabili.
Non poteva essere altrimenti poiché la confraternita rappresenta una forza popolare indispensabile per gettare le basi di una democrazia. E l’esercito, dopo il disastroso periodo post Mubarak durante il quale ha gestito direttamente il potere, ha finito con l’appoggiare Morsi. Cosi si sono avvicinate le due entità su cui si appoggiano gli americani: i militari e i Fratelli musulmani, un tempo in aperta tenzone. Non sono tuttavia in pochi nei circoli delle Forze Armate a considerare Morsi un usurpatore che ha occupato un ruolo riservato dal 1952 (dalla fine della Monarchia) ai generali. Un usurpatore senza particolari qualità. Tutto resta dunque in sospeso, due anni e mezzo dopo l’inizio della primavera araba, travagliata e incompiuta.
Ad accendere il confronto, in questa fase è stata proprio l’evidente inesperienza di Morsi nel gestire il potere. Né sono stati migliori i Fratelli musulmani in generale. Morsi si è subitorivelato incerto, sfuggente. Non solo incapace di accrescere la propria base popolare, cercando di recuperare le correnti politiche moderate, ma anche non in grado di conservare il suo elettorato iniziale, sensibile ai richiami dei Fratelli Musulmani, e alla loro ampia ed efficace azione sociale. Dai primi passi, il professore di ingegneria ha dimostrato di non avere il minimo carisma, né di possedere le qualità necessarie a un leader chiamato a governare un paese di ottantacinque milioni di persone.
La paura dei laici di dover subire un rigore islamico si è rivelata infondata. Il presidente musulmano si è distinto per la passività, come paralizzato dal fatto di trovarsi davanti a problemi concreti armato soltanto di convinzioni religiose. La fine del regime del raìs, la denuncia e il processo a Mubarak, con le pesanti accuse di corruzione, avevano lasciato sperare in tempi migliori. C’era inoltre la convinzione che la solerzia dei Fratelli Musulmani nel promuovere scuole, dispensari e una rete di assistenza sociale modesta ma preziosa in un paese che ne era del tutto privo, si sarebbe trasformata in un’efficienza a livello governativo. La delusione è stata forte. Lo zelo religioso non si è trasformato in dinamismo economico. La situazione del paese si è deteriorata e si è avuta l’impressione che i nuovi dirigenti fossero incapaci di varare programmi. Negli ultimi giorni la mancanza di benzina, dovuta — pare — alla cattiva distribuzione, ha paralizzato molte attività e creato caos nei centri urbani, in particolare al Cairo.
L’opposizione si è dunque estesa. Piazza Tahrir si è di nuovo riempita, come ai tempi eroici e il prestigio dei Fratelli musulmani si è deteriorato. Si è rafforzato il fronte laico, sempre timoroso di vedere un giorno Morsi imboccare la via dell’integralismo islamico (finora evitato) al fine di colmare il vuoto in cui naviga il suo governo. Ma hanno ripreso coraggioanche gruppi di interesse legati al vecchio regime. Nello stesso apparato statale per l’irritazione provocata dall’arrivo dei Fratelli musulmani, dinamici soltanto nell’occupare funzioni pubbliche, sono nate resistenze insidiose. In particolare nella polizia e nella magistratura. Neppure l’eteroclita opposizione ha tuttavia un programma. Chiede l’allontanamento di Morsi ma non propone politiche di ricambio. Il movimento Tamarrod( Ribellione) conta personaggi di rilievo, come Mohammed el-Baradei, ma non un vero leader.
Repubblica 1.7.13
Nell'accampamento dei migranti, la regista: ''Così Clément è morto sotto i nostri occhi''
Il racconto di Sara Creta, autrice del film ''N°9''. Con il collega camerunese Sylvin Mbarga ha raccolto nella foresta di Gourougou le videotestimonianze dei migranti pestati dalla Guardia Civil spagnola e dalle milizie ausiliarie marocchine: ''I migranti - spiega - sono abbandonati senza cibo e aiuti medici''
VIDEO MAPPA INTERATTIVA E TESTO QUI
Corriere 1.7.13
Il Brasile dei Mondiali e l'Olimpiade adesso scopre i nuovi conflitti
di Aldo Cazzullo
Il Brasile aveva la sua prima vetrina mondiale da superpotenza. Il lungo governo illuminato di Lula, Dilma la «presidenta» al 57 per cento dei consensi, l'ingresso nel cuore della storia.
Una retorica — con un robusto fondo di verità come in ogni retorica — infranta dalla bordata di fischi che ha accolto la Rousseff all'inaugurazione di Rio. Nelle due settimane successive il gradimento della leader si è dimezzato, la Coppa delle Confederazioni è divenuta la «Coppa delle mobilitazioni», e il Paese di «ordine e progresso» ha dovuto affrontare con imbarazzo crescente di fronte all'opinione pubblica globale un'impressionante esplosione di rabbia.
