Corriere 7.9.19
Zimbabwe L’ex padre-padrone rimasto al potere per 37 anni
La morte di Mugabe l’eroe che si scoprì dittatore
di Michele Farina
Addio a Robert Mugabe, l’anti Mandela. A 95 anni è morto l’ex padre-padrone dello Zimbabwe, al potere per 37 anni. Mosca e Pechino salutano «un grande uomo». Ma il suo popolo è in coda per il pane.
Diceva: «Lo Zimbabwe è mio». E aveva ragione: per almeno 37 anni Robert Gabriel Mugabe è stato padre-padrone. Simbolo di liberazione. E poi tiranno.
A mandarlo a casa (24 stanze, maggiordomi e immunità diplomatica) nel 2017 è stato il «suo» esercito con il «suo» braccio destro, quell’Emmerson Mnangagwa che mantiene fede al soprannome di Coccodrillo: «Lo Zimbabwe è in lutto fino a quando il nostro eroe nazionale non sarà sepolto», piange l’attuale presidente, che si era visto superato nella corsa alla leadership dalla moglie di Mugabe, Grace. Il familismo del «Compagno Bob» era un modo per restare in sella fino alla fine: «Solo Dio mi può licenziare».
In Zimbabwe c’è un popolo in coda. Per le medicine, il pane, l’acqua. Molti si metteranno in fila anche per l’ultimo saluto all’unico leader che hanno conosciuto. Ma pochi verseranno lacrime, mentre Mosca e Pechino salutano «un grande uomo». Nella capitale Harare metà dei 4,5 milioni di abitanti quest’estate ha avuto l’acqua una volta alla settimana. Inflazione verso il 200%, blackout di 18 ore, mancano farmaci e carburante. La morbida uscita di scena di Mugabe non ha migliorato la vita di 13 milioni di persone.
C’è chi lo rimpiange. E’ morto in una clinica di Singapore, dove si era recato spesso per curarsi da un male mai ufficialmente identificato. Aveva 95 anni, l’età di Nelson Mandela quando se ne andò nel 2013. Lo slalom parallelo dei due grandi vecchi è uno specchio dell’Africa.
Mugabe figlio di un carpentiere, nell’ex Rhodesia del Nord governata dai bianchi. Il padre abbandona la famiglia quando ha 10 anni. Lui va a scuola dai missionari cattolici. Borsa di studio e la prima di sette lauree a Fort Hare, Sudafrica, dove qualche anno prima era passato Mandela.
Insegna in Rhodesia del Nord (l’attuale Zambia) e in Ghana, dove conosce la prima moglie Sally (che morirà di tumore nel 1992, quando lui ha già due figli dall’ex dattilografa poi ribattezzata Gucci Grace). Nel 1960 torna in patria, entra nella formazione guidata da Joshua Nkomo. L’opposizione al regime di Ian Smith si divide per linee etniche, Mugabe con gli shona, Nkomo con gli Ndebele (18%). Gli arresti del 1964 li riuniscono: Bob in cella per 11 anni, dopo aver chiamato «cowboys» i governanti. Muore a 3 anni il primo figlio, e gli proibiscono di andare al funerale. Accadrà anche a Mandela. Dietro le sbarre, entrambi macinano dolore e immaginano il futuro. Mugabe esce nel 1975, è uno dei capi della guerriglia che porta all’indipendenza nel 1980. Da primo ministro si presenta come conciliatore. Ma gli scontri con i seguaci di Nkomo faranno 20 mila morti. Nel 1987 si fa nominare presidente. Presto gli farà ombra la stella di Nelson. Mandela ha un’altra forza, un’altra levità. Mugabe, che voleva fare dei suoi concittadini dei «gentlemen» insegnandogli il cricket, per recuperare le simpatie dei neri perseguita gli agricoltori bianchi. Mandela, dopo un solo mandato, se ne va dileggiando il Compagno Bob («Ritirati, vent’anni al potere sono abbastanza»). La confisca delle fattorie contribuisce al disastro economico. Dopo la disuguaglianza (i bianchi con il 2% avevano il 50% delle terre), arriva la fame.
La repressione degli oppositori tra 2008 e 2009 vede Mugabe al comando e il Coccodrillo in regia. La coabitazione forzata con l’Mdc di Morgan Tsvangirai delude. Il Paese a terra, lui in sella. Verrà detronizzato dai suoi, affinché niente cambi davvero. A guardare oltre il Limpopo, in Sudafrica, disoccupazione e xenofobia galoppante, anche Mandela non sarebbe felice. The long walk to freedom , il lungo cammino verso la libertà, sembra non finire mai.
il manifesto 7.9.19
Editoria, braccio di ferro a tre sulla delega. Fnsi: «Si volti pagina»
Il sindacato dei giornalisti: «Basta tagli e bavagli. Ci aspettiamo ora una nuova stagione». Di Maio tifa Vito Crimi, Conte cerca un posto per Chieppa, il Pd preme per Verini
di Eleonora Martini
L’auspicio del presidente della Repubblica Sergio Mattarella di poter presto ringraziare il nuovo governo giallorosso «per un’adeguata attenzione alle questioni dell’informazione» deve aver fatto breccia. Perché ieri, nell’augurare buon lavoro «ai ministri Fioramonti, Spadafora e Franceschini», i deputati del MoVimento 5 Stelle in Commissione Cultura si sono detti certi che l’esecutivo Conte bis considererà «centrale» l’argomento sollevato dal capo dello Stato. Questione che inevitabilmente precipita sulla scelta del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri cui andrà la delega per l’Editoria. Che, hanno annunciato i deputati grillini, «sarà affidata a breve».
E in effetti a Palazzo Chigi si sta giocando in queste ore una delle partite più importanti tra le due componenti del governo. Perché in pochi altri casi come questo il nome di chi otterrà la delega all’Editoria di fatto coincide con la politica che verrà attuata nei prossimi anni per tutelare il pluralismo e la libertà di stampa nel nostro Paese (che è attualmente al 43esimo posto su 180 nella classifica mondiale di Reporters sans frontières) e per «rilanciare la funzione essenziale della mediazione giornalistica» tanto svilita dai grillini, come si augura il presidente dell’Ordine dei giornalisti Carlo Verna.
Ed è per questo che i parlamentari pentastellati hanno inviato un messaggio di sostegno al loro capo politico ancora impegnato in un braccio di ferro con il Pd per riempire le ultime caselle. Luigi Di Maio in particolare insiste con quello che è un cavallo di battaglia ideologico del Movimento, e all’Editoria vorrebbe confermare il suo uomo, Vito Crimi, il sottosegretario che nel giro di 14 mesi ha trasformato la lotta alla «casta dei giornalisti» (fondativa dell’identità grillina) in una guerra aperta alle testate prodotte da editori puri, quali sono le cooperative di cronisti e poligrafici (tra i quali molti giornali locali, l’Avvenire e il manifesto).
Di contro, il Partito democratico, cui spetterebbe la nomina dell’altro sottosegretario alla Presidenza del Consiglio – avendo i 5 Stelle già “piazzato” Riccardo Fraccaro – preme affinché a varcare la soglia di Palazzo Chigi sia ora il deputato e giornalista Walter Verini, attuale commissario Pd in Umbria. Una figura apprezzata trasversalmente da tutta la maggioranza e che è senz’altro di garanzia del pluralismo e della libertà di stampa.
Sembra però che, nelle ultime ore, la competizione si sia allargata. E in lizza sia entrato anche l’attuale Segretario generale della Presidenza del Consiglio, Roberto Chieppa. Al momento gode di una grande probabilità di successo, in quanto “tecnico” molto vicino a Giuseppe Conte e che il premier vuole assolutamente al suo fianco, in qualunque veste.
Sulla faccenda è intervenuto ieri anche il sindacato dei giornalisti: «Per noi – ha detto il segretario generale della Fnsi, Raffaele Lorusso – non esistono governi più o meno amici, ma esecutivi da giudicare in base agli atti. Da questo punto di vista, gli atti e le prese di posizione di chi ha avuto la responsabilità dell’Editoria nel precedente governo sono stati orientati, purtroppo, a cancellare l’informazione professionale, a ridurre il pluralismo delle voci, a moltiplicare i tagli e i bavagli e a rendere l’occupazione sempre più precaria. Noi riteniamo che sia necessario cambiare completamente registro. Dal nuovo esecutivo – è la conclusione di Lorusso – ci aspettiamo una nuova stagione all’insegna del confronto e della massima attenzione al settore e al lavoro giornalistico».
il manifesto 7.9.19
Roger Waters: «Bisogna resistere al neofascismo che sta distruggendo la terra»
Venezia 76. L’ex Pink Floyd presenta fuori concorso «Us + Them». Il film-concerto è stato girato ad Amsterdam nel 2017 durante il tour mondiale dell’artista e sarà nelle sale italiane dal 7 al 9 ottobre
Roger Waters
Nel giorno del suo compleanno, Roger Waters giunge al Lido per presentare Roger Waters Us + Them da lui co-diretto con Sean Evans (sarà nelle sale dal 7 al 9 ottobre distribuito da Nexodigital). Il film-concerto è stato girato ad Amsterdam nel 2017 durante il tour mondiale dell’artista e oltre a brani tratti da album dei Pink Floyd come Dark Side of the Moon, Wish You Were Here, The Wall e Animals, propone pezzi tratti dal suo disco più recente, Is This The Life We Really Want? Waters ed Evans tornano a collaborare dopo The Wall (2015) che oltre alla musica dava spazio ad alcuni aspetti della vita personale dell’artista. Us + Them, invece, che riprende il titolo da uno dei pezzi storici da Dark Side of the Moon, scritta a quattro mani con David Gilmour, documenta le contaminazioni tra arte e politica negli show del cantautore, il quale ha dichiarato: «È un invito all’impegno. Nonostante questo film sia un concerto, il suo tentativo è di esprimere, con le parole e le immagini, il dolore che provo davanti alla sofferenza quotidiana di fratelli e sorelle homo sapiens in difficoltà».
C’È SPAZIO per qualche commento sulla situazione politica italiana: «So poco di Salvini ma sono contento che se ne sia andato, almeno temporaneamente. Viviamo in tempi difficili in cui l’establishment ci mette in lotta gli uni contro gli altri e vuole distruggere il pianeta. Se non ci uniamo e resistiamo ai rigurgiti neofascisti che stanno facendo collassare la Terra, presto non ne resterà più nulla». Waters, che durante un recente concerto a Brasilia, ha provato a far visita a Lula in carcere ha spiegato: «I magistrati non me lo hanno permesso. Il populismo neofascista di Bolsonaro fa credere alle persone umili di essere dalla loro parte e quindi alcuni lo votano senza rendersi conto dell’errore. Bolsonaro vuole distruggere il pianeta come Trump o Boris Johnson. I corrotti come lui vogliono mettere a tacere i contropoteri ma non bisogna farsi zittire».
E SUL DRAMMA dei migranti e la chiusura dei porti, sottolinea: «Seguo la situazione ma non sono competente e non mi sembra corretto esprimermi. Quello che so è che c’è gente in grande pericolo in cerca di una vita migliore. Sono disperati e noi europei abbiamo dei doveri nei loro confronti. Tutti gli homo sapiens vengono dall’Africa, siamo tutti fratelli e sorelle africani divisi dal nazionalismo che distrugge il pianeta, costruisce muri, crea conflitti». E aggiunge: «Spesso la musica pop è priva di significato ma molti cercano altro. Per questo in The Wall mi riferisco al Mondo nuovo di Huxley, perché abbiamo bisogno di capire, giovani e non, che anche le idee sono buone, belle e desiderabili, non solo gli oggetti». Infine, l’autore di Pigs ha commentato su chi siano i pigs, i maiali, di oggi dicendo: «È l’élite economica che riduce in schiavitù il 95% della popolazione mondiale e pasce sulle guerre. Noi dobbiamo perseguire la gioia e la gioia non è la guerra, la gioia è stare seduti sotto un albero a leggere un libro con il proprio bambino».
Corriere 7.9.19
Zimbabwe L’ex padre-padrone rimasto al potere per 37 anni
La morte di Mugabe
l’eroe che si scoprì dittatore
di Michele Farina
addio a Robert Mugabe, l’anti Mandela. A 95 anni è morto l’ex padre-padrone dello Zimbabwe, al potere per 37 anni. Mosca e Pechino salutano «un grande uomo». Ma il suo popolo è in coda per il pane.
Diceva: «Lo Zimbabwe è mio». E aveva ragione: per almeno 37 anni Robert Gabriel Mugabe è stato padre-padrone. Simbolo di liberazione. E poi tiranno.
A mandarlo a casa (24 stanze, maggiordomi e immunità diplomatica) nel 2017 è stato il «suo» esercito con il «suo» braccio destro, quell’Emmerson Mnangagwa che mantiene fede al soprannome di Coccodrillo: «Lo Zimbabwe è in lutto fino a quando il nostro eroe nazionale non sarà sepolto», piange l’attuale presidente, che si era visto superato nella corsa alla leadership dalla moglie di Mugabe, Grace. Il familismo del «Compagno Bob» era un modo per restare in sella fino alla fine: «Solo Dio mi può licenziare».
In Zimbabwe c’è un popolo in coda. Per le medicine, il pane, l’acqua. Molti si metteranno in fila anche per l’ultimo saluto all’unico leader che hanno conosciuto. Ma pochi verseranno lacrime, mentre Mosca e Pechino salutano «un grande uomo». Nella capitale Harare metà dei 4,5 milioni di abitanti quest’estate ha avuto l’acqua una volta alla settimana. Inflazione verso il 200%, blackout di 18 ore, mancano farmaci e carburante. La morbida uscita di scena di Mugabe non ha migliorato la vita di 13 milioni di persone.
C’è chi lo rimpiange. E’ morto in una clinica di Singapore, dove si era recato spesso per curarsi da un male mai ufficialmente identificato. Aveva 95 anni, l’età di Nelson Mandela quando se ne andò nel 2013. Lo slalom parallelo dei due grandi vecchi è uno specchio dell’Africa.
Mugabe figlio di un carpentiere, nell’ex Rhodesia del Nord governata dai bianchi. Il padre abbandona la famiglia quando ha 10 anni. Lui va a scuola dai missionari cattolici. Borsa di studio e la prima di sette lauree a Fort Hare, Sudafrica, dove qualche anno prima era passato Mandela.
Insegna in Rhodesia del Nord (l’attuale Zambia) e in Ghana, dove conosce la prima moglie Sally (che morirà di tumore nel 1992, quando lui ha già due figli dall’ex dattilografa poi ribattezzata Gucci Grace). Nel 1960 torna in patria, entra nella formazione guidata da Joshua Nkomo. L’opposizione al regime di Ian Smith si divide per linee etniche, Mugabe con gli shona, Nkomo con gli Ndebele (18%). Gli arresti del 1964 li riuniscono: Bob in cella per 11 anni, dopo aver chiamato «cowboys» i governanti. Muore a 3 anni il primo figlio, e gli proibiscono di andare al funerale. Accadrà anche a Mandela. Dietro le sbarre, entrambi macinano dolore e immaginano il futuro. Mugabe esce nel 1975, è uno dei capi della guerriglia che porta all’indipendenza nel 1980. Da primo ministro si presenta come conciliatore. Ma gli scontri con i seguaci di Nkomo faranno 20 mila morti. Nel 1987 si fa nominare presidente. Presto gli farà ombra la stella di Nelson. Mandela ha un’altra forza, un’altra levità. Mugabe, che voleva fare dei suoi concittadini dei «gentlemen» insegnandogli il cricket, per recuperare le simpatie dei neri perseguita gli agricoltori bianchi. Mandela, dopo un solo mandato, se ne va dileggiando il Compagno Bob («Ritirati, vent’anni al potere sono abbastanza»). La confisca delle fattorie contribuisce al disastro economico. Dopo la disuguaglianza (i bianchi con il 2% avevano il 50% delle terre), arriva la fame.
La repressione degli oppositori tra 2008 e 2009 vede Mugabe al comando e il Coccodrillo in regia. La coabitazione forzata con l’Mdc di Morgan Tsvangirai delude. Il Paese a terra, lui in sella. Verrà detronizzato dai suoi, affinché niente cambi davvero. A guardare oltre il Limpopo, in Sudafrica, disoccupazione e xenofobia galoppante, anche Mandela non sarebbe felice. The long walk to freedom , il lungo cammino verso la libertà, sembra non finire mai.
