domenica 7 luglio 2013

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il Fatto 7.7.13
Il suicidio assistito del giudice D’Amico: “Ma papà stava bene”
Parl Francesca, figli dell’ex Pg calabrese
“Andava aiutato a vivere, non a morire”
di Sandra Amurri


Ore 18,25. 11 aprile 2013. “Pronto, parlo con Francesca D’Amico? Sono la dottoressa Erika Preisig, le comunico che suo padre è venuto varie volte da me per richiedere il suicidio assistito. Oggi è morto, non poteva più vivere, stava troppo male, voleva andare”. Un pugno di parole che la tramortiscono. “Forse ha sbagliato persona. Papà due giorni prima aveva parlato al telefono con il mio fidanzato e nulla lasciava presagire un suicidio”. La Preisig, con tono deciso, le risponde: “Capisco sia difficile da accettare, ma questa è la realtà, le invierò il certificato di morte, e per volontà di Pietro il suo corpo verrà cremato il 22 aprile. Buonasera”.
FRANCESCA è l’unica figlia del sostituto procuratore generale di Catanzaro Pietro D’Amico, 62 anni, indagato e assolto nel-l’inchiesta Why Not per fuga di notizie. Pietro ha scelto la “morte dolce” per mano della dottoressa Erika Preisig di Basilea. Capelli lunghi, tratti raffinati, laureanda in Medicina: “Papà non era affetto da alcuna malattia inguaribile, non era un malato terminale. È stato aiutato a suicidarsi e l’istigazione o l’aiuto al suicidio è un reato anche in Svizzera”. E precisa: “La depressione di papà, come hanno scritto alcuni giornali strumentalmente, non era conseguenza della vicenda giudiziaria: era sereno, sapeva che avrebbe dimostrato la sua estraneità alle accuse, come è avvenuto. Inoltre ho pieno rispetto per chi compie questo gesto estremo, per chi si batte contro l’accanimento terapeutico e per il diritto ad una morte serena, casi ben distinti da questo”. Ripensa a quelle parole: “Non poteva più vivere, stava troppo male? Mio padre era ipocondriaco, le malattie semmai le somatizzava, ma aveva il terrore di farsi visitare, perfino di andare dal dentista. Era depresso, a fasi alterne, questo sì, ma non incurabile”. Il suo avvocato Gennaro Falco, quindi, si reca a Basilea per bloccare la cremazione e far eseguire l’autopsia. “Il legale con il collega italo-svizzero Alberto Nanni va a casa poi nello studio della dottoressa Preisig e resta sconvolto dalle sue dichiarazioni e dai luoghi”. Un monolocale in cui la Preisig, aiutata dal fratello Ruedi, che filma la scena, istruisce il paziente ad attivare la flebo contenente il farmaco letale, poi chiama il procuratore di Basilea e il medico legale per attestare il decesso. “Una stanza non attrezzata alla rianimazione anche per un’ultima esitazione del paziente”. La Preisig all’Espresso ha raccontato: “Quando Pietro ha aperto il rubinetto della flebo teneva un crocifisso che mi ha pregato di inviare alla figlia una volta morto. Era affetto da una patologia degenerativa invisibile agli strumenti medici”. Parole che Francesca definisce “agghiaccianti e foto disumane affidate ad un giornale per descrivere quei riservatissimi momenti di papà. Non ho ricevuto alcun crocifisso. Malattia invisibile, certo, papà non aveva prodotto nessun esame diagnostico oltre ai due certificati redatti da medici italiani (per amicizia o in cambio di denaro? Questo dovrà accertarlo la magistratura, ndr) nei quali viene anche descritto incapace di muoversi, di provvedere a se stesso e con la grafia tremante, mentre quel giorno si è recato a Roma, da dove ha preso il treno per Basilea, alla guida della sua auto dopo aver scritto a me e a mia madre una lettera piena d’amore”.
REFERTI che la Dignitas, l’associazione che si occupa di suicidio assistito – 8.500 euro solo per la richiesta anche se non accettata – dove la Preisig lavorava prima di fondare la Lifecircle, ha respinto più volte. “I requisiti provati diagnosticamente sono: malattia inguaribile e stadio terminale, per questo si è rivolto alla Preisig”. Come conferma lei stessa nella e-mail, in un italiano incerto, ad un parente del magistrato che l’ha incontrata: “Mi sento molto, molto male che Pietro ha fatto a me... Sono delusa del fatto che mi ha mentito Pietro per tre anni. Era intelligente ed io ancora non riesco a credere che era solo depresso... e lui ha simulato il rapporto del dottore... così buono o anche pagato il dottor... che ha redatto il rapporto. Gli ho chiesto per tre anni per continuare a vivere, non ho potuto dire di no ancora una volta. Io non volevo prenderlo, non sapevo che era così popolare, Pietro ha la sua pace ma mi sento tradita da lui perché mi ha mentito quando ha falsificato tutti questi rapporti... vorrei ancora una volta domandare scusa che non ho verificato se i rapporti sono veri... ”. Francesca spiega che “non è stato rispettato neanche il regolamento svizzero che impone la produzione di due certificati redatti da medici terzi, perché uno è della Preisig che ha prescritto il farmaco letale”.
Ora la famiglia attende un ultimo esito: la prima valutazione dell’autopsia eseguita dall’Institut Für Rechtsmedizinder Universitat di Basilea diretto dal Professor Dr V. Dittmann, alla presenza del medico legale di parte, la dottoressa Bonetti di Modena, “ha escluso che papà fosse affetto dalla malattia descritta sui certificati e da altre patologie incurabili. Papà non avrebbe mai avuto il coraggio di togliersi la vita se non avesse incontrato chi lo ha assecondasse in un momento di difficoltà. Oltre alla mancanza di un approfondimento del quadro clinico con esami strumentali e di laboratorio non vi è stata attenzione nel riconoscere il suo disagio emotivo, considerando che i disturbi di tipo psicologico o psichiatrico di per sè possono indurre alla simulazione di sintomi. Papà andava aiutato a vivere non a morire e la dottoressa Preisig era la persona meno adatta, visto ciò che ha dichiarato a L’Espresso, rispetto al suo vissuto. È incomprensibile anche la tolleranza delle autorità elvetiche per la prassi consolidata – ogni lunedì e giovedì – al termine della quale loro stessi certificano le modalità del decesso”.
Francesca D’Amico conclude il racconto più doloroso della sua vita mentre stringe al petto la lettera del padre e ripete che la sua battaglia è appena cominciata.

COME IN “MIELE”. Nel film di Valeria Golino con il nome fittizio “Miele” Irene, interpretata da Jasmine Trinca, si occupa di suicidi assistiti. Carlo Cecchi è l’ingegner Grimaldi, che si rivolge a Irene per morire senza esser malato A sinistra, Pietro D’Amico Ansa

L’operazione silenziamento tentata ieri non è riuscita, per merito di Stampa e Fatto (cfr. “Segnalazioni” di ieri, 6 giugno, con tutti i dettagli del caso) e così La Repubblica oggi si trova costretta ad uscire sul tema. E così cominciano teatri e scaricabarili.
Intanto il Corriere e - vergognosamente! - l’Unità mantengono il più totale e pertinace silenzio sull’affaire.
Se il responsabile della ripugnante deportazione è Alfano, si dovrebbe dimettere immediatamente  i primi a pretenderlo dovrebbero essere Bonino, responsabile degli Esteri e Letta come presidente del Consiglio. E se non accadesse, in teoria, dovrbbero essere loro a costringerlo, o a dimettersi a loro volta.
Immaginate che accadrà?
Un commento che appare su La Repubblica on line: “La solita sceneggiata per far credere agli elettori che Pd e Pdl sono diversi, ma poi guarda caso si fa sempre quello che vuole Berlusconi”.

Repubblica 7.7.13
Un dissidente kazako spacca il governo
Moglie e figlia estradate a forza dall’Italia. Bonino: “Figura miserabile”. Letta richiama Alfano
di Vincenzo Nigro

qui

«Il Financial Times ha dedicato una pagina alla “deportazione” di Alma Shalabayeva (a sinistra il suo passaporto) Sul quotidiano anche la foto di Silvio Berlusconi con Nazarbayev»
Repubblica 7.7.13
Il documento
“Le armi, gli insulti, la cella i miei tre giorni da incubo con la paura di essere uccisa”
Il diario di Alma: “Io, interrogata per 15 ore”
di Cinzia Sasso


MILANO — È da poco passata la mezzanotte di mercoledì 29 maggio. In una villetta a Casal Palocco, enclave dei ricchi di Roma, dormono tutti, anche i domestici che vivono nella dependance. Comincia così l’incubo di Alma Shalabayeva, 46 anni, e di sua figlia Adua, che ne ha sei. Colpevoli di essere la moglie e la figlia di Mukhtar Ablyazov, l’ex banchiere e l’ex ministro kazako nemico numero uno del presidente Nazarbajev. Nel settembre 2012 Alma, che fuggiva da Londra, si era stabilita a Roma «perché qui, diceva, mi sento tranquilla». Fino a poche settimane fa, quando 50 agenti della polizia italiana fanno irruzione nella villa, la portano al Cie e la sera di venerdì 31 maggio la imbarcano su un volo per Astana, la capitale del Kazakhstan. La tana del lupo. Questo — 18 pagine fitte — è il diario di tre giorni da incubo, tutti da chiarire.
L’IRRUZIONE
Nella villa dormono tutti, quando gente picchia alla porta e alle finestre svegliando Alma. «30, 35 sono entrati in casa, 20 sono rimasti fuori. Si trattava di un intero gruppo armato. Avevano un aspetto spaventoso, alcuni portavano l’orecchino, altri grosse catene d’oro, vestivano abiti neri consumati, tra loro c’era una donna ». Non si presentano, non mostrano alcun mandato. «Ero terrorizzata, ho pensato che erano venuti per ucciderci e che nessuno ne avrebbe mai saputo niente. Ho chiesto: chi siete, polizia? Quello che sembrava il capo mi ha sventolato davanti un qualche tesserino. Mi hanno spinto fin quasi a cadere e mi hanno fatto sedere a forza. Non riuscivo a capire: erano delinquenti o poliziotti in abiti civili? O li avevano ingaggiati i nemici di mio marito ed erano venuti per ucciderci?»
IN CENTRALE
Alma è terrorizzata, confusa. Quando le chiedono le sue generalità, dice solo «sono russa». «Gridavano in italiano, l’unica cosa che ho capito è stata “puttana rus-sa”». Alma decide di mostrare il suo passaporto centrafricano. La tensione cresce: qualcuno picchia Bolat, il cognato di Alma. Alle domande su chi siano e cosa vogliano, quello con la catena d’oro risponde «sono la mafia». Sono quasi le tre di notte quando chiedono a prestito un computer per scrivere il verbale della perquisizione (porteranno via 50mila euro in contanti e la memory card della macchina fotografica). Ma il MacfarmiBook non è configurato per scrivere in italiano e per mezza pagina si arriva fino alle quattro del mattino. «Mi hanno detto: vestiti, tu vieni con noi. Con me non avevo né soldi, né documenti, non avevo un avvocato né un interprete».
A PONTE GALERIA
«Erano le sei passate, mi hanno detto che dovevano prendere le impronte e fare delle foto e che dopo mi avrebbero lasciato andare acasa. Invece mi hanno caricata in macchina per 40 minuti. Una signora si è messa a urlare, diceva che il mio passaporto era falso. Chiedevo che chiamassero l’ambasciata centrafricana. Ripetevano mille volte le stesse domande: chi sei, cosa fai in Italia. Parlavano un inglese pessimo, faticavo a capire. Non mi hanno mai permesso di telefonare e dopo 15 ore sono crollata. Ormai mi avevano vista in troppi perché potessero uccidermi: ho detto chi ero e che il presidente kazako aveva ordinato l’assassinio di mio marito. Dopo dieci minuti sono venuti a prendermi e hanno solo ripetuto: questo è un passaporto falso. Lì mi avevano tolto i lacci delle scarpe e la fede e mi avevano dato lenzuola usa e getta e un materasso di poliuretano. In cella c’erano sei letti e tre donne. Io non ero vestita come loro. Mi hanno aiutato a fare il letto e mi hanno rimboccato le coperte ».
IL JET PRIVATO
«Ho dato la mia tessera del cibo a una compagna e lei mi ha permesso di usare il suo telefono. Da casa mi hanno detto che erano stati avvisati gli avvocati, poi li ho fugacemente incontrati all’udienza, tutto è durato meno di un’ora. Mi hanno fatto telefonare a casa e chiedere di portarmi la mia bambina. All’improvviso c’era di nuovo agitazione. Dobbiamo andare, mi dicevano. Mi hanno caricata su mini-bus, c’erano molte macchine di scorta, e mi hanno portata all’aeroporto di Ciampino. Hanno aperto una porta ed è comparsa Alua, la mia bambina. Avevo capito che volevano mandarmi in Kazakhstan. Sapevo cosa avrebbe voluto dire per me, per mio marito, per i miei figli. Allora ho detto a voce alta: chiedo asilo politico. L’ho detto in inglese, l’ho ripetuto, l’ho gridato. È troppo tardi, mi hanno risposto, tutto è già deciso». Sulla pista rulla un jet privato, noleggiato da una compagnia austriaca. A bordo ci sono due diplomatici kazaki. Aspettano le due donne per accompagnarle ad Astana. La missione è compiuta.

il Fatto 7.7.13
Il Parlamento esautorato
Rodotà: “Sugli F-35 Napolitano sbaglia, l’asse Colle-governo espropria le Camere”
“Il potere legislativo da oltre cinque anni è un guscio vuoto al servizio dell’esecutivo. Quirinale e Consiglio di difesa non hanno potere di imporre alcun veto”  
intervista di Beatrice Borromeo


È il governo a decidere sui caccia F-35: lo stabilisce il Consiglio supremo di Difesa, organo presieduto dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Una scelta su cui il professore Stefano Rodotà – che di Napolitano avrebbe potuto essere il successore come candidato del Movimento 5 Stelle – nutre “dubbi fortissimi”. Per varie ragioni, spiega l’ex garante per la Privacy. Che in questa estate passata al lavoro ha preso un paio di giorni per visitare la cattedrale di Trani, capolavoro dell’architettura romanica, e “tornare a riflettere, perché quello che ci diciamo non siano solo chiacchiere”.
Cosa non la convince, professor Rodotà?
Partiamo dal cuore della questione: il Parlamento. Un luogo che negli ultimi cinque anni, e forse anche di più, è stato azzerato, trasformato in un guscio vuoto che si limita soltanto a ratificare i provvedimenti già presi dal governo. E proprio ora che tenta di recuperare il suo ruolo costituzionale – quello rappresentativo e di indirizzo – viene ancora una volta esautorato. Eppure siamo ancora, o almeno dovremmo essere, in una Repubblica parlamentare.
Una commissione parlamentare chiedeva di valutare meglio i pro e contro dei costosissimi cacciabombardieri. Ma questa prerogativa, si obietta dall’alto, non spetta alle Camere.
Io invece sono convinto di sì. In più, il Parlamento non ha disdetto l’ordine di acquisto, ha solo chiesto di valutarlo come è normale accada nei piani d’investimento pluriennali. Si tratta già di un compromesso molto blando: per questo insisto nel dire che quello a cui stiamo assistendo è sintomatico di una profonda distorsione del meccanismo istituzionale. Si dà un privilegio eccessivo al governo: quello di rendere le sue decisioni insindacabili.
Il Consiglio supremo di difesa, però, sostiene che, secondo la Costituzione, le decisioni sull’ammodernamento delle Forze armate spettino all’esecutivo.
Innanzitutto ricordiamo che quando al Colle c’era come presidente Francesco Cossiga hanno voluto definire i poteri e le competenze del Consiglio supremo, che è un organo di informazione e consulenza del presidente della Repubblica, e indirettamente del governo. Non solo queste prerogative non si estendono al Parlamento, ma di certo non può essere il Consiglio a imporre veti alle Camere. Proprio non gli compete.
Resta il fatto che ci sono dubbi interpretativi.
Forse sì. Ma, ripeto, in una Repubblica parlamentare i nodi vanno sempre sciolti a favore del Parlamento. Ed è responsabilità costituzionale del governo quella di salvaguardare il proprio rapporto con il Parlamento.
Il presidente Napolitano però sembra essersi profondamente irritato.
Non me lo spiego, dato che non vedo tentativi del Parlamento di esautorare il governo né, tantomeno, il capo dello Stato. Ora serve una seria discussione perché ad uscirne davvero male, in questa vicenda, è ancora una volta proprio il Parlamento.
Nella delibera del Consiglio si legge che, trattandosi di “decisioni operative e provvedimenti tecnici”, la competenza specifica per decidere l’acquisto degli aerei F-35 spetti proprio al governo.
Non è così, per due motivi. È vero che il ministro della Difesa può intervenire con decreto, ma solo quando si tratta di provvedimenti finanziati da uno stanziamento di bilancio ordinario. In questo caso invece si tratta di ordini di spesa pluriennali, che devono essere rivisti di volta in volta e che di conseguenza devono essere sottoposti al Parlamento. Lo stabilisce una legge approvata nel 2012: è assolutamente legittimo che il Parlamento valuti piani pluriennali.
Legge che, tra l’altro, porta la firma proprio del presidente Giorgio Napolitano.
Infatti. E poi, soprattutto in un periodo di profonda recessione, mi pare difficile dare una lettura tecnica di queste spese. In questa fase di spending review, dove si tagliano i fondi a lavoro, scuola e salute, definire come impiegare le risorse è una decisione squisitamente politica. E in quanto tale spetta solo al Parlamento. E riflettere sull’acquisto di questi cacciabombardieri non può più essere un tabù.

il Fatto 7.7.13
Casson propone di consultare la base del Pd sui caccia


“PENSO SIA NECESSARIO riprendere e lanciare a livello nazionale la proposta di numerosi circoli del Pd milanese di una consultazione della base del partito sull’acquisto degli F35”. La proposta arriva da Felice Casson, senatore del Pd, pochi giorni dopo che il Consiglio superiore di difesa, presieduto dal capo dello Stato Giorgio Napolitano, ha stabilito che le decisioni sull’acquisto dei caccia F35 spettano soltanto al governo e non al Parlamento che, con una mozione approvata pochi giorni fa, stabiliva che ogni nuova acquisizione degli aerei da guerra dovesse passare al vaglio delle Camere. Il ministro della Difesa Mario Mauro (Scelta Civica) ha detto ieri in un’intervista che ormai “non si cambia linea”, anche perchè “so che i caccia sono già in fase di assemblaggio”.

il Fatto 7.7.13
F35, basta la sigla per zittire il dibattito
di Paolo Ojetti


Il cacciabombardiere Lockheed F35 è un aeroplano. Atterra verticalmente (come i vetusti Harrier britannici) e, quindi, possiamo accorciare le portaerei, risparmiando un botto di euro. Anche se la marca, Lockheed, ricorda un famoso scandalo del 1976, abbiamo comprato un po’ di F35 spendendo – al netto di eventuali tangenti – 15 miliardi di euro. Ormai, se ci tirassimo indietro, le penali sarebbero mostruose. E poi c’è stato un diktat del Quirinale: quando il Consiglio Supremo di Difesa decide di fare la spesa nessuno può mettergli i bastoni fra le ali. Avviso tipico delle democrazie avanzate e cristalline. Non si sa bene se questi velivoli serviranno a qualcosa (Riconquista della Corsica e Gibuti? Lotta alla mafia?), ma una cosa è chiarissima: con quei soldi si potevano azzerare quattro anni di Imu prima casa. Il tema è talmente sensibile, che tutti i telegiornali e le reti Rai hanno deciso di affrontare di petto la questione. C’è stato un magnifico dibattito fra costituzionalisti: ma Napolitano può esautorare il controllo parlamentare? Valerio Onida ha sostenuto che i problemi sono due: il presidenzialismo fa schifo e Berlusconi deve ritirarsi in campagna. Cesare Mirabelli, essendo un “saggio” nominato da Napolitano , saggiamente ha proposto l’istituzione di una commissione di sub-saggi per studiare la faccenda. Gustavo Zagrebelsky ha avanzato il garbato avviso che la Costituzione manca di un 139 bis: “I militari e il Quirinale fanno come gli pare. I misteri d’Italia restano misteri.
LE TRATTATIVE Stato-Mafia sono ammesse, se a fin di bene”. Ma l’articolo ancora non c’è quindi – ha concluso il giurista – stiamo pazziando di brutto. Altri hanno preferito un talk show fra storici: Mack Smith, Villari, Cardini, Galasso. Dai tempi di Assurbanipal e dei Chin – hanno detto all’unisono – le spese di guerra sono sempre state sottoposte, in varie forme, all’approvazione popolare. Chi non l’ha fatto, di solito ha perso la testa, come Carlo I Stuart; o il regno, come Giovanni senza Terra. Gli inglesi, per non aver giustificato tasse e spese, persero l’America e gli americani. C’è stato anche un dibattito fra militari, soffocato dal ministro Mario Mauro che, fra gli applausi dei generali, ha ripetuto senza sosta: “Si vis pacem, para bellum”. Postscriptum. Abbiamo scherzato. Nessun Tg ha rischiato critiche o approfondimenti. Quando parla il Quirinale, il resto tace. Che le nomine Rai dipendano già da Napolitano e dallo Stato Maggiore?

l’Unità 7.7.13
Barca da Civati: basta con i vizi del passato
Al Politicamp, nato per lanciare la candidatura del deputato Pd, anche Zampa, Ranieri e Tocci
di Stefano Morselli