E la rivolta popolare segue il più lungo periodo di crescita economica della storia brasiliana. Proprio com'è accaduto in Turchia, sia pure per altri motivi. Mentre i manifestanti di Rio sono partiti dal rifiuto della grandeur sportiva per reclamare il dividendo dello sviluppo, i ribelli di Istanbul hanno preso pretesto dalla cementificazione della metropoli per contrastare l'attacco alla laicità e alle libertà.
Lula ed Erdogan, il sindacalista di sinistra e il conservatore islamico, vinsero le elezioni nell'autunno del 2002, a una settimana di distanza l'uno dall'altro. Sotto la loro guida, Brasile e Turchia hanno conosciuto una grande espansione del sistema produttivo e commerciale e anche del peso politico sullo scenario internazionale. Ma alla prima battuta d'arresto è scoppiata la ribellione. Un po' come accadde in Europa alla fine degli Anni Sessanta. Oggi invece nel vecchio continente la depressione economica è seguita dalla depressione sociale, dalla rassegnazione, dal ripiegamento in se stessi, dalla disillusione: si pensi a come la Francia in un anno ha voltato le spalle
a Hollande. E la sorte ha voluto che le due nazioni chiamate a rappresentare l'Europa nella Confederations Cup fossero le due grandi malate, la Spagna e l'Italia, che se non altro sono state all'altezza della sfida: per noi la vera conferma di queste giornate, oltre al «nuovo italiano» Mario Balotelli, è stata la leadership di Cesare Prandelli, un uomo che per le qualità tecniche e morali ha già acquisito una dimensione extracalcistica.
Ora il Brasile deve preparare bene i due avvenimenti più importanti, i Mondiali 2014 e l'Olimpiade 2016. Il raffronto inevitabile è con Pechino 2008: allora la capitale fu militarizzata, vietati i mercati e le bancarelle, chiuse le torri del Tamburo e della Campana, quasi deserti gli antichi hutong, i vicoli della città tartara.
La Cina celebrò la sua lunga rincorsa all'Occidente con una straordinaria dimostrazione di efficienza, il regime poté misurare un certo grado di consenso, la politica dell'enrichissez-vous, dell'arricchimento capitalista unito all'autoritarismo politico, fu simboleggiata dalla scelta dell'ultimo tedoforo della fantasmagorica cerimonia d'inaugurazione, Li Ning, il ginnasta divenuto imprenditore di successo. E i 51 ori spinsero l'ondata nazionalista (il che accresce le responsabilità di Neymar e della Seleçao in vista dei Mondiali). Eppure il muro di Pechino eretto per l'Olimpiade mostrava parecchie crepe. La celebrazione dell'alleanza tra la borghesia degli affari e la nomenklatura del regime tagliava fuori non soltanto l'immensa periferia del Paese, ma anche i ceti emergenti, gli studenti, i figli degli immigrati dalle campagne, che hanno imparato l'inglese, che padroneggiano la tecnologia, che avvicinavano gli stranieri come ambasciatori di possibilità e libertà sconosciute ma desiderate. L'impressione della Cina che restò dentro a molti reporter fu quella di un vulcano quasi pronto a esplodere.
Il giorno in cui dovesse accadere — con
il pretesto, nei tempi e nelle forme che è oggi impossibile immaginare —, per l'autocrazia di Pechino reprimere la richiesta di partecipazione e democrazia sarà molto più difficile che nel 1989: rispetto a Tienanmen il mondo è molto cambiato, è interconnesso e interdipendente.
Forse soltanto allora si comprenderà appieno quel che già oggi Rio e Istanbul ci suggeriscono: la grandiosa rivoluzione del pianeta globale implica che l'Occidente esporti nel mondo nuovo non solo ricchezza e lavoro, ma anche conflitti e diritti; con il carico di pericoli ma anche di opportunità che questo comporta.
Repubblica 1.7.13
Un artista svizzero ha avuto l’idea e la gente del quartiere newyorkese l’ha trasformata in una festa di strada Da oggi per tutta l’estate l’happening culturale tra murales con il volto, la storia e le frasi dell’intellettuale italiano
Gramsci park Un monumento nel Bronx “Il comunista meglio dei rapper”
di Massimo Vincenzi
NEW YORK Arrampicato su una scala, c’è un ragazzo che disegna un murales: la faccia è quella di Antonio Gramsci. «Antonio? Sarà spagnolo?», chiede a quello che gli sta vicino. L’amico gli risponde tutto d’un fiato, come uno che ha appena studiato: «No, è italiano. Un filosofo morto in prigione ». Bisogna procedere senza troppa logica per raccontare questa storia che sembra una leggenda metropolitana: un artista che viene dall’Europa costruisce un monumento nel cuore del Bronx dedicato ad uno dei padri del movimento operaio e fondatore del partito comunista, così lo presenta la Cbs. Ma è la verità. Il monumento è qui, in questo cortile di erba e cemento al centro di un gruppo di grattacieli dai mattoni rossi. Il posto si chiama Forest Houses, negli anni Novanta ci arrivava solo la polizia con le pistole spianate a contrastare una delle tante lotte tra spacciatori di crack. Adesso va meglio, anche se la violenza c’è ancora e Manhattan è lontana come un altro pianeta. Proprio per questo, la strana creazione sta qui, “lontana dal centro e dalle altre gallerie”.