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spogli
Associazione Culturale Amore e Psiche
supplemento di "segnalazioni" -
spogli di articoli apparsi sulla stampa e sul web
venerdì 6 settembre 2019
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il manifesto 6.9.19
Le maggioranze farlocche di Romano Prodi
Legge elettorale. La riforma della legge elettorale è in agenda insieme al taglio dei parlamentari, giunto all’ultimo giro di boa, e posto da M5Stelle come priorità. Se il taglio si facesse a legge elettorale invariata, la distorsione della rappresentatività delle assemblee sarebbe fortissima e incostituzionale
di Massimo Villone
In una lettera al direttore del Corriere della sera (del 4 settembre) Romano Prodi si lancia in un endorsement senza se e senza ma del maggioritario, in specie se ispirato al doppio turno come in Francia, o all’uninominale di collegio come in Gran Bretagna. Sullo stesso giornale D’Alema suggerisce cautela nella corsa verso un sistema proporzionale, essendo preferibile un maggioritario che favorisca un ritorno al bipolarismo. Su Italiaoggi (5 settembre) Claudio Velardi concorda con Prodi e con D’Alema. Decisamente, un déjà vu.
La riforma della legge elettorale è in agenda insieme al taglio dei parlamentari, giunto all’ultimo giro di boa, e posto da M5Stelle come priorità. Se il taglio si facesse a legge elettorale invariata, la distorsione della rappresentatività delle assemblee sarebbe fortissima e incostituzionale.
Ad esempio, nelle regioni minori solo i primi due partiti otterrebbero seggi in Senato. Un ritorno al proporzionale appare a molti una condizione necessaria. Se ne avverte una eco nel programma di governo (al punto 10), laddove si parla di avviare un percorso di riforma della legge elettorale, assicurando il «pluralismo politico e territoriale». Ma non c’è un esplicito richiamo al proporzionale, e forse qui le opinioni citate hanno giocato un ruolo.
Nemmeno sfugge che oggi qualsiasi impianto maggioritario darebbe al centrodestra un vantaggio incolmabile.
La crisi di agosto ha visto tra le ragioni di fondo la valutazione che il momento fosse favorevole per assaltare Palazzo Chigi.
In questa prospettiva Matteo Salvini ha corso un azzardo, ha scommesso, e ha perduto.
A tutto questo i sostenitori del maggioritario rispondono che bisogna ripristinare il bipolarismo. È ovvio che in un sistema tripolare o multipolare un maggioritario che garantisca il totem della stabilità e della governabilità è fatalmente troppo distorsivo della rappresentatività, e probabilmente incostituzionale.
Per Prodi ciò non rileva, perché «una legge elettorale non è fatta per fotografare il Paese, ma per dargli una maggioranza di governo possibilmente stabile». Non potremmo dissentire di più. Una assemblea elettiva assolve la sua funzione solo se è ampiamente rappresentativa. Diversamente, è una inutile superfetazione istituzionale.
Chi vuole il maggioritario o ritiene irrilevante qualsiasi misura di distorsione della rappresentatività, o pensa a una strategia di alleanze che portando a una competizione tra due coalizioni riduca al minimo la correzione maggioritaria che garantisce la vittoria. A sinistra o nel centrosinistra si pensa a una alleanza pre-elettorale tra Pd e M5Stelle, e forse ancora altri. Ma è una prospettiva plausibile?
Trovare una compatibilità su temi quali le trivelle, la scuola, i beni culturali, il lavoro o persino le grandi opere può essere alla fine non facile, ma possibile.
Ma che dire del diverso modo di concepire la democrazia? Vincolo di mandato, eletti-portavoce, referendum propositivo, taglio dei parlamentari, votazioni su Rousseau segnano un depotenziamento della democrazia rappresentativa che fa allo stato parte del dna del Movimento, e trova qualche eco anche nel programma di governo.
Una strategia duratura di solide alleanze può bene trovare qui ostacoli difficilmente superabili.
Ma poi, siamo sicuri che le chiavi di lettura di un tempo siano ancora valide? In Francia, il doppio turno ha dato a Macron una maggioranza, ma non ha impedito – anzi, indebolendo la rappresentatività del parlamento ha probabilmente concorso a determinare – la rivolta dei gilet gialli.
In Gran Bretagna, emblema della stabilità e della governabilità assicurata dal maggioritario, Boris Johnson ha preso ceffoni dai Commons, e altri probabilmente ne avrà. La stessa unità del regno scricchiola pericolosamente.
Sono prove che maggioranze farlocche create con artifici elettorali non chiudono le faglie politiche, economiche e sociali, e che il fulcro della democrazia è in un parlamento che dia pienamente voce al paese, e non nei palazzi del governo.
Prodi chiede che si prendano «le decisioni necessarie a far sì che l’Italia possa riprendere il suo ruolo in Europa e nel mondo». Dubitiamo assai che abbiamo perso quel ruolo a causa di una legge elettorale non abbastanza maggioritaria, e che basti correggere l’errore per riguadagnarlo.
Corriere 6.9.19
Una strana Euforiaattorno ai governo
di Aldo Cazzullo
L’Europa contro l’animale ferito. Angela e Ursula contro Matteo Salvini. L’avventura del nuovo governo sarà meno spensierata delle espressioni viste ieri ai ministri — gli sguardi increduli, i sorrisi «tipo popolana appena uscita dalla sala parto» avrebbe scritto Paolo Villaggio. Attorno al Conte 2 si respira un’atmosfera sollevata, quasi compiaciuta, da salottino dove ci si congratula l’un l’altro: commenti positivi da Bruxelles e da Berlino, felicitazioni dei commissari europei uscenti ed entranti, un mail bombing durato tutto il giorno con cui ogni sorta di istituzione, comitato, fondazione italiana e mondiale si è rallegrata per la nuova era che si apre. La legislatura continua, i parlamentari restano al loro posto, i barbari non arrivano più. Un’atmosfera che ricorda il 2011 e l’insediamento del governo Monti; la fine è nota.
Stavolta la partita è tutta da giocare. E non solo perché i ceti produttivi del Nord la seguono con scetticismo. Il campo di gioco è l’Europa. La vera rottura nella vecchia maggioranza non è stata sulla Tav ma sulla commissione guidata da Ursula von der Leyen, con i grillini che hanno votato a favore e i leghisti contro.
Mentre i 5 Stelle passavano dai Gilet Gialli a Macron, Salvini scegliendo i falsi amici di Visegrad sbagliava tutto quello che poteva sbagliare. Eppure il suo consenso è lì, quasi intatto.
Pensare che l’Europa sia pronta a concedere all’Italia qualsiasi cosa, anche fare altri debiti, sarebbe ingenuo. E non solo perché fare altri debiti — magari per finanziare l’estensione del reddito di cittadinanza — non è certo nell’interesse nazionale. Pure nel 2011 la Merkel, Sarkozy, Obama e i mercati guardavano con favore all’avvento di un nuovo governo in Italia. Eppure non fu una passeggiata.
Rispetto ad allora il contesto è mutato. Non c’è una bufera finanziaria in corso. La Germania sembra essersi convinta che l’Europa non uscirà dalla crisi senza la politica espansiva che l’America ha scelto da tempo. In mezzo ci sono stati gli anni di Draghi, con la Lagarde che annuncia di volersi muovere sulla stessa rotta. Però l’economia italiana è ferma. Il Paese cresce poco e male, nonostante la resistenza dei suoi imprenditori e dei suoi lavoratori. L’insicurezza legata alla globalizzazione, il risentimento per la perdita di sovranità, l’insofferenza per le migrazioni incontrollate non sono state sanate miracolosamente dall’autogol di Salvini, dalla faticosa trattativa tra Pd e 5 Stelle, dal plebiscito di Rousseau e dalla fiducia che il nuovo governo riceverà all’inizio della prossima settimana, per il sollievo di deputati e senatori.
«Giuseppi» Conte ha già saputo guadagnarsi un credito personale in Europa. Non c’è dubbio che le istituzioni internazionali lo seguiranno con favore. Ma questo non basta. L’approvazione di Berlino e di Bruxelles può diventare un’arma di propaganda per la destra di Salvini e di Giorgia Meloni. Già in passato governi virtuosi, animati da una sincera vena riformista, si sono rivelati motori del populismo.
In questi anni i 5 Stelle sono molto cambiati. Casaleggio non c’è più. La metamorfosi di Grillo è impressionante. Di Maio e Di Battista escono ridimensionati. Eppure proprio per questo lo spirito ribelle e antisistema che ha segnato le ultime tornate elettorali può riprendere a spirare più vigoroso di prima. Il banco di prova è imminente: la legge di Bilancio. Se il governo non manterrà le generose promesse di assistenzialismo al Sud, raccoglierà dissenso e rabbia. Ma se per mantenere quelle promesse aumenterà la pressione fiscale al Nord, la reazione sarà anche peggiore.
Conte si muove su un sentiero stretto. Finora ha dimostrato notevoli capacità di mediazione. Ha saputo accattivarsi la simpatia della Merkel e di Trump, che tra loro si detestano. Lunedì però non si presenterà al Parlamento e al Paese come un mediatore, ma come un leader. Già l’altro ieri, elencando la squadra (non eccelsa) dei ministri, ha esordito dicendo: «Sarò affiancato da…». Un uomo di cui nessuno sino al giugno scorso conosceva il volto o la voce si è caricato sulle spalle una responsabilità molto grande. Il Pd non l’ha affiancato con i suoi leader, ma con le seconde e terze file. Aver negato i «pieni poteri» a Salvini non è un obiettivo di poco conto. Ma se il governo non rimetterà in moto il Paese, avrà soltanto guadagnato tempo. Allora non basteranno le congratulazioni dell’Europa, un tweet di Trump e forse neanche una nuova legge proporzionale per allontanare la tempesta.
Repubblica 6.919
Il figlio di Beppe Grillo accusato di violenza sessuale in Sardegna
Ciro, 19 anni, insieme a tre amici indagato dalla procura di Tempio Pausania dopo un presunto stupro di gruppo nella villa di Porto Cervo del comico. La denuncia di una modella scandinava ai carabinieri di Milano: sull'episodio versioni contrapposte
Il figlio di Beppe Grillo, Ciro di 19 anni, e tre amici sono indagati per una presunta violenza sessuale di gruppo, che sarebbe avvenuta nella villa del comico a Porto Cervo, dopo la denuncia di una modella di origini scandinave incontrata in una discoteca in Costa Smeralda.
La vicenda è riportata dai quotidiani "Il Secolo XIX" e "La Stampa". Secondo ciò che racconta lei, modella di origini scandinave, vent'anni ancora da compiere, si sarebbe trattato di uno stupro, forse avvenuto al termine di una notte di eccessi alcolici
Nella versione dei quattro giovani - tutti figli di imprenditori, medici e professionisti della Genova bene - il rapporto è stato consenziente. I quattro giovani ieri sono stati interrogati per ore dal magistrato Laura Bassani, pubblico ministero della Procura di Tempio Pausania, titolare del fascicolo.
Nel frattempo dai carabinieri di Milano sono stati acquisiti tutti i cellulari e un video, la cui interpretazione però non sarebbe univoca, Per la vittima dimostrerebbe la violenza, per gli avvocati difensori il contrario, e cioè che la ragazza era consenziente. I giovani si sono difesi negando ogni addebito. E i legali hanno messo in luce alcune debolezze del racconto fornito dalla ragazza alle forze dell'ordine.
Tre su tutte: il ritardo della denuncia, presentata dalla modella al suo ritorno a Milano, una decina di giorni dopo i fatti; la continuazione della vacanza per un'altra settimana e la pubblicazione di foto del viaggio sui social network, anche dopo che si sarebbe consumata la presunta violenza sessuale.
il manifesto 6.9.19
Il tribunale revoca il divieto. Ritorno a Riace per Lucano
Restiamo umani. L’ex sindaco ha potuto rivedere il padre malato a casa. Un esilio durato undici mesi
di Claudio Dionesalvi, Silvio Messinetti
Alle 16.40 del 5 settembre Mimmo Lucano ritorna nella casa di famiglia in cima alla salita che sovrasta il municipio di Riace. Dopo 300 infiniti giorni termina così il lungo e surreale esilio che una giustizia ingiusta gli aveva comminato il 16 ottobre scorso. Apparentemente più mite rispetto ai precedenti arresti domiciliari, in realtà, il confino era una misura decisamente politica che andava a intaccare alla radice il «modello Riace», allontanando coattivamente il suo artefice dal borgo multietnico. Era un’altra stagione politica, era nato il governo giallobruno e Salvini gliela aveva giurata a Lucano sin dal suo insediamento al Viminale: «Sei uno zero» gli aveva detto in pubblico. Ma ora che lo scenario nazionale è cambiato, quegli stessi giudici che avevano più volte respinto l’istanza di revoca del divieto di dimora, diventano di colpo più mansueti.
LUCANO rientra così a Riace e può accorrere al capezzale del papà malato di leucemia. Una piccola folla si è assiepata di fronte casa sin dal primo pomeriggio, una volta resa pubblica la notizia. I suoi amici, i suoi fedelissimi, la gente di Riace riabbraccia il suo sindaco. «Ora torno, fatemi andare a casa un attimo» ha gridato alle 16.25 al suo arrivo. Aveva fretta di tornare ad abbracciare il padre. «Ma davvero ti hanno liberato o è solo un permesso? Puoi rimanere qui sempre» gli ha chiesto l’anziano appena lo ha visto, quasi incredulo. Costretto a letto dopo l’ultimo ricovero all’ospedale di Catanzaro, ma lucidissimo, Roberto Lucano aspettava con ansia l’arrivo di quel figlio – «il più ribelle» specifica – che era abituato a vedere ogni giorno e che per 11 mesi ha potuto solo incontrare per qualche ora e sempre lontano da casa. «Sono qua papà, ora vedi come ti riprendi» ha continuato a ripetergli Lucano, commosso. Dopo la visita al padre durata quattro ore è uscito dall’abitazione. «Oggi mi sento come uno che ha appena riacquistato la libertà, proverò a riattivare sul posto il modello di accoglienza», ha detto al manifesto, «Quello che voglio fare stanotte – ha proseguito – è riabbracciare uno a uno gli immigrati che sono rimasti».
QUANDO la notizia lo ha raggiunto, Lucano era a Caulonia, a una manciata di chilometri da Riace. È lì, a pochi minuti di auto dal paese, in un appartamento disadorno, privo di riscaldamento che ha trascorso i mesi di esilio ed è lì che uno dei suoi avvocati gli ha ordinato di attenderlo, probabilmente per accelerare la procedura di notifica. Un passaggio tecnico per rendere esecutiva la decisione del tribunale. Corroborata anche da una petizione firmata da 90mila persone che chiedevano al presidente della Repubblica un intervento umanitario «in favore di un figlio che ha il diritto di assistere il padre morente, quindi l’immediata revoca del divieto di dimora». Lui in un’intervista a questo giornale aveva chiesto giustizia, non pietà. E un po’ di giustizia, in attesa della sentenza del processo, l’ha ottenuta. Perché non si è trattato di una deroga temporanea per motivi affettivi, ma di un vero e proprio provvedimento di revoca della misura.
L’EX SINDACO era stato esiliato dal suo comune nell’ottobre 2018, pochi giorni dopo essere finito agli arresti domiciliari con l’accusa di aver favorito l’immigrazione clandestina e commesso delle irregolarità nell’assegnazione del servizio di raccolta differenziata dei rifiuti. Un vasto movimento di sostegno si era formato intorno alla figura di Lucano ed al modello di accoglienza praticato a Riace. Il primo cittadino del borgo jonico aveva rivendicato la propria condotta, affermando il carattere puramente politico e la limpidezza delle scelte attuate da amministratore pubblico. A convertire la misura dei domiciliari in allontanamento forzato dalla propria abitazione riacese era stato il tribunale del Riesame di Reggio Calabria. L’11 giugno scorso prendeva inizio il processo che vede imputati Lucano ed altri 25 operatori impegnati per anni a Riace nell’accoglienza e nell’amministrazione comunale.
Di recente anche la corte di Cassazione ha disconosciuto la misura coercitiva del divieto di dimora, disposta dagli inquirenti del tribunale reggino. Il tormentato duello giudiziario sulla misura del «confinamento» tra legali difensori e procura si è protratto fino a ieri mattina, quando finalmente l’istanza di libertà è stata accolta.