REGGIO EMILIA Ieri le registrazioni sono arrivate circa a quota milleduecento, per oltre la metà di persone provenienti da fuori Reggio. Venerdì sera il dibattito tra il padrone di casa Pippo Civati e gli ospiti Fabrizio Barca, Sandra Zampa, Andrea Ranieri, Walter Tocci, ha riempito l’ampio chiostro. Il Politicamp sta andando bene, per la partecipazione e per la passione politica che vi si respira. Come poi andrà a finire l’assalto al quartier generale del partito che si prepara in queste giornate reggiane, è difficile prevedere. Ma intanto, l’avventura è iniziata e con questa gente il prossimo congresso del Pd dovrà fare i conti.
Federico, studente universitario siciliano di 24 anni, non usa mezze parole. «Sono iscritto al Pd da cinque anni – dice durante lo Speaker’s Corner, spazio nel quale parlano in quaranta a ruota libera, ciascuno per cinque minuti - Confesso che non ne sono orgoglioso. Sto perdendo la speranza, le ultime vicende hanno fatto arrabbiare milioni di elettori, che non avevano votato per le cose che stiamo vedendo. Forse il congresso è l’ultima occasione per costruire quella forza socialdemocratica che vorrei e che finora non è mai nata». Dopo di lui sale sul palco Fabrizio, che è venuto da Alghero subito dopo aver sostenuto gli esami di maturità scientifica: «Nella mia città sono l’unico ragazzo che frequenta la sede del Pd. Dopo di me, il più giovane ha l’età di mio padre. Se il partito vuole vivere, deve essere più inclusivo, nei confronti dei giovani e di tutti i cittadini. Deve coniugare il moderno riformismo con i valori tradizionali della sinistra, cosa che finora non ha saputo fare. Deve comunicare in modo efficace proposte e slogan di sinistra».
Critiche severe, richieste di una chiara collocazione politica e di una conseguente iniziativa concreta. Non dissimili da quelle che sono arrivate dal dibattito dell’altra sera tra politici più navigati. Tutti d’accordo, anche loro, sulla necessità di una svolta radicale, di un ricambio dei gruppi dirigenti. «Il fatto che pochissimi degli attuali dirigenti siano sulle mie posizioni – scherza, ma non troppo, Civati – mi dà forza e speranza». Tocci è anche più acuminato: «Sono contento di essere qui, c’è una atmosfera molto migliore rispetto a quella che ho riscontrato ai vertici del partito. Compresi certi giovani dirigenti che invecchiano prima di diventare adulti: quelli sono i peggiori». Barca non è da meno: «L’attuale Pd è un impasto tra gli aspetti meno gloriosi del vecchio apparato comunista e del vecchio doroteismo democristiano». Ranieri ha qualcosa da dire anche sulle decisioni di questi ultimi giorni: «Che senso ha mettere uno come l’ex capo della polizia e poi ex sottosegretario De Gennaro alla testa di Finmeccanica? È forse depositario di segreti che gli garantiscono a vita posti di primo piano?».
Però, sbaglierebbe chi pensasse di trovarsi di fronte a una quinta colonna di nemici interni al Pd. Barca si è iscritto da poco per «bisogno di partito». Tocci dichiara «amore appassionato per il partito, che deve tornare al posto che gli spetta». Sandra Zampa sostiene che «Il Pd avrebbe già tutto ciò che serve per fare bene, già dallo statuto e dai documenti fondativi. Il blocco è costituito dalla sua classe dirigente, per rimuoverlo bisogna mandarla a casa». L’impressione è che, da queste parti, ci siano spinte di cambiamento anche più radicali di quelle proclamate da Matteo Renzi, però in direzione politica diversa. Tocci e Ranieri non hanno esitazioni a confermare che sì, il loro sostegno andrà alla candidatura di Civati. Sandra Zampa, sostanzialmente, pure: «Apprezzo l’onestà e la trasparenza di Pippo, apprezzo i contenuti che esprime. Mi riservo di approfondire alcuni aspetti, perché le delusioni passate mi hanno reso cauta. Diciamo che le premesse per il mio appoggio ci sono». L’outing più atteso e sollecitato dai partecipanti a Politicamp – quello di Barca invece non arriva. Forse pesano alcune opinioni diverse tra lui e Civati sull’organizzazione e sulle regole della forma-partito. Barca non chiude la porta, ma prende tempo: «Sono lento nelle decisioni. Certo prima del congresso mi pronuncerò, ma ho bisogno di riflettere bene».
Questa mattina ci sono nuovi ospiti – tra gli altri, Elly Schlein che racconta «Occupy Pd» e Paolo Nori che ricorda i morti reggiani del 7 luglio 1960 – e momenti di discussione a tema. A mezzogiorno, l’intervento conclusivo di Pippo Civati.

il Fatto 7.7.13
Pd, a giorni la data del congresso. Civati, via dal governo


ANCORA non c’è una data ma, di fatto, il congresso Pd è già iniziato. Ieri, il segretario Epifani - ai giornalisti che gli chiedevano un parere sulle ultime mosse di Renzi - ha detto che la data delle assisi democrat sarà decisa a giorni. E ha confermato che le primarie sul segretario “saranno aperte”. Vi parteciperanno, insomma, anche i non iscritti. Per designare il segretario o il candidato premier? Questo, a leggere gli interventi, sembrava l’unico tema che appassionava il gruppo dirigente fino a ieri. Poi, nella discussione è intervenuto anche Peppe Civati che a Reggio Emilia ha riunito quella che di fatto è la sua componente. E a Reggio Emilia ha detto che “è necessario sganciarci e ritirare il nostro contingente di pace dal governo delle larghe intese”. Tradotto: bisogna cominciare a pensare a come tirarsi fuori dal governo Letta-Alfano. “E credo - ha aggiunto - che sia necessario andare a votare l’anno prossimo”. Una battuta di Civati anche sulle 5 Stelle: “Vi sono molti elettori del Pd che votano Grillo, credo che almeno la metà dei loro voti siano presi dal nostro partito, e allora occorre incominciare a preparare i terreni di dibattito politico con loro”.

Repubblica 7.7.13
La febbre dei circoli per Matteo “A Palazzo Chigi con o senza il Pd”
Da Torino ad Agrigento boom di comitati: non possiamo fallire
di Massimo Vanni


«Ogni comitato nasce e si muove in modo del tutto autonomo, non è la nostra strategiaora, ma è il segno di quale aspettativa c’è in giro», dice la deputata Simona Bonafé, che assieme a Lotti e Boschi tiene i contatti con i territori. E se a Isernia s’inaugura la sede il coordinatore di “Adesso Calabria” Luigi Gagliardi esulta per la nascita del coordinamento del centrosinistra di Cosenza, Pd e Sel inclusi. I comitati sono però attivi anche a Messina, Pomigliano, Salerno, Agrigento, Caserta, al Gargano. Perfino a Pontedera, città del governatore toscano Enrico Rossi, si contano comitati Renzi. A Teramo è appena nata l’associazione pro-Renzi: c’è finito entro pure il segretario del Pd Mirko De Berardinis.

FIRENZE — «Candidati Matteo e cambiamo il Pd». Matteo Renzi non ha ancora rotto gli indugi ma la corsa per la segreteria riaccende gli animi. E dai comitati vecchi e nuovi parte il pressing. Lo vogliono in campo i comitati delle vecchie primarie, che non hanno mai chiuso i battenti e spesso si sono trasformati in associazioni. Tanto più lo vogliono i nuovi nati un po’ ovunque. Pronti a scattare al segnale del capo.
«Non siamo noi a sollecitarli, anzi cerchiamo di dissuadere chi ci contatta invitando ad iscriversi direttamente al Pd», dice il deputato Luca Lotti. Eppure i comitati continuano a nascere. Quanti sono? «Non lo sappiamo, la lista è rimasta ferma alle vecchie primarie ma ne sono nati molti altri», annota la deputata Maria Elena Boschi, che al tempo dello scontro con Bersani era la responsabile delle “cellule”. Al pranzo dei comitati delle Marche a Ripe San Ginesio, provincia di Macerata, ieri erano in 300 ad incrociare le forchette con Renzi: «Solo in questa regione se ne contano ormai quasi cento e continuano a nascere. E tutti chiedono a Matteo di candidarsi», racconta il fiorentino Eugenio Giani, proconsole renziano nelle Marche.
Giorni fa è toccato a Bologna. Promosso dal sindaco di Castenaso Stefano Sermenghi e dalla sorella dello stesso Renzi, Benedetta, l’associazione “Bologna Adesso”, logo depositato alla Camera di Commercio, guarda già oltre il congresso: «Portare Renzi a Palazzo Chigi con o senza il Pd», è l’obiettivo dichiarato. E lo stesso mondo renziano si è diviso, vedendo nella mossa del sindaco di Castenaso un tentativo egemonico.
A Torino un mese fa gli “Ateniesi” guidati dal ricercatore universitario David Ricca hanno organizzato l’»OpenPd», una due giorni con i parlamentari renziani. A metà giugno al “Big Bang al Sud” di Maratea tirano le fila i deputati Dario Nardella e Luigi Famiglietti. Il 29 giugno si è presentata l’associazione “Adesso Padova”: «Renzi segretario del Pd con una classe dirigente nuova e un partito che punta al 40%». Il 30 giugno ad Abbiategrasso si sono riuniti i comitati di tutto il nord. Il 2 luglio tutti i comitati della Puglia invece a Bari: «Questa volta non possiamo fallire, dobbiamo dialogare con le altre areedel partito», suggerisce il capogruppo al Comune di Lecce Paolo Foresio. Mentre il comitato della Provincia di Alessandria chiede la «leadership del Pd per non indugiare oltre nel cambiamento» e lancia una petizione per Renzi segretario.

il Fatto 7.7.13
Ultima chiamata per i ministri: redditi on line entro luglio
Oggi l’unico in regola è Enzo Moavero
di Marco Palombi


È solo un gentile promemoria, quanto utile è difficile dirlo a parole. Ieri il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Filippo Patroni Griffi, ha inviato una circolare a tutti i ministeri per ricordargli che scade il 28 luglio l’ultima data utile per mettere online la situazione patrimoniale e il reddito di ministri e sottosegretari secondo le norme stabilite da una legge di Mario Monti approvata a marzo. Non facciamo casini, sembra dire palazzo Chigi, seguite le indicazioni del modulo che vi abbiamo inviato. In sostanza, chi fa parte del governo – ma anche sindaci, assessori, presidenti di regione e via dicendo – deve rendere pubblico sul web l’atto di nomina, il curriculum, i compensi, il patrimonio, gli importi di viaggi di servizio e missioni pagati con fondi pubblici, i dati su qualunque altra carica occupata e relativi proventi, le dichiarazioni previste per il coniuge e i parenti entro il secondo grado (i figli, ad esempio) e, se questi si rifiutano, bisogna scriverlo chiaramente.
AL MOMENTO, purtroppo, la situazione della trasparenza nel governo Letta non è, eufemizzando, rosea: l’unico che già segue le nuove regole è il ministro per gli Affari Ue Enzo Moavero Milanesi (se proprio si vuole cercare il pelo nell’uovo, mancano notizie sulla moglie), poi arriverebbe Gianpiero D’Alia – sulla parola – che ha già inviato i dati nel formato corretto a presidenza del Consiglio ed Antitrust e lunedì li metterà online. Anche altri, tra cui lo stesso Patroni Griffi, sostengono di essere prossimi alla pubblicazione. Qualcuno - tipo Enrico Letta, Nunzia De Girolamo e Dario Franceschini - ha messo sul web le dichiarazioni patrimoniali che gli eletti rilasciano in Parlamento, che sono però largamente incomplete secondo la legge del 2013. Degli altri – a partire dal vicepremier Angelino Alfano fino ad Emma Bonino (madrina della radicale “anagrafe degli eletti e dei nominati”) passando per il custode dei conti Fabrizio Saccomanni - ancora nessuna notizia. Pure redditi e patrimonio di sottosegretari e viceministri rimangono un mistero.
LA SCADENZA per il governo, come detto, è il 28 luglio e stavolta ad attendere i ministri ritardari c’è persino una sanzione da 500 a 10mila euro. La cosa notevole, a questo proposito, è che questa legge vale anche per tutti gli eletti a livello regionale e locale (le Camere hanno regole diverse), ma la cosa pare non aver avuto alcun seguito a stare ai siti istituzionali delle grandi città: insomma, essendo passati oltre quattro mesi dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della norma, tra qualche tempo si potrebbe cominciare a raccogliere le relative multe. L’accertamento, però, è a carico di un “responsabile” interno per la trasparenza che potrebbe essere poco propenso ad infastidire il sindaco o il presidente di regione. Un altro mezzo sarebbe l’apposito sito predisposto da palazzo Chigi, la cosiddetta “Bussola della Trasparenza”, una miniera di notizie interessanti che certifica, ahi noi, come le amministrazioni pubbliche italiane in larga parte non si siano adeguate nemmeno alle vecchie norme sulla trasparenza del 2011 (solo il 25 per cento degli enti sui bilanci, per dire, e addirittura il 36 per cento non ha ancora un indirizzo di posta elettronica certificata).
PECCATO che pure la “Bussola” sia rimasta indietro. Gli obblighi di trasparenza previsti dalla legge del 2013 non vengono rilevati dal sito di palazzo Chigi. Un apposito messaggio avverte il visitatore che “i risultati delle elaborazioni sono congelati al-l’ultimo monitoraggio effettuato dalla bussola. Con l’entrata in vigore del nuovo decreto legislativo n. 33/2013 verranno gradualmente rilasciate tutte le funzionalità nel rispetto dei nuovi obblighi di legge”. Insomma, persino il sito che dovrebbe garantire facilmente l’accesso dei cittadini alle informazioni che desiderano è in ritardo sulla normativa. Problemi tecnici, sicuramente, ma pure gli effetti di una sgradita rivoluzione che potrebbe distruggere alcune enclavi di benedetta segretezza per chi amministra i soldi pubblici: tra i nuovi obblighi, infatti, c’è anche quello di mettere online come e perché vengono spesi i soldi pubblici da ogni singola Asl o Comune.

il Fatto 7.7.13
Sopravvivenza
Letta Style, la sottile arte del governo provvisorio
Ogni parola del premier è calibrata sulla reazione di Brunetta, ogni problema riniato all’autunno
di Stefano Feltri


È tutta una questione di stile, visto che di sostanza c’è poco. Ma che stile. Enrico Letta da premier si sta dimostrando un virtuoso del governo versione andreottiana (anche di Giulio Andreotti, alla morte, nessuno ricordava i risultati ma tutti il metodo, la pervicacia nel garantirsi la sopravvivenza). Dietro la massima, anche questa andreottiana, del “meglio tirare a campare che tirare le cuoia” c’è una prassi politica ormai definita composta di vari tasselli. Eccoli.
BRUNETTA. Enrico Letta si sveglia al mattino e pensa a Renato Brunetta. Ogni parola, ogni silenzio, ogni sospiro, è calibrato nella consapevolezza delle reazioni del capogruppo del Pdl. Imu, Iva, spread, Europa: Letta prima calcola fin dove può spingersi senza farsi azzannare dal professore veneziano, solo dopo, se è il caso, si pronuncia.
IL DISCORSO. Ma il governo Letta abolirà l’Imu o no? Alla domanda tutti i ministri e gli adepti delle larghe intese rifiutano di esprimere un’opinione personale e rimandano sempre allo stesso, venerato, documento: il testo del discorso di insediamento. Che, a posteriori, non è solo una (lunga) lista di buone intenzioni, ma un manuale di conversazione che offre ai ministri sempre la citazione giusta. Insomma, che si fa con l’Imu? “Bisogna superare l’attuale sistema di tassazione della prima casa”. Tutto chiaro.
SAGGI E REGISTI. In teoria un governo senza opposizione (M5S a parte), pieno di tecnici e consulenti, dovrebbe avere la massima potenza decisionale della storia repubblicana. O almeno tutte le idee che servono. Invece Letta decentra, coinvolge, si affida alla saggezza dei saggi, annacqua i ministri forti nelle cabine di regia, i partiti nei vertici di maggioranza. Le grandi riforme? Trentacinque saggi per ora ne discutono (perché appena si arriva al dunque, che sia semipresidenzialismo o legge elettorale, crolla tutto). La spending review? Aspettiamo di nominare il commissario e ne riparliamo. Le nomine nelle controllate del Tesoro? Per fortuna ci sono i tre garanti che si devono riunire. L’incontro Pd-Pdl-Scelta Civica sulla politica economica? Aggiorniamolo tra un paio di settimane, evitiamo decisioni affrettate .
TWITTER. Pur impaludando l’azione del governo tra consultazioni e rinvii, Letta riesce a personalizzare la sua azione da premier. Grazie a Twitter. Niente ingenuità – tipo il “Wow” di Mario Monti (che ora ha smesso di cinguettare) – ma comunicazione politica, notizie (e veline) che passano prima da un tweet e solo dopo dall’ufficio stampa. Il premier sa usare il mezzo: quando annuncia “Ce l’abbiamo fatta! Commissione Ue annuncia ora ok a più flessibilità x prossimi bilanci x paesi come Italia con conti in ordine”, si inventa pure un hasthag (che su Twitter è una specie di titolo): “#serietàpaga”.
IN CAMICIA. Monti ha passato tutta la legislatura con lo stesso look: completo blu e cravatta azzurra (si ricorda una sola trasgressione sul rosso). Letta ha trovato la sua cifra nella conferenza stampa in camicia: se quella di Gianni Riotta al Tg1 evocava familiarità, l’assenza di giacca in un premier è sintesi di lavoro, della fatica della mediazione. Effetto visivo prezioso soprattutto se gli elementi concreti da annunciare sono pochi.
DIMENTICARE MONTI. Lo stile Letta prevede la rimozione totale di Mario Monti: della sua squadra ha ereditato alcuni ministri (Enzo Moavero, Anna Maria Cancellieri) e un paio di stretti collaboratori (Vieri Ceriani e Stefano Grassi). Ma del governo tecnico è meglio non parlare. La chiusura della procedura d’infrazione europea, i soldi per i disoccupati, il permesso di salire al 2,9 per cento del deficit: tutti merito di una lotta a mani nude tra Letta e Angela Merkel. Il professore della Bocconi, che tutte quelle cose le aveva già ottenute, comprensibilmente è seccato. E dopo l’ultimo Consiglio europeo non si è più trattenuto: “Senza un cambio di marcia, non riteniamo di poter contribuire a lungo a sostenere una coalizione affetta da crescente ambiguità”. È dovuto intervenire il Quirinale per trattenere il furente Monti.
L’ARTE DELLE CIFRE. La contabilità dello Stato richiede creatività, Letta ne è dotato: l’uscita dalla procedura d’infrazione europea libera 12, no, 15, forse anche 20 miliardi di euro da investire. I soldi per i giovani disoccupati erano 500 milioni, ma Letta giura via Twitter (di documenti ufficiali manco l’ombra) che sono in realtà 1,5 miliardi. L’aumento del deficit dal 2,4 al 2,5 per cento, assicurando, vale 8 miliardi, 16 contando anche quelli che arriveranno da Bruxelles per co-finanziare gli investimenti. Stando alla “narrazione” governativa, in tre mesi Letta ha strappato all’Europa una trentina di miliardi. Eppure, stranamente, non si trovano neppure un paio di miliardi per l’Iva o l’Imu. E quindi si rinvia fino a novembre. Quando arriverà la legge di Stabilità e si faranno i conti, il Letta style dovrà cambiare. Oppure i partiti cambieranno premier.