A vederla, sembra qualcosa che sta a metà tra una casa sugli alberi, icastelli per bambini nei parchi e una cabina da spiaggia. Oppure sembra una nave, come suggerisce Tim Rollins, pittore che insegna in un college vicino. È qui per vedere il lavoro del collega e perché ama Gramsci. Guarda i muri chiari, piegando un po’ la testa per abbracciare tutta la visuale: «La prua verso l’orizzonte, per navigare e portare il messaggio a quanta più gente è possibile». Costruita in legno compensato, plexiglass e tanto nastro adesivo, sta per essere completata in questa domenica umida di pioggia. Una decina di persone dà gli ultimi ritocchi: oggi ci sarà l’inaugurazione, ma non è la parola giusta, meglio dire: oggi aprirà. Perché per quasi due mesi e mezzo sarà il centro pulsante del quartiere, un po’ happening culturale, un po’ festa di paese: ci saranno reading, lezioni difilosofi, corsi per bambini di tutte le età. Baby sitter e insegnanti a cui affidare i piccoli. E poi ancora concerti di musica classica e rock, spettacoli teatrali. Seminari sull’arte e sulla cucina. Una radio e un giornale che verranno animati da chi abita le case qui attorno. E un bar dove ogni sera verrà servito l’happy hour dalle sei alle sette.
Thomas Hirschhorn è l’artista,di solito veste di nero e ha gli occhiali spessi. Ha 56 anni, è svizzero e nel suo ambiente è piuttosto famoso: se lo contendono le migliori gallerie. Ma lui pensa che i confini vadano allargati, che i musei vadano portati per le strade. Questo progetto è il quarto nel suo genere, il primo in America: gli altri sono ad Amsterdam dedicato a Spinoza, poi Gilles Deleuze ad Avignone eGeorge Bataille a Kassel, in Germania. Due anni fa, sceglie New York, inizia a girare per i quartieri periferici cercando persone con cui condividere il suo progetto: «All’inizio mi vedono e pensano che io sia un prete o un ricco eccentrico, poi capiscono che faccio sul serio e da lì in poi è tutto facile». A capirlo per primo è Eric Farmer che guida l’associazione residenti di Forest Hou-ses. Immobilizzato dopo un incidente d’auto al college, gira per il cortile su una sedia a rotelle a motore. Lui Gramsci non lo conosceva, sì certo sapeva chi era ma non l’aveva mai letto. Si è fatto dare i libri da Thomas e dopo pochi giorni gli dice: «Mi sembra un’ottima idea. Lo spirito è quello giusto, costruiamo noi la tua cosa». Vengono assunti 15 residenti a 12 dollari all’ora per duemesi (la paga media in città è 7,5) e “il condominio di Gramsci” inizia a crescere. Alle pareti ci sono le sue massime, le citazioni delle lettere, il suo pensiero: “Tutti gli uomini sono intellettuali”. Appeso alla finestra di un grattacielo c’è un grande lenzuolo bianco con scritto: “Sono un pessimista a causa dell'intelligenza, ma un ottimista per diritto”. A settembre l’opera non verrà imballata ma regalata alla gente di qui, che si contenderà i vari pezzi in una lotteria: sarà la festa di fine estate.
Myma Alvarez tiene il figlio in braccio. Guarda gli uomini al lavoro con un sorriso e chiede loro se hanno bisogno di qualcosa: «È una bellissima idea, fantastica. Qui nonc’era niente e adesso avremmo questa casa tutta nostra dove passare il tempo insieme». In un'intervista al New York Times Thomas spiega: «Io non voglio cambiare le loro vite, le mie ragioni sono artistiche. Gramsci credeva nel valore della cultura e dell’insegnamento per liberare gli oppressi. Ecco, se riesco a far riflettere sulla potenza dell’arte e della letteratura, io sono felice. Ho ottenuto quel che volevo ».