Il processo, invece, riprenderà a fine mese dopo la pausa estiva. Siamo ancora nella fase istruttoria e lo stesso Lucano è stato già ascoltato in un’udienza fiume in cui ha chiarito ampiamente la sua posizione. Ora, intanto, si può godere il ritorno a casa.
il manifesto 6.9.19
Internazionale
«La Cina può ancora essere un’alternativa al capitalismo»
Cina. Intervista all’intellettuale cinese Mobo Gao, professore all’università di Adelaide e autore di «Constructing China»
di Simone Pieranni
Originario dello Jiangxi e oggi professore di chinese studies in Australia presso l’università di Adelaide, Mobo Gao rappresenta una delle tante anime della cosiddetta «Nuova Sinistra» cinese, termine con il quale si identifica un filone di pensiero, molto variegato al proprio interno, che tenta, attraverso un approccio multidisciplinare, di rileggere la recente storia cinese contestualizzandola rispetto alle categorie occidentali. Un parte di questo filone di autori, inoltre, si è dedicato in modo specifico al tema della Rivoluzione culturale e al suo afflato trasformativo iniziale.
Se Wang Hui e altri si sono concentrati sul concetto di modernità, per rispondere a chi ritiene che la Cina sia diventata «moderna» solo con l’arrivo del capitalismo e delle riforme di Deng, Mobo Gao pone la sua attenzione su una lettura della storia cinese capace di rendere esplicito il cortocircuito creato dagli Asian studies di matrice americana e sviluppatisi per lo più nell’epoca della guerra fredda (capaci, naturalmente di influenzare anche altri paesi, nonché l’intero sistema mediatico).
Il suo recente Constructing China, Clashing Views of the People’s Republic (Pluto Press, pp. 288, 26,99 dollari, 2018) rappresenta un ottimo sunto del metodo di Mobo Gao (il suo libro precedente, pubblicato sempre da Pluto nel 2008 si intitola The Battle for China’s Past), concentrato a ridare la «conoscenza» negata alla Cina, secondo lui, dalla storiografia occidentale. Contemporaneamente Mobo Gao offre straordinari spunti interpretativi anche della Cina attuale.
Partiamo da Hong Kong e quanto sta accadendo. La sua tesi è che sia Hong Kong sia Taiwan siano collegate al senso di identità e nazione cinese. Oggi dunque Hong Kong ci interroga ancora su «cosa è la Cina»?
Sì, penso che Deng Xiaoping sperasse che dopo 50 anni dall’handover non ci sarebbero più stati «due sistemi», perché la Cina sarebbe diventata qualcosa di molti simile, se non proprio uguale, a Hong Kong. Con l’arrivo alla presidenza di Xi Jinping però le cose sono cambiate e non poco. La sua campagna anticorruzione ha minacciato i capitalisti di entrambe le parti. In secondo luogo, collaborare di fatto con i capitalisti di Hong Kong ha significato non occuparsi delle classi inferiori con il risultato che molti cittadini dell’ex colonia britannica si sono sentiti trascurati. Bisogna capire se Xi vorrà fare qualcosa al riguardo.
In Constructing China, enfatizza il peso dei media e di molti studi occidentali nella demonizzazione della Rivoluzione culturale. A 70 anni dalla nascita della Repubblica popolare cinese, tuttavia, anche il giudizio del Pcc è negativo al riguardo (di recente è stato pubblicato un discorso di Xi Jinping nel quale l’attuale presidente ribadiva il giudizio del partito). Questo accade, perché, come lei stesso scrive, «quanto fatto da Deng dopo la morte di Mao dimostra quanto fosse reale la paura di Mao: la strada cinese al capitalismo era partita con lo smantellamento delle comuni»?
Sì, e molto altro. Certo la Rivoluzione culturale è stata distruttiva in molti modi. Ci sono state tante vittime tra i funzionari e gli intellettuali ed è davvero difficile per loro e per le loro famiglie assumere atteggiamenti più storici e più impersonali nei confronti della rivoluzione culturale; questo è comprensibile. Ma il fatto è che il capitalismo è un sistema mondiale che inghiotte tutti, compresi i membri del partito comunista cinese, perfino i suoi funzionari principali. Se leggiamo le opinioni di Zhao Ziyang (segretario del Pcc nel 1989 rimosso per le sue posizioni riformiste e di dialogo con gli studenti, ndr) espresse durante gli arresti domiciliari (e pubblicate in Prisoner of State, Simon & Schuster Ltd, 2010, ndr), possiamo accorgercene appieno. Questo è il motivo per cui il ragionamento che il socialismo non può avere successo in un paese è così ragionevole. Per quanto riguarda Xi il discorso è più complesso perché credo abbia ancora la convinzione che la vera logica del Pcc sia quella di ottenere qualcosa di meglio per il popolo. Xi a dire il vero ha anche detto che non dovremmo usare gli ultimi trent’anni della Repubblica popolare, per denigrare i primi trenta.
Oggi la Cina, seguendo il ragionamento del suo ultimo libro, sembra essere in grado, quanto meno più del passato, di dire «quello che è giusto» e «quello che è sbagliato». Ma quale immagine della Cina il Pcc è pronto a svelare al mondo?
Non vi è consenso al riguardo. La maggior parte dei leader del Pcc è senza idee e ideali di questi tempi. Stanno lì per fare carriera. Wang Qishan, Xi Jinping e forse Li Keqiang potrebbero avere alcune idee per rispondere alla domanda. L’articolazione più esplicita è dello stesso Xi: cercare il destino comune dell’umanità (renlei gongtong mingyun) trovando un terreno condiviso, mettendo da parte le differenze per la coesistenza e lo sviluppo pacifici, da cui nasce l’idea della Nuova via della seta. Si suppone che questo sia valido (consentendo differenze) sia a livello internazionale sia a livello di politica interna.
Qual è la differenza che si avvicina alla Cina tra ciò che lei chiama «Conoscenza» e «Atteggiamento»?
La produzione di conoscenza dell’umanità al momento è dominata dall’Occidente e dal capitalismo. L’élite intellettuale cinese in gran parte è inserita in questo sistema di produzione. L’atteggiamento nei confronti della Cina è particolarmente duro perché né la sinistra né la destra trovano la Cina accattivante. La sinistra ritiene la Cina troppo capitalista e la destra troppo comunista. Inoltre vi sono atteggiamenti razzisti nei confronti della Cina. La conoscenza rafforza l’atteggiamento e l’atteggiamento induce un certo tipo di produzione di conoscenza. Si nutrono a vicenda.
Durante il decennio di Hu Jintao c’era la sensazione che la Cina potesse cambiare, intendo, non in senso democratico, ma nel senso di una maggiore attenzione alla ridistribuzione e alle distorsioni dello sviluppo. Poi tutto è parso fermarsi. Perché?
C’è stato un cambiamento molto positivo: l’abolizione di qualsiasi tipo di tasse agricole. È stata la prima volta nell’intera storia della Cina da oltre duemila anni. Hu probabilmente voleva fare di più, ma era troppo debole. Non sappiamo quale fosse la politica che si celava dietro il muro rosso di Zhongnanhai (il quartier generale del Pcc, ndr), ma suppongo che il motivo principale sia da ritrovare nell’interesse acquisito di tanti settori, un interesse autoprotettivo che ha fatto sì che i desiderata politici rimanessero all’interno del complesso di Zhongnanhai in quel momento. Ho il sospetto che Xi abbia voluto creare tanti piccoli gruppi politici sotto la sua guida proprio per questo motivo. Penso che sia la sua soluzione per aggirare i vari ostacoli ministeriali per l’attuazione delle politiche. Quello che chiamo «interesse acquisito» è il mondo delle imprese statali, dei principini (una fazione all’interno del Pcc composta da figli e parenti di funzionari del Pcc ndr) e dei comprador.
Cosa pensa dell’uso di Xi Jinping di Mao?
Ha la convinzione che il Pcc dovrebbe e potrebbe servire meglio la Cina e il popolo cinese. Il suo insistere sul concetto di chuxin («l’aspirazione originaria») non è solo retorica ma un vero tentativo di ripristinare lo spirito e la legittimità del Partito comunista.
In Cina, anche a causa della Nuova via della seta, si è riacceso un dibattito sul concetto di Tianxia. Cosa ne pensa di questo? In che modo questo concetto può aiutare la Cina a proporre una governance globale?
Posso capire l’intenzione del dibattito ma non credo che sia un concetto utile in questo mondo. Il «destino comune attraverso lo sviluppo pacifico» penso sia un concetto più accettabile al di fuori della Cina. Tianxia implica un centro e una gerarchia. Questo non è un concetto che risulta accettabile nel mondo moderno.
In Italia è stato appena pubblicato «Il modello cinese» di Daniel A. Bell. Cosa pensa del libro innanzitutto? Non ritiene che il contrasto tra democrazia e meritocrazia sia limitante, perché è inserito in una logica capitalista, senza immaginare altre possibilità? E ancora: un modello cinese può essere in grado di differenziarsi dall’evoluzione del capitalismo occidentale?
Bell ha il merito di mostrare che le elezioni non dovrebbero essere l’unico criterio di legittimità con cui valutare un paese. Finora quella di Bell è l’unica voce disposta a combattere contro il discorso politico dominante in Occidente ed è stato preso sul serio. Si tratta di un risultato enorme. Ma ha dei limiti, in effetti. Poi sul fatto che esista o meno un modello cinese in grado di fornire un’alternativa non è una discussione che ha ancora portato a una risposta definitiva, che forse neanche può esserci. Dipenderà da due fattori principali: se la Cina sarà in grado di risolvere le sue contraddizioni e i suoi enigmi interni e fino a che punto l’Occidente vorrà strangolare la Cina prima che la Cina abbia successo.
È in corso da tempo ormai uno straordinario impegno tecnologico della Cina, a proposito di Big Data, Intelligenza Artificiale, crediti sociali. E sembra che la Cina sia sulla stessa strada dei paesi occidentali verso uno «stato di sorveglianza» all’interno di un mondo caratterizzato dal «capitalismo di sorveglianza». Cosa ne pensa di questo? E quanto è importante la storia cinese in questo scenario di controllo sociale (penso ad esempio al sistema baojia o all’organizzazione dei quartieri più recente)?
Sì, questo è preoccupante per le persone come noi che sono individualiste e autonome. Ma potrebbero non essere così minaccioso, almeno non ancora, per molti in Cina. Per loro se obbediscono alle regole e alle leggi non ci saranno problemi, non importa quanto siano sotto sorveglianza. Per alcuni questo è positivo per la sicurezza personale. Questo è l’atteggiamento adottato da molti in Cina nei confronti del cosiddetto esperimento di credito sociale. In Cina al momento è difficile far rispettare qualsiasi norma e regolamento, anche quelli con le migliori intenzioni. Nella Cina tradizionale invadere la libertà personale e la privacy non era in generale un problema sociale perché la tradizione ne sottolineava l’obbligo, le responsabilità reciproche e le relazioni reciproche. Ora la Cina è cambiata troppo perché le persone non si preoccupino dello spazio personale. Quindi ritengo che questo potrà essere un problema in futuro.
https://spogli.blogspot.com/2019/09/sullimmagine-per-renderla-leggibile-il.html
giovedì 5 settembre 2019
il manifesto 5.9.19
Hong Kong, l’annuncio di Carrie Lam: «Ritiro la legge sull’estradizione»
Hong Kong. Scelta tardiva ma che risponde alla prima richiesta dei manifestanti. Solo che da giugno le proteste sono diventate ben altra cosa e le richieste sono ormai molte di più
Il messaggio in televisione di Carrie Lam a Hong Kong
di Simone Pieranni
Con un messaggio televisivo la governatrice di Hong Kong Carrie Lam ha annunciato il ritiro del disegno di legge sulle estradizioni. Si tratta del provvedimento all’origine delle proteste che da inizio giugno hanno caratterizzato l’ex colonia britannica.
È una decisione tardiva ma che finisce per aprire nuovi scenari nella città, considerando che il ritiro della legge era la prima richiesta dei manifestanti. Il problema, oltre al tempismo, è che nel tempo le proteste hanno assunto nuove forme finendo per presentare al governo nuove richieste. CARRIE LAM NEL SUO MESSAGGIO ha parlato anche degli altri quattro punti che al momento rendono molto distanti le parti. Per quanto riguarda la richiesta di un’indagine trasparente e imparziale sulle violenze della polizia durante le manifestazioni la governatrice ha detto che verrà avviata un’inchiesta da parte degli organi preposti a controllare il lavoro della polizia.
Per quanto riguarda la richiesta di una completa amnistia in grado di consentire la liberaazione gli arrestati, la risposta di Lam è stata l’unica netta e senza appello: no.
Sulla richiesta di non catalogare le manifestazioni come «sommosse», Lam ha precisato che il giudizio politico su quanto successo non influenzerà il lavoro della magistratura, mentre sulla richiesta di suffragio universale la governatrice ha confermato che è previsto dalla costituzione, specificando però che richiede un dialogo in altre condizioni ambientali.
Al termine del suo messaggio si possono fare alcune valutazioni, tenendo conto che in questo scenario non ci sono solo Carrie Lam e i manifestanti ma anche Pechino.
LA DECISIONE DI RITIRARE il disegno di legge può essere vista, innanzitutto, come una astuta mossa strategica: di fatto Lam toglie dalle parole d’ordine dei manifestanti il punto all’origine della protesta.
Può essere che molti si possano ritenere soddisfatti, rompendo così il fronte unitario delle proteste. Analogamente questa decisione potrebbe anche andare bene a Pechino: la Cina a questo punto potrebbe giustificare decisioni più pesanti, come la proclamazione dello stato d’emergenza, nel caso le manifestazioni continuassero nel loro virulento attacco alle autorità cittadine e a quelle cinesi.
LO SCOPO DELLA MOSSA di Lam, dunque, potrebbe essere quello di dividere i manifestanti.
Naturalmente c’è anche un altro scenario: Lam sembra ormai molto più di un’anatra zoppa, ha di sicuro perso la fiducia di Pechino e potrebbe aver preso la decisione senza avere un via libera ufficiale dalla Cina. È un’ipotesi piuttosto improbabile ma non impossibile. In questo caso Pechino potrebbe smentirla e costringerla alle dimissioni, decidendo così di procedere nel modo più duro. La stessa Lam nell’audio pubblicato da Reuters due giorni fa assicurava un gruppo di businessmen che Pechino non avrebbe intenzione di schierare l’esercito, ma a questo punto tutto cambia.
Altra suggestione: il primo ottobre si celebrano i 70 anni della Repubblica popolare e può essere che la Cina abbia chiesto a Lam di stringere sui tempi, per verificare le condizioni di celebrazioni «sobrie ma solenni» come le ha definite la stessa governatrice.
IL QUADRO DIVENTA ancora più complesso se andiamo ad analizzare le reazioni che potrebbe suscitare l’annuncio di Lam tra i manifestanti. Il movimento si è sempre dichiarato senza capi e orizzontale eppure alcune organizzazioni sembrano più protagoniste di altre, come ad esempio quella di Joshua Wong giovane leader che pare essere piuttosto incauto nel gestire la propria notorietà (si è fatto fotografare con esponenti americani, un fatto che non gioca a favore del resto delle proteste).
DATE QUESTE PREMESSE, benché Lam abbia preso una decisione tardiva, sarebbe interesse di chi protesta riconoscere rappresentanti in grado di cogliere la palla al balzo e gestire un livello di dialogo che ora come ora appare possibile, benché non sia scontato.
La fiducia in Lam è tragicamente ai minimi storici e in pochi ritengono ci si possa fidare delle sue parole (come confermano le reazioni in gran parte negativi dei manifestanti sui loro canali di comunicazione), ma ora sembra arrivato il momento della politica. E della capacità di unire alle richieste già note, anche una chiara visione «sociale» di come tutti questi giovani immaginano il futuro di Hong Kong.
Il Sole 24 Ore Domenica 1.9.19
L’illusione della cura
Psichiatria . È la specialità medica con le più flebili basi scientifiche ed è costruita quasi solo sull’esperienza clinica. Come mai non si trova un modello biologico della malattia mentale?
di Gilberto Corbellini
La psichiatria è la specialità medica con le più flebili basi scientifiche. Gli psichiatri usano quasi solo l’esperienza clinica e nessuna scienza per provare a d aiutare persone che pagano pesanti sofferenze psicologiche alla lotta per l’esistenza. Due libri diversamente interessanti discutono il problema di fondo della psichiatria: perché non si trova un modello biologico della malattia mentale, e quali sono state o sono le conseguenze per i malati della mancanza di modelli eziologici delle malattie mentali? Stante che tale mancanza è dovuta alla complessità del cervello, nondimeno consente ai cosiddetti terapeuti di millantare un accesso alla mente malata usando teorie e pratiche pseudoscientifiche, del tipo di quelle psicodinamiche.