Repubblica 7.7.13
Sposetti: lasciamo le cose come stanno, sul tema il governo è demagogico e populista, cavalca gli istinti più bassi
“Senza soldi ai partiti la democrazia è morta”
“Letta vuole abolire i partiti, ma così si rischia di non avere più una democrazia rappresentativa”
intervista di Goffredo De Marchis


ROMA — «Letta non vuole abolire il finanziamento pubblico. Vuole abolire i partiti. E quando non avremo più i partiti, non ci sarà più la democrazia rappresentativa ». Ugo Sposetti, mitico tesoriere dei Ds, senatore del Pd, difende e difenderà i contributi statali fino all’ultimo. «Il disegno di legge presentato dal governo deve finire su un binario morto. Abbiamo approvato una nuova norma sul finanziamento, dimezzandolo e portandolo a 91 milioni, appena un anno fa. Ce la teniamo altri cinque anni, alla fine tracciamo un bilancio».
Pensa davvero che Letta abbia presentato un provvedimento antidemocratico, golpista?
«Ma no. Questo è troppo. Eppoi, la legge non è mica stata approvata...».
Il premier condiziona all’abolizione delle risorse ai partiti la vita del suo governo. Letta è del Pd, il suo partito.
«Non diciamo fesserie...».
Lo dice Letta.
«Il destino del governo è legato al benessere delle famiglie e delle imprese. Facciamogli avere subito i rimborsi della pubblica amministrazione. Mettiamo in circolazione un po’ di soldi per aiutare i datori di lavoro e i lavoratori».
Il Pd sta provando a modificare il testo dell’esecutivo. È la strada giusta?
«Il Pd fa il suo mestiere. E un emendamento non è un blitz. È lavoro parlamentare. Detto questo, io sono per lasciare le cose come stanno».
Con il risultato di consegnare altri voti all’antipolitica e a Grillo?
«Io considero antipolitico l’atteggiamento del governo. Anzi, su questo tema, considero questo un governo demagogico e populista che cavalca l’animale degli istinti più bassi. Il punto qui non sono i soldi. È la democrazia. Io non ho dubbi: la democrazia si regge suipartiti che debbono essere soggetti vitali e hanno bisogno di risorse pubbliche. Solo così non saranno condizionati dalle lobby».
Ma il disegno di legge prevede il 2 per mille, cioè un sostegno dell’opinione pubblica.
«Lo sa che il 2 per mille di 10 milioni di pensionati è comunque inferiore al 2 per mille di un solo milionario? Io non voglio che vincano le lobby. La democrazia è una cosa di tutti».
Una posizione isolata o minoritaria nel partito, la sua. Anche Renzi vuole cancellare il finanziamento.
«Alt. Renzi non parla di finanziamento pubblico da un mese. Lei è un po’ distratto».
E cosa significa?
«Non lo so. Una pura osservazione».
Perché ridare fiato al Movimento 5 stelle con una scelta conservativa?
«Ma quale fiato. Giro per le feste dell’Unità, per i circoli e nessuno mi parla male del finanziamento perché nessuno, nemmeno i giovani, vuole cancellare i partiti. Se uno ruba è un conto, se uno fa politica i soldi servono. Piuttosto, l’indecenza è che un vicepresidente della Camera, il grillino, si permetta di dire che il Quirinale ha bilanci opachi e Montecitorio va spento. E lui, perché non si dimette?».
Come finirà?
«Con un buco nell’acqua, spero. Persino Al Gore scrive che va ripensato il sistema di finanziamento negli Stati uniti aprendo al sostegno pubblico».

l’Unità 7.7.13
Anche i migranti sono l’Europa
Il meeting internazionale antirazzista
di Gianluca Mengozzi


LA CRISI DELL’EUROPA È SOTTO I NOSTRI OCCHI, COSÌ COME LA SCARSA ADEGUATEZZA DELLE ISTITUZIONI EUROPEE A FRONTEGGIARLA. E siamo convinti che le politiche finanziarie e di bilancio adottate, sotto il segno dell’austerità, abbiano impoverito gran parte della popolazione, limitato la democrazia, alimentato uno spirito antieuropeo.
In questo contesto è emblematica la condizione della popolazione migrante, che pensiamo sia stata l’obiettivo nell’ultimo ventennio di una serie di politiche che, nate con lo scopo di regolare lo spazio di libera circolazione, hanno generato in molti casi chiusure ingiustificate. La condizione dei migranti è caratterizzata da uno status di cittadinanza diseguale e il quadro legislativo dei Paesi europei, fortemente disomogeneo sull’immigrazione, è sostanzialmente basato su un approccio proibizionista di difesa fisica e identitaria di frontiere nazionali. Questa condizione si riversa anche sulle seconde generazioni.
Ciò è anche il frutto di una strumentalizzazione politica del tema immigrazione da parte di alcuni partiti e movimenti politici in diversi Paesi europei, che continuano a utilizzare la xenofobia, soprattutto in questa fase di crisi, per raccogliere consensi fra la popolazione più confusa e disagiata. In Europa ci sono 32 milioni di immigrati, a cui vanno aggiunte circa 5 milioni di persone senza documenti: quasi un decimo dell’intera popolazione dell’Unione. Tali numeri non rappresentano un fenomeno nuovo o di passaggio. Parlano di una componente storica dei popoli, strutturale e tendente ad alimentarsi con i flussi dei prossimi decenni di mobilità fisiologica delle genti dai Paesi in espansione demografica ai Paesi in declino demografico.
Si tratta di un fenomeno che contribuisce a rendere l’Europa un grande spazio plurale ed interculturale, ne evolve la fisionomia. È dunque assai miope concentrarsi sul mero contrasto, invece di guardare al principio che l’Europa non sarebbe tale senza di loro e che quindi anche loro sono l’Europa.
In questo contesto, a un anno dalla scadenza delle prossime elezioni europee, e dopo la mobilitazione per la campagna sui diritti di cittadinanza «L’Italia sono anch’io», l’Arci organizza con la Regione Toscana, dal 10 al 14 luglio a Cecina Mare (LI), la XIX edizione del Meeting internazionale antirazzista. Come titolo abbiamo scelto «Diritti in Europa».
Il Mia sarà una delle tappe del viaggio di una nuova coalizione di organizzazioni, sindacati, associazioni e reti sociali europee, riunita attorno a «L’Europa sono anch’io», campagna rivolta da una parte ai giovani e alla società, dall’altra ai partiti e alle istituzioni europee per riformare il quadro legislativo su tre obiettivi principali: ratifica da parte dei Paesi dell’Unione della Convenzione Onu del 1990 «Sui diritti dei lavoratori migranti e delle loro famiglie», ancora non ratificata da nessun Paese europeo; omogeneizzazione di norme che riconoscano il diritto di voto agli immigrati regolarmente residenti alle elezioni amministrative e per il Parlamento europeo; estensione del diritto di cittadinanza europea agli immigrati stabilmente residenti ed ai loro figli nati in Europa o trasferitivisi in tenera età e frequentanti la scuola.
Ne discuteremo a Cecina Mare con tante persone, tra loro la ministra Cecile Kyenge, il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi, parlamentari, amministratori locali, esponenti del sindacato e dell’associazionismo.
L’Europa e il suo progetto sono fondati sui diritti, per questo l’Europa o è antirazzista o non è.
*Presidente di Arci Toscana e membro della presidenza nazionale dell’Arci

l’Unità 7.7.13
Ignazio Marino:  «Dopo i Fori, il lavoro Roma pronta alla sfida»
«Per l’occupazione si può fare molto, affronteremo il tema domani assieme alla giunta regionale
Il Pd? Più delle regole servono idee»
intervista di Jolanda Bufalini


ROMA È il primo incontro pubblico con la cittadinanza romana, alla festa de L’Unità, al parco della basilica di San Paolo. Il sindaco di Roma Ignazio Marino cita spesso il santo Padre, porta ad esempio il coraggio di andare a Lampedusa, su una barca, per gettare in mare una corona in ricordo dei migranti morti nel Canale di Sicilia. Marino vorrebbe una sinistra così, che non ha timore di esprimere i propri valori.
La giunta si è appena formata e già c’è una grande discussione sulla pedonalizzazione dei Fori. Non ha timore che si paralizzi il traffico?
«Per ora si chiuderà al traffico privato solo la parte che va dalla basilica dei Santi Cosma e Damiano al Colosseo. È una scelta condivisa con i cittadini, l’80 per cento dei residenti è a favore. Gli assessori Improta e Barca, insieme alla presidente del Municipio, sono andati in piazza, senza rete. Non ho fatto un’ordinanza, come è nei poteri del sindaco, ma coinvolto forze intellettuali e indicato un sito nel quale i cittadini possano dire la loro. Da piazza Venezia, per ora, non si può chiudere. Si potrà quando si risolverà il problema del trasporto pubblico e del metrò C».
C’è stato un appello di esperti e intellettuali che auspica la ripresa del progetto che fu di Cederna e Petroselli.
«Infatti non è solo un problema di traffico, l’assessore alla cultura Barca è coinvolta in prima persona. Noi possediamo il parco archeologico più grande del mondo, dobbiamo smettere di considerarlo come fa Paperon de’ Paperoni con le sue monete d’oro. Dobbiamo tirarlo fuori, valorizzarlo. Ci sono millenni di storia dell’umanità coperti da una striscia d’asfalto. Ma è un progetto per il quale ci vogliono intelligenze, concorsi internazionali e risorse, che non si conclude con la stagione di Marino sindaco».
Nella formazione della giunta ha pesato di più l’equilibrio politico o la competenza?
«È una giunta ottima. Sulle questioni del trasporto Guido Improta è un esempio di grande competenza tecnica che ci mette in grado di arrivare a decisioni strategiche. Ma il fatto che il 50% siano donne è molto importante. Non lo dico pro forma, le donne sono ... in inglese si dice High maintenance».
Cosa vuole dire?
«È come avere una Ferrari, ne paghi i costi. Le donne sono più radicali degli uomini. Sulle auto blu, ad esempio, io sarei stato più tollerante, non vedo nulla di male se un dirigente chiede di essere portato a casa, quel tempo, per lui, può essere di lavoro, al telefono o nella lettura di un testo. È stato il 50% femminile della giunta a spingere per una decisione più rigida, non c’è più uso esclusivo delle auto blu, il trasporto a e da casa è con mezzi propri».
Il trasporto pubblico a Roma è un dramma. Come pensa di affrontarlo? «Quella delle auto blu è una decisione simbolica, indicativa di un modo di pensare. È vero, il trasporto è il problema più sentito. Prima della campagna elettorale avrei detto che la priorità è il lavoro, ma al sindaco le romane e i romani chiedono prima di tutto di affrontare il problema degli spostamenti, che sono tempi di vita. Ci vuole un trasporto pubblico più efficiente per le 600.000 persone che si spostano ogni giorno a Roma, solo così si otterrà una diminuzione di auto e motorini. A Roma ci sono 900 auto per 1000 abitanti, a Londra sono 400. Gli obiettivi sono due: trasporto su ferro e aumentare le possibilità di muoversi senza mezzo motorizzato, in bicicletta. Ma non sono obiettivi facili e i tempi non saranno brevi».
Dal grande al piccolo, che fine hanno fatto i 45 nuovi autobus amaranto con l’aria condizionata?
«Sono in periferia, come avevo detto in campagna elettorale. È singolare che nessuno, ancora me lo avesse chiesto. I giornali, piuttosto, sono pieni delle schermaglie sul congresso del Pd».
La cosa la sorprende?
«Sì, mi sorprende. Quando vado nei mercati nessuno mi chiede come sarà eletto il segretario democratico. Le persone hanno problemi più impellenti. Guglielmo Epifani ha detto che si deve fare un congresso di idee. Sono d’accordo. Io ci ho provato, nel 2009 ero il solo a dire il no al nucleare in modo netto. E oggi, sugli F35, non mi soddisfano i tentennamenti. Serve investire sul lavoro, sulla scuola pubblica, sugli ospedali, sull’emergenza casa. Gli F35 non ci servono. Io vorrei che il congresso servisse a riscoprire le parole della sinistra, ad affermare che tutti devono avere gli stessi diritti. Vanno risolti i conflitti d’interesse, non solo quello di Silvio Berlusconi, è chiaro che chi controlla un quotidiano ha più opportunità di altri. Il paese ha bisogno di una legge anticorruzione, di scelte nella sanità. Mi chiedo se questo governo, nel quale convivono posizioni rispettabilmente opposte, possa affrontare questi nodi. E la legge elettorale non può essere un fiume carsico. Era già una emergenza nel 2006. Non è immaginabile che si torni a votare per la quarta volta con questa legge».
Lei mette il lavoro al primo posto, ma un sindaco cosa può fare per il lavoro? «Può fare molto, intanto lunedì ci sarà la prima “giunta congiunta” con la Regione. Credo sia un unicum nella storia. Si può fare molto con l’Europa e l’assessore Cattoi ha questa delega. Dobbiamo anche usare il patrimonio immobiliare del comune, per le start up dei giovani».
Qual è il suo rapporto con Matteo Renzi?
«Ho molta stima e sono grato a Renzi. Io ho sostenuto Bersani alle primarie, ma quando gli ho chiesto di contribuire a cambiare Roma, è venuto subito. Ecco cosa intendo per sostegno nelle idee. Dopo la chiusura delle urne a Roma, il primo sms è stato il suo».

il Fatto 7.7.13
Un giorno al Colosseo la Via Crucis dei turisti che arricchisce i privati
Barriere architettoniche, bagni maleodoranti, cantieri aperti e poche indicazioni
trasformano la visita a uno dei monumenti più belli del mondo in un supplizio
Ecco chi ci guadagna e cosa c’è dietro la malagestione dell’area archeologica di Roma
di Marco Filoni


A’ centuriò! Percorrere la via dei Fori Imperiali significa entrare nel ventre di Roma. Qui la città si espone, la romanità si offre generosa al mondo intero. Ab Urbe condita, diceva Tito Livio: la fondazione della città è messa in scena ogni giorno, con questi energumeni che ti accolgono sorridenti pronti a brandire le loro spade lucenti e mimare duelli cruenti, a favore di macchina fotografica e qualche euro. Fingersi turista fra giapponesi, inglesi, cinesi e tanti altri espone al rischio dei centurioni molesti: prima ancora d’arrivare al piazzale lastricato di fronte al Colosseo vengo investito dalla commedia che recitano ogni giorno. Legionari o meno, tutti abbronzatissimi, sfoggiano un fascino che non hanno, cercano di sedurti con movenze eroiche e quel linguaggio, grottesco e perciò anche divertente, d’un inglese maccheronico. “Could you take a photo of me wearing your cucullus”?, aveva chiesto uno di questi alla moglie di un amico qualche tempo fa. Sapessero i turisti che sono quasi tutti (“tutti”, assicurano i carabinieri lì vicino) pregiudicati. Vabbè. Scartati i centurioni arrivo finalmente in fila per entrare a visitare il simbolo di Roma, il monumento più visitato d’Italia, la memoria di pietra più nota del nostro Bel Paese.
MOSTRE TUTTO L’ANNO
La fila c’è già alle 8,30 del mattino, all’apertura. Biglietto: 12 euro. Chissà perché, ricordavo meno. Non venivo da tempo, mi sembrava costasse 9 euro. Controllo online (impulso compulsivo da smartphone) e in effetti ricordavo bene. Costava 9 euro ma poi c’è la mostra “accessoria”, diciamo così, che costa 3 euro. Non è finita qui: da qualche anno infatti sono stati riaperti gli ipogei e il secondo anello superiore. Restaurati con i soldi pubblici, va da sé. Ma per chi volesse vedere questi splendori romani dovrà affidarsi a una visita guidata, perché questi ambienti sono percorribili soltanto in gruppo e accompagnati. Prezzo: dai 6 ai 9 euro, a seconda del tipo di visita. Beh, bene, a giudicare dalla folla festante e sudaticcia che mi sta vicino penso a quanti soldi fa la Sovrintendenza di Roma (che ha uno statuto speciale e quindi amministra le entrate dei propri siti in maniera autonoma). Chiedo allora al custode, gentile, che accompagna la visita. Dice che da primavera ad autunno le visite vanno a gruppi di 20, 25 persone, e ne partono più o meno una ogni mezzora. Insomma, un bel bottino in più rispetto a quanto incassa soltanto di ingressi. Chiedo perciò sempre al custode se i 3 euro che ho pagato in più per la mostra allestita all’interno del Colosseo (per la cronaca, si tratta di “Costantino 313 d. C.” che celebra l’anniversario dell’Editto di tolleranza promulgato dall’imperatore) sono un evento eccezionale: “Maddechè! Qua fanno una mostra dopo l’altra. E il turista non lo sa, tanto non può scegliere, quando fa il biglietto gli caricano i 3 euro in più. Potrebbero anche fa ‘na mostra de pentole qua dentro! ”. Dopo la visita agli ipogei e all’anello superiore torno sotto. Voglio capire meglio questa cosa del biglietto. Chiedo a un altro custode. Si guarda intorno, quasi furtivo, poi mi spiega che un concessionario privato che ha in gestione la biglietteria prende il 15% del biglietto normale (9 euro), il 70% della maggiorazione per la mostra (3 euro) e l’intera somma delle visite guidate (6 o 9 euro). Perché? “La Sovrintendenza dice che non ha personale, quindi ha fatto una gara d’appalto e i soldi, o almeno una parte dei soldi, se li prendono loro”. Ah, però.
IL MEGAFONO E LA SEDIA A ROTELLE
A un certo punto mi chiedo: e se un disabile volesse entrare? In effetti ci sono due ascensori. “Hanno creato grossi problemi all’inizio, mancava l’aria condizionata e si sono bloccati diverse volte con decine di turisti dentro: pensi che abbiamo dovuto chiamare i vigili del fuoco”, mi dice una custode. Comunque, hanno risolto il problema e ora funzionano. Con quelli un disabile arriva al primo piano. Al secondo piano non ha possibilità di salire, ma la struttura è tale che le barriere architettoniche non sono eliminabili. Chiedo al piano terra se c’è un percorso per la sedia a rotelle. Dicono che c’è una passerella che si affaccia sul-l’arena centrale. Ci vado ma non la trovo. Torno indietro e insisto. Il custode mi accompagna. Ci sono due rampe di scale e, quasi in mezzo, una piccola rampa che serve da affaccio. È strapiena di turisti e di sedie a rotelle manco l’ombra. “Che le devo dì? Lì ci vanno i turisti per far le foto”. Mi avvicino: è stretta e affollatissima. Un’orda di tedeschi che guarda la romanità antica dal mirino mi precede. Ma se arrivasse ora un disabile in sedia a rotelle? Giro la domanda al custode: “Quando arriva ci avvisano col megafono e cerchiamo di far scansare quelli che stanno a far le foto”. Insomma, soluzione all’italiana.
QUELLE PORTE TROPPO PICCOLE
Il Colosseo e il Foro Palatino hanno un unico biglietto d’ingresso. Uscito dall’uno mi dirigo all’altro. Sempre una gran ressa. Appena entrato chiedo se un disabile in sedia a rotelle può entrare per una visita. Mi mostrano una specie di gimkana: sembra un percorso di un parco giochi per bambini. Ha qualcosa di ridicolo. Guardo il custode e non faccio in tempo a chieder nulla. “Una chicca eh? Per fare questo percorso hanno smembrando una parte di questa meravigliosa scalinata. Prima l’impatto era soave, a destra e a sinistra una specie di roseto e due
pini.
Che hanno fatto? Hanno completamente squartato la parte sinistra e pare che abbiano speso un mucchio di soldi. Qualcuno dice addirittura 750.000 euro” (ma poi chiedo a un altro custode che è più parco: 300.000 euro). A quel punto chiedo, ingenuo, se non sarebbe stato meglio mettere sulla scalinata una seduta assistita, un montascale mobile per sedie a rotelle. Avrebbero risparmiato centinaia di migliaia di euro senza peraltro rovinare nulla. La risposta non arriva. “Vuole vedere? Venga con me”. Iniziamo a salire. Da un lato splendide rovine, dall’altro cantieri. Tanti, uno dopo l’altro: transenne, transenne e transenne. Non ce la faccio a contarli tutti, sono troppi. Arriviamo al Museo Palatino. Ci sono le scale: il piano terra è quasi seminterrato e bisogna scendere. Pochi scalini, e poi ancora scale per salire al piano superiore. Qui c’è la seduta assistita: “Non ha mai funzionato, credo che non sia stata nemmeno collaudata”, mi dice il custode. Però c’è l’ascensore per i disabili, quello per andare al piano di sopra. Oggi non si può prendere, l’area è chiusa. Insisto un po’, e alla fine me lo mostrano da dietro una porta. Piccolo! La sentenza è inappellabile. Non c’è proprio nulla da fare: una sedia a rotelle non ci passa. “Se so sbagliati dotto’”, dice il custode. L’apertura non è abbastanza grande da far passare una carrozzella. “E allora che fate se arriva un disabile? ”. “Se l’incollamo. Ma solo se c’è la persona giusta: ci sono custodi che hanno una certa età, altri sono gracilini e non ce la fanno, altre sono donne”.
IL CANTIERE ETERNO
Esco dal Museo sconsolato. Mi rifaccio gli occhi su una serie di scorci mozzafiato. Ma poi ancora un cantiere. Vedo un altro custode dalla faccia simpatica. “A’ dotto’, ma che non vede? saranno almeno trentacinque”. Il turista più che visitare il sito è costretto a fare lo slalom fra cantieri. “Alcuni non si capisce proprio perché li aprano. Sembra quasi che appena c’hanno un po’di soldi fanno la corsa a spenderli aprendo un cantiere”. Ma a che servono? Insomma, sono cantieri di restauro? “No, soltanto alcuni. Ma la maggior parte non si capisce a che servono. Aprono un cantiere in un posto, lo tengono lì, transennato, magari per una ventina di giorni, poi lo chiudono, infine lo riaprono”. Un valzer senza senso, dice laconico. “Smonta e rimonta, smonta e rimonta: non famo altro. C’è il Tempio di Antonina e Faustino che è tutto un apri e chiudi”. L'area del Palatino è enorme, più di 35 ettari, un sito importantissimo dal punto di vista archeologico, un parco senza rivali al mondo. Ebbene, il 90% dei siti sono chiusi. O meglio, sono aperti a tempo. Per le mostre. “Vede, anche ora lo stadio è aperto soltanto perché c’è una mostra dentro” - si tratta di “Post Classici”, un’esposizione di artisti contemporanei - “ma appena finirà la mostra lo richiuderanno”. Faccio un giro e vado verso la Curia, fra i monumenti più noti: è stato chiuso a lungo e l’hanno riaperto da poco.Ma oggi è chiuso perché all’interno della Curia vengono montate le strutture per le mostre temporanee organizzate dal concessionario della biglietteria, mi dice un altro custode. Non posso vederla. Devo aspettare che ci organizzino un’altra mostra. “Non si preoccupi: tanto ne fanno una dietro l’altra perché son soldi”. Sono molti i monumenti chiusi: Santa Maria Antiqua, in restauro da anni. Le Vestali sono state aperte un anno fa, circa. Chiediamo al custode: “Dotto’, qua ogni volta che aprono un monumento fanno l’inaugurazione: invitano sottosegretari e giornalisti, fanno il picnic, e poi dopo un po’ la richiudono. Le Vestali ora sono chiuse! ”. Si possono vedere dall’alto. Chiedo a un custode lumi su queste mostre: “Ne utilizziamo i ricavi per poter aprire quel monumento. Per esempio ora il Tempio di Romolo è aperto perché dentro c’è una mostra: se non ci fosse, non avremmo il personale per poter aprire quel monumento. Invece così si utilizza personale in conto terzi: siamo sempre noi della Sovrintendenza, ma veniamo pagati con la bigliettazione, ovvero dal concessionario – come se ci pagassero gli straordinari”.
LA LOBBY DEI BAGNI
Ormai sono ore che sono qui. Vorrei andare al bagno. E mio malgrado affronto un tema che ha del sublime. Hanno pensato di costruire un sacco di bagni. Come dire: un esercito di incontinenti ci seppellirà. Eppure i turisti che mi accompagnano in questa giornata non sono tutti vecchini desiderosi di andar al bagno ogni cinque minuti. Sarà. Un sacco di toilette, e pare che ogni volta l’hanno pure inaugurate! L’impresa è trovare quella aperta. Al povero addetto che sfinisco con le domande balena un’espressione perfida e un ghigno satanico. “C’è un problema serio di fornitura idrica e di attacchi fognari mancanti”. Insomma, l’acqua è poca e non basta per tutti i bagni. Quindi? “Li aprono a turno”. Non finisce qui. Dicono che non si può fare altrimenti, che non ci si può attaccare alla fogna e quindi bisogna tenersi le fosse. Che, ovviamente, deve contenere l’enorme afflusso di turisti. E mica si può regolamentare l’accesso! Certo, si potrebbe immaginare un addetto di stanza alle porte dei bagni per interrogare i turisti: “Lei che deve fare? ”; “Pipì”, “Bene, allora entri”. “E lei invece? ”. “Beh, sa, io quella grossa”. “Eh no, mio caro Lei, non può mica. Se la tenga e vada a farla al bar qui fuori, appena esce sulla sinistra: quelli hanno la fogna! ”. Torniamo alla realtà. Sono arrivato al Museo del Palatino. Vado finalmente al bagno e vengo accolto da uno schifido fetore. Chiedo al custode: “Non può capire. Quando siamo allo stremo, dopo diversi giorni che segnaliamo la puzza, allora chiudiamo il Museo”. Cosa? “Eh già, chiudiamo perché onestamente non ci si può stare qui dentro”. “D’accordo, ma che scrivete sul portone, chiuso per troppa puzza di merda? ”. La risposta è un sorriso sardonico. E triste.
CARTELLI, PANCHINE E TELECAMERE
Altro problema. Mi sono perso. Un giapponese diligente con una cartina dettagliatissima mi aiuta. Ma a pensarci bene non ho visto nemmeno un cartello. Ho vagato a vuoto, ho trovato i vari siti solo perché ho chiesto o perché mi ci sono scontrato. Nemmeno un’indicazione o una freccia. Guardo meglio. In effetti qualcuna c’è, ma pochissime, insufficienti e poco chiare. E poi mi guardo intorno e vedo un sacco di gente seduta a bere o a riposarsi qualche minuto su: capitelli, colonne, muretti... Nemmeno una panchina. Chiedo a un altro custode: “Finché sono seduti non gli diciamo nulla, poveretti, altrimenti dove dovrebbero stare? ”. Però ci sono le telecamere. Ah, quelle non mancano. Mi avvicino alla splendida casa di Augusto. Meravigliosa. Mi accorgo di essere spiato per tutto il tragitto. Per scrupolo chiedo: qui siete proprio al sicuro con tutte questi occhi elettronici, no? Il sorriso beffardo del custode la dice lunga. “Mah, sa, qualche telecamera funziona”. “Qualche? ”. “Beh, sì, non tutte”. Ah... “Ma poi il problema non sarebbe nemmeno tanto le telecamere... se funzionano o no... il problema è un altro”. Mhm, cioè? “Non glielo posso mica dire”. Ma come? “Vabbè, ma non lo dica a nessuno, mi raccomando: nella sala di regia non c’è nessuno! ”. Insomma, le telecamere (quelle che funzionano) riprendono sì quello che succede, ma non c’è nessuno dietro a uno schermo a guardare le immagini.
IL PORTIERE DI NOTTE
Esco dalla visita con un senso di spaesamento. Chiamo Claudio Fianco dell’FLP, il sindacato che ha indetto le assemblee nelle domeniche di giugno (il 9, 16 e 23) e per questo ha tenuto fuori dal Colosseo migliaia di turisti. Lui ora lavora di notte, al Palatino. Posso fare tutte le domande che mi sono rimaste. Inizia spiegandomi che i lavoratori di Colosseo e Palatino lavorano 363 giorni l’anno. “Forse sono gli unici monumenti al mondo senza quello che viene chiamato riposo ambientale, ovvero una giornata riservata alle grandi manutenzioni, alle pulizie straordinarie, agli spostamenti di materiali. E per dare al personale il giorno di riposo. Ma l’amministrazione dice che non può chiudere perché ci rimetteremmo economicamente”. A proposito di soldi: com’è questa storia del concessionario che gestisce la biglietteria e le mostre? “Il concessionario, Coopculture con Electa Mondadori, ha la gestione della biglietteria (ha vinto la gara molti anni fa, anche se quell’appalto è scaduto e continua in deroga) e quindi ha un notevole vantaggio economico. Hanno le royalties sugli ingressi e poi il bookshop, i servizi di guida, il noleggio degli strumenti per l’accompagnamento dei turisti come le audioguide. A dire il vero forniscono anche piccoli monumenti, come la Cripta Balbi, che hanno introiti molto più bassi. Ma l’area centrale, il Palatino e il Colosseo, sono una miniera d’oro. Lo scorso anno ha fatto circa 6 milioni di ingressi”. Se questo concessionario guadagna anche solo una percentuale sulla maggiorazione per la mostra, e visto che ormai queste mostre coprono l’intero anno solare (“appena smontata una se ne monta subito un’altra, o spesso si accavallano 2 o 3 insieme”) hanno il loro bel guadagno. Considerando che poi sulla visita guidata del Colosseo (ipogei e secondo anello) non godono soltanto di una parte dell’incasso ma del totale, è un vero affare. In effetti non bisogna essere un matematico: fossero anche solo pochi euro, per sei milioni di ingressi l’anno... La vera domanda è: perché la Sovrintendenza lascia a un privato questa fetta di torta? “Il problema è che siamo pochi: al Colosseo lavorano poco più di trenta addetti. Abbiamo problematiche organizzative, e strutturali e gestionali. E poi ci sono gli ex Assistenti tecnici museali, selezionati per la conoscenza delle lingue e dei monumenti: ma una volta assunti sono stati dislocati altrove – vanno sugli scavi, seguono i funzionari, fanno studi, lavorano in biblioteca, oppure fanno servizio di informazioni. Il fatto è che erano stati assunti come custodi ma ora fanno altre mansioni. Tanto che la Sovrintendenza, mancando la sorveglianza, ha esteso il contratto della ditta di vigilantes (che normalmente fornisce il servizio di metal detector, e non si capisce perché ai Musei Vaticani lo fornisca la Polizia di Stato e da noi no) per due persone che lavorano al primo piano del Colosseo”. Insomma, parliamo dell’area del Colosseo e del Palatino, quasi 16.000 ingressi al giorno, ricavi per 35 milioni di euro l’anno. Ha resistito a tutto, intemperie e incuria, ma forse sarebbe arrivato il tempo di gestirla come si deve.