Myma passa davanti al murales. Il ragazzo l’ha quasi finito, si fuma una sigaretta appoggiato al muretto. I due si conoscono da sempre. Lei lo prende in giro: «Ma sai chi è? È un rapper?». Lui serio: «No, è Antonio: un poeta italiano che è morto dentro una cella». Dice poeta e la nave può togliere l’ancora.
l’Unità 1.7.13
L’America scoperta dai cartaginesi. Duemila anni prima di Colombo
È la straordinaria tesi di Lucio Russo
Un libro che farà discutere e che rivoluzionerà il pensiero contemporaneo
Lo storico della scienza avvalora la sua tesi con prove inconfutabili
di Pietro Greco
I CARTAGINESI SONO STATI I PRIMI MEDITERRANEI A SBARCARE IN AMERICA. Duemila anni prima di Cristoforo Colombo. Ora ne abbiamo la prova. Matematica. L’ha trovata Lucio Russo, storico della scienza e docente di calcolo delle probabilità, nel suo nuovo libro, L’America dimenticata. I rapporti tra le civiltà e un errore di Tolomeo, appena pubblicato con Mondadori Università. Un libro che farà discutere, non solo per la novità in sé (clamorosa come uno scoop), ma anche per le implicazioni sull’idea stessa di storia che abbiamo.
Ma andiamo con ordine. Protagonisti della storia di Lucio Russo sono tre grandi scienziati dell’età ellenistica – Eratostene, Ipparco e Tolomeo – e due popoli, i cartaginesi e i romani.
Eratostene di Cirene (nato nel 275 a.C. e morto nel 195 a.C.), è stato un grande matematico dell’età ellenistica. Ha diretto la Biblioteca di Alessandria d’Egitto e ha inaugurato la geografia matematica, usando in maniera sistematica le coordinate sferiche (latitudine e la longitudine) e riuscendo a calcolare il diametro della Terra con un errore che, rispetto alla misura attestata dai geografi dei nostri giorni, è inferiore all’1%.
Il secondo protagonista della storia ricostruita da Lucio Russo è Ipparco di Nicea (nato nel 190 a.C. e morto nel 120 a.C.). Uno straordinario astronomo capace di compilare il primo catalogo delle stelle fisse (ricco di 1080 oggetti cosmici) e di scoprire la precessione degli equinozi. Ma Ipparco è anche un grande geografo. Capace di prevedere, in base allo studio delle maree, la presenza di un continente tra l’Indopacifico e l’Atlantico. Oggi sappiamo che quel continente è l’America. In realtà, dimostra Lucio Russo, Ipparco in qualche modo conosce quel continente. I cartaginesi, infatti, parlano di una serie di isole cui, lasciata la costa africana, si giunge dopo alcuni giorni di navigazione verso occidente. Quelle isole diventano note nell’antichità come «fortunate», a causa del clima particolarmente gradevole e della vegetazione, particolarmente florida. Ebbene Ipparco calcola la longitudine e la latitudine delle Isole Fortunate: e Lucio Russo dimostra che corrispondono con straordinaria precisione alle coordinate delle Piccole Antille. Inoltre Ipparco calcola la longitudine e la latitudine di un località più a Nord, cui i cartaginesi sarebbero giunti: corrispondono, ancora una volta con straordinaria precisione, alle coordinate di Tule, sulla costa orientale della Groenlandia.
Testi antichi, a iniziare da quelli di Strabone, descrivono le Isole Fortunate in un modo che corrisponde alla morfologia delle Piccole Antille. Inoltre ci sono diversi indizi che sembrano corroborare l’ipotesi di un’antica «scoperta dell’America» da parte di popolazioni mediterranee. Per esempio, in alcune località dell’America Latina gli spagnoli che sbarcano al seguito di Colombo trovano galline, animali euroasiatici. Oppure, in molte rappresentazioni di epoca romana compare l’ananas: un frutto americano sconosciuto nei tre continenti connessi (Asia, Europa e Africa).
Inoltre i cartaginesi erano padroni dell’arte della navigazione e possedevano navi che, per grandezza e qualità, erano in grado di superare l’Atlantico molto più facilmente della Nina, della Pinta e della Santa Maria. O delle piccole, ancorché agili navi dei vichinghi che hanno preceduto Colombo. Per Lucio Russo è fondata l’ipotesi che, grazie ai cartaginesi, i popoli mediterranei abbiano frequentato le Piccole Antille e, probabilmente, buona parte dell’America centrale in maniera continua e per molto tempo: probabilmente anche per cinquecento anni.
Poi, noi mediterranei, ci siamo dimenticati dell’America. Anche in questo caso Lucio Russo indica una possibile causa. La distruzione di Cartagine, tra il 146 e il 145 a. C., e l’annessione della Grecia da parte di Roma. In particolare i Romani distruggono tutti (o quasi tutti) i documenti cartaginesi, compresi quelli che riguardano la navigazione transatlantica. E, non avendo né le capacità né l’interesse per la navigazione di lungo corso, si dimenticano dell’America. In realtà le rotte verso le Isole Fortunate vengono battute anche in età romana. Ma quei viaggi sono ignorati a Roma e, ormai, quei marinai non hanno più alcun rapporto con i geografi.