Ann Harrington racconta in modo avvincente e chiaro una storia della psichiatria negli ultimi centocinquant’anni dalla quale emerge una sorta di dialettica tra gli approcci biologici e quelli psicodinamici alla malattia mentale. Alla fine dell’Ottocento, la ricerca di un modello anatomofisiologico della malattia mentale si era ispirata alla paralisi progressiva (neurosifilide), dove il deragliamento mentale era causato da un’infezione batterica. Ne derivò l’idea che si dovesse aggredire il cervello e la diffusione di terapie somatiche come malarioterapia, insulinoterapia, elettroshock, per arrivare al tragico traguardo della lobotomia.
Dietro a quelle “cure disperate” c’era la pericolosa illusione di aver trovato le sedi o le cause dei disturbi psichiatrici. I neuropsichiatri si svegliarono dal sonno della ragione quando, nel nuovo clima morale che condannava gli abusi dei medici perpetrati in nome delle ideologie eugeniche, anche contro i malati di mente, arrivarono gli psicofarmaci. Questi resero accessibili alla comunicazione cervelli fino a quel momento controllabili solo da camicie di forza fisiche. La nuova ecologia umanitaria, consentita anche dal successo della psicoanalisi negli Stati Uniti, lasciava il campo ai modelli psicodinamici, sempre privi di basi scientifiche, ma che grazie alle nuove «camicie di forza chimiche» (così le anime belle chiamavano gli psicofarmaci) conducevano a una gestione politica della psichiatria: il DSM era la nuova costituzione e cosa fosse scientifico o meno lo si metteva ai voti (così l’omosessualità fu espunta del DSM).
Come osserva la Harrington, le credenze pseudoscientifiche delle dottrine psicodinamiche portarono a cercare le cause delle malattie mentali fuori dal cervello, trasformando i malati, i loro parenti e la società in capri espiatori. Le manifestazioni più deteriori di tali settarie credenze furono i movimenti antipsichiatrici, che negavano l’esistenza della malattia mentale.
Negli anni Settanta e Ottanta, racconta Harrington, veniva riproposta una psichiatria fondata sulla biologia, e che cercava di offrire ai pazienti e ai loro parenti un punto di vista laico. Emergevano modelli biochimici della malattia mentale, che comunque lasciavano a desiderare e il DSM cominciava girare a vuoto. La situazione rimane incerta. La Harrington sostiene che la storia della psichiatria consiglia agli psichiatri di «fare della modestia una virtù», evitando di medicalizzare condizioni non serie per concentrarsi solo sulle malattie più gravi. Improbabile che seguiranno il suggerimento.
Alla storica statunitense è sfuggito il caso di Thomas Insel, giunto nel 2002 agli NIH proprio per mettere la psichiatria su più solide basi biologiche e clinico-metodologiche, e che nel 2015 se ne andava a Google, e quindi nel 2017 fondava la start up Mindstrong con l’obiettivo di usare l’Intelligenza Artificiale per costruire una «psichiatrica di precisione». È l’unica concreta speranza. già oggi. Gli algoritmi sono già molto più efficaci degli psichiatri per monitorare la condizione clinica dei pazienti. E in taluni casi sono equivalenti anche come psicoterapeuti.
Anche Bullmore pensa che la psichiatria manchi tragicamente di marker biologici della malattia mentale, ma pare un po’ troppo ossessionata da Descartes, al cui dualismo mente/corpo attribuisce il ritardo scientifico dello studio delle malattie mentali. Sarebbe comodo. La sua idea è che le malattie mentali siano causate da infiammazioni, cioè da reazioni immunitarie contro infezioni per cui citochine e macrofagi aggredirebbero anche la rete nervosa che sostiene le precarie architetture cognitive ed emotive del cervello. In prospettiva, potremmo aspettarci di curare depressione e schizofrenia con antinfiammatori. L’idea non è così originale.
Negli anni Venti andava di moda una teoria igienica o batteriologica della malattia mentale di cui fu leader il medico Henry Cotton, che trattava chirurgicamente i disturbi mentali asportando a persone sane organi che erano ricettacoli di infezioni, come il colon, i denti, l’appendicite, etc. Una vicenda triste, ripresa anche nella serie The Knick. Gli anti-infiammatori sono meno rischiosi. L’ipotesi che sistema nervoso e sistema immunitario dialoghino funzionalmente risale a metà anni venti (ma Bullmore sembra ignorarlo), quando si riuscì a condizionare pavlovianamente la risposta immunitaria, in modo non specifico. Ora si immagina che sia sistema immunitario a condizionare il comportamento e causarne le degenerazioni patologiche. Bullmore ritiene evolutivamente plausibile l’idea, in quanto ad esempio se una risposta immunitaria contro un agente infettivo causasse anche la depressione, la conseguenza sarebbe che l’individuo non andrebbe in giro a infettare gli altri. Suggestivo, ma poco credibile. Le infezioni dei nostri antenati dediti a caccia e raccolta erano assai poco contagiose.
Il Sole 24 Ore Domenica 1.9.19
Filosofia politica
Com’è pericoloso il referendum popolare!
di Sebastiano Maffettone
Albert Weale, professore emerito di political theory e public policy presso l’University College London, ha scritto un libro polemico su un tema che sta molto a cuore sia agli italiani che agli inglesi. Si tratta, manco a dirlo, del populismo, trattato qui alla maniera di un mito del nostro tempo, come del resto si evince dal titolo che suona ironicamente The Will of the People e dal sottotitolo invece esplicito The Modern Mith.
Il libro è breve, l’intento è divulgativo, la scrittura è piana, c’è un evidente tentativo di semplificazione, ma il tono argomentativo è sempre sostenuto. La tesi principale è che non bisognerebbe confondere un governo democratico con un governo populista. Là dove nel primo caso, virtuoso, il popolo controlla e seleziona la classe politica, mentre nel secondo, pericoloso, si pretende che il popolo governi direttamente. È anche ovvio che nella pratica la distinzione è sottile, e che la confusione in materia regni sovrana. Ma è cosa grave, sostiene Weale, che i filosofi politici non la chiariscano e la denuncino.
Il libro è diviso in otto piccoli capitoli, i primi dei quali hanno l’intento di smontare il mito del populismo e gli ultimi invece diretti a rifondare lo spirito democratico in nome di un’etica della responsabilità. L’idea di una «volontà popolare» -sostiene l’autore- in quanto tale è vaga e imprecisa, mentre più chiara è la lettura che ne danno i populisti. Per questi ultimi, la democrazia rappresentativa tradizionalmente intesa non può funzionare perché le élites si sono impossessate del potere. Naturalmente, il corollario di questa tesi è -sempre per i populisti- che se il popolo si rimpossessasse del potere perduto, tutto tornerebbe in ordine. Questa è la sostanza del mito populista, ammantato tra l’altro di un profumo romantico e nostalgico, che Weale vuole smantellare.
La prima ragione per farlo consiste nella vaghezza del termine «popolo», sotto cui si cela un pluralismo di individui e opinioni non riducibile a unità. Il popolo come entità immaginaria si crea infatti per esclusione, discriminando i migranti, gli stranieri, i diversi, quelli di un’altra razza. Per i populisti, il pluralismo delle opinioni può, come sappiamo, essere risolto applicando sistematicamente il principio di maggioranza. Qui Weale può mostrare le ambiguità nascoste sotto questo principio, e l’impossibilità di applicarlo al di fuori di una precisa regola costituzionale. D’altronde proteggere le minoranze costituisce parte integrante della democrazia liberale. E Weale è abile a mettere in evidenza, -con un tour de force logico- come essere outnumbered (cioè minoritari) non equivalga a avere torto. Sulla scorta di tale argomento, il libro rivela anche i pericoli insisti nell’idea e nella pratica dei referendum. In conclusione, pluralismo contro populismo e liberal-democrazia versus democrazia diretta. E’ persino ovvio che la tempesta Brexit abbia influenzato questo tipo di conclusione. Ma come non pensare in maniera simile anche a casa nostra?
The Will of the People:
A Modern Myth
Albert Weale
Polity Press, Cambridge UK,
pagg. 121, £ 9.71
Il Sole 24 Ore Domenica 1.9.19
Storia delle esposizioni. Un libro ripercorre i retroscena della rassegna che si tenne a Milano nel 1951 a cura di Roberto Longhi. E propone immagini inedite dell’allestimento
La mostrissima di Caravaggio
di Marco Carminati
Nessuna delle numerose mostre su Caravaggio, che si sono susseguite negli ultimi settant’anni nel mondo, è mai riuscita ad eguagliare quella che si tenne a Palazzo Reale di Milano tra aprile e giugno del 1951. Una rassegna divenuta leggendaria per lo spessore critico (la curò Roberto Longhi, il più grande esegeta di Caravaggio), per la quantità delle opere esposte (oggi impensabile visti i vincoli dei prestiti) e per l’imponente successo di pubblico, non previsto dagli stessi organizzatori. Ma soprattutto perché quell’esposizione avviò la travolgente fortuna moderna dell’artista.
Ma che cosa ci rimane oggi di quell’evento epocale? Qualcuno dei 400mila visitatori che videro la rassegna è ancora felicemente in vita, e dall’alto dei suoi ottanta/novant’anni può forse conservare un nitido ricordo della manifestazione. Poi ci rimane un resoconto scritto di Gian Alberto Dell’Acqua (1952) e soprattutto il catalogo della rassegna, pubblicato da Sansoni in due edizioni leggermente diverse, che tuttavia riporta le schede dei quadri in ordine alfabetico, dunque non permette in alcun modo di ricostruire la disposizione delle opere nelle sale.
A questo proposito esiste qualche rara fotografia d’allestimento scattata da Fedele Toscani, il padre di Oliviero. Ma ora, con il fortunato ritrovamento nell’Archivio Alinari di Firenze di 70 lastre fotografiche scattate da Vincenzo Aragozzini nella mostra milanese, viene offerta la possibilità di documentare in modo assai più vasto e chiaro l’allestimento che Roberto Longhi ideò per far conoscere agli italiani e al mondo la grandezza di Caravaggio. Va detto che delle 70 lastre recuperate, solo 10 allargano di fatto l’obiettivo sulle sale allestite. Ma il recupero del prezioso materiale ha spronato Patrizio Aiello a ricostruire l’intera storia della mitica esposizione, ripercorrendo le vicende, i retroscena e gli ambienti di quell’evento effimero a quasi settant’anni di distanza. Ne è sortito un libro austero nella veste esterna (forse troppo) ma internamente smagliante per ricchezza di informazioni, riflessioni e immagini. Un libro dal quale conviene farsi guidare.
Il testo evoca, come prima cosa, l’euforico clima in cui germinò l’evento: una Milano piena di fiducia e in ripresa dopo i disastri della guerra. L’invito a pensare a una mostra su Caravaggio venne infatti dal sindaco della città, Antonio Greppi, che nel 1949 istituì un comitato promotore chiamando a raccolta Roberto Longhi, Giulio Carlo Argan, Rodolfo Pallucchini, Matteo Marangoni, Mario Salmi e Lionello Venturi, mentre nel comitato esecutivo vennero nominati, tra gli altri, Fernanda Wittgens, Costantino Baroni e Gian Alberto Dell’Acqua. Per l’allestimento si indicò inizialmente il nome di Franco Albini. A scegliere la sede di Palazzo Reale non fu Longhi come vuole la vulgata ma il comitato, che lo fece per ribadire che quel Palazzo «ex Reale» (la cui destinazione d’uso era allora ancora incerta) dovesse diventare sede preposta agli eventi espositivi.
Nel ’49 la macchina organizzativa si mise in moto e si stilarono i primi elenchi di opere di Caravaggio e dei caravaggeschi da chiedere in prestito (ottanta al primo conteggio, poi arriveranno al doppio). Nelle intenzioni la mostra si sarebbe dovuta tenere tra aprile e ottobre del 1950, ma sorse subito un grande impedimento: la proclamazione dell’Anno Santo. Si capì al volo che le grandi tele di Caravaggio collocate nelle chiese di Roma, richieste tutte in prestito per la mostra, non avrebbero mai lasciato i loro altari durante il Giubileo. Meglio posticipare l’evento di un anno.
Con più tempo a disposizione, l’elenco dei prestiti lievitò e con esso i costi (a coprire i quali diede una mano nientemeno che il giovane sottosegretario Giulio Andreotti). Le trattative per i prestiti (condotte quasi sempre dalla granitica Fernanda Wittgens) si rivelarono in alcuni casi estenuanti. La Francia non voleva cedere la Morte della Vergine del Louvre, e per tentare di ottenerla si mise di mezzo persino il nunzio apostolico a Parigi, Angelo Giuseppe Roncalli, il futuro papa Giovanni XXIII. Ma la Francia non cedette. Altra assenza clamorosa fu la Deposizione Vaticana. Stavolta fu monsignor Giovanni Battista Montini (il futuro papa Paolo VI) a negare il prestito, anche se offrì in cambio un arazzo dell’Ottocento riproducente il quadro di Caravaggio. Longhi rispose risentito: «No, grazie».
A rendere ulteriormente complessa la macchina organizzativa ci si misero anche le forti rivalità tra i componenti del comitato. Come è noto, Longhi e Venturi non solo si detestavano cordialmente ma divergevano nettamente sull’interpretazione e sulla cronologia di Caravaggio. E neppure tra Argan e Longhi correva buon sangue. Insomma, queste rivalità intestine incisero(come incisero i prestiti negati) sul tracciato della mostra, sulla disposizione dei quadri nelle sale e persino sull’allestimento. Franco Albini venne infatti sostituito con lo Studio BBPR, che a sua volta venne sostituito con un terzo allestitore assai meno noto, il soprintendente Luigi Crema.
Comunque, quasi miracolosamente, tutto si compose in occasione del taglio del nastro il 21 aprile 1951, alla presenza del presidente delle Repubblica Giovanni Gronchi. Si notò l’assenza del presidente del consiglio Alcide De Gasperi bloccato a Roma per presenziare ai funerali di Ivanoe Bonomi (ma per lui e la famiglia si allestì un secondo vernissage il 26 aprile). Gronchi, De Gasperi e gli altri 400 mila visitatori che li seguirono (tra cui spiccò il giovane Giovanni Testori) poterono ammirare la mostra sistemata nelle 20 sale al piano nobile del Palazzo: 6 sale dedicate a 44 capolavori di Caravaggio, 11 sale ai maestri caravaggeschi e 3 sale i precedenti di Caravaggio, ai documenti e alle copie. Completava l’offerta un disimpegno d’ingresso con piccolo book shop, e un elegante bar. Bene, adesso, con il libro di Patrizio Aiello alla mano possiamo metterci in coda anche noi.
CARAVAGGIO 1951
Patrizio Aiello
Officina Libraria, MIlano, pagg. 224.
€ 20. Con prefazione di Giovanni Agosti e postfazione di Jacopo Stoppa
Jacobin 1.9.19
Lo psicodramma della Brexit
di Dawn Foster
La regina chiuderà il Parlamento, su richiesta di Boris Johnson, impedendo ai parlamentari di fermare un'uscita dall'Ue non concordata. La sinistra può raccontare una storia più grande della semplice alternativa tra Leave e Remain
È da quando Boris Johnson si è insediato a Downing Street che girano voci sul progetto dei conservatori di adottare la misura che permette di sospendere i lavori del parlamento britannico, chiudendolo di fatto per più di un mese, per evitare che i parlamentari impediscano un’eventuale forzatura di Johnson verso una Brexit non concordata. I rumors hanno preso consistenza quando una banda di varie persone tra cui Jacob Rees-Mogg è andata a trovare la regina in uno dei suoi numerosi castelli, a Balmoral, per chiederle di procedere con lo stop.