Corriere 7.7.13
Decreto sui rifiuti bocciato dal Tar
Roma: vicina l'emergenza

qui

il Fatto 7.7.13
Lo scrittore Carlo Lucarelli
Vorrei continuare ma i soldi ci sono sul serio?
intervista di Mariagrazia Gerina


Quando si parla di Rai, le cose non sono mai facili”, prova a prenderla con filosofia Carlo Lucarelli, che, dopo quattordici anni tra Blu Notte e il tentativo di passare in prima serata con Lucarelli racconta, ancora non sa se, come e quando tornerà su Rai3. “Con il direttore Vianello avevamo iniziato a parlare di un format innovativo. Poi non ho più sentito nessuno”. Ora, grazie alla mobilitazione di quanti – da Roberto Saviano ai familiari delle vittime delle stragi – hanno protestato per la cancellazione di Blu Notte, sembra che la Rai ci abbia ripensato.
Allora, Lucarelli tornerà il prossimo anno sulla Rai?
Speriamo. Ho visto che c’è stata una bella mobilitazione davanti alla possibilità che il nostro programma non ripartisse. Sono cose che fanno piacere. Vuol dire che abbiamo fatto un bel lavoro. Ringrazio tutti, davvero.
Ma come mai volevano cancellarvi? Cosa è successo?
Non lo chieda a me. Noi avevamo una bellissima idea per un programma nuovo, più veloce, aggressivo. Avevamo iniziato a parlarne con Vianello. Lui voleva qualcosa di innovativo. Poi sono cominciate le discussioni tra lui e la produzione. Sembra che non ci fossero le risorse. Non so. So solo che non ho più sentito nessuno.
Vi hanno fatto un problema di fondi o di audience?
Questa cosa dell’audience non l’ho mai capita molto bene. Mi pare un sistema vecchio, soprattutto per un programma come il mio. Ho fatto un test su facebook e in tanti mi hanno risposto: “Ma io ti registro”, “io ti scarico”. Le trasmissioni poi si può anche decidere di chiuderle. A me piacerebbe andare avanti. E a giudicare dalla mobilitazione mi pare che anche la gente ha piacere che continui.
In che forma?
Io racconto storie, esco dal buio e racconto storie. Quello so fare. Storie di mafia, inquinamento, criminalità organizza, scandali economici, misteri d’Italia. Stavolta pensavamo di confezionarle in un modo più veloce.
Puntate più brevi e in seconda serata?
Questa sembra l’idea e a me va bene. Il punto è se saremo messi in condizione di fare il nostro lavoro con la cura e la qualità che meritano le cose di cui ci occupiamo.
Sembra che il budget sarà tagliato parecchio...
Non mi occupo io delle questioni di budget. E poi sono appena tornato dall’Australia. Aspetto di incontrare Vianello e di parlare con lui.
Quale è la linea del Piave?
Io so che io le cose le faccio se dall’altra parte vedo che si vuole bene a quello che faccio. E quindi gli si dà la giusta collocazione, i giusti fondi. Se vedo che le si fa per forza, dico no.
Lei ha appena scritto un romanzo sulla rabbia, quanta rabbia le ha provocato questa storia?
La rabbia ho imparato a contrastarla, soprattutto quando si parla di Rai. Con la Rai, le cose non sono mia facili.

La Stampa 7.7.13
I dati ufficiali del Mibac
Beni culturali, Italia al tracollo
Anche il ministero è moroso: bollette non pagate per 40 milioni

qui

La Stampa 7.7.13
Cultura, i numeri del disastro
di Mattia Feltri


Il ministero dei Beni culturali non paga le bollette. Secondo gli studi consegnati alle camere dal ministro titolare, Massimo Bray, i debiti per «utenze e canoni» ammontano a quaranta milioni di euro. Destreggiarsi nelle cifre è uno spasso. Dal 2008 (inizio dell’ultimo governo di Silvio Berlusconi) le dotazioni del Mibac sono passate da due miliardi abbondanti a poco più di un miliardo e mezzo. Dal Lotto arriva poca roba (meno 71 per cento rispetto a cinque anni fa) e le disponibilità per i restauri scendono nello stesso periodo di un terzo. Bray, insomma, non sa dove risparmiare e come tirare avanti. Le «risorse relative alle principali programmazioni per l’esercizio dell’attività di tutela» sono diminuite del 58 per cento. Scarseggiano gli stanziamenti agli istituti culturali (circa 18 per cento) e al Fondo unico per lo spettacolo (circa 15 per cento). E siamo ai quattrini relativi al 2013. Perché nel 2014 andrà anche peggio, con un’ulteriore riduzione del budget. Più che una relazione, pare una geremiade. E’ mai possibile, intende Bray, usare il braccino corto tendente al cortissimo con l’industria potenzialmente più florida del paese? Musei e teatri rischiano di chiudere, il turismo non è supportato, le fondazioni liriche galleggiano sui debiti: servono aiuti sotto forma di assegno. Sacrosanto, no? Mica tanto. Continua a frullarci in testa l’idea che i Beni culturali debbano essere finanziati, ma soprattutto debbano finanziarsi. E finanziare, cioè contribuire a tenere in piedi questa povera Italia, ma senz’altro è difficile se si osserva quello che succede, con le serrate al Colosseo e le code di visitatori abbandonati sotto il sole, e dunque non propriamente incentivati a tornare a Roma, o a consigliarne la visita agli amici. Se Pompei crolla lentamente (oddìo, allora non era l’ex ministro Sandro Bondi a picconarla di notte), se la Reggia di Caserta si sbriciola nell’incuria, se i meravigliosi siti archeologici siciliani sono irraggiungibili e tenuti come cloache, se i bronzi di Riace giacciono in magazzino, è complicato immaginare che due o trecento milioni in aggiunta risolvano il problema. La verità conosciuta da tutti è che sediamo su un tesoro sconfinato e non ce ne curiamo: lo amministriamo e lo offriamo al pubblico – che paga (pagherebbe) – con il piglio del parastatale. Davanti a questo spettacolo, la soluzione offerta, oltre che tendere la mano, sono altri scioperi, ultima folle bizza dei moribondi. E’ ovvio che si comprende la disperazione di chi rischia di perdere il posto di lavoro, e pure gli effetti della crisi sul settore: gli italiani rinunciano al teatro, al cinema e ai concerti in percentuali che vanno dal sette al nove.
Siamo tutti malridotti, ma che lo sia anche il ministero dei Beni culturali è un mistero infinito. Secondo il Country Brand Index 2013, l’Italia è al quindicesimo posto al mondo per attrattiva, superata anche da Canada, Giappone, Nuova Zelanda, Australia e Finlandia. Per quanto ci si pensi, non si afferrano le ragioni per cui i turisti preferiscano vistare Helsinki invece di Firenze o Venezia. Siamo agli ultimi posti in Europa per scolarizzazione e commercio dei libri (solo 46 italiani su cento leggono almeno un libro all’anno, contro il settanta dei francesi). Negli ultimi due anni i visitatori dei nostri siti culturali sono scesi da 40 a 36 milioni. I cinque principali musei di Londra staccano 26 milioni e mezzo di biglietti all’anno, che equivale al 73 per cento realizzato dai nostri 420 istituti statali (musei, luoghi archeologici, monumenti). Forse perché da noi si trovano spesso il portone sbarrato e un’assistenza manicomiale.
Sarebbe ora di piangere meno e darsi una mossa.

l’Unità 7.7.13
Sul destino del Paese pesa l’incognita del potere dei militari
L’esercito controlla oltre il 30% dell’economia e fruisce di un sistema di welfare che garantisce forti condizioni di privilegio
di Umberto De Giovannangeli


I tank nelle strade. Il capo delle Forze armate Abdel Fattah el-Sissi che parla e si muove come il vero, nuovo padrone dell’Egitto del dopo-Morsi. Tanti segnali stanno a indicare che più che la soluzione, l’esercito rischi di rappresentare il problema per un Paese che vuole voltar pagina alla ricerca di una democrazia compiuta.
PROBLEMA IN DIVISA
Riflette in proposito Oliver Roy, tra i più autorevoli studiosi europei del mondo arabo e islamico: «Temo annota Roy che l’esercito occuperà sempre più spazio. È intervenuto nel nome dell’ordine, dell’efficienza, promettendo il ritorno alle urne, ma una volta preso il potere i militari se lo terranno ben stretto». Ben stretto come i privilegi che l’élite in divisa ha consolidato nel corso del tempo. Il fallimento del presidente deposto e dei Fratelli musulmani è fuori discussione.
D’altronde il governo non sarebbe stato comunque in grado di intervenire efficacemente su quella ampia sacca di privilegio e di strutture obsolete, che ingessa larga parte dell’economia egiziana: lo impediva tra l’altro il compromesso raggiunto da Morsi nell’agosto 2012 con i «giovani ufficiali», in cambio della destituzione della vecchia guardia guidata dal maresciallo Tantawi. Esso garantiva il mantenimento dei più corposi privilegi economici e sociali di cui l’esercito gode e di cui non vuole certo privarsi: esso controlla direttamente oltre il 30 per cento dell’economia del Paese, e fruisce di un sistema di welfare, che va dalle abitazioni, ai circoli ricreativi e sportivi, alle ville e alle case di vacanza, ad un sistema sanitario riservato, privilegi che non costituiscono solo uno status symbol, ma garantiscono un livello di vita e un potere sulla società non facilmente rinunciabili. Fu proprio quel compromesso, tuttavia, che permise a Morsi di insediarsi nella pienezza dei suoi poteri, segnando un punto di svolta.
Ed è proprio quel patto di potere stabilito con i «giovani ufficiali» è stato il presidente islamista a nominare el-Sissi a capo delle Forze armate e ministro della Difesa a convincere Morsi di poter fare a meno dell’alleanza con l’opposizione di Piazza Tahir, di cui aveva avuto bisogno fino a quel momento, per contenere le pressioni delle Forze armate. Una valutazione che gli è stata fatale. Perché Mohamed Morsi è sempre stato percepito dall’establishment militare come un corpo estraneo.
E non solo e tanto perché proveniente dalle fila dei Fratelli musulmani, quanto perché a differenza dei suoi predecessori Mubarak e prima di lui Sadat e Nasser non viene dalle Forze armate, non ne è espressione o fiduciario. Annota Roberto Aliboni, consigliere scientifico per il Medio Oriente dell’Istituto affari internazionali (Iai): «Non hanno fatto il colpo di Stato in chiave anti-islamista. Hanno optato per il golpe perché dal loro punto di vista una situazione di instabilità come quella di oggi compromette la loro posizione. Una posizione che nel complesso è privilegiata: ricevono grosse sovvenzioni dagli Stati Uniti e hanno un forte potere nel Paese di carattere corporativo. Hanno una economia tutta loro e la Costituzione sancisce che il loro bilancio non è visibile al pubblico. I militari temevano che questa situazione mettesse a rischio la loro posizione e la loro tranquillità».
In Egitto il potere passa necessariamente dall’Esercito: fu così con il colonnello Gamal Abd el-Nasser, secondo presidente della Repubblica dopo il colpo di stato del 1953, con il successore Anwar al-Sadat e con il generale Hosni Mubarak. Destituito l’ultimo dittatore, è stato il feldmaresciallo Mohammed Hoseyn Tantawi, Comandante in capo delle forze armate e del Consiglio Supremo delle Forze armate, ad assumere il ruolo transitorio di Presidente d’Egitto, fino alla vittoria elettorale di Mohamed Morsi, primo «politico puro» a salire al potere nel Paese dei faraoni. È stato l’Esercito a concedere a Mubarak di avviare il processo di privatizzazione di molte società pubbliche, cosa che ha permesso un ulteriore arricchimento della famiglia del Presidente ma anche di molti personaggi vicini allo Stato maggiore, tra cui figli, parenti, amici: di fatto, secondo Trasparency International, l’indice di corruzione in Egitto colloca il paese al 118esimo posto su 174 nazioni (l’Italia è al 72esimo). È l’Esercito l’establishment che si autoconserva dal 1953, il vero nocciolo duro del potere che, per il resto, è un semplice guscio vuoto: fino a quando Mubarak garantiva gli interessi economici dello Stato maggiore, la politica era affare diverso, marginale per i militari fino al 2011. Ora non più. E i tank tornano nelle strade.

l’Unità 7.7.13
La carta El Baradei per fermare la guerra
Gli islamisti sono decisi a mantenere la mobilitazione «fino al ritorno
di Mohamed Morsi»
Il presidente ad interim Mansour: «Abbiamo bisogno di una riconciliazione nazionale»
di U.D.G.


Trentasette morti. 1076 feriti. È cronaca di guerra quella che segna il presente dell’Egitto. Guerra delle piazze, guerra tra le Forze armate e i Fratelli musulmani del deposto presidente Mohamed Morsi. Ed è in questo clima infuocato che dovrà muoversi Mohamed El Baradei, il premio Nobel per la pace nominato nella serata di ieri premier ad interim. Una investitura contestada dai Fratelli musulmani, il cui numero due, ed ex candidato presidenziale Khairat El Shater, è stato arrestato, secondo fonti della sicurezza egiziana citate dall’agenzia ufficiale Mena. L’accusa nei suoi confronti, dicono le fonti, è di incitamento alla violenza.
ESCALATION
Una violenza che ha fatto registrare, nelle ultime quarantotto ore, almeno 37 morti e 1076 feriti. Nel primo pomeriggio di ieri un sacerdote cristiano copto è stato ucciso a colpi di arma da fuoco nella provincia egiziana del Sinai, nella città di El Arish. Lo riferiscono fonti della sicurezza. Mina Abud Sharobim è stato colpito da uomini in moto mentre si trovava in macchina davanti alla sua chiesa a el Massaid, nei pressi di al Arish.
Obbedendo all’invito pronunciato dalla guida suprema della Fratellanza, Mohamed Badie, dato per arrestato e invece ricomparso l’altro ieri davanti alla folla radunata alla moschea di Rabaa El Adaweya nel sobborgo del Cairo di Nasr City, gli islamisti sono decisi a mantenere la mobilitazione «fino al ritorno del nostro presidente eletto» Mohamed Morsi. Non è chiaro dove il presidente deposto dall’esercito sia sottoposto a «custodia preventiva». Da fonti giudiziarie sembra che Morsi sarà interrogato domani assieme agli esponenti dei Fratelli musulmani arrestati nel corso del colpo di Stato di tre giorni fa. Tra le accuse mossegli, in particolare, quella di «vilipendio della magistratura». L’altra notte, il partito della Libertà e giustizia, braccio politico della Fratellanza, ha lanciato il suo appello: «Il partito resterà al fianco dei suoi membri e dei suoi simpatizzanti nelle piazze egiziane fin quando il presidente non sarà riabilitato alle sue funzioni. Rispettate il carattere pacifico delle manifestazioni e non cedete alle violenze». Malgrado le proclamate intenzioni pacifiche, ieri mattina i sostenitori di Morsi sono stati visti da decine di residenti in varie zone del Cairo armati di fucili mitragliatori, machete e bastoni. Sui tetti hanno fatto la loro comparsa anche i cecchini: fonti mediche hanno riferito all’Afp che diversi abitanti del quartiere di Manial sono stati medicati per ferite da armi da fuoco.
A consolidare i timori di una escalation verso il caos, l’annuncio apparso su un forum jihadista frequentato da gruppi attivi nel Sinai, monitorato dal sito di intelligence Site: è nato Ansar al-Sharia, un nuovo gruppo islamista armato per rispondere alla destituzione del presidente Morsi. La formazione ha definito il golpe militare «una dichiarazione di guerra contro l’Islam in Egitto», e fa sapere che sta armando e addestrando i propri militanti e accusa laici, sostenitori di Hosni Mubarak, copti cristiani e militari di voler trasformare il Paese «in un mostro crociato e secolare». Ansar al-Sharia si dice contro la democrazia e a favore della sharia e aiuterà i musulmani «a fermare gli attacchi e a difendere la religione». «Abbiamo tutti bisogno di riconciliazione nazionale e lavoreremo per realizzarla». A sostenerlo è il presidente ad interim Adly Mansour, in una breve intervista concessa al quotidiano indipendente El-Tahrir dopo la preghiera del venerdì in una moschea del Cairo, dove è comparso nella sua prima apparizione pubblica dal giuramento. «L’Egitto è per tutti», ha affermato Mansour.
E intanto il premio Nobel per la pace Mohamed El Baradei è stato nominato premier egiziano a interim. L’ex direttore dell’Aiea, sentito dalla tv satellitare al Hayat, ha detto di avere accettato «in via di principio» l’incarico ponendo come condizione di avere piene prerogative. Ma dalla Fratellanza arriva un «no» categorico, perché così facendo il premio Nobel «accetta il golpe» e perché «è l’uomo degli Usa in Egitto», taglia corto Mohamed el Khatib, dirigente della confraternita, ribadendo che il movimento rimarrà in piazza fino al ritorno di Morsi. Dal fronte opposto, gli attivisti della campagna Tamarod hanno invitato il popolo a scendere in strada, oggi, in tutte le province «per difendere la vittoria del 30 giugno», il giorno della manifestazione oceanica contro Morsi. Gli attivisti fanno appello al popolo a «stringersi intorno all’esercito contro i terroristi» perché i «Fratelli musulmani e le loro milizie non esiteranno a trascinare l’esercito egiziano in una guerra civile per giustificare un intervento straniero». La «guerra delle piazze» continua. L’Egitto non ha pace, nonostante un Nobel che guiderà la transizione.