È qui che interviene il terzo protagonista della storia: Claudio Tolomeo. Anche lui astronomo e matematico, grande esponente di una generazione di scienziati di cultura ellenistica ma di una fase successiva a quella di Eratostene e di Ipparco. Tolomeo, infatti, nasce intorno al 100 e muore intorno al 170 dopo Cristo. Dunque tre secoli e mezzo dopo la grande stagione in cui sono vissuti i due precedenti protagonisti. Ormai dei viaggi verso le Americhe i geografi hanno perduto memoria. In quell’epoca le isole più a occidente conosciute sono le Canarie e Tolomeo assume che siano esse le Isole Fortunate. Ma i conti non tornano rispetto alla grandezza della Terra calcolata da Eratostene e alle coordinate calcolate da Ipparco. Così, a causa del suo pregiudizio Tolomeo commette una serie di errori. Assume un’unità di misura diversa da quella usata tre secoli prima e, così, rimpicciolisce del 29% le dimensioni della Terra è sposta di 15 gradi verso est la longitudine delle Isole Fortunate, in modo che corrisponda a quella delle canarie. Questa operazione comporta una evidente distorsione della geografia e delle carte geografiche. Ma in mancanza di interessi reali alla precisione e in forza del pregiudizio l’errore di Tolomeo si afferma. E l’America è, appunto, definitivamente dimenticata. Gli europei dovranno attendere quasi un millennio e mezzo prima di riscoprirla.
Lucio Russo, dunque, fornisce per la prima volta una prova quantitativa della scoperta dell’America avvenuta a opera di popolazioni mediterranee prima della nascita di Cristo. E ciò costituisce in sé una novità davvero importante. Di quelle che fanno riscrivere i manuali di storia in tutto il mondo.
Naturalmente, quella quantitativa di Lucio Russo dovrà essere corroborata da altre prove indipendenti. Ma è una prova di peso. E costituisce uno stimolo per nuovi programmi interdisciplinari di ricerca.
Tuttavia Lucio Russo non si limita a presentare la sua scoperta, ma ne propone un’interpretazione in chiave di «filosofia della storia». Molti studiosi sono rimasti colpiti, nel corso dei secoli, dall’evoluzione convergente delle società umane. Tra il VI e il V secolo, per esempio, in Grecia (i primi filosofi ionici), in India (Buddha) e in Cina (Confucio) viene scoperta la «potenza della ragione». O, anche, in Eurasia e Africa (diverse civiltà) come in America (i Maya) vengono realizzate una serie di innovazione e di vere e proprie scoperte singolarmente coincidenti: dall’agricoltura alla lavorazione del metallo, dalla città alla scrittura, dal gioco della palla e dei dadi al concetto e all’espressione di zero.
Ci sono due possibili interpretazioni di questi fenomeni. Il primo è che esiste una sorta di legge generale di progresso che porta in maniera deterministica le diverse società umane a tagliare certi traguardi. È quella che i biologi chiamerebbero una forma di «convergenza evolutiva».
La seconda interpretazione è che questa legge non esiste. E che le società umane tagliano i medesimi traguardi semplicemente perché sono connesse tra loro, si scambiano cultura. E, dunque, la convergenza non è affatto indipendente.
Lo sviluppo delle civiltà americane sembrava una falsificazione di questa seconda teoria. Perché se Asia, Europa e Africa possono essere considerati continenti connessi e gli scambi culturali tra le varie civiltà di questi continenti sono ormai ben documentate, quello americano è stato considerato a lungo un continente «non connesso», con uno sviluppo della civiltà del tutto indipendente.
La «nuova storia» di Lucio Russo mette in discussione tutto ciò. Perché, se non falsifica la prima ipotesi (quella della evoluzione convergente), ridà dignità scientifica alla seconda ipotesi (quella dell’evoluzione per connessione).
Un corollario di questa discussione è la scienza, della cui storia Lucio Russo è esperto. Molti sostengono che la scienza sia nata più volte in maniera indipendente: in età ellenistica nel Mediterraneo, poi in India, in Cina, nell’Islam e, infine, nell’Europa del XVII secolo. E, invece, la connessione nello spazio e nel tempo delle varie civiltà rafforza l’idea di Lucio Russo: che la scienza sia un «accidente congelato». Che sia nata una sola volta, in età ellenistica, all’epoca di Eratostene (ed Euclide e Archimede e Ipparco e molti altri) e che si sia diffusa, talvolta in maniera chiara, estesa e consapevole, talaltra in maniera ambigua, frammentaria e inconsapevole. Questa seconda ipotesi spiegherebbe perché anche la scienza in diversi paesi e in diverse fasi storiche possa essere, come l’America, scoperta e poi dimenticata.