Immediatamente dopo l’annuncio, sulla politica britannica si è scatenato il caos. Addirittura un gruppo anti-Brexit chiamato “Best for Britain” ha rilasciato una dichiarazione molto strana che ricordava alla regina d’Inghilterra la storia del regicidio: «Non ha senso che la Regina sostenga questa manovra profondamente antidemocratica, incostituzionale e interessata da parte del governo. Quando le è stato chiesto aiuto avrebbe fatto bene a ricordare che la storia non guarda con benevolenza ai reali che contribuiscono alla sospensione della democrazia». Non c’è dubbio che il Regno Unito abbia perso la testa già dal 2016, subito dopo il referendum, ma fino a ieri non si era ancora arrivati al punto di sentire dei centristi che minacciano di tagliarla alla monarca, la testa.
Perché i conservatori stanno facendo tutto questo? Nei giorni scorsi i partiti dell’opposizione avevano parlato di possibili soluzioni comuni da adottare per sfuggire al rischio sempre più concreto di una Brexit non concordata. E la prospettiva di formare una coalizione anti-Brexit si era fatta credibile dopo che i liberaldemocratici e i cosiddetti hardcore Remainers avevano capito che il loro continuo accusare Jeremy Corbyn di essere un Brexiter non aveva alcuna presa sul pubblico e conveniva cambiare strategia. Adesso, la sospensione del parlamento blocca ogni tentativo dell’opposizione di impedire che la Gran Bretagna si catapulti fuori dall’Europa senza nessun accordo, con tutto l’incubo logistico che ne deriva.
Ai sensi della legge sui lavori parlamentari, chiamata Fixed Term Parliament Act e adottata dal governo di coalizione tra conservatori e liberaldemocratici nel 2011, solo il governo può sciogliere il parlamento per andare a elezioni, ma la sospensione rimane una prerogativa reale. Ora, nonostante la loro pretesa di essere l’unico partito a combattere davvero contro la Brexit (posizione che ogni altro partito di opposizione considererebbe una sciocchezza), i LibDem dovrebbero ammettere di aver avuto un ruolo determinante nel provocare questa situazione. Infatti hanno accettato nel 2010 di far passare questa legge in cambio di un pizzico di potere, per entrare in coalizione con i tories.
Negli ultimi giorni i conservatori hanno attinto pesantemente al manuale della campagna per il Leave orchestrata dal miliardario Aaron Banks e dall’attuale capo del nuovo Brexit Party Richard Tice. I tories stanno chiaramente cercando di trattenere i voti che hanno preso ai rivali del Brexit Party scimmiottando le loro stesse tattiche, e si preparano a ripetere lo show alle prossime, e probabilmente incombenti, elezioni politiche.
Per la sinistra, questo significa anche che le elezioni si giocheranno esclusivamente attorno al tema Brexit, con gli elettori del Leave che verranno istruiti sul “tradimento” della “casta” dei politici di Westminster, indifferenti ai desideri della piccola maggioranza che ha votato per uscire dall’Unione europea. Questa è la grande scommessa dei conservatori. I laburisti, nel frattempo, dovranno accrescere i loro punti di forza: produrre un manifesto che non si soffermi troppo sulla Brexit e sul passato, ma proponga invece la visione di un futuro diverso, di un’economia diversa, di una vita diversa per gli elettori, i loro figli, le loro comunità.
Attualmente le voci più forti continuano a essere quelle degli elettori marginali ossessionati dalla Brexit, che dividono l’intero paese sulla linea dell’opposizione tra il Leave e il Remain e considerano questo psicodramma una guerra culturale. La maggior parte dei britannici, invece, non sono così estremi come vorrebbe la visione della Brexit che hanno mass media e classe politica. Sono, piuttosto, sinceramente preoccupati delle loro vite, dei luoghi che abitano e del futuro del paese. I conservatori condurranno una campagna straordinariamente negativa, incentrata esclusivamente sulla Brexit; i laburisti e la sinistra possono raccontare una storia più grande e catturare elettori da entrambi i lati del guado.
*Dawn Foster, staff writer di Jacobin, è anche editorialista per il Guardian, ha scritto Lean Out. Questo articolo è uscito su Jacobinmag.com. La traduzione è di Riccardo Antoniucci.
https://spogli.blogspot.com/2019/09/il-manifesto-5.html
Hong Kong, l’annuncio di Carrie Lam: «Ritiro la legge sull’estradizione»
Hong Kong. Scelta tardiva ma che risponde alla prima richiesta dei manifestanti. Solo che da giugno le proteste sono diventate ben altra cosa e le richieste sono ormai molte di più
Il messaggio in televisione di Carrie Lam a Hong Kong
di Simone Pieranni
Con un messaggio televisivo la governatrice di Hong Kong Carrie Lam ha annunciato il ritiro del disegno di legge sulle estradizioni. Si tratta del provvedimento all’origine delle proteste che da inizio giugno hanno caratterizzato l’ex colonia britannica.
È una decisione tardiva ma che finisce per aprire nuovi scenari nella città, considerando che il ritiro della legge era la prima richiesta dei manifestanti. Il problema, oltre al tempismo, è che nel tempo le proteste hanno assunto nuove forme finendo per presentare al governo nuove richieste. CARRIE LAM NEL SUO MESSAGGIO ha parlato anche degli altri quattro punti che al momento rendono molto distanti le parti. Per quanto riguarda la richiesta di un’indagine trasparente e imparziale sulle violenze della polizia durante le manifestazioni la governatrice ha detto che verrà avviata un’inchiesta da parte degli organi preposti a controllare il lavoro della polizia.
Per quanto riguarda la richiesta di una completa amnistia in grado di consentire la liberaazione gli arrestati, la risposta di Lam è stata l’unica netta e senza appello: no.
Sulla richiesta di non catalogare le manifestazioni come «sommosse», Lam ha precisato che il giudizio politico su quanto successo non influenzerà il lavoro della magistratura, mentre sulla richiesta di suffragio universale la governatrice ha confermato che è previsto dalla costituzione, specificando però che richiede un dialogo in altre condizioni ambientali.
Al termine del suo messaggio si possono fare alcune valutazioni, tenendo conto che in questo scenario non ci sono solo Carrie Lam e i manifestanti ma anche Pechino.
LA DECISIONE DI RITIRARE il disegno di legge può essere vista, innanzitutto, come una astuta mossa strategica: di fatto Lam toglie dalle parole d’ordine dei manifestanti il punto all’origine della protesta.
Può essere che molti si possano ritenere soddisfatti, rompendo così il fronte unitario delle proteste. Analogamente questa decisione potrebbe anche andare bene a Pechino: la Cina a questo punto potrebbe giustificare decisioni più pesanti, come la proclamazione dello stato d’emergenza, nel caso le manifestazioni continuassero nel loro virulento attacco alle autorità cittadine e a quelle cinesi.
LO SCOPO DELLA MOSSA di Lam, dunque, potrebbe essere quello di dividere i manifestanti.
Naturalmente c’è anche un altro scenario: Lam sembra ormai molto più di un’anatra zoppa, ha di sicuro perso la fiducia di Pechino e potrebbe aver preso la decisione senza avere un via libera ufficiale dalla Cina. È un’ipotesi piuttosto improbabile ma non impossibile. In questo caso Pechino potrebbe smentirla e costringerla alle dimissioni, decidendo così di procedere nel modo più duro. La stessa Lam nell’audio pubblicato da Reuters due giorni fa assicurava un gruppo di businessmen che Pechino non avrebbe intenzione di schierare l’esercito, ma a questo punto tutto cambia.
Altra suggestione: il primo ottobre si celebrano i 70 anni della Repubblica popolare e può essere che la Cina abbia chiesto a Lam di stringere sui tempi, per verificare le condizioni di celebrazioni «sobrie ma solenni» come le ha definite la stessa governatrice.
IL QUADRO DIVENTA ancora più complesso se andiamo ad analizzare le reazioni che potrebbe suscitare l’annuncio di Lam tra i manifestanti. Il movimento si è sempre dichiarato senza capi e orizzontale eppure alcune organizzazioni sembrano più protagoniste di altre, come ad esempio quella di Joshua Wong giovane leader che pare essere piuttosto incauto nel gestire la propria notorietà (si è fatto fotografare con esponenti americani, un fatto che non gioca a favore del resto delle proteste).
DATE QUESTE PREMESSE, benché Lam abbia preso una decisione tardiva, sarebbe interesse di chi protesta riconoscere rappresentanti in grado di cogliere la palla al balzo e gestire un livello di dialogo che ora come ora appare possibile, benché non sia scontato.
La fiducia in Lam è tragicamente ai minimi storici e in pochi ritengono ci si possa fidare delle sue parole (come confermano le reazioni in gran parte negativi dei manifestanti sui loro canali di comunicazione), ma ora sembra arrivato il momento della politica. E della capacità di unire alle richieste già note, anche una chiara visione «sociale» di come tutti questi giovani immaginano il futuro di Hong Kong.
Il Sole 24 Ore Domenica 1.9.19
L’illusione della cura
Psichiatria . È la specialità medica con le più flebili basi scientifiche ed è costruita quasi solo sull’esperienza clinica. Come mai non si trova un modello biologico della malattia mentale?
di Gilberto Corbellini
La psichiatria è la specialità medica con le più flebili basi scientifiche. Gli psichiatri usano quasi solo l’esperienza clinica e nessuna scienza per provare a d aiutare persone che pagano pesanti sofferenze psicologiche alla lotta per l’esistenza. Due libri diversamente interessanti discutono il problema di fondo della psichiatria: perché non si trova un modello biologico della malattia mentale, e quali sono state o sono le conseguenze per i malati della mancanza di modelli eziologici delle malattie mentali? Stante che tale mancanza è dovuta alla complessità del cervello, nondimeno consente ai cosiddetti terapeuti di millantare un accesso alla mente malata usando teorie e pratiche pseudoscientifiche, del tipo di quelle psicodinamiche.
Ann Harrington racconta in modo avvincente e chiaro una storia della psichiatria negli ultimi centocinquant’anni dalla quale emerge una sorta di dialettica tra gli approcci biologici e quelli psicodinamici alla malattia mentale. Alla fine dell’Ottocento, la ricerca di un modello anatomofisiologico della malattia mentale si era ispirata alla paralisi progressiva (neurosifilide), dove il deragliamento mentale era causato da un’infezione batterica. Ne derivò l’idea che si dovesse aggredire il cervello e la diffusione di terapie somatiche come malarioterapia, insulinoterapia, elettroshock, per arrivare al tragico traguardo della lobotomia.
Dietro a quelle “cure disperate” c’era la pericolosa illusione di aver trovato le sedi o le cause dei disturbi psichiatrici. I neuropsichiatri si svegliarono dal sonno della ragione quando, nel nuovo clima morale che condannava gli abusi dei medici perpetrati in nome delle ideologie eugeniche, anche contro i malati di mente, arrivarono gli psicofarmaci. Questi resero accessibili alla comunicazione cervelli fino a quel momento controllabili solo da camicie di forza fisiche. La nuova ecologia umanitaria, consentita anche dal successo della psicoanalisi negli Stati Uniti, lasciava il campo ai modelli psicodinamici, sempre privi di basi scientifiche, ma che grazie alle nuove «camicie di forza chimiche» (così le anime belle chiamavano gli psicofarmaci) conducevano a una gestione politica della psichiatria: il DSM era la nuova costituzione e cosa fosse scientifico o meno lo si metteva ai voti (così l’omosessualità fu espunta del DSM).
Come osserva la Harrington, le credenze pseudoscientifiche delle dottrine psicodinamiche portarono a cercare le cause delle malattie mentali fuori dal cervello, trasformando i malati, i loro parenti e la società in capri espiatori. Le manifestazioni più deteriori di tali settarie credenze furono i movimenti antipsichiatrici, che negavano l’esistenza della malattia mentale.
Negli anni Settanta e Ottanta, racconta Harrington, veniva riproposta una psichiatria fondata sulla biologia, e che cercava di offrire ai pazienti e ai loro parenti un punto di vista laico. Emergevano modelli biochimici della malattia mentale, che comunque lasciavano a desiderare e il DSM cominciava girare a vuoto. La situazione rimane incerta. La Harrington sostiene che la storia della psichiatria consiglia agli psichiatri di «fare della modestia una virtù», evitando di medicalizzare condizioni non serie per concentrarsi solo sulle malattie più gravi. Improbabile che seguiranno il suggerimento.
Alla storica statunitense è sfuggito il caso di Thomas Insel, giunto nel 2002 agli NIH proprio per mettere la psichiatria su più solide basi biologiche e clinico-metodologiche, e che nel 2015 se ne andava a Google, e quindi nel 2017 fondava la start up Mindstrong con l’obiettivo di usare l’Intelligenza Artificiale per costruire una «psichiatrica di precisione». È l’unica concreta speranza. già oggi. Gli algoritmi sono già molto più efficaci degli psichiatri per monitorare la condizione clinica dei pazienti. E in taluni casi sono equivalenti anche come psicoterapeuti.
Anche Bullmore pensa che la psichiatria manchi tragicamente di marker biologici della malattia mentale, ma pare un po’ troppo ossessionata da Descartes, al cui dualismo mente/corpo attribuisce il ritardo scientifico dello studio delle malattie mentali. Sarebbe comodo. La sua idea è che le malattie mentali siano causate da infiammazioni, cioè da reazioni immunitarie contro infezioni per cui citochine e macrofagi aggredirebbero anche la rete nervosa che sostiene le precarie architetture cognitive ed emotive del cervello. In prospettiva, potremmo aspettarci di curare depressione e schizofrenia con antinfiammatori. L’idea non è così originale.
Negli anni Venti andava di moda una teoria igienica o batteriologica della malattia mentale di cui fu leader il medico Henry Cotton, che trattava chirurgicamente i disturbi mentali asportando a persone sane organi che erano ricettacoli di infezioni, come il colon, i denti, l’appendicite, etc. Una vicenda triste, ripresa anche nella serie The Knick. Gli anti-infiammatori sono meno rischiosi. L’ipotesi che sistema nervoso e sistema immunitario dialoghino funzionalmente risale a metà anni venti (ma Bullmore sembra ignorarlo), quando si riuscì a condizionare pavlovianamente la risposta immunitaria, in modo non specifico. Ora si immagina che sia sistema immunitario a condizionare il comportamento e causarne le degenerazioni patologiche. Bullmore ritiene evolutivamente plausibile l’idea, in quanto ad esempio se una risposta immunitaria contro un agente infettivo causasse anche la depressione, la conseguenza sarebbe che l’individuo non andrebbe in giro a infettare gli altri. Suggestivo, ma poco credibile. Le infezioni dei nostri antenati dediti a caccia e raccolta erano assai poco contagiose.
Il Sole 24 Ore Domenica 1.9.19
Filosofia politica
Com’è pericoloso il referendum popolare!
di Sebastiano Maffettone
Albert Weale, professore emerito di political theory e public policy presso l’University College London, ha scritto un libro polemico su un tema che sta molto a cuore sia agli italiani che agli inglesi. Si tratta, manco a dirlo, del populismo, trattato qui alla maniera di un mito del nostro tempo, come del resto si evince dal titolo che suona ironicamente The Will of the People e dal sottotitolo invece esplicito The Modern Mith.
Il libro è breve, l’intento è divulgativo, la scrittura è piana, c’è un evidente tentativo di semplificazione, ma il tono argomentativo è sempre sostenuto. La tesi principale è che non bisognerebbe confondere un governo democratico con un governo populista. Là dove nel primo caso, virtuoso, il popolo controlla e seleziona la classe politica, mentre nel secondo, pericoloso, si pretende che il popolo governi direttamente. È anche ovvio che nella pratica la distinzione è sottile, e che la confusione in materia regni sovrana. Ma è cosa grave, sostiene Weale, che i filosofi politici non la chiariscano e la denuncino.
Il libro è diviso in otto piccoli capitoli, i primi dei quali hanno l’intento di smontare il mito del populismo e gli ultimi invece diretti a rifondare lo spirito democratico in nome di un’etica della responsabilità. L’idea di una «volontà popolare» -sostiene l’autore- in quanto tale è vaga e imprecisa, mentre più chiara è la lettura che ne danno i populisti. Per questi ultimi, la democrazia rappresentativa tradizionalmente intesa non può funzionare perché le élites si sono impossessate del potere. Naturalmente, il corollario di questa tesi è -sempre per i populisti- che se il popolo si rimpossessasse del potere perduto, tutto tornerebbe in ordine. Questa è la sostanza del mito populista, ammantato tra l’altro di un profumo romantico e nostalgico, che Weale vuole smantellare.