La Stampa 7.7.13
Il Nobel, leader riluttante che aveva previsto il caos
Due anni fa diceva: gli islamici falliranno. Ora i Tamarod si fidano solo di lui
di Francesca Paci


Ai ragazzi di Tamarod che provengono dal suo partito e lo citano come un profeta, ha ripetuto per mesi e mesi che «il progetto conta assai più degli uomini». Ma questa volta l’uomo del passo indietro è stato costretto a farne uno avanti. O almeno a provarci. Mohamed Mustafa el Baradei, ex direttore dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, Nobel per la pace 2005 nonché leader di quell’opposizione egiziana tanto compatta contro i Fratelli Musulmani quanto divisa al suo interno, è stato convocato ieri sera dal presidente Adly Mansour per ricevere l’incarico di nuovo premier, poi qualcosa si è inceppato, il veto dei salafiti pare, e a tarda notte la nomina sospesa era diventata il nuovo giallo della crisi in corso.
Per capire la reticenza con cui il portavoce del fronte anti Morsi ha risposto alla convocazione del presidente, bisogna ripercorrere le ultime ore, a partire da ieri sera, quando, dopo aver fissato un’intervista esclusiva nel compound tra il Cairo e Alessandria in cui si trovano il suo ufficio e la sua abitazione, l’ha cancellata a pochi minuti dall’appuntamento, contravvenendo al proverbiale garbo affinato ai corsi di diplomazia dell’università del Cairo e della New York University per «una chiamata urgente».
Il candidato primo ministro riluttante, la cui nomina era stata boicottata nel pomeriggio dalla piazza islamista di Nasr City, ha però alle spalle un percorso politico che, seppur divagando, condurrebbe diretto al governo del paese. Quasi tre anni fa, sfidando pro forma l’allora imbattibile Mubarak, confidava a «La Stampa» di voler persuadere l’occidente della possibilità di una terza via rispetto all’alternativa tra dittatori e islamisti. All’epoca, mentre già si paventava che i Fratelli Musulmani potessero avvantaggiarsi di libere elezioni, lui minimizzava: «È un rischio da correre perché la democrazia non si ordina à la carte. I Fratelli musulmani non sono fanatici quanto il regime li dipinge per giustificare il proprio dispotismo: sono conservatori tipo gli ebrei ortodossi. Cinquant’anni senza alternativa politica li hanno resi popolari: hanno il 20% dei consensi ma in un sistema di alternanza perderebbero potere». È assai probabile che oggi, con il presidente Morsi messo fuori gioco manu militari prima dello scadere del mandato, el Baradei avrebbe voluto aspettare ancora un po’ prima di raggiungere la ribalta e che magari finisca per non dispiacersi troppo se non se ne dovesse fare niente.
«È un uomo allergico al protagonismo, preferisce dare una mano dalle retrovie, “leading from behind” come dicono gli americani» racconta Mhamoud el Hatta, uno dei fedelissimi del suo partito, al Dostour, in arabo La Costituzione. Giovedì scorso, quando all’indomani della deposizione di Morsi si cominciò a parlare di lui come premier, el Baradei fece capire di non voler essere della partita esattamentecome un anno fa, nel disappunto dei sostenitori, si era sfilato in extremis dalle corsa alla presidenza che avrebbe visto trionfare Morsi.
L’understatement è la chiave della vita di el Baradei che declina volentieri gli inviti mondani e opta piuttosto per ospitare gli amici nella grande villa con giardino in Alexandria road in cui abita quando non vola alla volta della casa di Vienna o in quella nel sud della Francia, quadri moderni, gusti occidentali, il tocco della moglie Aida al Kashef ex insegnante in Arabia Saudita che lui definisce «compagna di viaggio». Raccontano che poche settimane fa abbia ironizzato non poco sulla decisione del ministro delle antichità di bandire il vino dal buffet di una recente cerimonia a Palazzo Manial e che si sia letteralmente infuriato per le restrizioni islamiste proposte dal ministro della cultura dei Fratelli Musulmani Alaa Abdel-Aziz.
«L’idea di raccogliere firme per manifestare il dissenso politico appartiene al dottor el Baradei e precede di parecchio la nascita del movimento Tamarod, su sua spinta ne avevamo messe insieme un milione e mezzo nel 2010 per chiedere riforme a Mubarak» afferma l’attivista Mohammed Khamis, sostenitore della prima ora che era accanto al neo premier durante l’aggressione degli sgherri del regime alla moschea di Giza nei primi giorni della rivoluzione del 2011. Per questo, confida oggi un amico, el Baradei scommetteva già ai primi di giugno che Tamarod avrebbe oltrepassato quota 20 milioni.
Quello che Mohammed el Baradei non aveva previsto era la rapacità dei Fratelli Musulmani, la reazione del popolo egiziano, l’intervento dell’esercito che oggi mette in crisi anche quell’Europa su cui qualche settimana lui confidava di contare per il sostegno alle libertà civili sfidate dagli islamisti al potere.
L’uomo del momento, fino ad oggi più noto all’estero che in patria, non ha fatto che parlare di dialogo negli ultimi giorni. Una sua fissazione fin da quando il protagonismo politico dei Fratelli Musulmani era poco più di una ipotesi e lui spiegava a La Stampa che avrebbero dovuto comunque essere «inclusi perché criminalizzarli li rende più estremi«. Adesso che l’Egitto l’ha trascinato in campo è il momento di giocare anche se alla fine il ruolo non dovesse essere quello di punta ma solo di mediano.

il Fatto 7.7.13
La rabbia degli islamici
Egitto resistenza a oltranza dei sostenitori di Morsi. Il Nobel el Baradei nominato premier ad interim
di Francesca Cicardi


Il Cairo La possibilità di un conflitto civile, che molti hanno preannunciato nei giorni scorsi, si sta materializzando nelle strade egiziane, nelle quali i fedeli del deposto presidente Mohamed Morsi ripetono la loro promessa di lottare fino alla morte.
La Fratellanza ha convocato nuove proteste ieri, malgrado le numerose vittime del giorno prima, tra cui almeno almeno 2 “fratelli musulmani” ammazzati alle porte del quartiere della guardia repubblicana al Cairo. Nella notte tra venerdì e sabato la violenza tra seguaci e oppositori del presidente Morsi è scoppiata al Cairo, vicino a piazza Tahrir, col risultato di almeno due manifestanti morti ed anche ad Alessandria, dove un’autentica battaglia ha lasciato per terra oltre 14 morti. Il bilancio complessivo è di 30 morti in poche ore, oltre 1000 feriti, e quindi ammonterebbero già un centinaio i morti di questa settimana di rivolta in Egitto. Per tentare di controllare la delicata situazione, il presidente ad interim Adly Mansur si è riunito ieri con il ministro degli Interni, Mohamed Ibrahim, e con il ministro della Difesa, Abdelfatah al Sisi.
Le forze armate e la polizia sono dispiegate in modo massiccio nelle strade del paese, soprattutto nei punti strategici, ma non hanno potuto o voluto evitare gli scontri che si susseguono tra le due fazioni, nei quali sono comparsi anche le armi da fuoco. Il presidente ha anche deciso di nominare premier ad interim Mohammed el Baradei, Nobel per la Pace e portavoce dell'opposizione a Morsi, ben visto dalla comunità internazionale ma accolto con un “no” categorico dalla “fratellanza” perché considerato “l’uomo degli Usa”.
Nella penisola del Sinai la situazione è ormai di guerra aperta tra le forze di sicurezza egiziane e i miliziani islamici radicali, che da venerdì hanno portato a termine diversi attacchi contro check point, caserme, basi militari, commissariati, e hanno ammazzato 5 agenti della Polizia. Un sacerdote cristiano copto di solo 39 anni è l’ultima vittima degli estremisti, che gli hanno sparato nella città di Al Arish, molto vicina alla frontiera con la striscia di Gaza, rimasta chiusa ieri per il secondo giorno consecutivo come misura di sicurezza. Ci sono state anche delle sparatorie nei dintorni della frontiera, sempre estremamente calda.
I CRISTIANI D’EGITTO – che rappresentano all’incirca il 10% della popolazione - temono di essere presi di mira dagli islamisti, dopo che il Papa della Chiesa Copta si è schierato apertamente con i militari ed è apparso in televisione a fianco a Al Sisi nel-l’occasione dell’annuncio della deposizione del presidente Morsi. Da quel giorno, le chiese di almeno 6 città della valle del Nilo – dove la violenza settaria è frequente - sono state attaccate, come riferiscono gli attivisti della Coalizione dei Giovani di Maspero. “Gli attacchi contro di noi serviranno per instaurare la paura nei cuori di tutti i cittadini”, assicura al Fatto Rafik Grish, portavoce della chiesa cattolica egiziana. La comunità cristiana sta prendendo misure di sicurezza extra e si prepara a una nuova ondata di violenza. “I leader islamisti sono coloro che stanno istigando una guerra civile”, assicura Grish, dopo che la guida suprema dei Fratelli Musulmani Mohammed Badie aveva attaccato direttamente il Papa Tauadrus II. Intanto, altri tre dirigenti dei Fratelli, sono stati accusati di incitazione al-l’omicidio, possesso di armi, atti criminali e tentato omicidio, e le autorità studiano la possibilità di rendere illegale il gruppo, così come lo era fino a pochi mesi fa. Anche per questo sono nati gruppi armati che promettono di difendere la vittoria elettorale di un anno fa a costo della vita.

il Fatto 7.7.13
La cacciata dal potere. L’occasione sprecata dei Fratelli musulmani ripudiati
Minoranza rumorosa
In realtà nelle elezioni democratiche poco più del 10% ha votato per il partito islamico, poi incapace di mantenere i favori popolari
di Marco Alloni

Il Cairo La storia è vecchia di 80 anni. Più di tre quarti di secolo dividono la creazione della Fratellanza musulmana, nel 1928, dall’avvento al potere di Mohamed Morsi. Ottant’anni di vittorie e sconfitte, persecuzioni e massacri, ma sempre all’insegna di un principio che ha orientato la linea della confraternita: il sistema va rovesciato dal basso. Alleati ai nazionalisti negli anni Trenta e Quaranta, i Fratelli cominciarono a incontrare ostilità sotto Nasser, dopo averne contrastato il programma socialista. Arresti ed esecuzioni iniziarono a decimare il gruppo, e falde della confraternita diedero vita alle prime derive integraliste. Fra questi Sayyid Qutb, il teorico che redasse il fondamentale Pietre miliari, che ispirò le successive correnti eversive. Impiccato nel 1966, il suo pensiero continuò a nutrire i fautori della lotta armata. E quando la Fratellanza prese le distanze dalle ali più estreme il germe del terrorismo si era ormai radicato nel paese.
Negli anni Settanta Sadat liberò i militanti islamici e li mobilitò in funzione anti-socialista sdoganando di fatto la loro legittimità. Ma quegli stessi integralisti lo portarono a morte, dopo il trattato di Camp David, per mano della Gama Islamiyya.
Erano gli anni in cui milioni di egiziani emigravano verso l’Arabia Saudita, in cerca di lavoro. Tornati in patria permeati dai principi dell’ortodossia wahabita, iniziarono a favorire quella che sarebbe diventata una graduale trasformazione in senso conservatore della società. La Fratellanza ebbe allora agio anche dal risentimento nazionale verso le politiche neocoloniali occidentali – di proporsi come contraltare allo Stato, favorendo quel repli identitaire che si sarebbe, di lì in poi, coniugato in termini sempre più tradizionalisti.
Assistenzialismo e copertura dei servizi essenziali divennero lo strumento privilegiato per il radicamento della confraternita sul territorio, sindacati e corporazioni furono via via occupati e il discorso “puritano” continuò a propagarsi tra i vari strati della popolazione. In questo scenario avvenne quello che costituisce il primo decisivo passo verso la presa del potere. Nel 2005 Mubarak permise ai Fratelli musulmani di partecipare alle elezioni parlamentari, e 88 seggi andarono ai confratelli. Poi nel 2011 la svolta cruciale: cavalcando la rivoluzione dopo averla definita haram, i Fratelli si affacciarono sulla scena come contropotere politico al regime militare. Una trentina di partiti laici erano nel frattempo nati sull’onda delle rivendicazioni rivoluzionarie. Ma la Fratellanza rimaneva il solo movimento radicato e strutturato sul territorio, e se i laici mantenevano il controllo delle televisioni loro conservavano l’egemonia nei quartieri e nel-l’imprenditoria pietista.
L’illusione democratica ebbe così inizio. I tre maggiori candidati laici alle presidenziali – El-Baradei, Sabbahi e Musa – invece di formare un blocco unitario in funzione anti-islamica e anti-militare, resero irresponsabilmente possibile il ballottaggio fra Morsi e Shafiq. A quel punto tra militari e islamisti non rimaneva che l’assenteismo o la rassegnazione.
Ottant’anni di attesa vennero però presto sprecati. In meno di un anno la sete egemonica della Fratellanza la rese invisa a gran parte della popolazione. Le maggiori istituzioni – magistratura, governatorati, ministeri, media – vennero “fratellizzate”; una Costituzione a impronta islamista venne redatta estromettendo di fatto le opposizioni dall’agone politico; l’economia precipitò nel baratro; la libertà d’espressione fu drasticamente ridotta; il conflitto interconfessionale divenne moneta corrente; epurazioni impietose si abbatterono sui quadri non allineati del paese. L’ira popolare esplose però soprattutto per un’altra ragione. Perché l’identità degli egiziani era stata tradita. Poiché l’Islam degli egiziani non è, non è mai stato, e non sarà mai islamista.

Repubblica 7.7.13
Macerie di una nazione
di Thomas L. Friedman


Ogni tanto, però — nei negoziati di pace di Oslo del 1993, nell’insurrezione di Anbar del 2006 dei sunniti iracheni contro al-Qaeda, nella rivoluzione dei cedri in Libano del 2005 contro Siria e Hezbollah – accade che i moderati si alzino in piedi e prendano posizione. E quando lo fanno, è indispensabile che l’America stia loro vicino per sostenerli. Questa è l’unica speranza concreta di riuscire a spingere questa regione – così avvelenata dal settarismo e appesantita da un passato che tende di continuo a seppellire il futuro – verso una strada migliore. Inserisco il sollevamento popolare/colpo di stato militare contro il governo egiziano guidato dai Fratelli musulmani – perché di entrambe le cose si è trattato – in questa categoria.
Non si è arrivati a questa conclusione tanto facilmente. Sarebbe stato di gran lunga preferibile se il presidente Mohammed Morsi a capo del partito dei Fratelli musulmani fosse stato estromesso dal suo incarico tra tre anni, alle elezioni. Mi auguro veramente che l’esercito egiziano, che ha i suoi interessi, non sia coinvolto in tutto ciò. Ma in Egitto la parola perfezione sulla carta del menù non compare. Anzi, sul menù potrebbe non esserci più neppure da mangiare per i poveri. Un gran numero di egiziani ha pensato che attendere tre anni avrebbe potuto spingere l’Egitto oltre l’orlo del baratro. Il paese è talmente a corto di valuta estera, necessaria a pagare le importazioni di combustibile, che le interruzioni dei rifornimenti del gas e dell’elettricità sono continue e ovunque. Era evidente che Morsi non si è impegnato per governare bene né per nominare le persone migliori per ogni incarico. Si è dedicato a insediarsi al potere insieme al suo partito, così che al momento delle prossime elezioni per la presidenza l’Egitto avrebbe potuto ritrovarsi nella situazione peggiore in assoluto: con un governo invulnerabile e un disastro economico e sociale non più risolvibile.
C’è un episodio che la dice lunga in merito alle priorità dei Fratelli musulmani, e si tratta di qualcosa di assolutamente inconcepibile. Il modo migliore per l’Egitto di entrare rapidamente in possesso di valuta straniera per poter acquistare generi alimentari e combustibile per la popolazione sarebbe quello di ridare slancio e impulso al turismo, che da solo rimpingua l’economia nella misura del 10 per cento. Il 16 giugno Morsi ha nominato 17 nuovi governatori. A Luxor, il cuore del turismo in Egitto, ha nominato Adel al-Khayyat, appartenente al gruppo islamista militante Gamaa al-Islamiyya che ha rivendicato la responsabilità del massacro di 58 turisti nel 1997 a Luxor – perpetrato proprio con l’intento di mandare in rovina il turismo e di danneggiare così il governo di Hosni Mubarak. Gamaa al-Islamiyya ha rinunciato alla violenza una decina di anni fa, ma non ha mai rinnegato l’attentato del 1997. In segno di protesta contro la nomina di quel governatore a Luxor, il ministro del turismo del governo Morsi si è dimesso, e alla fine anche Khayyat ha abbandonato l’incarico. Questo esempio serve a dare un’idea di quanto sta accadendo in Egitto. È un po’ come se per gestire l’ufficio del turismo locale la città di Chicago nominasse un fedelissimo di Al Capone.
Invece di condannare gli egiziani per aver disperatamente tentato di cambiare rotta prima di rischiare di precipitare in un abisso, l’America dovrebbe utilizzare i suoi aiuti umanitari e la sua influenza sulle forze armate per far sì che da questa crisi venga fuori qualcosa di positivo. A cominciare dal fatto di insistere affinché i vertici dei Fratelli musulmani siano scarcerati e il partito e i suoi media siano liberi di contestare le nuove elezioni parlamentari, avendo una voce in capitolo nel processo di stesura della Costituzione. Chiunque cercherà di governare l’Egitto da solo fallirà: Mubarak, l’esercito, i Fratelli musulmani, i liberali. L’Egitto si trova in una terribile voragine e l’unico modo che ha per uscirne è con un governo di unità nazionale che possa prendere decisioni anche molto difficili e fare tutto quanto sarà necessario ancorché complesso.
In realtà, per l’Egitto la vera domanda non è chi debba governare, ma come si possa governare. Una nuova fragile democrazia è veramente in grado di fare progressi a fronte di tanto sconvolgimento e tanta miseria? Sono appena rientrato dall’Egitto. È un paese che sta cadendo a pezzi. Alcune settimane fa ho incontrato in una casa da tè al Cairo Mahmoud Medany, un ricercatore del centro di ricerche per l’agricoltura egiziana, uno dei massimi esperti del paese in questioni ambientali. Medan, oggi 55enne, mi ha raccontato che una quarantina di anni fa, quando frequentava le scuole medie, avevano «l’abitudine di cantare una canzone su come il mondo intero parlava a venti milioni di egiziani». Quando Mubarak è arrivato al potere nel 1982, «eravamo tra i 33 e i 34 milioni di abitanti. Oggi siamo oltre 80 milioni». Ha aggiunto che c’è poi la questione del persistente prosciugamento del delta del Nilo che, associato al graduale innalzamento del livello del mare dovuto al riscaldamento globale, sta portando a una penetrazione di acqua salmastra nel delta del fiume in quantità sempre più ingenti. «Il Nilo costituisce un’arteria vitale per l’Egitto e il delta è il nostro granaio» ha detto ancora Medany. «Se quelli spariscono, sparisce l’Egitto».
Questa concomitanza di popolazione in aumento, clima, disoccupazione, penuria d’acqua e analfabetismo potrebbe rendere ingovernabile l’Egitto – e impossibile per un presidente svolgere il proprio ruolo – e sconvolgere e mobilitare la popolazione. Mi auguro che non sia così, ma di certo so una cosa: l’Egitto non può continuare semplicemente a passare da un regime laico/militare che isola i Fratelli musulmani a un regime dei Fratelli musulmani che isola la controparte.
Daron Acemoglu è coautore del libroWhy Nations Fail(Perché falliscono le nazioni), che illustra la tesi secondo la quale le nazioni prosperano quando sviluppano istituzioni politiche ed economiche “inclusive”, mentre falliscono quando quelle stesse istituzioni sono “emarginanti”, e concentrano potere e opportunità nelle mani di pochi. L’Egitto, con il suo pesante apparato statale, osserva Acemoglu, è la classica società emarginante. Ciò che gli occorre più di ogni altra cosa è un leader capace di abbinare allo spirito di inclusione la cruda ed esplicita onestà di dire alla popolazione che hanno sprecato moltissimi anni, che devono ricominciare tutto da capo, migliorando l’istruzione, riducendo l’apparato statale, stimolando l’imprenditoria, conferendo potere alle donne e riformando le forze dell’ordine e l’apparato giudiziario.
Non c’era alcuna possibilità che Morsi potesse dimostrarsi all’altezza di questa fase. Se si indiranno nuove elezioni, se si redigerà una nuova costituzione, se si formerà un nuovo governo di unità nazionale – che comprenda gli islamisti – c’è ancora una possibilità per l’Egitto di riuscire a gestire tutti i problemi che non possono più essere trascurati, e così pure di evitare problemi molto più grandi che non sarebbe possibile gestire. Ma si tratta soltanto di una possibilità. Compito dell’America ora è spingere tutti i partiti verso una coalizione di unità nazionale di questo tipo.
Traduzione di Anna Bissanti © 2013 New York Times News Service

l’Unità 7.7.13
Obama senza bussola di fronte all’onda cinese
Il rapporto tra i due grandi del mondo diventa sempre più complicato e resta un’incognita
La Volvo, i vigneti francesi e gli istituti culturali: così Xi Jinping conferma la via dell’espansione
Dall’economia alla cultura Pechino rafforza la sua influenza nel mondo
Dall’Iran all’Egitto gli Usa rischiano di perdere la spinta di superpotenza
di Gianni Sofri