Corriere 1.7.13
Le civiltà dell'Africa
di Sandro Modeo
A parte l'Egitto, Cartagine e il Maghreb, l'Africa è per lo più percepita come un'immane estensione «primitiva», ricordata solo come vittima del colonialismo o come oggetto di studio paleo-antropologico. Il classico dello storico ghanese John Coleman De Graft-Johnson (Le civiltà scomparse dell'Africa, Res Gestae, pp. 244, 14) è così un'occasione unica per vedere riaffiorare molti imperi misconosciuti, ascesi — nel sincretismo con l'Islam — a un alto grado di sviluppo politico-economico e culturale: quello del Ghana (300-1076), con la sua capitale ammirata per le moschee e l'arte del palazzo reale; quello del Mali, estinto a fine Quattrocento e guidato da sovrani come il fondatore Sundiata (che innova l'agricoltura) o Mansa Musa (che crea l'università di Sankore); o ancora — a sud est — quello di Monomotapa, all'avanguardia per l'edilizia e assorbito nel Seicento dai portoghesi. Su quei luoghi, oggi, non restano che rare rovine tra villaggi indigenti: De Graft-Johnson ci aiuta a non prolungare la distruzione in rimozione.
Corriere 1.7.13
Sul sito Internet del Museo nazionale della scienza «Leonardo da Vinci» di Milano
«Il volto e la voce di Margherita Hack sugli schermi del nostro museo»
MILANO — Chi entra nel sito Internet del Museo nazionale della scienza «Leonardo da Vinci» può ascoltare Margherita Hack mentre racconta le sue storie celesti. Ma non solo. «Margherita sapeva bene quanto fosse importante comunicare e in particolare con i giovani», nota Fiorenzo Galli direttore generale dell'istituzione milanese. «Nelle nostre sale — aggiunge — la sua voce e la sua presenza hanno animato numerosi incontri che rimarranno nella memoria per gli stimoli che era capace di trasmettere». Arrivava sempre accompagnata dall'inseparabile Aldo, compagno di una vita e pronto alla battuta ironica. «Margherita era la nostra protagonista delle stelle — continua Galli — presentandoci le ultime conquiste dell'astronomia in affollate occasioni che coinvolgevano anche altri illustri protagonisti della scienza: dal genetista Edoardo Boncinelli a Giulio Giorello, dalla spaziale Amalia Ercoli Finzi del Politecnico milanese all'architetto Mario Botta, a Umberto Veronesi». Il direttore la ricorda così: «Ciò che affascinava e coinvolgeva, era la sua capacità di presentare con parole semplici e comprensibili concetti complessi. Non aveva bisogno di grafici, di proiezioni, le bastava la parola. E ascoltandola faceva venire voglia di occuparsi di scienza». Ma la seduzione della scienziata andava oltre l'ambito specifico dell'astronomia. «La semplicità delle sue storie era lo specchio del suo animo e della sua intelligenza. Poco incline a curare l'aspetto esteriore, si preoccupava invece di comunicare il suo pensiero con correttezza. Sosteneva con forza le idee in cui credeva, talvolta controcorrente soprattutto in materia religiosa o politica, senza tuttavia imporre la sua visione e arricchendo il confronto. In un mondo di voltagabbana Margherita non cambiava idea, non modificava il suo modo di vedere adattandolo alle circostanze. In altre parole offriva un valore prezioso in questi momenti: la certezza di idee chiare manifestate con forza».
Margherita Hack con la presenza, gli articoli e i libri diventò la scienziata più popolare del nostro Paese avvicinando al suo mondo persone poco aperte alla scienza. «Nonostante ciò — dice Galli — non si è mai costruita un personaggio da vendere, come spesso accade quando la notorietà entra nelle nostre vite. Margherita era semplicemente se stessa, senza calcoli, sia in pubblico sia in privato, nella casa scavata tra i libri mentre cani e gatti correvano tra gli scaffali, con lei sempre pronta e rispondere alle mille telefonate di chi le chiedeva i pareri più disparati. Le portammo un premio assegnato dal comune palermitano di Isnello, una semplice targa, e i suoi occhi brillavano dalla contentezza: era grata per la riconoscenza che le avevano dimostrato». Nei prossimi giorni chi varcherà la soglia del Museo Leonardo da Vinci nei grandi schermi della sala d'ingresso troverà l'immagine Margherita Hack che continuerà a parlare della sua vita e delle sue scoperte. «E sarà solo l'inizio di altre iniziative — conclude Fiorenzo Galli — perché non dobbiamo dimenticare una grande donna e una grande scienziata».