La prima ragione per farlo consiste nella vaghezza del termine «popolo», sotto cui si cela un pluralismo di individui e opinioni non riducibile a unità. Il popolo come entità immaginaria si crea infatti per esclusione, discriminando i migranti, gli stranieri, i diversi, quelli di un’altra razza. Per i populisti, il pluralismo delle opinioni può, come sappiamo, essere risolto applicando sistematicamente il principio di maggioranza. Qui Weale può mostrare le ambiguità nascoste sotto questo principio, e l’impossibilità di applicarlo al di fuori di una precisa regola costituzionale. D’altronde proteggere le minoranze costituisce parte integrante della democrazia liberale. E Weale è abile a mettere in evidenza, -con un tour de force logico- come essere outnumbered (cioè minoritari) non equivalga a avere torto. Sulla scorta di tale argomento, il libro rivela anche i pericoli insisti nell’idea e nella pratica dei referendum. In conclusione, pluralismo contro populismo e liberal-democrazia versus democrazia diretta. E’ persino ovvio che la tempesta Brexit abbia influenzato questo tipo di conclusione. Ma come non pensare in maniera simile anche a casa nostra?
The Will of the People:
A Modern Myth
Albert Weale
Polity Press, Cambridge UK,
pagg. 121, £ 9.71
Il Sole 24 Ore Domenica 1.9.19
Storia delle esposizioni. Un libro ripercorre i retroscena della rassegna che si tenne a Milano nel 1951 a cura di Roberto Longhi. E propone immagini inedite dell’allestimento
La mostrissima di Caravaggio
di Marco Carminati
Nessuna delle numerose mostre su Caravaggio, che si sono susseguite negli ultimi settant’anni nel mondo, è mai riuscita ad eguagliare quella che si tenne a Palazzo Reale di Milano tra aprile e giugno del 1951. Una rassegna divenuta leggendaria per lo spessore critico (la curò Roberto Longhi, il più grande esegeta di Caravaggio), per la quantità delle opere esposte (oggi impensabile visti i vincoli dei prestiti) e per l’imponente successo di pubblico, non previsto dagli stessi organizzatori. Ma soprattutto perché quell’esposizione avviò la travolgente fortuna moderna dell’artista.
Ma che cosa ci rimane oggi di quell’evento epocale? Qualcuno dei 400mila visitatori che videro la rassegna è ancora felicemente in vita, e dall’alto dei suoi ottanta/novant’anni può forse conservare un nitido ricordo della manifestazione. Poi ci rimane un resoconto scritto di Gian Alberto Dell’Acqua (1952) e soprattutto il catalogo della rassegna, pubblicato da Sansoni in due edizioni leggermente diverse, che tuttavia riporta le schede dei quadri in ordine alfabetico, dunque non permette in alcun modo di ricostruire la disposizione delle opere nelle sale.
A questo proposito esiste qualche rara fotografia d’allestimento scattata da Fedele Toscani, il padre di Oliviero. Ma ora, con il fortunato ritrovamento nell’Archivio Alinari di Firenze di 70 lastre fotografiche scattate da Vincenzo Aragozzini nella mostra milanese, viene offerta la possibilità di documentare in modo assai più vasto e chiaro l’allestimento che Roberto Longhi ideò per far conoscere agli italiani e al mondo la grandezza di Caravaggio. Va detto che delle 70 lastre recuperate, solo 10 allargano di fatto l’obiettivo sulle sale allestite. Ma il recupero del prezioso materiale ha spronato Patrizio Aiello a ricostruire l’intera storia della mitica esposizione, ripercorrendo le vicende, i retroscena e gli ambienti di quell’evento effimero a quasi settant’anni di distanza. Ne è sortito un libro austero nella veste esterna (forse troppo) ma internamente smagliante per ricchezza di informazioni, riflessioni e immagini. Un libro dal quale conviene farsi guidare.
Il testo evoca, come prima cosa, l’euforico clima in cui germinò l’evento: una Milano piena di fiducia e in ripresa dopo i disastri della guerra. L’invito a pensare a una mostra su Caravaggio venne infatti dal sindaco della città, Antonio Greppi, che nel 1949 istituì un comitato promotore chiamando a raccolta Roberto Longhi, Giulio Carlo Argan, Rodolfo Pallucchini, Matteo Marangoni, Mario Salmi e Lionello Venturi, mentre nel comitato esecutivo vennero nominati, tra gli altri, Fernanda Wittgens, Costantino Baroni e Gian Alberto Dell’Acqua. Per l’allestimento si indicò inizialmente il nome di Franco Albini. A scegliere la sede di Palazzo Reale non fu Longhi come vuole la vulgata ma il comitato, che lo fece per ribadire che quel Palazzo «ex Reale» (la cui destinazione d’uso era allora ancora incerta) dovesse diventare sede preposta agli eventi espositivi.
Nel ’49 la macchina organizzativa si mise in moto e si stilarono i primi elenchi di opere di Caravaggio e dei caravaggeschi da chiedere in prestito (ottanta al primo conteggio, poi arriveranno al doppio). Nelle intenzioni la mostra si sarebbe dovuta tenere tra aprile e ottobre del 1950, ma sorse subito un grande impedimento: la proclamazione dell’Anno Santo. Si capì al volo che le grandi tele di Caravaggio collocate nelle chiese di Roma, richieste tutte in prestito per la mostra, non avrebbero mai lasciato i loro altari durante il Giubileo. Meglio posticipare l’evento di un anno.
Con più tempo a disposizione, l’elenco dei prestiti lievitò e con esso i costi (a coprire i quali diede una mano nientemeno che il giovane sottosegretario Giulio Andreotti). Le trattative per i prestiti (condotte quasi sempre dalla granitica Fernanda Wittgens) si rivelarono in alcuni casi estenuanti. La Francia non voleva cedere la Morte della Vergine del Louvre, e per tentare di ottenerla si mise di mezzo persino il nunzio apostolico a Parigi, Angelo Giuseppe Roncalli, il futuro papa Giovanni XXIII. Ma la Francia non cedette. Altra assenza clamorosa fu la Deposizione Vaticana. Stavolta fu monsignor Giovanni Battista Montini (il futuro papa Paolo VI) a negare il prestito, anche se offrì in cambio un arazzo dell’Ottocento riproducente il quadro di Caravaggio. Longhi rispose risentito: «No, grazie».
A rendere ulteriormente complessa la macchina organizzativa ci si misero anche le forti rivalità tra i componenti del comitato. Come è noto, Longhi e Venturi non solo si detestavano cordialmente ma divergevano nettamente sull’interpretazione e sulla cronologia di Caravaggio. E neppure tra Argan e Longhi correva buon sangue. Insomma, queste rivalità intestine incisero(come incisero i prestiti negati) sul tracciato della mostra, sulla disposizione dei quadri nelle sale e persino sull’allestimento. Franco Albini venne infatti sostituito con lo Studio BBPR, che a sua volta venne sostituito con un terzo allestitore assai meno noto, il soprintendente Luigi Crema.
Comunque, quasi miracolosamente, tutto si compose in occasione del taglio del nastro il 21 aprile 1951, alla presenza del presidente delle Repubblica Giovanni Gronchi. Si notò l’assenza del presidente del consiglio Alcide De Gasperi bloccato a Roma per presenziare ai funerali di Ivanoe Bonomi (ma per lui e la famiglia si allestì un secondo vernissage il 26 aprile). Gronchi, De Gasperi e gli altri 400 mila visitatori che li seguirono (tra cui spiccò il giovane Giovanni Testori) poterono ammirare la mostra sistemata nelle 20 sale al piano nobile del Palazzo: 6 sale dedicate a 44 capolavori di Caravaggio, 11 sale ai maestri caravaggeschi e 3 sale i precedenti di Caravaggio, ai documenti e alle copie. Completava l’offerta un disimpegno d’ingresso con piccolo book shop, e un elegante bar. Bene, adesso, con il libro di Patrizio Aiello alla mano possiamo metterci in coda anche noi.
CARAVAGGIO 1951
Patrizio Aiello
Officina Libraria, MIlano, pagg. 224.
€ 20. Con prefazione di Giovanni Agosti e postfazione di Jacopo Stoppa
Jacobin 1.9.19
Lo psicodramma della Brexit
di Dawn Foster
La regina chiuderà il Parlamento, su richiesta di Boris Johnson, impedendo ai parlamentari di fermare un'uscita dall'Ue non concordata. La sinistra può raccontare una storia più grande della semplice alternativa tra Leave e Remain
È da quando Boris Johnson si è insediato a Downing Street che girano voci sul progetto dei conservatori di adottare la misura che permette di sospendere i lavori del parlamento britannico, chiudendolo di fatto per più di un mese, per evitare che i parlamentari impediscano un’eventuale forzatura di Johnson verso una Brexit non concordata. I rumors hanno preso consistenza quando una banda di varie persone tra cui Jacob Rees-Mogg è andata a trovare la regina in uno dei suoi numerosi castelli, a Balmoral, per chiederle di procedere con lo stop.
Immediatamente dopo l’annuncio, sulla politica britannica si è scatenato il caos. Addirittura un gruppo anti-Brexit chiamato “Best for Britain” ha rilasciato una dichiarazione molto strana che ricordava alla regina d’Inghilterra la storia del regicidio: «Non ha senso che la Regina sostenga questa manovra profondamente antidemocratica, incostituzionale e interessata da parte del governo. Quando le è stato chiesto aiuto avrebbe fatto bene a ricordare che la storia non guarda con benevolenza ai reali che contribuiscono alla sospensione della democrazia». Non c’è dubbio che il Regno Unito abbia perso la testa già dal 2016, subito dopo il referendum, ma fino a ieri non si era ancora arrivati al punto di sentire dei centristi che minacciano di tagliarla alla monarca, la testa.
Perché i conservatori stanno facendo tutto questo? Nei giorni scorsi i partiti dell’opposizione avevano parlato di possibili soluzioni comuni da adottare per sfuggire al rischio sempre più concreto di una Brexit non concordata. E la prospettiva di formare una coalizione anti-Brexit si era fatta credibile dopo che i liberaldemocratici e i cosiddetti hardcore Remainers avevano capito che il loro continuo accusare Jeremy Corbyn di essere un Brexiter non aveva alcuna presa sul pubblico e conveniva cambiare strategia. Adesso, la sospensione del parlamento blocca ogni tentativo dell’opposizione di impedire che la Gran Bretagna si catapulti fuori dall’Europa senza nessun accordo, con tutto l’incubo logistico che ne deriva.
Ai sensi della legge sui lavori parlamentari, chiamata Fixed Term Parliament Act e adottata dal governo di coalizione tra conservatori e liberaldemocratici nel 2011, solo il governo può sciogliere il parlamento per andare a elezioni, ma la sospensione rimane una prerogativa reale. Ora, nonostante la loro pretesa di essere l’unico partito a combattere davvero contro la Brexit (posizione che ogni altro partito di opposizione considererebbe una sciocchezza), i LibDem dovrebbero ammettere di aver avuto un ruolo determinante nel provocare questa situazione. Infatti hanno accettato nel 2010 di far passare questa legge in cambio di un pizzico di potere, per entrare in coalizione con i tories.
Negli ultimi giorni i conservatori hanno attinto pesantemente al manuale della campagna per il Leave orchestrata dal miliardario Aaron Banks e dall’attuale capo del nuovo Brexit Party Richard Tice. I tories stanno chiaramente cercando di trattenere i voti che hanno preso ai rivali del Brexit Party scimmiottando le loro stesse tattiche, e si preparano a ripetere lo show alle prossime, e probabilmente incombenti, elezioni politiche.
Per la sinistra, questo significa anche che le elezioni si giocheranno esclusivamente attorno al tema Brexit, con gli elettori del Leave che verranno istruiti sul “tradimento” della “casta” dei politici di Westminster, indifferenti ai desideri della piccola maggioranza che ha votato per uscire dall’Unione europea. Questa è la grande scommessa dei conservatori. I laburisti, nel frattempo, dovranno accrescere i loro punti di forza: produrre un manifesto che non si soffermi troppo sulla Brexit e sul passato, ma proponga invece la visione di un futuro diverso, di un’economia diversa, di una vita diversa per gli elettori, i loro figli, le loro comunità.
Attualmente le voci più forti continuano a essere quelle degli elettori marginali ossessionati dalla Brexit, che dividono l’intero paese sulla linea dell’opposizione tra il Leave e il Remain e considerano questo psicodramma una guerra culturale. La maggior parte dei britannici, invece, non sono così estremi come vorrebbe la visione della Brexit che hanno mass media e classe politica. Sono, piuttosto, sinceramente preoccupati delle loro vite, dei luoghi che abitano e del futuro del paese. I conservatori condurranno una campagna straordinariamente negativa, incentrata esclusivamente sulla Brexit; i laburisti e la sinistra possono raccontare una storia più grande e catturare elettori da entrambi i lati del guado.
*Dawn Foster, staff writer di Jacobin, è anche editorialista per il Guardian, ha scritto Lean Out. Questo articolo è uscito su Jacobinmag.com. La traduzione è di Riccardo Antoniucci.
https://spogli.blogspot.com/2019/09/il-manifesto-5.html
domenica 1 settembre 2019
Il Sole 24 Ore Domenica 1.9.19
L’illusione della cura
Psichiatria . È la specialità medica con le più flebili basi scientifiche ed è costruita quasi solo sull’esperienza clinica. Come mai non si trova un modello biologico della malattia mentale?
di Gilberto Corbellini
La psichiatria è la specialità medica con le più flebili basi scientifiche. Gli psichiatri usano quasi solo l’esperienza clinica e nessuna scienza per provare a d aiutare persone che pagano pesanti sofferenze psicologiche alla lotta per l’esistenza. Due libri diversamente interessanti discutono il problema di fondo della psichiatria: perché non si trova un modello biologico della malattia mentale, e quali sono state o sono le conseguenze per i malati della mancanza di modelli eziologici delle malattie mentali? Stante che tale mancanza è dovuta alla complessità del cervello, nondimeno consente ai cosiddetti terapeuti di millantare un accesso alla mente malata usando teorie e pratiche pseudoscientifiche, del tipo di quelle psicodinamiche.
Ann Harrington racconta in modo avvincente e chiaro una storia della psichiatria negli ultimi centocinquant’anni dalla quale emerge una sorta di dialettica tra gli approcci biologici e quelli psicodinamici alla malattia mentale. Alla fine dell’Ottocento, la ricerca di un modello anatomofisiologico della malattia mentale si era ispirata alla paralisi progressiva (neurosifilide), dove il deragliamento mentale era causato da un’infezione batterica. Ne derivò l’idea che si dovesse aggredire il cervello e la diffusione di terapie somatiche come malarioterapia, insulinoterapia, elettroshock, per arrivare al tragico traguardo della lobotomia.
Dietro a quelle “cure disperate” c’era la pericolosa illusione di aver trovato le sedi o le cause dei disturbi psichiatrici. I neuropsichiatri si svegliarono dal sonno della ragione quando, nel nuovo clima morale che condannava gli abusi dei medici perpetrati in nome delle ideologie eugeniche, anche contro i malati di mente, arrivarono gli psicofarmaci. Questi resero accessibili alla comunicazione cervelli fino a quel momento controllabili solo da camicie di forza fisiche. La nuova ecologia umanitaria, consentita anche dal successo della psicoanalisi negli Stati Uniti, lasciava il campo ai modelli psicodinamici, sempre privi di basi scientifiche, ma che grazie alle nuove «camicie di forza chimiche» (così le anime belle chiamavano gli psicofarmaci) conducevano a una gestione politica della psichiatria: il DSM era la nuova costituzione e cosa fosse scientifico o meno lo si metteva ai voti (così l’omosessualità fu espunta del DSM).
Come osserva la Harrington, le credenze pseudoscientifiche delle dottrine psicodinamiche portarono a cercare le cause delle malattie mentali fuori dal cervello, trasformando i malati, i loro parenti e la società in capri espiatori. Le manifestazioni più deteriori di tali settarie credenze furono i movimenti antipsichiatrici, che negavano l’esistenza della malattia mentale.