Giorni fa, la giornalista francese Martine Jacot iniziava un pezzo sul supplemento geopolitico di Le Monde con una storiella. Una sera, un uomo scopre un vicino che scruta il marciapiede sotto un lampione, in una via molto buia. «Avete perso qualche cosa?», gli chiede.
«Sì, le mie chiavi». «Sotto questo lampione?». «No. Ma è il solo punto in cui c’è un po’ di luce».
In questo momento, la nostra attenzione (e quindi il cerchio di luce) è concentrata su alcuni Paesi teatro di disordini: l’Egitto, la Turchia, il Brasile. Ma ciò non significa che in tanti altri luoghi, nel buio, non si svolgano altri eventi anche gravi: conflitti reali o potenziali, manovre navali, alleanze che si formano e si riformano. Basti pensare alle tensioni che si moltiplicano nella vasta area chiamata Asia-Pacifico, e che hanno nella Cina e negli Usa non certo i soli, ma i principali protagonisti. Diamo per scontati, per questa volta, i precedenti, e proviamo a concentrare l’attenzione su alcuni aspetti più recenti.
Il discorso sulla Cina è molto difficile. Da un lato, ogni volta che la Cina perde qualche punto del suo tasso di crescita economica (che comunque resta quasi sempre al di sopra del 7%), o anche ogni volta che si viene a sapere di uno sciopero o di una protesta di contadini o di un manifesto di dissidenti, si tende a dire che la Cina è un gigante con i piedi di argilla e che si sentono già i primi scricchiolii del suo crollo: cosa che spaventa imprenditori e responsabili a vario titolo dell’economia mondiale, e riempie di speranza i militanti dei diritti dell’uomo (incapaci, gli uni e gli altri, di immaginare possibili conciliazioni fra questi diversi problemi). Sta di fatto che i cinesi continuano imperterriti ad espandere la propria influenza a livello mondiale, tanto che non ci si stupisce più di nulla. Negli ultimi mesi, per esempio, numerosi imprenditori e singoli investitori cinesi hanno acquistato grandi e gloriosi vigneti in varie regioni della Francia, compresi un annesso castello in Borgogna e una marca di cognac. La cinese Geely, che ha comprato da Ford la Volvo nel 2010, ha promosso lo studio di nuovi modelli e incrementato le vendite di questa gloriosa auto svedese che sembrava definitivamente in declino. Negli stessi giorni si è saputo che Psa (Peugeot-Citroën) aumenta i suoi stabilimenti in Cina e vende ormai più auto lì che in Francia. Nel giugno sono arrivati in visita a Parigi, ricevuti al più alto livello, 42 presidenti delle più grandi imprese private cinesi. La delegazione era stata organizzata da Liu Chuanzhi, fondatore e padrone della Lenovo, che nel 2005 ha acquistato la divisione dei personal computer della Ibm.
I cinesi sono molto impegnati anche nel campo della cultura in senso lato, con un’attenzione particolare per il cinema. Pechino ha aperto in più di 80 Paesi del mondo oltre 400 Istituti Confucio, il suo principale strumento di propaganda (sponsorizzato, abbastanza curiosamente, da alcune università europee, specie italiane). Nel maggio di quest’anno l’università dello Zhejiang, una delle migliori cinesi, ha firmato un accordo con l’Imperial College di Londra. Docenti e studenti si divideranno fra i campus di Londra e di Hangzhou, la «Venezia d’Oriente» visitata da Marco Polo. Sarà probabilmente la più vasta e importante tra le numerose esperienze di collaborazione culturale e accademica tra la Cina e molti Paesi occidentali (soprattutto gli Usa). È importante sottolineare che si tratta di scambi in regime di crescente reciprocità. Studenti e ricercatori cinesi vanno in università occidentali, studenti e ricercatori occidentali in università cinesi. Lavorano in questa direzione anche importanti aziende cinesi, che investono in laboratori di ricerca all’estero. L’elenco potrebbe continuare a lungo. Ma è meglio ricordare, invece, che il premio Nobel per la pace 2010, Liu Xiaobo, uno dei più straordinari intellettuali cinesi (e non solo) è tuttora in carcere e non per la prima volta dal giorno dell’assegnazione del premio; e come lui sono in carcere, condannati a pene variabili, molti altri oppositori del regime, sostenitori della democrazia e dei diritti dell’uomo.
Se la Cina continua a godere (così almeno pare) di buona salute, non altrettanto si può dire del presidente Obama e degli Stati Uniti. Nella sua visita al Sudafrica Obama si è trovato di fronte a una opposizione, per così dire, di sinistra, che unisce studenti radicali e anti-imperialisti, sindacalisti, no global, militanti dei diritti umani. Più in generale, il viaggio in Africa di Obama è apparso come un tardivo tentativo di opporsi all’espansionismo della Cina, ma anche dell’India e del Brasile, in quel continente. Un altro viaggio recente, quello del nuovo presidente cinese Xi Jinping negli Stati Uniti, era stato presentato come il tentativo di un franco confronto «col cuore in mano». Era parso rinascere il sogno di un G2 capace di controllare il corso delle cose del mondo, e soprattutto di quelle più rischiose e difficili, sulla base della collaborazione tra i «due grandi».
Non a caso, l’incontro fra Xi e Obama si era svolto in maniche di camicia, in uno scenario californiano informale e in apparenza amichevole. In realtà, si è parlato di un accordo, sia pure parziale, soltanto sul tema per il quale meno lo si sarebbe aspettato, e cioè le questioni relative all’emissione di gas industriali e quindi al riscaldamento del clima. Per il resto, Xi si è tenuto, cortesemente ma freddamente, sulle sue. Ha tenuto a far capire che gli unici ad avere qualche potere di intervento sulla Corea del Nord sono i cinesi. Che l’ambizione del suo Paese è quella di essere sempre più considerato come una delle grandi potenze, e non solo per quanto riguarda l’economia. E che quindi i cinesi sono poco disposti a dare ascolto agli ammonimenti americani per quanto riguarda la rispettiva presenza politico-militare nell’Asia-Pacifico e la questione degli arcipelaghi contesi fra la Cina e gli altri Paesi della regione. In altre parole, un nulla di fatto.
Obama intendeva anche parlare con Xi della pirateria elettronica su vasta scala e dell’aggressività cinese in questo campo. Si è trovato invece a mal partito per l’emergere dello scandalo Snowden. Una questione che ha ferito gli Stati Uniti non solo per la denuncia dei loro eccessi spionistici persino nei confronti dei loro alleati, ma anche per la dimostrazione pratica della fragilità delle loro difese. Per colmo di ironia, Cina e Russia, pur rimanendo sullo sfondo, hanno dato la sensazione di una qualche partecipazione alla vicenda (se non altro come beneficiari), senza però che gli Usa fossero in grado di dimostrarlo e utilizzarlo apertamente. Non solo nel mondo politico, ma anche tra i comuni cittadini americani, la maggioranza non sembra aver creduto a uno Snowden patriota generoso (uno James Stewart in un film di Frank Capra); ciò nonostante, la reazione del governo non ha potuto allontanarsi di molto dal mordersi le mani, o in gesti di evidente nervosismo, come il blocco dell’aereo del presidente boliviano. Sono tutti elementi che lasciano trasparire un disagio del presidente americano, testimonianza a sua volta di una difficoltà degli Stati Uniti, superpotenza in crisi, incapace di tener testa contemporaneamente ai problemi posti da Paesi come l’Iran, la Siria, il Pakistan, l’Afghanistan, l’Iraq, la Corea del Nord, oltre che dagli espansionismi rivali e dalle stesse difficoltà provenienti dall’Europa. Una drammatica conferma viene ora anche dall’Egitto, dove Obama aveva puntato le sue carte sui Fratelli musulmani come partito islamico «moderato».
Il rapporto fra quelli che erano pronosticati da tempo come i due grandi rivali del nuovo secolo, e cioè gli Stati Uniti e la Cina, è complicato anche dalle difficoltà della stessa Cina a far proprio un ruolo di grande rilievo internazionale. È molto evidente il contrasto fra i toni spesso bellicosi dei dirigenti cinesi riguardo ai Paesi vicini che contestano loro il possesso di alcuni arcipelaghi e la loro relativa timidezza quando si tratta di assumersi responsabilità da grande potenza globale (i 500 soldati appena inviati nel Mali sono solo l’eccezione che conferma la regola). Questa timidezza nasce da una insicurezza interna, dalla paura del gruppo dirigente di essere minacciato sul terreno politico, economico, anche etnico-nazionale: persino di vedere in pericolo (più per un riflesso nevrotico che per una visione realistica) la stessa unità del Paese. Del resto, è di qualche giorno fa l’ennesimo scontro armato con gli Uiguri dello Xinjiang: un episodio misterioso come sempre, e come sempre sanguinoso. Mentre anche i monaci tibetani continuano a darsi fuoco, malgrado una recente disposizione governativa lo proibisca esplicitamente (sic!).
Passato l’entusiasmo per le Primavere, i siriani continuano a morire a decine di migliaia mentre le potenze continuano a discutere sul superamento o meno della linea rossa dei gas letali di Assad. Non si può dire che questo non riguardi anche la Cina. Degli Uiguri e dei Tibetani abbiamo già detto. Oppositori e dissidenti sono sempre meno di moda. È accaduto persino, sembra, che l’«avvocato di strada» Chen Guangcheng, il dissidente cieco protagonista una fuga rocambolesca e poi ospitato dagli Usa, sia stato invitato ad abbandonare la New York University allo scadere del suo contratto per una borsa di studio. Insomma, il mondo ricomincia a guardare sotto l’unico lampione acceso.

Repubblica 7.7.13
Il Datagate e il paradosso di Obama
di Nadia Urbinati


Si scoprì alla fine della Guerra fredda che la Stasi, il servizio segreto della Germania comunista, aveva un dossier su ogni cittadino e aveva fatto di ogni tedesco una spia. In una società dove la vita privata delle persone non conosceva segretezza lo Stato godeva della massima segretezza. Nascondimento è potere fuori da ogni controllo. Ci si chiese allora che senso avesse lo spionaggio quando tutti erano spiati. Ma un senso c’era perché se è vero che per essere efficace il controllo deve essere selettivo, è altresì vero che occorre raccogliere tutte le informazioni per poter selezionare quelle “utili”. È pertanto fatale che la schedatura dilaghi a macchia d’olio. All’opposto, non vi è più radicale nemico della segretezza di Stato di un governo fondato sul pubblico e i diritti civili.
Diceva Norberto Bobbio che rendere pubblico il potere implica togliergli il velo della segretezza: questa è una delle promesse più importanti della democrazia. Una promessa che sta insieme alla pace e alla libertà. Alla pace, perché il sistema di segretezza e di spionaggio presume nemici potenziali o effettivi, la preparazione dei conflitti, non della cooperazione. Alla libertà, perché un governo che cela ciò che fa e raccoglie informazioni in segreto non può garantire la protezione dei diritti. I realisti hanno sempre deriso i democratici di idealismo, eppure con la loro proverbiale giustificazione della politica come arte della dissimulazione e della segretezza essi non sanno distinguere tra governo libero e governo arbitrario. Idealisti e realisti si trovano oggi a misurarsi di fronte a quello che sembra essere il caso di spionaggio più pervasivo e totale dalla fine della Guerra fredda.
Non la Stasi ma l’intelligence americana, non la Germania comunista ma gli Stati Uniti sono oggi il problema. In questo caso, i realisti sono gli americani che hanno messo in atto una gigantesca operazione spionistica non solo verso potenziali ed effettivi nemici, ma anche verso amici e alleati militari, come gli Stati europei e la Ue. La ragione accampata è la protezione dal rischio di terrorismo. Evidentemente il governo americano non si fida degli “amici” europei se acconsente a far mettere cimici nelle loro ambasciate e “scheda” la loro corrispondenza elettronica. Che le agenzie di cui si avvale la Cia emulino la Stasi ha del paradossale anche perché la Casa Bianca ha fatto dei diritti umani un cavallo di battaglia per condannare governi autoritari e aiutare movimenti di resistenza e rivoluzionari.
Le rivelazioni di Edward Snowden, l’ex analista del National Security Agency (Nsa), hanno avuto un effetto dirompente per la legittimità internazionale di Barack Obama che da questa vicenda non ne uscirà bene (nonostante la sorprendente docilità dei leader europei). E con lui il Partito democratico, del quale si dice, con buone ragioni, che ora tace perché governa la Casa Bianca, eppure fece in passato un’opposizione durissima al repubblicano George W. Bush su questioni di violazione della privacy e di diritti civili per ragioni di difesa nazionale. Il paradosso di Obama è di essere forte nei sondaggi perché difensore dei diritti civili – nei giorni scorsi ha esultato per la decisione della Corte Suprema di interpretare il matrimonio come un’unione non eterosessuale – eppure pronto a violare il diritto alla privacy, un valore che per gli americani ha un significato fondamentale, orgogliosi fino a pochi anni fa di rifiutare di avere documenti di identità e ora schedati fin nella loro corrispondenza. Obama con una mano dà diritti, con l’altra li offusca.
I realisti dicono che tutti i governi devo avere servizi segreti, agenzie per la raccolta di dati ed eserciti pronti a intervenire anche in violazione dei diritti, se ciò è necessario alla difesa del Paese. Nulla di nuovo, dunque. Ma così non è quando di mezzo c’è un governo democratico e, soprattutto, una cultura che ha fatto della società aperta il punto di riferimento per l’espansione del libero mercato in tutti gli angoli del pianeta. Oggi veniamo a sapere che l’ideologia del libero mercato ha il sapore di una truffa perché le multinazionali riescono ad avvantaggiarsi delle informazioni carpite per le agenzie americane di intelligence, che insomma il libero mercato riposa su una condizione di privilegio dell’informazione e assomiglia a un governo arbitrario che si camuffa con la propaganda della libertà. L’intervista rilasciata da Snowden, ascoltabile nel sito di Repubblica.it, è inquietante: spiegando la ragione per la quale ha deciso di diventare un ricercato globale senza un luogo dove vivere in sicurezza, ha messo a nudo la doppiezza della politica del suo governo. E ha ricordato ai realisti che un governo che mette in piedi un sistema di spionaggio mondiale sostenendo che è per il bene del Paese è pericoloso perché toglie al pubblico la possibilità di giudicare sui metodi usati per la sicurezza.
Snowden ha legato insieme come perle di una collana le qualità che sorreggono la democrazia e i diritti e ha spiegato perché si devono controllare le agenzie governative che conservano le informazioni su milioni di persone semplicemente perché potrebbero essere utili al governo in futuro. Dietro il paravento del terrorismo si cela la formazione di un sistema pervasivo di raccolta di dati che un qualunque potentato potrebbe usare a proprio vantaggio. Ecco perché il pubblico deve sapere e togliere il velo della segretezza ai governi, quelli democratici in primi luogo.

Repubblica 7.7.13
Le risposte che i due Papi non danno
di Eugenio Scalfari

qui

Corriere La Lettura 7.7.13
La rivolta delle classi emergenti
Brasile e Cina, Turchia e Russia
La rabbia di giovani e ceto medio contro autoritarismi e corruzione
di Franco Venturini


Il tempo della rabbia fa avanti e indietro dall'egiziana piazza Tahrir alla turca piazza Taksim, esplode in Brasile senza più rispetto per il dio pallone, sfiora l'Indonesia e la Bulgaria, non cede in Russia, con meno clamore investe il localismo cinese, e noi utenti dell'euro non dovremmo mai dimenticare, come minimo, la sofferenza dei greci. Non finisce qui la mappa della protesta che attraversa Paesi tra loro lontani, ma un elenco tanto incompleto basta a legittimare la domanda-chiave del momento: nel mondo globalizzato è diventata globale anche la rivolta di gruppi sociali legati tra loro da caratteristiche comuni, siamo al cospetto di una nuova «lotta di classe» che non ha più nulla di marxista e coinvolge invece chi, sentendosi privo di rappresentanza politica o sindacale, utilizza Internet per fare massa e riuscire ad alzare la voce?
Questo interrogativo fa il giro del mondo con la stessa velocità delle rivendicazioni popolari, occupa copertine prestigiose, impegna politologi e sociologi di prima linea, ma spesso si accontenta della risposta più semplice: sì, la contemporaneità storica mette effettivamente in evidenza elementi simili tra le varie proteste, dunque non è azzardato dire che stiamo vivendo l'inizio — forse soltanto l'inizio — di una rabbia globale.
Non si tratta di una diagnosi errata, perché le somiglianze effettivamente esistono e, fatte le dovute eccezioni, sono rimaste costanti dai primi passi delle «primavere arabe» (dicembre 2010) fino a oggi. Se ne possono contare almeno sei. Il fattore demografico, con la maggioranza o una larga fetta di popolazione urbana in età giovanile. La progressiva trasformazione di tali gruppi in classe media. L'accesso ampiamente diffuso ai social network. La presenza di un ciclo economico negativo, soprattutto nel settore dell'occupazione. La lotta alla corruzione vista come strumento di cambiamento. La contrapposizione a un potere autoritario o percepito come tale.
Se tuttavia questa può essere considerata una cornice comune e dunque globale, risulterebbe fuorviante trascurare per amore di definizione tutti quei fattori originali, locali, nazionali che fanno di ogni protesta un unicum talvolta persino refrattario, più o meno inconsapevolmente, all'abbinamento globalizzante.
In Egitto la protesta nata a Piazza Tahrir nel 2011 si è estesa nei giorni scorsi fino a coinvolgere in tutto il Paese 15 milioni di manifestanti, ed è stata proprio la coralità della rivolta a rendere inevitabili (anche se moltissime incognite permangono) l'intervento dei militari e l'allontanamento di Morsi. Dalla prima alla «seconda rivoluzione», come viene definita dai suoi autori, la sollevazione di masse sempre più imponenti ha spiegazioni economiche e politiche precise. Nel 2011 la prima spallata venne da una massa di giovani non poveri ma disoccupati, utenti del web, ostaggi della corruzione e della dittatura di Hosni Mubarak. Più di due anni dopo, l'avanguardia è diventata moltitudine perché i Fratelli musulmani si sono dimostrati politicamente inetti, l'economia è ulteriormente peggiorata colpendo tutti i settori e tutte le classi sociali, e soltanto un rovesciamento del tavolo pare in grado (ma forse si tratta di una illusione) di costruire una prospettiva meno cupa.
A pochi mesi di distanza, tra la fine del 2011 e l'inizio del 2012, è toccato alla Russia, o per meglio dire alle due grandi città russe. A Mosca e a San Pietroburgo centinaia di migliaia di cittadini, prevalentemente giovani, hanno mandato nella soffitta della storia la leggendaria passività sociale dei tempi sovietici e anche, sin lì, post-sovietici. Qui non c'era la disperazione del Cairo. Qui erano pochi i disoccupati, bastava vedere gli abiti che indossavano. Di ben altro si trattava. Della decisione di una classe media urbana ormai forte e ambiziosa di rompere il patto sociale che nelle sue due prime presidenze Vladimir Putin aveva imposto senza faticare: io miglioro il vostro livello di vita, voi rinunciate a qualsiasi forma di dissenso nei miei confronti. Ingenuo, Putin. Perché, quando crei una classe media dal nulla, diventa fatale che prima o poi essa si ribelli proprio contro il tuo potere, che reclami più libertà individuali, che si scandalizzi dei brogli elettorali, che scopra la straordinaria potenza politica di Internet, che voglia garantito un ulteriore progresso economico, e che per tutti questi motivi scenda in piazza mandando alle ortiche il vecchio patto. Putin ha scelto una repressione che attira le critiche dell'Occidente e riempie le carceri russe, ma la nuova classe media è sempre lì, in agguato, terrorizzata da un possibile peggioramento dell'economia più che dai manganelli. Storia russa, e di nessun altro.
La Cina? Ha effettuato il decennale cambiamento della sua dirigenza, e deve affrontare una congiuntura economica complessa e poco favorevole. Ma a noi interessa un aspetto particolare fatto di migliaia di storie locali o al massimo regionali, e quasi sempre poco pubblicizzate malgrado gli sforzi degli utenti cinesi di Internet (i più numerosi del mondo, naturalmente). Migliaia, decine o forse centinaia di migliaia di proteste spontanee, e qualche volta velocemente organizzate, per evitare che il tuo quartiere venga raso al suolo e che sorgano proprio lì nuovi edifici destinati a favorire la massiccia urbanizzazione voluta dalle autorità, per fermare la deviazione di un fiume anche secondario, per impedire che una nuova autostrada travolga un intero villaggio, per migliorare le condizioni di lavoro nelle fabbriche, per chiedere salari migliori, ma anche meno corruzione e meno ineguaglianze socio-economiche. Si perdono nell'immensità della Cina e del suo popolo, queste piccole e grandi rivolte. Ma non dovremmo trascurarle, anche se può dispiacerci che la democrazia non sia ai primi posti tra le rivendicazioni. Non è una storia cinese, questa?
La rabbia nella zona euro la conosciamo anche troppo bene, ma la Turchia ne è fuori. Ed è un caso particolare, forse più di tutti gli altri. Chi se lo aspettava, l'incendio scoppiato all'improvviso nella piazza Taksim di Istanbul? Dietro le iniziali proteste ambientaliste per salvare il vicino Gezi Park sono presto emerse la stanchezza di una borghesia laica contro lo stile autoritario del premier Recep Tayyip Erdogan e la sua tendenza a islamizzare ogni settore della vita turca. Con una economia che andava ancora bene, malgrado qualche eccesso di inflazione, quella turca è stata una rivolta sì giovane, ma etica, politica, religiosa, assai differente rispetto a tutte le altre di questo periodo. E il fatto che Erdogan abbia indicato in Twitter il suo nemico più insidioso non basta a creare un ponte, è il caso di dirlo, con piazza Tahrir, o con i dintorni della piazza Rossa, o con i difficili primi passi della protesta in Cina.
Soprattutto, la rabbia turca non è la rabbia brasiliana, più simile semmai a quella russa. L'era di Lula, come quella iniziale di Putin, ha innalzato il livello di vita di vasti strati sociali, ha fatto uscire milioni di brasiliani dalla povertà e ha così favorito l'espansione della classe media. Ma oggi, sotto la guida di Dilma Roussef, il Brasile resta percorso da profonde ineguaglianze sociali accentuate dalla fine delle grandi speranze economiche. Dopo essere cresciuto a ritmi cinesi (7,5 per cento) nel 2011, il Pil brasiliano ha rallentato bruscamente la sua marcia: l'incremento è crollato allo 0,9 nel 2012 e va di poco meglio quest'anno. Chi aveva acquisito certezze di progresso, e ancor di più chi aveva investito nel grande balzo in avanti, si è scoperto esposto e indifeso proprio mentre la corruzione continuava e dilagare e mentre enormi capitali venivano investiti per far fronte alla temeraria accoppiata tra il campionato mondiale di calcio nel 2014 e l'Olimpiade nel 2016. Questo mentre l'inflazione galoppa, i trasporti non funzionano malgrado il costo dei biglietti (la scintilla che ha fatto scoppiare una rabbia collettiva che il Brasile non conosceva) e restano le carenze nell'istruzione, nella sanità, nella sicurezza pubblica. Anche qui Facebook, Twitter e Google hanno svolto la loro funzione di tromba elettronica. Anche qui molti giovani. Ma a fare la parte del leone è stato il furore di gruppi sociali improvvisamente delusi che per la prima volta si sono sentiti isolati dalla politica, da quella politica che fino al 2011 li aveva rappresentati con successo.
I nostri brevi cenni non possono esaurire il dilemma tra rabbia globale e rabbia locale se non dimostrando che nessuna delle due formule può reggere da sola alla complessità delle situazioni specifiche. Di davvero globale, forse, c'è soprattutto una crisi di sistema. Le democrazie capitaliste, diventate più «finanziarie» dopo la globalizzazione economica, cercano con un certo affanno nuove regole di autogoverno. Le semi-democrazie autoritarie come quella russa appaiono disarmate davanti alla protesta e rispolverano forme di repressione. Le dittature del mondo arabo sono state spazzate via ma non si sa per quanto tempo, e in alcune contrade (come la Libia e la Siria) regnano l'anarchia o i massacri della guerra civile. La formula mista disegnata da Deng Xiaoping alla fine degli anni Settanta mostra la corda in Cina, anche se non ancora in Vietnam. E accanto alla crisi sistemica emerge un altro elemento globale: la perdita della paura e della passività, ovunque. Ma se questo basti a innescare davvero un tempo della rabbia globale, senza bisogno di maestri buoni o cattivi, senza il Marcuse del Sessantotto, senza la Naomi Klein dei no-global, senza nemmeno lo Stéphane Hessel degli Indignados e soltanto qualche volta con la maschera di Anonymous, è cosa che resta tutta da vedere. Almeno fino a quando, e speriamo che non accada, la rabbia dalle classi medie si allargherà ovunque ai poveri.