Giovanni Caprara
Corriere 1.7.13
Il mondo nasce da un rifiuto. Niente cambia, per l'eternità
Ogni cosa è destinata a tornare: è questa la fonte del sapere
di Emanuele Severino
La vita dell'uomo incomincia con un Rifiuto. La vita cosciente, dico, cioè quella in cui il mondo si manifesta. Tale Rifiuto nega che il giorno sia notte, l'acqua aria, gli alberi stelle, il freddo caldo, la vita morte: nega che qualcosa sia altro da ciò che esso è. Già Platone avverte che questa negazione è presente anche nel sogno e perfino nella pazzia. Nei primi decenni del Novecento il sociologo-etnologo Lévy-Bruhl tende invece a sostenere la tesi che nella «mentalità primitiva» quel Rifiuto è assente o quasi. Autori come Bergson, Durkheim, Mauss mostrano in molti modi la insostenibilità di questa tesi. E infatti come sarebbe possibile, per l'uomo, compiere il gesto più semplice, ad esempio bere dell'acqua, se la «mentalità primitiva» credesse che l'acqua sia pietra (o fuoco, aria)? Anche il primitivo può vivere perché si rifiuta di crederlo.
Tale Rifiuto sta all'«origine» e alle «fondamenta» della vita umana, la «domina» e la «comanda»: tutte parole, queste, che corrispondono all'antica parola greca arché, che viene tradotta anche con «principio». Già per la filosofia greca il Rifiuto che qualcosa sia altro da sé è l'arché di tutta la conoscenza. Ma la filosofia intende il Rifiuto originario in un modo radicalmente nuovo. Prima di essa il Rifiuto è un voler negare che il giorno sia notte, l'acqua pietra, e così via. La filosofia sostiene che queste negazioni non sono semplicemente un «volere», ma un sapere assolutamente non smentibile: il sapere che sta al fondamento di ogni altro sapere e di ogni agire e che quindi è la verità originaria. Aristotele dice appunto che tutte queste negazioni sono espresse da un'unica arché, che è «la più salda» di tutte le conoscenze. Più tardi questa arché sarà chiamata «principio di non contraddizione».
Più tardi ancora, tuttavia, varie forme del pensiero filosofico riterranno che il tentativo di separare questo principio dalla volontà, facendone la suprema «verità» incontrovertibile, è destinato a fallire. Ad esempio lo ritengono Nietzsche e Dostoevskij, e prima di loro Giacomo Leopardi e (secondo alcuni) Hegel. Lo ritiene gran parte della filosofia contemporanea. Per Popper tale principio è sì il fondamento dell'atteggiamento «razionale»: senza di esso crollerebbe l'intero edificio della scienza; sennonché, per lui, ciò che fa scegliere tale atteggiamento è una «fede irrazionale»; e quindi è innanzitutto il principio di non contraddizione ad esser dominato e guidato da una volontà («fede») senza verità. Al di sotto della propria maschera tale principio è in effetti, nelle sue diverse configurazioni e formulazioni storiche, un grande dogma, è appunto la volontà che le cose stiano nel modo da esso prescritto. (Anche la filosofia ha sostanzialmente trascurato l'unico grande tentativo, compiuto da Aristotele, di sottrarre quel principio all'arbitrio della volontà). Tale principio serve certamente a vivere, rileva Nietzsche, ma che una cosa serva e sia utile non significa che essa sia vera.
Ma tutta la vicenda che abbiamo sin qui sommariamente richiamata — la storia cioè del Rifiuto originario — copre e nasconde qualcosa di essenzialmente più profondo e decisivo.
Da un lato copre e nasconde il Rifiuto autentico, ossia l'autentica negazione che le cose siano altro da ciò che esse sono: il Rifiuto che dunque non è né volontà, né il fallito tentativo filosofico di liberare il Rifiuto dalla volontà. Dall'altro lato quella vicenda copre e nasconde il sapere più alto. Esso dice che proprio perché nessuna cosa può essere altro da ciò che essa è (proprio perché ogni cosa è se stessa), proprio per questo ogni cosa è eterna. Ogni cosa — dunque ogni stato di cose, ogni stato del mondo e dell'anima, ogni situazione ed evento, e il contenuto di ogni istante del tempo.
La teoria della relatività afferma sì che ogni stato del mondo (ossia del cronotopo quadridimensionale) è eterno, ma non lo afferma perché ogni cosa non può essere altro da sé: lo afferma invece sulla base della logica scientifica, che è ipotetica, e quindi controvertibile, falsificabile. Anche la teoria della relatività appartiene alla vicenda che copre e nasconde sia il Rifiuto autentico, sia l'Eternità (anch'essa da intendere autenticamente, cioè in senso essenzialmente diverso da quello che le compete lungo tale vicenda).