Negli anni Settanta e Ottanta, racconta Harrington, veniva riproposta una psichiatria fondata sulla biologia, e che cercava di offrire ai pazienti e ai loro parenti un punto di vista laico. Emergevano modelli biochimici della malattia mentale, che comunque lasciavano a desiderare e il DSM cominciava girare a vuoto. La situazione rimane incerta. La Harrington sostiene che la storia della psichiatria consiglia agli psichiatri di «fare della modestia una virtù», evitando di medicalizzare condizioni non serie per concentrarsi solo sulle malattie più gravi. Improbabile che seguiranno il suggerimento.
Alla storica statunitense è sfuggito il caso di Thomas Insel, giunto nel 2002 agli NIH proprio per mettere la psichiatria su più solide basi biologiche e clinico-metodologiche, e che nel 2015 se ne andava a Google, e quindi nel 2017 fondava la start up Mindstrong con l’obiettivo di usare l’Intelligenza Artificiale per costruire una «psichiatrica di precisione». È l’unica concreta speranza. già oggi. Gli algoritmi sono già molto più efficaci degli psichiatri per monitorare la condizione clinica dei pazienti. E in taluni casi sono equivalenti anche come psicoterapeuti.
Anche Bullmore pensa che la psichiatria manchi tragicamente di marker biologici della malattia mentale, ma pare un po’ troppo ossessionata da Descartes, al cui dualismo mente/corpo attribuisce il ritardo scientifico dello studio delle malattie mentali. Sarebbe comodo. La sua idea è che le malattie mentali siano causate da infiammazioni, cioè da reazioni immunitarie contro infezioni per cui citochine e macrofagi aggredirebbero anche la rete nervosa che sostiene le precarie architetture cognitive ed emotive del cervello. In prospettiva, potremmo aspettarci di curare depressione e schizofrenia con antinfiammatori. L’idea non è così originale.
Negli anni Venti andava di moda una teoria igienica o batteriologica della malattia mentale di cui fu leader il medico Henry Cotton, che trattava chirurgicamente i disturbi mentali asportando a persone sane organi che erano ricettacoli di infezioni, come il colon, i denti, l’appendicite, etc. Una vicenda triste, ripresa anche nella serie The Knick. Gli anti-infiammatori sono meno rischiosi. L’ipotesi che sistema nervoso e sistema immunitario dialoghino funzionalmente risale a metà anni venti (ma Bullmore sembra ignorarlo), quando si riuscì a condizionare pavlovianamente la risposta immunitaria, in modo non specifico. Ora si immagina che sia sistema immunitario a condizionare il comportamento e causarne le degenerazioni patologiche. Bullmore ritiene evolutivamente plausibile l’idea, in quanto ad esempio se una risposta immunitaria contro un agente infettivo causasse anche la depressione, la conseguenza sarebbe che l’individuo non andrebbe in giro a infettare gli altri. Suggestivo, ma poco credibile. Le infezioni dei nostri antenati dediti a caccia e raccolta erano assai poco contagiose.
Il Sole 24 Ore Domenica 1.9.19
Filosofia politica
Com’è pericoloso il referendum popolare!
di Sebastiano Maffettone
Albert Weale, professore emerito di political theory e public policy presso l’University College London, ha scritto un libro polemico su un tema che sta molto a cuore sia agli italiani che agli inglesi. Si tratta, manco a dirlo, del populismo, trattato qui alla maniera di un mito del nostro tempo, come del resto si evince dal titolo che suona ironicamente The Will of the People e dal sottotitolo invece esplicito The Modern Mith.
Il libro è breve, l’intento è divulgativo, la scrittura è piana, c’è un evidente tentativo di semplificazione, ma il tono argomentativo è sempre sostenuto. La tesi principale è che non bisognerebbe confondere un governo democratico con un governo populista. Là dove nel primo caso, virtuoso, il popolo controlla e seleziona la classe politica, mentre nel secondo, pericoloso, si pretende che il popolo governi direttamente. È anche ovvio che nella pratica la distinzione è sottile, e che la confusione in materia regni sovrana. Ma è cosa grave, sostiene Weale, che i filosofi politici non la chiariscano e la denuncino.
Il libro è diviso in otto piccoli capitoli, i primi dei quali hanno l’intento di smontare il mito del populismo e gli ultimi invece diretti a rifondare lo spirito democratico in nome di un’etica della responsabilità. L’idea di una «volontà popolare» -sostiene l’autore- in quanto tale è vaga e imprecisa, mentre più chiara è la lettura che ne danno i populisti. Per questi ultimi, la democrazia rappresentativa tradizionalmente intesa non può funzionare perché le élites si sono impossessate del potere. Naturalmente, il corollario di questa tesi è -sempre per i populisti- che se il popolo si rimpossessasse del potere perduto, tutto tornerebbe in ordine. Questa è la sostanza del mito populista, ammantato tra l’altro di un profumo romantico e nostalgico, che Weale vuole smantellare.
La prima ragione per farlo consiste nella vaghezza del termine «popolo», sotto cui si cela un pluralismo di individui e opinioni non riducibile a unità. Il popolo come entità immaginaria si crea infatti per esclusione, discriminando i migranti, gli stranieri, i diversi, quelli di un’altra razza. Per i populisti, il pluralismo delle opinioni può, come sappiamo, essere risolto applicando sistematicamente il principio di maggioranza. Qui Weale può mostrare le ambiguità nascoste sotto questo principio, e l’impossibilità di applicarlo al di fuori di una precisa regola costituzionale. D’altronde proteggere le minoranze costituisce parte integrante della democrazia liberale. E Weale è abile a mettere in evidenza, -con un tour de force logico- come essere outnumbered (cioè minoritari) non equivalga a avere torto. Sulla scorta di tale argomento, il libro rivela anche i pericoli insisti nell’idea e nella pratica dei referendum. In conclusione, pluralismo contro populismo e liberal-democrazia versus democrazia diretta. E’ persino ovvio che la tempesta Brexit abbia influenzato questo tipo di conclusione. Ma come non pensare in maniera simile anche a casa nostra?
The Will of the People:
A Modern Myth
Albert Weale
Polity Press, Cambridge UK,
pagg. 121, £ 9.71
Il Sole 24 Ore Domenica 1.9.19
Storia delle esposizioni. Un libro ripercorre i retroscena della rassegna che si tenne a Milano nel 1951 a cura di Roberto Longhi. E propone immagini inedite dell’allestimento
La mostrissima di Caravaggio
di Marco Carminati
Nessuna delle numerose mostre su Caravaggio, che si sono susseguite negli ultimi settant’anni nel mondo, è mai riuscita ad eguagliare quella che si tenne a Palazzo Reale di Milano tra aprile e giugno del 1951. Una rassegna divenuta leggendaria per lo spessore critico (la curò Roberto Longhi, il più grande esegeta di Caravaggio), per la quantità delle opere esposte (oggi impensabile visti i vincoli dei prestiti) e per l’imponente successo di pubblico, non previsto dagli stessi organizzatori. Ma soprattutto perché quell’esposizione avviò la travolgente fortuna moderna dell’artista.
Ma che cosa ci rimane oggi di quell’evento epocale? Qualcuno dei 400mila visitatori che videro la rassegna è ancora felicemente in vita, e dall’alto dei suoi ottanta/novant’anni può forse conservare un nitido ricordo della manifestazione. Poi ci rimane un resoconto scritto di Gian Alberto Dell’Acqua (1952) e soprattutto il catalogo della rassegna, pubblicato da Sansoni in due edizioni leggermente diverse, che tuttavia riporta le schede dei quadri in ordine alfabetico, dunque non permette in alcun modo di ricostruire la disposizione delle opere nelle sale.
A questo proposito esiste qualche rara fotografia d’allestimento scattata da Fedele Toscani, il padre di Oliviero. Ma ora, con il fortunato ritrovamento nell’Archivio Alinari di Firenze di 70 lastre fotografiche scattate da Vincenzo Aragozzini nella mostra milanese, viene offerta la possibilità di documentare in modo assai più vasto e chiaro l’allestimento che Roberto Longhi ideò per far conoscere agli italiani e al mondo la grandezza di Caravaggio. Va detto che delle 70 lastre recuperate, solo 10 allargano di fatto l’obiettivo sulle sale allestite. Ma il recupero del prezioso materiale ha spronato Patrizio Aiello a ricostruire l’intera storia della mitica esposizione, ripercorrendo le vicende, i retroscena e gli ambienti di quell’evento effimero a quasi settant’anni di distanza. Ne è sortito un libro austero nella veste esterna (forse troppo) ma internamente smagliante per ricchezza di informazioni, riflessioni e immagini. Un libro dal quale conviene farsi guidare.
Il testo evoca, come prima cosa, l’euforico clima in cui germinò l’evento: una Milano piena di fiducia e in ripresa dopo i disastri della guerra. L’invito a pensare a una mostra su Caravaggio venne infatti dal sindaco della città, Antonio Greppi, che nel 1949 istituì un comitato promotore chiamando a raccolta Roberto Longhi, Giulio Carlo Argan, Rodolfo Pallucchini, Matteo Marangoni, Mario Salmi e Lionello Venturi, mentre nel comitato esecutivo vennero nominati, tra gli altri, Fernanda Wittgens, Costantino Baroni e Gian Alberto Dell’Acqua. Per l’allestimento si indicò inizialmente il nome di Franco Albini. A scegliere la sede di Palazzo Reale non fu Longhi come vuole la vulgata ma il comitato, che lo fece per ribadire che quel Palazzo «ex Reale» (la cui destinazione d’uso era allora ancora incerta) dovesse diventare sede preposta agli eventi espositivi.
Nel ’49 la macchina organizzativa si mise in moto e si stilarono i primi elenchi di opere di Caravaggio e dei caravaggeschi da chiedere in prestito (ottanta al primo conteggio, poi arriveranno al doppio). Nelle intenzioni la mostra si sarebbe dovuta tenere tra aprile e ottobre del 1950, ma sorse subito un grande impedimento: la proclamazione dell’Anno Santo. Si capì al volo che le grandi tele di Caravaggio collocate nelle chiese di Roma, richieste tutte in prestito per la mostra, non avrebbero mai lasciato i loro altari durante il Giubileo. Meglio posticipare l’evento di un anno.
Con più tempo a disposizione, l’elenco dei prestiti lievitò e con esso i costi (a coprire i quali diede una mano nientemeno che il giovane sottosegretario Giulio Andreotti). Le trattative per i prestiti (condotte quasi sempre dalla granitica Fernanda Wittgens) si rivelarono in alcuni casi estenuanti. La Francia non voleva cedere la Morte della Vergine del Louvre, e per tentare di ottenerla si mise di mezzo persino il nunzio apostolico a Parigi, Angelo Giuseppe Roncalli, il futuro papa Giovanni XXIII. Ma la Francia non cedette. Altra assenza clamorosa fu la Deposizione Vaticana. Stavolta fu monsignor Giovanni Battista Montini (il futuro papa Paolo VI) a negare il prestito, anche se offrì in cambio un arazzo dell’Ottocento riproducente il quadro di Caravaggio. Longhi rispose risentito: «No, grazie».
A rendere ulteriormente complessa la macchina organizzativa ci si misero anche le forti rivalità tra i componenti del comitato. Come è noto, Longhi e Venturi non solo si detestavano cordialmente ma divergevano nettamente sull’interpretazione e sulla cronologia di Caravaggio. E neppure tra Argan e Longhi correva buon sangue. Insomma, queste rivalità intestine incisero(come incisero i prestiti negati) sul tracciato della mostra, sulla disposizione dei quadri nelle sale e persino sull’allestimento. Franco Albini venne infatti sostituito con lo Studio BBPR, che a sua volta venne sostituito con un terzo allestitore assai meno noto, il soprintendente Luigi Crema.
Comunque, quasi miracolosamente, tutto si compose in occasione del taglio del nastro il 21 aprile 1951, alla presenza del presidente delle Repubblica Giovanni Gronchi. Si notò l’assenza del presidente del consiglio Alcide De Gasperi bloccato a Roma per presenziare ai funerali di Ivanoe Bonomi (ma per lui e la famiglia si allestì un secondo vernissage il 26 aprile). Gronchi, De Gasperi e gli altri 400 mila visitatori che li seguirono (tra cui spiccò il giovane Giovanni Testori) poterono ammirare la mostra sistemata nelle 20 sale al piano nobile del Palazzo: 6 sale dedicate a 44 capolavori di Caravaggio, 11 sale ai maestri caravaggeschi e 3 sale i precedenti di Caravaggio, ai documenti e alle copie. Completava l’offerta un disimpegno d’ingresso con piccolo book shop, e un elegante bar. Bene, adesso, con il libro di Patrizio Aiello alla mano possiamo metterci in coda anche noi.
CARAVAGGIO 1951
Patrizio Aiello
Officina Libraria, MIlano, pagg. 224.
€ 20. Con prefazione di Giovanni Agosti e postfazione di Jacopo Stoppa
Jacobin 1.9.19
Lo psicodramma della Brexit
di Dawn Foster
La regina chiuderà il Parlamento, su richiesta di Boris Johnson, impedendo ai parlamentari di fermare un'uscita dall'Ue non concordata. La sinistra può raccontare una storia più grande della semplice alternativa tra Leave e Remain
È da quando Boris Johnson si è insediato a Downing Street che girano voci sul progetto dei conservatori di adottare la misura che permette di sospendere i lavori del parlamento britannico, chiudendolo di fatto per più di un mese, per evitare che i parlamentari impediscano un’eventuale forzatura di Johnson verso una Brexit non concordata. I rumors hanno preso consistenza quando una banda di varie persone tra cui Jacob Rees-Mogg è andata a trovare la regina in uno dei suoi numerosi castelli, a Balmoral, per chiederle di procedere con lo stop.
Immediatamente dopo l’annuncio, sulla politica britannica si è scatenato il caos. Addirittura un gruppo anti-Brexit chiamato “Best for Britain” ha rilasciato una dichiarazione molto strana che ricordava alla regina d’Inghilterra la storia del regicidio: «Non ha senso che la Regina sostenga questa manovra profondamente antidemocratica, incostituzionale e interessata da parte del governo. Quando le è stato chiesto aiuto avrebbe fatto bene a ricordare che la storia non guarda con benevolenza ai reali che contribuiscono alla sospensione della democrazia». Non c’è dubbio che il Regno Unito abbia perso la testa già dal 2016, subito dopo il referendum, ma fino a ieri non si era ancora arrivati al punto di sentire dei centristi che minacciano di tagliarla alla monarca, la testa.
Perché i conservatori stanno facendo tutto questo? Nei giorni scorsi i partiti dell’opposizione avevano parlato di possibili soluzioni comuni da adottare per sfuggire al rischio sempre più concreto di una Brexit non concordata. E la prospettiva di formare una coalizione anti-Brexit si era fatta credibile dopo che i liberaldemocratici e i cosiddetti hardcore Remainers avevano capito che il loro continuo accusare Jeremy Corbyn di essere un Brexiter non aveva alcuna presa sul pubblico e conveniva cambiare strategia. Adesso, la sospensione del parlamento blocca ogni tentativo dell’opposizione di impedire che la Gran Bretagna si catapulti fuori dall’Europa senza nessun accordo, con tutto l’incubo logistico che ne deriva.
Ai sensi della legge sui lavori parlamentari, chiamata Fixed Term Parliament Act e adottata dal governo di coalizione tra conservatori e liberaldemocratici nel 2011, solo il governo può sciogliere il parlamento per andare a elezioni, ma la sospensione rimane una prerogativa reale. Ora, nonostante la loro pretesa di essere l’unico partito a combattere davvero contro la Brexit (posizione che ogni altro partito di opposizione considererebbe una sciocchezza), i LibDem dovrebbero ammettere di aver avuto un ruolo determinante nel provocare questa situazione. Infatti hanno accettato nel 2010 di far passare questa legge in cambio di un pizzico di potere, per entrare in coalizione con i tories.
Negli ultimi giorni i conservatori hanno attinto pesantemente al manuale della campagna per il Leave orchestrata dal miliardario Aaron Banks e dall’attuale capo del nuovo Brexit Party Richard Tice. I tories stanno chiaramente cercando di trattenere i voti che hanno preso ai rivali del Brexit Party scimmiottando le loro stesse tattiche, e si preparano a ripetere lo show alle prossime, e probabilmente incombenti, elezioni politiche.