Corriere La Lettura 7.7.13
«Ma le piazze spesso non sono la voce genuina della società»
di Antonio Carioti


Testate autorevoli, dall'«Economist» al «Washington Post», e firme famose, come Moisés Naím, Francis Fukuyama e Thomas Friedman, sembrano concordi. Sia pure con sfumature diverse, individuano nell'ascesa di una nuova classe media l'elemento comune delle proteste che dilagano dal Nord Africa all'Europa, dal Brasile alla Turchia. Ma c'è chi avanza forti riserve. Per esempio Marco Tarchi, politologo dell'ateneo di Firenze e studioso del populismo contemporaneo: «Dubito che i conflitti in corso possano essere descritti come lotte di classe. Non vedo ceti emergenti ben distinti che rivendichino una maggiore influenza politica. Assistiamo a mobilitazioni piuttosto liquide, per dirla con Zygmunt Bauman, in cui le linee di frattura sono molto variegate, solo in parte collegabili alla questione della laicità anche nei Paesi islamici, e le rivendicazioni economiche si mischiano a quelle di natura postmaterialista, riguardanti l'ambiente e la qualità della vita». Inoltre, nota Roberto Segatori, docente di Sociologia dei fenomeni politici all'Università di Perugia, non bisogna confondere i manifestanti con la maggioranza della popolazione: «C'è un equivoco, alimentato dai mass media, che bisogna chiarire. Le mobilitazioni di piazza nei Paesi arabi e in Turchia vedono in prima linea i giovani inurbati e istruiti, che hanno dimestichezza con i social network. Su di loro s'incentra l'attenzione degli osservatori occidentali. Ma stiamo parlando di società in cui le masse popolari, specie quelle che vivono nelle campagne, sono ancora legate agli stili di vita e alle credenze religiose tradizionali. Non stupisce che, quando si va alle urne, i partiti laici e modernizzanti vengano sconfitti da forze di matrice fondamentalista come i Fratelli musulmani». Un altro problema è che le proteste di piazza, benché condotte in nome della democrazia, tendono a sovvertire i risultati elettorali. «Già gli Indignados spagnoli — ricorda Tarchi — si ergevano a voce di tutto il popolo, ostentando indifferenza per l'esito del voto. E in Egitto le dimostrazioni hanno portato alla caduta di un presidente eletto dai cittadini. Avanza una logica pericolosa, per cui chi ottiene il mandato popolare non ha diritto di esercitarlo per attuare un programma, fino alla scadenza naturale, ma deve rispondere di continuo alla piazza. Si delegittima così il circuito tra elezioni e governo, base della democrazia parlamentare. Si pensi al maggio parigino del 1968: sembrava che i francesi si stessero sollevando in massa contro l'ordine costituito, ma poi il voto dimostrò che un'ampia maggioranza silenziosa sosteneva ancora il generale de Gaulle. Ora penso che qualunque soluzione scaturisca dalla crisi egiziana ben presto dovrà confrontarsi con altre proteste di piazza, probabilmente meno pacifiche di quelle cui abbiamo assistito finora. Alla fine rischia di vincere chi è più bravo nel fanatizzare le masse». Qualcosa del genere, osserva Segatori, avviene con l'ascesa di leader populisti in America Latina: «Flussi crescenti di persone lasciano le zone rurali per inurbarsi, sperando di accedere al benessere, ma vanno spesso incontro ad amare delusioni per la scarsa disponibilità di lavori retribuiti in modo dignitoso, per la corruzione dilagante, per la grave inefficienza dei servizi pubblici. Questa gente finisce così per riconoscersi in qualche leader carismatico che si scaglia contro l'establishment, ma poi si trova in difficoltà al momento di mantenere le promesse, che non di rado gli si ritorcono contro». Ciò avviene anche dove si registra una notevole crescita economica: «L'affermarsi del consumismo — sottolinea Tarchi — provoca il fenomeno che il politologo Ted Robert Gurr ha chiamato "deprivazione relativa". Il richiamo del modello occidentale e il lusso esibito dai nuovi ricchi alimentano la frustrazione di chi non può permettersi certe spese, anche se il suo reddito è cresciuto. Così aumenta la ricchezza circolante, ma peggiora la condizione psicologica della gente comune, che finisce per ribellarsi».

Corriere La Lettura 7.7.13
L'atomo è visibile
Così conquisteremo il nanomondo
di Massimo Inguscio


Gli atomi sono i mattoni con cui è costruita la materia di cui siamo fatti e che dà forma al mondo che ci circonda, dalle molecole dell'aria ai codici genetici che governano la vita. Intuire l'esistenza degli atomi e comprenderne la struttura è stata una bella avventura del sapere, e lo è ancora. Capire il moto degli elettroni intorno a un nucleo, il tutto su dimensioni nanometriche, miliardesimi di metro, significa comprendere molte leggi fondamentali che regolano l'universo.
Un passo fondamentale veniva compiuto cento anni fa dal fisico danese Niels Bohr che, con un modello rivoluzionario, assumeva che gli elettroni non seguissero le leggi del moto sino ad allora conosciute, quelle delle orbite dei pianeti intorno al Sole. Nell'atomo di Bohr non sono possibili tutte le orbite e il moto avviene per «quanti»: l'energia dell'elettrone non può cambiare a piacere, come quella di un satellite che possiamo mettere in orbita a una qualsiasi distanza dalla Terra, ma sono possibili solo alcuni valori. Anzi, con l'affermazione della meccanica quantistica, sviluppatasi in gran parte a seguito delle intuizioni di Bohr, si perde anche il concetto di orbita: l'elettrone diventa un'onda delocalizzata e si può parlare solo di una probabilità che si trovi in una certa posizione. Se il corpuscolo elettrone diventa un'onda di materia, così le impalpabili onde di luce si descrivono come una successione di speciali corpuscoli, che chiamiamo fotoni.
Strana sembra la meccanica quantistica, regolata da leggi che vanno contro il nostro intuito, influenzato dalla visione macroscopica del mondo classico. Ad esempio, se una montagnola separa due buche nella sabbia, una biglia di vetro può passare dall'una all'altra solo se le diamo una spinta sufficiente a scavalcare la montagnola. Invece nel mondo microscopico la meccanica quantistica prevede che la «pallina», diventata onda, abbia probabilità di trovarsi contemporaneamente sia nell'una che nell'altra buca: è in uno stato di sovrapposizione, come se un «tunnel» permettesse il passaggio istantaneo da una parte all'altra. Sono leggi astratte per un mondo microscopico, che da studenti quasi imparavamo ad «accettare», poiché con quel nuovo formalismo si riusciva comunque a prevedere il comportamento di «oggetti» macroscopici. Il laser che, insieme al transistor, ha rivoluzionato la tecnologia del secolo scorso, deriva proprio dall'aver capito come i fotoni emessi o assorbiti dalla materia siano legati ai salti di energia nel mondo microscopico: l'atomo «quantistico» di Bohr, pur invisibile e un po' astratto, ha consentito di capire il visibile.
Oggi, cento anni dopo, riusciamo a vedere i singoli fotoni e a osservare direttamente l'atomo con cui hanno interagito: l'invisibile è diventato visibile. Ma la realtà resa visibile è quella stessa che era invisibile? La realtà quantistica è in uno stato di sovrapposizione che viene distrutto dalla misura: se proviamo a vederla, troviamo la pallina come se fosse precipitata in una soltanto delle due buche. Questa «distruzione» dello stato quantistico ha avuto conseguenze di tipo pratico, rallentando lo sviluppo di una totalmente nuova tecnologia quantistica per questo secolo. Il calcolatore elettronico ad esempio: nei nostri pc immagazziniamo informazione in bit di memoria, due possibili stati — zero o uno — assunti da minuscoli aghetti magnetici, un po' come gli stati della pallina nelle due buche.
Si era partiti, in Italia alla fine degli anni Cinquanta su suggerimento di Enrico Fermi, con valvole e calcolatori che occupavano stanze intere. Dalle valvole ai transistor un impressionante aumento della potenza di calcolo ha accompagnato l'inesorabile riduzione delle dimensioni dei circuiti integrati. Siamo ora alle dimensioni di pochi atomi per transistor e presto si dovranno fare i conti con le leggi della meccanica quantistica che regolano il nanomondo. Meglio, si potranno fare i conti con la meccanica quantistica. Sulla sovrapposizione si realizzano primi embrioni di nuove unità di calcolo, non più bit ma «quantum» bit. Se a Roma si usano fotoni, al Lens di Firenze si usano singoli atomi, mattoni per la realizzazione di calcolatori quantistici, che si confronterebbero con quelli odierni come questi si confrontano con gli antichi abachi. Il sogno sembra più vicino da quando si riesce a evitare che la misura, distruggendo la «sovrapposizione» di stati, demolisca la realtà quantistica e impedisca di sfruttarne le fantastiche potenzialità. Pioniere dell'osservazione e della manipolazione di singole particelle nel vivo della loro realtà quantistica — e non post mortem — è stato il francese Serge Haroche (Nobel 2012 con David Wineland), che sarà a Roma per una conferenza martedì 9 luglio.
Altra stranezza del mondo quantistico è l'entanglement («intreccio» in italiano): due atomi, anche lontanissimi, possono essere così legati tra di loro che una misura fatta su uno dei due può definire istantaneamente lo stato dell'altro. Una sorta di azione a distanza che viene impiegata con fotoni per comunicare informazione in modo estremamente sicuro (la cosiddetta crittografia quantistica) o per «teletrasportare» lo stato di una particella su un'altra.
L'atomo di Bohr, cento anni fa solo un modello, ora si vede e si manipola: forse un giorno i nostri nipoti, familiarizzando col nanomondo, potranno giocarci e certo i futuri studenti lo accetteranno più consapevoli. Le rivoluzioni scientifiche, dapprima controintuitive, diventano poi mezzi quasi ovvi della vita quotidiana. Ai primi del secolo scorso, dalle ricerche di Marconi, poi presidente del Cnr, nasceva il telegrafo senza fili e il poeta siciliano Nino Martoglio si domandava: «Piove... come è che la parola del messaggio arriva bella e asciutta come un osso?».

Corriere La Lettura 7.7.13
«Confine raggiunto» E Voyager oltrepassa il sistema solare
di Stefano Gattei


«Potrebbe accadere da un momento all'altro, ma potrebbero volerci ancora molti anni»: così Edward C. Stone, professore di Fisica al California Institute of Technology di Pasadena e direttore per un decennio (1991-2001) del Jet Propulsion Laboratory della Nasa. Sotto la sua guida, l'ente spaziale americano ha programmato e lanciato alcune delle sue missioni di maggiore successo, dal Mars Pathfinder (1997) a Deep Space 1 e 2 (1998 e 1999).
Stone si riferisce a un evento che non è esagerato definire storico: la sonda spaziale Voyager 1 sta infatti per attraversare i confini del sistema solare, diretta verso lo spazio più profondo (e sconosciuto) — «là dove nessun uomo è mai giunto prima», come recitava la sigla della celebre serie televisiva Star Trek. E non è certo un caso che il primo film ispirato alle avventure dell'equipaggio dell'Enterprise (1979) immaginasse che nel XXI secolo una misteriosa nube aliena, dal nome V'Ger, si avvicinasse minacciosamente alla Terra. Il capitano James Kirk e i suoi compagni avrebbero presto scoperto che V'Ger non era altro che la sonda Voyager, perduta molti anni prima e intercettata da una razza aliena di macchine viventi.
Nel 1964 la Nasa propose il «Grand Tour dei pianeti», un ambizioso progetto per inviare alcune sonde nelle regioni più remote del sistema solare. L'ideatore, Gary Flandro, intuì la possibilità di sfruttare un raro allineamento dei pianeti superiori, che non si sarebbe ripetuto per altri 175 anni. Una sonda inviata verso Giove avrebbe potuto utilizzare il pianeta come «fionda gravitazionale» per dirigersi verso i pianeti più esterni: con una quantità minima di propellente avrebbe così impiegato un tempo considerevolmente ridotto per coprire la distanza tra un pianeta e il successivo.
Lanciate da Cape Canaveral rispettivamente il 20 agosto e il 5 settembre 1977, Voyager 2 e Voyager 1 avevano l'obiettivo iniziale di studiare Giove, Saturno, Urano e Nettuno. Completato il compito nel 1989, dopo aver raccolto una quantità enorme di informazioni sui giganti gassosi del sistema solare e sui loro satelliti, vennero dirette verso lo spazio aperto, al centro della nostra galassia. Oltre agli strumenti per la raccolta dei dati, ognuna di esse porta con sé un disco di rame placcato d'oro (il cosiddetto «Voyager Golden Record»), i cui contenuti furono selezionati da un comitato presieduto da Carl Sagan (1934-1996), noto divulgatore scientifico e autore di romanzi di fantascienza: oltre a fotografie della Terra, il disco contiene una raccolta di suoni del nostro pianeta, dal canto delle balene ai vagiti di un neonato, dal rumore delle onde che si infrangono sulla spiaggia ad alcune composizioni di Mozart (oltre a Johnny B. Goode di Chuck Berry). Voyager 2 segue però una traiettoria più lenta ed è rimasta indietro rispetto all'altra sonda.
In 35 anni di attività Voyager 1 ha coperto una distanza di oltre 18 miliardi di chilometri (pari a circa 125 volte la distanza media Terra-Sole). I dati che invia impiegano ormai 17 ore per raggiungere i centri di rielaborazione dell'agenzia spaziale americana, ma ogni piccolo bit di informazione è atteso con impazienza e curiosità: mai un oggetto costruito dall'uomo, infatti, è giunto così lontano, fornendo immagini e descrizioni dettagliate dell'eliosfera, l'enorme «bolla» di particelle cariche emesse dal Sole.
Nel 2004 la sonda raggiunse l'eliosheath (o «elioguaina»), una regione in cui il vento solare è particolarmente intenso, compresso e turbolento, a causa della sua interazione con lo spazio interstellare. Si pensava fosse questo il confine estremo del sistema solare; ma non è così. Lo scorso anno Voyager 1 rilevò quello che è apparso essere un confine discreto, che Stone chiama «regione di esaurimento»: una sorta di strato magnetico attraversato da particelle energetiche in viaggio verso lo spazio esterno o da raggi cosmici in arrivo nel nostro sistema solare. Ma neppure questo era il «confine».
La quantità di raggi cosmici evidenziati dai due telescopi ad alta energia della sonda è andata progressivamente diminuendo con gli anni, ma negli ultimi mesi la riduzione è stata particolarmente significativa, e questo è considerato dagli scienziati un primo importante indicatore del fatto che la sonda abbia ormai varcato il confine dello spazio interstellare. Un secondo indicatore è dato poi dalla variazione di intensità delle particelle energetiche incontrate: anche in questo caso, il numero delle rilevazioni è in continua diminuzione, ma non si è avuto un salto netto nei valori, come avverrebbe se Voyager 1 avesse definitivamente abbandonato l'«area di influenza» della nostra stella. Un terzo, cruciale indicatore è dato dal cambiamento nella direzione delle linee del campo magnetico: ci si aspetta che queste subiscano un deciso riorientamento nel momento in cui la sonda entrerà nello spazio profondo. La mancata registrazione di tale riorientamento porta alla prudenza, anche se nessuno sa, con precisione, che cosa avverrà al momento del passaggio. «Siamo in una regione del tutto sconosciuta — osserva Stone —, quindi tutto ciò che osserviamo e misuriamo è diverso ed eccitante».
Lasciato il sistema solare, Voyager 1 si dirigerà verso una stella nota come AC+793888. Alla velocità attuale, di circa 17 chilometri al secondo, la «raggiungerà» — mantenendosi a una distanza di circa due anni-luce (approssimativamente 9.500 miliardi di chilometri) — fra 40 mila anni. Molto prima di allora, fra 10-15 anni, le pile al plutonio che alimentano la sonda si esauriranno: gli strumenti e i trasmettitori taceranno per sempre, e Voyager 1 diventerà un'ambasciatrice silenziosa della nostra civiltà attraverso la Via Lattea. Prima o poi, forse, come immaginarono gli autori di Star Trek, «qualcuno» la intercetterà.