Ci si è rivolti da tempo, e procedendo da prospettive diverse, ai miei scritti, che indicano il senso autentico del Rifiuto e dell'Eternità come un dito indica la Luna. Restando in debito, verso molti miei critici, di una risposta adeguata alle loro osservazioni, mi limito qui a richiamare alcuni degli interventi più recenti. Suggestive e ricchissime le indagini contenute nel sesto tomo di Filosofia e idealismo di Gennaro Sasso (Bibliopolis, 2012). Che termina il suo libro con uno struggente «Congedo» dai suoi lettori. Vorrei invitare Sasso a rimuoverlo, quel congedo, a non restargli fedele, innanzitutto perché egli ha ancora molto da dire, e poi anche perché possa continuare il nostro colloquio — che generosamente, anche in queste sue pagine, considera importante per lo sviluppo delle sue ricerche. Egli sa bene che cosa intendo quando parlo del senso autentico del Rifiuto e dell'Eternità.
Lo sa bene, e sostanzialmente lo condivide, anche Leonardo Messinese, che, dopo altri due libri recentemente dedicati ai miei scritti, pubblica ora Stanze della metafisica. Heidegger, Löwith, Carlini, Bontadini, Severino (Morcelliana, 2013) e Né laico, né cattolico. Severino, la Chiesa, la filosofia (Dedalo, 2013). Messinese è un pensatore, e sacerdote, che tenta acutamente e coraggiosamente di porre la Luna, indicata dal mio dito, alla base di ogni sapienza. Un tentativo compiuto anche da Francesco Totaro nel suo importante volume Assoluto e relativo. L'essere e il suo accadere per noi (Vita e Pensiero, 2013). Molto interessante e ricco di spunti anche il modo in cui Nello Barile, nel suo Iperparmenide. Scienza, cultura e comunicazione. Oltre il postmoderno (Mimesis, 2012) si rivolge alla Luna e al mio dito.
Sta uscendo in questi giorni presso l'Editrice Laterza L'uso giuridico della natura, di Natalino Irti, dove egli riprende il nostro pluridecennale colloquio. Con un agio maggiore di quello che qui mi è consentito prenderò in considerazione queste sue pagine, come al solito di grande apertura e penetrazione, in un altro mio intervento. Qui mi limito a ringraziare di cuore Irti per avermi generosamente dedicato il suo libro. Già la dedica dice molto sul senso del nostro colloquio: «A Emanuele Severino nella concordia discors del pensiero». Mi sembra che la concordia sia destinata a crescere.
Carlo Sini scrive invece che, sì, io lo costringo ad «arrendersi» (perché lo colgo in contraddizione), ma che egli può replicare dicendo: «Sì, mi contraddico, e allora?!» (La verità è un'avventura, Gruppo Abele, 2013). Allora, rispondo, se non gli importa contraddirsi, non gli importa che la verità non sia un'avventura e nemmeno che ogni affermazione contenuta in questo e negli altri suoi libri sia la negazione di ciò che essa afferma. Sì che ad esempio, quando egli scrive che noi «siamo quel che abbiamo e che per il fatto stesso di averlo siamo destinati a perderlo», egli è disposto a contraddirsi e a riconoscere che noi non siamo quel che abbiamo e non siamo destinati a perderlo. Certo, se si ha presente (come mi sembra che accada a Sini e a tanti altri) quella forma dogmatica dove il «principio di non contraddizione» è la semplice volontà che il mondo non sia contraddittorio, allora — se la cosa serve, se è vantaggiosa, se rende vincenti — ci si può certo disinteressare del proprio contraddirsi. A uno che gli aveva fatto notare che stava contraddicendosi, Stalin rispose appunto: «Sì, compagno, mi contraddico, e allora?!».
Raffinato e penetrante come gli altri scritti di Alessandro Carrera, anche La consistenza della luce. Il pensiero della natura da Goethe a Calvino (Feltrinelli, 2010). Scrive Carrera che il suo saggio fa parte di una trilogia incominciata con La consistenza del passato: Heidegger Nietzsche Severino (Medusa, 2007), dove si esamina, dopo Heidegger e Nietzsche, «la radicale confutazione, da parte di Severino, di ogni ipotesi heideggeriana, nietzscheana o altrui, in base alla quale il passato sparirebbe nel non essere o non potrebbe sopravvivere se non manipolato dal presente e per i fini del presente». Sì, la consistenza del passato è implicata dall'Eternità di ogni cosa. Non nel senso che questa luce che viene dalla finestra debba esistere in ogni tempo, ma nel senso che il fluire del tempo non porta via con sé, nel nulla, questa luce, che invece è, eterna — e che, sì, ora è già scomparsa, ed è un passato, ma come ogni altra cosa è destinata a ritornare.