Corriere La Lettura 7.7.13
Cento miliardi di galassie Un'altra vita è possibile
Scoperte scientifiche e il sogno di «Avatar» La lunga ricerca di pianeti simili al nostro
di Sandro Modeo


In uno degli episodi più geniali della serie Ai confini della realtà (Il terzo dal sole, sceneggiato dal grande Richard Matheson appena scomparso) due famiglie decollano nella notte, in assoluta segretezza, su un'avveniristica navetta spaziale. In fuga da un'imminente guerra nucleare, viaggiano verso un pianeta che possa ospitarli: un pianeta — dice uno dei viaggiatori, rovesciando e retroilluminando tutto il racconto — «chiamato Terra», dove abitano «persone come noi».
Come quegli alieni, anche noi Sapiens inseguiamo da qualche decennio pianeti simili al nostro: duplicati (o gemelli) della Terra, in cui trovare vie di fuga da un ambiente allo stremo tra sovrappopolazione, esaurimento delle risorse e alterazione climatica. E proprio da qualche decennio, una simile prospettiva è sempre meno visionaria, almeno nella verifica astronomica, dato che satelliti e telescopi hanno spalancato ai nostri occhi uno scenario con centinaia di pianeti extrasolari (o esopianeti) distribuiti lungo la Via Lattea; molti dei quali, se non gemelli, «cugini» della Terra. Nel penetrare in questo scenario, ci accompagnano due libri di due astrofisici autorevoli: Strange New Worlds, del singalese Ray Jayawardhana (cattedra a Toronto) e I pianeti extrasolari di Giovanna Tinetti (che insegna all'University College London); il primo (appena uscito nell'edizione tascabile) più complesso e analitico, il secondo (da poco in libreria) più divulgativo, ma accomunati da un'identica architettura espositivo-argomentativa.
Com'è noto, l'idea della «pluralità dei mondi», abitati o no (ben diversa da quella degli «universi paralleli» implicita nella meccanica quantistica) si estende dagli atomisti greci a Giordano Bruno, toccando il suo senso profondo nella visione eliocentrica intuita da Aristarco nel III secolo a.C. e scongelata (18 secoli dopo) da Copernico, con la Terra detronizzata da ogni centralità e oggi dispersa lungo una galassia di 100 miliardi di stelle (con un numero medio uguale di ipotetici pianeti), circondata a sua volta da 100 miliardi di altre galassie, attuali confini dell'universo osservabile.
Il passaggio dalla speculazione — scientifica e/o fantastica — alla concretezza avviene con due scoperte ravvicinate. La prima, nel 1990 (autori Alexander Wolszczan e Dale Frail) è l'esopianeta PSR B1257 +12, orbitante intorno a una pulsar, cioè a una di quelle stelle agonizzanti di cui si possono ascoltare gli ultimi battiti come remoti e regolari segnali radio, residui di un ciclo vitale che le può vedere splendere, al loro apice, cento volte più del Sole. La seconda, nell'ottobre '95 (autori gli svizzeri Michel Mayor e Didier Queloz, confermata dagli americani Geoffrey Marcy e Paul Butler) è quella di 51 Pegasi b, ritenuto il primo esopianeta a tutti gli effetti data l'eccezionalità di quelli intorno alle pulsar (di fatto, solo due). Da quel momento sono stati classificati più di 800 esopianeti, utilizzando tecniche diverse e complesse, che si appoggiano a satelliti-telescopi sofisticati (Corot dal 2006 e Kepler dal 2009, cui seguirà Cheops dal 2017) e misurano per lo più le variazioni di movimento o luminosità della stella madre. Esemplare il «transito», in cui si studiano i fiochi cali di luce (dell'1%) al passaggio del pianeta davanti alla stella.
Come si caratterizzano questi «nuovi strani mondi»? Fondati su stelle celibi o bigame/poligame (come il nostro sistema solare a otto pianeti, dopo il declassamento di Plutone a «nano»), possono avere anche pianeti bigami, come Kepler 16 (AB), del tutto simile al Tatooine di Star Wars, orbitante intono a due soli e quindi con doppia alba e doppio tramonto. Quanto ai pianeti stessi (con orbite molto più eccentriche rispetto a quelle circolari dei nostri) danno vita a una tassonomia spartita in tre tipologie di base: i «giganti» (come i «gioviani caldi»); le più piccole «super-Terre» (i più diffusi, tra cui miliardi di simil-Terre); e gli intermedi «nettuniani». Spesso, molti di questi pianeti orbitano molto vicini alla stella, raggiungendo temperature altissime (i 2.600° centigradi di WSP-12b); e quando girano in rotazione sincrona, hanno una faccia rovente e una ghiacciata, con escursioni tremende (vedi Corot-7b, la prima super-Terra scoperta, che passa da 2.000° a -200°).
In teoria, sembrerebbe impossibile trovare vita (non necessariamente intelligente) su questi «mostri» astrofisici. Eppure, sia Jayawardhana che la Tinetti prospettano un quadro più probabilistico. Per un verso, sono stati classificati solo 800 pianeti extrasolari su miliardi (per tacere di quelli extragalattici, forse presto osservabili) e si conosce la composizione chimica solo di una ventina. Per un altro, ci sono già prove di molecole organiche complesse in regioni stellari o planetarie aliene, tra cui amminoacidi (i mattoni delle proteine) o precursori dei nucleotidi, le molecole da cui si formano Rna e Dna. Certo, la Terra ha caratteristiche che possono sembrare rare se non irripetibili: un campo magnetico e un effetto serra che trattengono l'acqua e il suo ciclo (a differenza di Venere o Marte, che hanno perso per sempre oceani e atmosfere) e una grande quantità di ossigeno, esito della fotosintesi clorofilliana e di un'attività metabolica cominciata coi microrganismi delle origini. Ma questo non esclude che si possano formare condizioni e cocktail chimici biocompatibili in pianeti intorno a stelle più piccole e fredde del Sole (o più grandi e calde); purché il pianeta sia, secondo i casi, più vicino o lontano dalla stella, come nell'esoluna Pandora di Avatar. Proprio Avatar, del resto, ci ricorda con la sua flora-fauna fluorescente come eventuali organismi alieni si presenterebbero con adattamenti a radiazioni di luce diverse dalla nostra (con lunghezze d'onda più lunghe o più corte): le piante con pigmenti che le renderebbero ai nostri occhi arancio-rosse o nere, gli animali con sistemi visivi simili a quelli degli uccelli o di certi serpenti.
In ogni caso, con la nostra tecnologia, il muro da superare per una migrazione interplanetaria sarebbe insormontabile: l'esopianeta più vicino, Alpha Centauri Bb (nel sistema, di nuovo, che ha ispirato Avatar) si trova a 4,4 milioni di anni luce, percorribili con gli attuali razzi in 135 mila anni, e con razzi a fusione nucleare (1/10 della velocità della luce) in «soli» 100 anni. Potremmo arrivarci, quindi — dopo aver risolto il problema dell'accelerazione graduale — solo con viaggiatori ibernati (come in 2001 di Kubrick) o con colonie disposte a riprodursi in viaggio, come in Paradisi perduti di Ursula Le Guin, in cui peraltro la quinta generazione nata nell'astronave decide di restare a bordo per sempre.
A meno che (restando nella proiezione fantastica) non succeda come nel racconto di James Gunn, Un regalo dalle stelle, dove un ingegnere aeronautico trova un manuale, la cui appendice contiene le istruzioni per costruire un'astronave dalla «propulsione inaudita». Nel libro di Gunn, il protagonista, guidato da un'antica e iper-evoluta civiltà aliena, arriva a scoprire la genesi di tutte le altre, compresa la terrestre. A noi basterebbe molto meno: che in qualche «nuovo strano mondo» una traccia di vita metta fine alla nostra lunga solitudine. Sarebbe quello il nostro «regalo dalle stelle».

Corriere 7.7.13
Nasce «La filosofia futura», rivista laboratorio
Il presidente - in senso lato - è Emanuele Severino
di Aemando Torno


Esce presso Mimesis una nuova rivista: «La filosofia futura» (pp. 190, 16). Il primo numero è dedicato a Verità e contraddizione. È semestrale: in italiano sarà cartacea, si sta formando un'edizione online in inglese. La dirige Nicoletta Cusano ma il presidente — in senso lato — è Emanuele Severino. Nasce attorno a lui. «Il carattere inedito — spiega la direttrice — è nell'intento di dare luogo al dialogo tra due linguaggi: quello della filosofia futura e quello della filosofia così come si è configurata storicamente». E aggiunge: «Già a partire dal prossimo numero su "Libertà, Azione, Tecnica" i singoli volumi si articoleranno in due parti: la prima rivolta a sviluppare un nuovo tema, le seconda alla ripresa della discussione degli argomenti del numero precedente». Per l'occasione Severino ci ha detto: «La rivista nasce da alcuni miei allievi. Ho accettato l'invito perché ritengo importante, nel contesto della cultura contemporanea, quanto essa intende realizzare: un luogo inedito di discussione intorno a quello che rimane pur sempre il valore centrale del pensiero filosofico e di ogni atteggiamento umano, e cioè il senso della verità». Precisa: «Partiamo dal titolo: "La filosofia futura". È un'espressione già di Nietzsche, ma è anche il titolo di uno dei miei libri. È futura non nel senso che sia il prodotto di un équipe che verrà ad affermarsi in un tempo a venire, perché il suo Contenuto, da non confondere con la mia scrittura, è prima del più lontano passato dell'uomo ed è un'alternativa sia rispetto alla cosiddetta filosofia "continentale", sia rispetto alla cosiddetta filosofia "analitica"». E ancora: «L'alternativa di cui parlo consiste nel mettere in questione ciò che ormai per tutte le forme di cultura è l'evidenza indiscutibile, ossia che le cose e gli eventi si trasformino, si strappino da sé e divengano altro da quello che sono. È una rivista diversa perché ospita il dissenso con la convinzione che la negazione della verità sia essenziale e irrinunciabile tanto quanto lo è la verità stessa; insomma, chi discuterà qui di filosofia futura contribuirà a rendere concreta la verità stessa in quanto superamento dell'errore». Chiediamo a Severino di semplificare con un esempio queste parole. Risponde: «In termini più accessibili, con un linguaggio religioso, potrei dire che Dio supera totalmente il male perché lo conosce concretamente, sino in fondo; meglio ancora di Satana che, non essendo onnisciente, conosce il male infinitamente meno di Dio». Ci ricorda infine che il lavoro per la pubblicazione è simile a un laboratorio aperto: «Con i miei allievi, di alto profilo scientifico, sono continuamente in contatto e da questi nostri frequenti scambi di idee vanno costruendosi i primi progetti della rivista». Nel comitato di redazione, oltre la direttrice, figurano Giorgio Brianese, Giulio Goggi, Davide Spanio, Ines Testoni.

Repubblica 7.7.13
Eroi ed antieroi del mondo globale
di Marc Augé

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Repubblica 7.7.13
Cuore di Conrad
L’avventura di uno scrittore tra le parole in tempesta
di Enrico Franceschini


Cancellature. Riscritture. Aggiunte. Interi paragrafi rimossi. Parole sostituite una, due, tre volte. I mano-scritti di Joseph Conrad sono un campo di battaglia. L’ex capitano di Marina, nato in Polonia e arrivato all’inglese solo come terza lingua dopo il francese, diventato rapidamente lo scrittore più popolare del suo tempo, dopo aver dato l’addio al mare a trentasei anni d’età, è un editor severo di se stesso. “Scrivere per il piacere di scrivere è una fantasia pericolosa”, annota nella dedica in calce alla copia di
a Henry James, augurandosi che il “caro maestro”, facendogli “l’onore della sua amicizia”, non sorrida troppo dei suoi semplici “bozzetti”. È il 1906. Ha già pubblicato i suoi capolavori. Eppure sembra dubitare delle proprie capacità, pare non prendersi totalmente sul serio. Ma è proprio così?
Le pagine fitte di scarabocchi e la dedica a James fanno parte della più grande collezione privata di mano-scritti, lettere, documenti personali e prime edizioni di Conrad, l’ultimo degli scrittori romantici e il primo dei moderni. Provengono dalla biblioteca di Stanley Seeger, un compositore, bibliofilo e appassionato d’arte americano trapiantato nel Regno Unito e scomparso nel 2011, uomo stravagante, ossessionato dall’aspirazione di possedere il meglio: nel ’93 fece notizia per la vendita di ottantotto magnifici quadri di Picasso. La sua “Joseph Conrad Collection” sarà messa all’asta da Sotheby’s a Londra a partire da mercoledì 10 luglio, in due puntate. Tanto è ricco il materiale offerto. I prezzi sono alti: migliaia di sterline per una lettera, centinaia di migliaia per un manoscritto. Il totale potrebbe superare il milione di sterline.
«A memoria d’uomo non ricordo un’altra collezione privata di questo genere tanto importante », osserva Peter Selley, direttore del dipartimento libri e manoscritti di Sotheby’s e curatore dell’asta. «Il signor Seeger, con il quale ho avuto modo di lavorare per aiutarlo a mettere insieme un tesoro simile, ha impiegato decenni a raccogliere queste carte e questi volumi. Vederli ora tutti insieme è un’emozione rara. Conrad è stato tradotto in oltre quaranta lingue e non è esagerato dire che abbia avuto un’enorme influenza sulla letteratura moderna, sugli scrittori, poeti, intellettuali e cineasti venuti dopo di lui, da Hemingway a Camus, da Garcia Marquez a Borges, da Graham Greene a Francis Ford Coppola, che com’è noto si ispirò aCuore di tenebra per Apocalypse now. Il magistrale uso della narrazione di Conrad ha dato a Scott Fitzgerald l’idea di usare Nick Carraway come protagonista narrante del Grande Gatsby. È solo un esempio. Perché Conrad è probabilmente il più grande romanziere politico inglese e il primo ad avere affrontato temi profondamente moderni, con storie di grande complessità morale e temi quali la vanità dell’amore romantico, la cecità del pregiudizio razziale, la consapevolezza che restare fedeli a un ideale significa quasi sempre tradirne un altro».
Il pezzo più pregiato della collezione è il manoscritto autografo diTifone, pieno di prove tangibili dell’immaginazione di Conrad all’opera: modifiche praticamente in ogni pagina testimoniano il suo sforzo di trovare le espressioni adeguate per la lotta tra l’uomo e la ferocia spietata del mare, che è al centro del romanzo. Un editing altrettanto intenso appare nel dattiloscritto di Falk,il racconto di un capitano di rimorchiatore che confessa di “avere mangiato uomini”, di essere stato un cannibale per sopravvivere: «Sono rimasto sorpreso io per primo da quanto lavoroabbia messo in questa storia», osserva l’autore in una lettera scritta anni dopo, ritrovando le sessanta pagine battute a macchina dalla moglie. Un’altra perla della collezione è la lettera inedita (che qui pubblichiamo) scritta a Elsie Hueffer, intellettuale, scrittrice e moglie di Ford Madox Ford, alla quale Conrad aveva chiesto un’opinione su Cuore di tenebra non ricevendo la risposta che si augurava: “Ciò che ammetto senza esitazione — le replica lo scrittore — è la mia colpa di avere reso Kurtz (il personaggio interpretato da Marlon Brando inApocalypse now, ndr) troppo simbolico o meglio il simbolo assoluto della vicenda”. E poi, accanto alla lettera più riconoscente che indirizza a Violet Paget, la scrittrice conosciuta con lo pseudonimo di Vernon Lee, (qui a destra), c’è una copia diAlmayer’s Follydedicata a W. H. Cope, il suo “ultimo capitano”, dalla cui nave, la Torrens, sarebbe disceso per abbandonare la vita di mare e iniziare quella di scrittore, “dopo averle gettato un ultimo sguardo” da una banchina del porto di Londra, e a bordo della quale fece il suo “primo tentativo di scrittura”, mostrandolo a un passeggero, un giovane laureato di Cambridge, per averne un parere, che ottenne positivo ma tipicamente conciso. “Vale la di finirlo?”, domandò il primo ufficiale Conrad. “Decisamente”, rispose il primo di una serie infinita di suoi lettori.
Nato nel 1857 con il nome di Józef Teodor Naleçz Konrad Korzeniowski, a Berdicev, allora Polonia, poi parte dell’impero russo e dell’Urss, oggi Ucraina, rimasto orfano di padre (un aristocratico ribelle che gli passò la passione della letteratura) e madre a dodici anni, espatriato a diciassette per imbarcarsi sulle navi della marina mercantile, francese prima, britannica poi, sulle quali girò tutto il mondo, visse ogni tipo di avventura e costruì il bagaglio di esperienze e personaggi che avrebbe poi trasportato nei suoi libri, Conrad si imbarcò, scendendo per sempre dalla Torrens, in un’odissea letteraria ancora più lunga, misteriosa e affascinante dei viaggi che aveva fatto per mare. Nella solitudine della sua cabina, senza toccare terra per mesi, aveva imparato l’inglese, letto voracemente e cominciato a scrivere, con l’intento iniziale di seguire la tradizionale letteratura marinara, un classico dell’epoca in cui con le sue navi la Gran Bretagna aveva conquistato il più grande impero della stochessia,ria: determinato a celebrare “il mare imperituro, i velieri che più non esistono e i semplici uomini coraggiosi che li conducevano”. Ma poi era diventato il pioniere della narrativa moderna, il primo a confrontarsi con i dilemmi del colonialismo, dell’imperialismo, dell’esistenzialismo. Il rapporto con Henry James, evocato dalla dedica in cui si augura che non sorrida dei suoi schizzi, rivela secondo il suo biografo Frederick Karl “non la deferenza dell’apprendista davanti al maestro, bensì il suo modo di dissociarsi dai praticanti della novella purpena per collegarsi al più serio degli scrittori del tempo, in effetti l’unico concorrente alla sua altezza nella narrativa pre-prima guerra mondiale”. Joseph Conrad, lo scrittore sbocciato in una stiva e che scriveva nella sua terza lingua, il severo redattore di se stesso che trasformava i manoscritti in tempeste, non dubitava della propria arte. “Scrivere per il piacere di scrivere è una fantasia pericolosa”, mandava a dire a Henry James, quasi sfidandolo ad affrontare lo stesso rischio, che solo i veri grandi possono correre.

Repubblica 7.7.13
Il “Sogno” di Rousseau il Doganiere
ultimo, grandioso fuoco d’artificio
di Melania Mazzucco


Bisogna saper finire. L’epilogo — di una storia, di una vita, di una carriera — non è meno importante del suo inizio. L’ultimo quadro è sempre più significativo del primo. La storia della pittura ci ha consegnato capolavori incompiuti o tenuti segreti: sorprendenti ed estremi. Ci ha rivelato vecchiaie incandescenti e rivoluzionarie, come quella di Michelangelo e Tiziano, che giunsero giovani all’età decrepita. Vecchiaie inaspettate e creative, come quella di Munch, o solitarie e amare, come quella di Piero di Cosimo storpiato dalla paralisi o di Degas cieco. L’epilogo del Doganiere Rousseau è insieme patetico e glorioso — contradditorio come la sua vita.
La fine dell’uomo fu triste. Benché a Parigi conoscesse tutti, viveva solo: vedovo due volte, una figlia estranea e lontana, una fidanzata attempata che lo rifiutava a causa della reputazione ridicola e delle condanne penali. Si trascurò, per ricoverarsi all’ospedale troppo tardi. I medici lo considerarono un indigente alcolizzato. Benché negli ultimi tempi avesse invitato in casa sua tutti gli artisti di Montmartre, al cimitero lo accompagnarono in sette. Fra loro, il pittore anarchico Paul Signac. Di Rousseau si rideva, scrisse un giornalista italiano che partecipò a quelle strambe serate: ma non si poteva piangere. In casa sua — anche se aveva cominciato a vendere qualche quadro — non si trovò un soldo per pagare il funerale, né la tomba. Lo misero in una fossa comune.
La fine dell’artista invece fu uno spettacolare fuoco d’artificio. Nel 1910, a 66 anni, il Doganiere — debitore del soprannome allo scrittore patafisico Alfred Jarry — realizzò il suo quadro più ambizioso. Si prese tutto il tempo per completarlo. Ad Ardengo Soffici, che visitava il suo studio, comunicò trionfante di aver impiegato ben 50 tonalità di verde. Poi lo espose al Salon des Indépendants, cui partecipava da 25 anni con fedeltà degna di miglior premio. IlSogno era la summa — fiabesca, sgargiante e trasognata — dell’opera di una vita.
Il quadro era accompagnato da 8 versi. Rousseau si sognava anche scrittore, e più volte aveva provato a farsi rappresentare nei teatri parigini. Spesso scriveva didascalie per i suoi quadri — come i pittori del Medioevo per svelare le allegorie e i donatori degli ex voto la grazia ricevuta.La poesiola dice così:Yadwigha in un bel sogno / essendosi dolcemente addormentata / sentiva il suono di una musetta / da un incantatore ben intenzionato suonata / mentre la luna riflette / sui fiori, gli alberi verdeggianti / i selvaggi serpenti prestano ascolto / alle gaie note dello strumento…
Dunque il quadro rappresenta un sogno. Quello di Yadwigha, la sensuale polacca che anni prima gli era stata modella e amica. Il Doganiere l’aveva già dipinta. Tutto ciò che convocò in questo quadro, aveva già dipinto. La fredda luna, gli enigmatici animali selvaggi, anche il nero incantatore di serpenti (però in vesti femminili, nel 1907). La giungla poi ben 26 volte. Una giungla immaginaria come la Malesia di Emilio Salgari: Rousseau, che a 19 anni, per scampare al carcere dopo un furto di 20 franchi, si era arruolato volontario, non aveva mai viaggiato, e solo per vantarsi coi pittori intellettuali di Montmartre s’inventò di aver combattuto in Messico. Non aveva mai visto una liana, né un uccello del paradiso, le felci solo al Jardin des Plantes e la pantera in un albo illustrato dei grandi magazzini Lafayette. Fra le pareti delle stamberghe in cui viveva poveramente — prima con lo stipendio da commesso del dazio, poi da baby-pensionato — ricreava mondi misteriosi, in cui acquattarsi come un leone nella giungla. A volte si immergeva talmente nel labirinto della vegetazione dipinta da soffocare: doveva interrompersi, e spalancare la finestra. La sua giungla è esotismo d’evasione. È un paradiso perduto, nemmeno intravisto, disperatamente bramato. Ma è anche claustrofobica, vagamente minacciosa come il mondo reale che lo assediava coi debiti, la tisi, la morte.
IlSogno trascende le giungle, gli esploratori, i bufali, le scimmie, le tigri e gli uccelli che il Doganiere aveva dipinto fino a quel momento. C’è una novità sbalorditiva: il divano. Stile Luigi Filippo, col velluto rosso consunto. Assurdo nella foresta equatoriale come l’ombrello sul tavolo della sala operatoria teorizzato da Lautréamont e poi dai surrealisti. Ma per Rousseau era solo un elemento realistico: Yadwigha, Venere o Maja desnuda dei poveri, dorme nel suo salotto. Nell’opera del Doganiere, gli oggetti acquistano un’evidenza allucinatoria — proprio perché sono tutto. Rousseau non si interessa ai problemi teorici, all’atmosfera o alla luce. Vuole solo raffigurare persone, animali, fiori, frutti. Come li vedesse per la prima volta.
Alla fine, questo quadro non racconta il sogno di Yadwigha, ma quello di Rousseau: essere un vero artista. Aveva iniziato a dipingere a 41 anni, da autodidatta, e non aveva più smesso. Tetragono allo scherno dei parenti, dei vicini, dei critici — che paragonavano i suoi quadri agli scarabocchi di un bambino, o alle insegne dei negozi. A venderli non riusciva, ma se li regalava, tutti li distruggevano: la figlia, che se ne vergognava, ma anche l’infido amico Jarry, che usò il suo ritratto come bersaglio. I pittori d’avanguardia si divertivano alle spalle di quel buffo e cerimonioso pensionato che credeva di essere il più grande artista moderno. E anche se i suoi quadri primitivi ricordavano l’arte popolare o tribale, e le stampe giapponesi che tanto li entusiasmavano, non lo consideravano uno di loro. Picasso gli organizzò una cena-beffa più crudele di quella del Brunelleschi al Grasso Legnaiolo. Il Doganiere fingeva di non capire. Non era stupido, piuttosto furbo, col gusto della mistificazione (nel 1909 fu condannato per truffa). Accettava la parte del naïf, e continuava a dipingere quadri che sconcertavano per il disegno goffo e maldestro, la mancanza di proporzioni e prospettiva, le figure piatte, senza volume e senza peso, la luce irreale, l’assenza di ombre, i colori selvaggi.
Tutti trovarono bello ilSogno,che finalmente lo vendicò. Ciò che prima era parso difetto affascinava qui come la melodia dell’incantatore: lasciate dormire il Doganiere, la pittura gli si è arresa.

Henri Rousseau: Il sogno (1910), New York MoMA olio su tela 204,5 x 298,5 cm