Per la sinistra, questo significa anche che le elezioni si giocheranno esclusivamente attorno al tema Brexit, con gli elettori del Leave che verranno istruiti sul “tradimento” della “casta” dei politici di Westminster, indifferenti ai desideri della piccola maggioranza che ha votato per uscire dall’Unione europea. Questa è la grande scommessa dei conservatori. I laburisti, nel frattempo, dovranno accrescere i loro punti di forza: produrre un manifesto che non si soffermi troppo sulla Brexit e sul passato, ma proponga invece la visione di un futuro diverso, di un’economia diversa, di una vita diversa per gli elettori, i loro figli, le loro comunità.
Attualmente le voci più forti continuano a essere quelle degli elettori marginali ossessionati dalla Brexit, che dividono l’intero paese sulla linea dell’opposizione tra il Leave e il Remain e considerano questo psicodramma una guerra culturale. La maggior parte dei britannici, invece, non sono così estremi come vorrebbe la visione della Brexit che hanno mass media e classe politica. Sono, piuttosto, sinceramente preoccupati delle loro vite, dei luoghi che abitano e del futuro del paese. I conservatori condurranno una campagna straordinariamente negativa, incentrata esclusivamente sulla Brexit; i laburisti e la sinistra possono raccontare una storia più grande e catturare elettori da entrambi i lati del guado.
*Dawn Foster, staff writer di Jacobin, è anche editorialista per il Guardian, ha scritto Lean Out. Questo articolo è uscito su Jacobinmag.com. La traduzione è di Riccardo Antoniucci.
https://spogli.blogspot.com/2019/09/il-sole-24-ore-domenica-1.html
L’illusione della cura
Psichiatria . È la specialità medica con le più flebili basi scientifiche ed è costruita quasi solo sull’esperienza clinica. Come mai non si trova un modello biologico della malattia mentale?
di Gilberto Corbellini
La psichiatria è la specialità medica con le più flebili basi scientifiche. Gli psichiatri usano quasi solo l’esperienza clinica e nessuna scienza per provare a d aiutare persone che pagano pesanti sofferenze psicologiche alla lotta per l’esistenza. Due libri diversamente interessanti discutono il problema di fondo della psichiatria: perché non si trova un modello biologico della malattia mentale, e quali sono state o sono le conseguenze per i malati della mancanza di modelli eziologici delle malattie mentali? Stante che tale mancanza è dovuta alla complessità del cervello, nondimeno consente ai cosiddetti terapeuti di millantare un accesso alla mente malata usando teorie e pratiche pseudoscientifiche, del tipo di quelle psicodinamiche.
Ann Harrington racconta in modo avvincente e chiaro una storia della psichiatria negli ultimi centocinquant’anni dalla quale emerge una sorta di dialettica tra gli approcci biologici e quelli psicodinamici alla malattia mentale. Alla fine dell’Ottocento, la ricerca di un modello anatomofisiologico della malattia mentale si era ispirata alla paralisi progressiva (neurosifilide), dove il deragliamento mentale era causato da un’infezione batterica. Ne derivò l’idea che si dovesse aggredire il cervello e la diffusione di terapie somatiche come malarioterapia, insulinoterapia, elettroshock, per arrivare al tragico traguardo della lobotomia.
Dietro a quelle “cure disperate” c’era la pericolosa illusione di aver trovato le sedi o le cause dei disturbi psichiatrici. I neuropsichiatri si svegliarono dal sonno della ragione quando, nel nuovo clima morale che condannava gli abusi dei medici perpetrati in nome delle ideologie eugeniche, anche contro i malati di mente, arrivarono gli psicofarmaci. Questi resero accessibili alla comunicazione cervelli fino a quel momento controllabili solo da camicie di forza fisiche. La nuova ecologia umanitaria, consentita anche dal successo della psicoanalisi negli Stati Uniti, lasciava il campo ai modelli psicodinamici, sempre privi di basi scientifiche, ma che grazie alle nuove «camicie di forza chimiche» (così le anime belle chiamavano gli psicofarmaci) conducevano a una gestione politica della psichiatria: il DSM era la nuova costituzione e cosa fosse scientifico o meno lo si metteva ai voti (così l’omosessualità fu espunta del DSM).
Come osserva la Harrington, le credenze pseudoscientifiche delle dottrine psicodinamiche portarono a cercare le cause delle malattie mentali fuori dal cervello, trasformando i malati, i loro parenti e la società in capri espiatori. Le manifestazioni più deteriori di tali settarie credenze furono i movimenti antipsichiatrici, che negavano l’esistenza della malattia mentale.
Negli anni Settanta e Ottanta, racconta Harrington, veniva riproposta una psichiatria fondata sulla biologia, e che cercava di offrire ai pazienti e ai loro parenti un punto di vista laico. Emergevano modelli biochimici della malattia mentale, che comunque lasciavano a desiderare e il DSM cominciava girare a vuoto. La situazione rimane incerta. La Harrington sostiene che la storia della psichiatria consiglia agli psichiatri di «fare della modestia una virtù», evitando di medicalizzare condizioni non serie per concentrarsi solo sulle malattie più gravi. Improbabile che seguiranno il suggerimento.
Alla storica statunitense è sfuggito il caso di Thomas Insel, giunto nel 2002 agli NIH proprio per mettere la psichiatria su più solide basi biologiche e clinico-metodologiche, e che nel 2015 se ne andava a Google, e quindi nel 2017 fondava la start up Mindstrong con l’obiettivo di usare l’Intelligenza Artificiale per costruire una «psichiatrica di precisione». È l’unica concreta speranza. già oggi. Gli algoritmi sono già molto più efficaci degli psichiatri per monitorare la condizione clinica dei pazienti. E in taluni casi sono equivalenti anche come psicoterapeuti.
Anche Bullmore pensa che la psichiatria manchi tragicamente di marker biologici della malattia mentale, ma pare un po’ troppo ossessionata da Descartes, al cui dualismo mente/corpo attribuisce il ritardo scientifico dello studio delle malattie mentali. Sarebbe comodo. La sua idea è che le malattie mentali siano causate da infiammazioni, cioè da reazioni immunitarie contro infezioni per cui citochine e macrofagi aggredirebbero anche la rete nervosa che sostiene le precarie architetture cognitive ed emotive del cervello. In prospettiva, potremmo aspettarci di curare depressione e schizofrenia con antinfiammatori. L’idea non è così originale.
Negli anni Venti andava di moda una teoria igienica o batteriologica della malattia mentale di cui fu leader il medico Henry Cotton, che trattava chirurgicamente i disturbi mentali asportando a persone sane organi che erano ricettacoli di infezioni, come il colon, i denti, l’appendicite, etc. Una vicenda triste, ripresa anche nella serie The Knick. Gli anti-infiammatori sono meno rischiosi. L’ipotesi che sistema nervoso e sistema immunitario dialoghino funzionalmente risale a metà anni venti (ma Bullmore sembra ignorarlo), quando si riuscì a condizionare pavlovianamente la risposta immunitaria, in modo non specifico. Ora si immagina che sia sistema immunitario a condizionare il comportamento e causarne le degenerazioni patologiche. Bullmore ritiene evolutivamente plausibile l’idea, in quanto ad esempio se una risposta immunitaria contro un agente infettivo causasse anche la depressione, la conseguenza sarebbe che l’individuo non andrebbe in giro a infettare gli altri. Suggestivo, ma poco credibile. Le infezioni dei nostri antenati dediti a caccia e raccolta erano assai poco contagiose.
Il Sole 24 Ore Domenica 1.9.19
Filosofia politica
Com’è pericoloso il referendum popolare!
di Sebastiano Maffettone
Albert Weale, professore emerito di political theory e public policy presso l’University College London, ha scritto un libro polemico su un tema che sta molto a cuore sia agli italiani che agli inglesi. Si tratta, manco a dirlo, del populismo, trattato qui alla maniera di un mito del nostro tempo, come del resto si evince dal titolo che suona ironicamente The Will of the People e dal sottotitolo invece esplicito The Modern Mith.
Il libro è breve, l’intento è divulgativo, la scrittura è piana, c’è un evidente tentativo di semplificazione, ma il tono argomentativo è sempre sostenuto. La tesi principale è che non bisognerebbe confondere un governo democratico con un governo populista. Là dove nel primo caso, virtuoso, il popolo controlla e seleziona la classe politica, mentre nel secondo, pericoloso, si pretende che il popolo governi direttamente. È anche ovvio che nella pratica la distinzione è sottile, e che la confusione in materia regni sovrana. Ma è cosa grave, sostiene Weale, che i filosofi politici non la chiariscano e la denuncino.
Il libro è diviso in otto piccoli capitoli, i primi dei quali hanno l’intento di smontare il mito del populismo e gli ultimi invece diretti a rifondare lo spirito democratico in nome di un’etica della responsabilità. L’idea di una «volontà popolare» -sostiene l’autore- in quanto tale è vaga e imprecisa, mentre più chiara è la lettura che ne danno i populisti. Per questi ultimi, la democrazia rappresentativa tradizionalmente intesa non può funzionare perché le élites si sono impossessate del potere. Naturalmente, il corollario di questa tesi è -sempre per i populisti- che se il popolo si rimpossessasse del potere perduto, tutto tornerebbe in ordine. Questa è la sostanza del mito populista, ammantato tra l’altro di un profumo romantico e nostalgico, che Weale vuole smantellare.
La prima ragione per farlo consiste nella vaghezza del termine «popolo», sotto cui si cela un pluralismo di individui e opinioni non riducibile a unità. Il popolo come entità immaginaria si crea infatti per esclusione, discriminando i migranti, gli stranieri, i diversi, quelli di un’altra razza. Per i populisti, il pluralismo delle opinioni può, come sappiamo, essere risolto applicando sistematicamente il principio di maggioranza. Qui Weale può mostrare le ambiguità nascoste sotto questo principio, e l’impossibilità di applicarlo al di fuori di una precisa regola costituzionale. D’altronde proteggere le minoranze costituisce parte integrante della democrazia liberale. E Weale è abile a mettere in evidenza, -con un tour de force logico- come essere outnumbered (cioè minoritari) non equivalga a avere torto. Sulla scorta di tale argomento, il libro rivela anche i pericoli insisti nell’idea e nella pratica dei referendum. In conclusione, pluralismo contro populismo e liberal-democrazia versus democrazia diretta. E’ persino ovvio che la tempesta Brexit abbia influenzato questo tipo di conclusione. Ma come non pensare in maniera simile anche a casa nostra?
The Will of the People:
A Modern Myth
Albert Weale
Polity Press, Cambridge UK,
pagg. 121, £ 9.71
Il Sole 24 Ore Domenica 1.9.19
Storia delle esposizioni. Un libro ripercorre i retroscena della rassegna che si tenne a Milano nel 1951 a cura di Roberto Longhi. E propone immagini inedite dell’allestimento
La mostrissima di Caravaggio
di Marco Carminati
Nessuna delle numerose mostre su Caravaggio, che si sono susseguite negli ultimi settant’anni nel mondo, è mai riuscita ad eguagliare quella che si tenne a Palazzo Reale di Milano tra aprile e giugno del 1951. Una rassegna divenuta leggendaria per lo spessore critico (la curò Roberto Longhi, il più grande esegeta di Caravaggio), per la quantità delle opere esposte (oggi impensabile visti i vincoli dei prestiti) e per l’imponente successo di pubblico, non previsto dagli stessi organizzatori. Ma soprattutto perché quell’esposizione avviò la travolgente fortuna moderna dell’artista.
Ma che cosa ci rimane oggi di quell’evento epocale? Qualcuno dei 400mila visitatori che videro la rassegna è ancora felicemente in vita, e dall’alto dei suoi ottanta/novant’anni può forse conservare un nitido ricordo della manifestazione. Poi ci rimane un resoconto scritto di Gian Alberto Dell’Acqua (1952) e soprattutto il catalogo della rassegna, pubblicato da Sansoni in due edizioni leggermente diverse, che tuttavia riporta le schede dei quadri in ordine alfabetico, dunque non permette in alcun modo di ricostruire la disposizione delle opere nelle sale.
A questo proposito esiste qualche rara fotografia d’allestimento scattata da Fedele Toscani, il padre di Oliviero. Ma ora, con il fortunato ritrovamento nell’Archivio Alinari di Firenze di 70 lastre fotografiche scattate da Vincenzo Aragozzini nella mostra milanese, viene offerta la possibilità di documentare in modo assai più vasto e chiaro l’allestimento che Roberto Longhi ideò per far conoscere agli italiani e al mondo la grandezza di Caravaggio. Va detto che delle 70 lastre recuperate, solo 10 allargano di fatto l’obiettivo sulle sale allestite. Ma il recupero del prezioso materiale ha spronato Patrizio Aiello a ricostruire l’intera storia della mitica esposizione, ripercorrendo le vicende, i retroscena e gli ambienti di quell’evento effimero a quasi settant’anni di distanza. Ne è sortito un libro austero nella veste esterna (forse troppo) ma internamente smagliante per ricchezza di informazioni, riflessioni e immagini. Un libro dal quale conviene farsi guidare.
Il testo evoca, come prima cosa, l’euforico clima in cui germinò l’evento: una Milano piena di fiducia e in ripresa dopo i disastri della guerra. L’invito a pensare a una mostra su Caravaggio venne infatti dal sindaco della città, Antonio Greppi, che nel 1949 istituì un comitato promotore chiamando a raccolta Roberto Longhi, Giulio Carlo Argan, Rodolfo Pallucchini, Matteo Marangoni, Mario Salmi e Lionello Venturi, mentre nel comitato esecutivo vennero nominati, tra gli altri, Fernanda Wittgens, Costantino Baroni e Gian Alberto Dell’Acqua. Per l’allestimento si indicò inizialmente il nome di Franco Albini. A scegliere la sede di Palazzo Reale non fu Longhi come vuole la vulgata ma il comitato, che lo fece per ribadire che quel Palazzo «ex Reale» (la cui destinazione d’uso era allora ancora incerta) dovesse diventare sede preposta agli eventi espositivi.
Nel ’49 la macchina organizzativa si mise in moto e si stilarono i primi elenchi di opere di Caravaggio e dei caravaggeschi da chiedere in prestito (ottanta al primo conteggio, poi arriveranno al doppio). Nelle intenzioni la mostra si sarebbe dovuta tenere tra aprile e ottobre del 1950, ma sorse subito un grande impedimento: la proclamazione dell’Anno Santo. Si capì al volo che le grandi tele di Caravaggio collocate nelle chiese di Roma, richieste tutte in prestito per la mostra, non avrebbero mai lasciato i loro altari durante il Giubileo. Meglio posticipare l’evento di un anno.
Con più tempo a disposizione, l’elenco dei prestiti lievitò e con esso i costi (a coprire i quali diede una mano nientemeno che il giovane sottosegretario Giulio Andreotti). Le trattative per i prestiti (condotte quasi sempre dalla granitica Fernanda Wittgens) si rivelarono in alcuni casi estenuanti. La Francia non voleva cedere la Morte della Vergine del Louvre, e per tentare di ottenerla si mise di mezzo persino il nunzio apostolico a Parigi, Angelo Giuseppe Roncalli, il futuro papa Giovanni XXIII. Ma la Francia non cedette. Altra assenza clamorosa fu la Deposizione Vaticana. Stavolta fu monsignor Giovanni Battista Montini (il futuro papa Paolo VI) a negare il prestito, anche se offrì in cambio un arazzo dell’Ottocento riproducente il quadro di Caravaggio. Longhi rispose risentito: «No, grazie».
A rendere ulteriormente complessa la macchina organizzativa ci si misero anche le forti rivalità tra i componenti del comitato. Come è noto, Longhi e Venturi non solo si detestavano cordialmente ma divergevano nettamente sull’interpretazione e sulla cronologia di Caravaggio. E neppure tra Argan e Longhi correva buon sangue. Insomma, queste rivalità intestine incisero(come incisero i prestiti negati) sul tracciato della mostra, sulla disposizione dei quadri nelle sale e persino sull’allestimento. Franco Albini venne infatti sostituito con lo Studio BBPR, che a sua volta venne sostituito con un terzo allestitore assai meno noto, il soprintendente Luigi Crema.
Comunque, quasi miracolosamente, tutto si compose in occasione del taglio del nastro il 21 aprile 1951, alla presenza del presidente delle Repubblica Giovanni Gronchi. Si notò l’assenza del presidente del consiglio Alcide De Gasperi bloccato a Roma per presenziare ai funerali di Ivanoe Bonomi (ma per lui e la famiglia si allestì un secondo vernissage il 26 aprile). Gronchi, De Gasperi e gli altri 400 mila visitatori che li seguirono (tra cui spiccò il giovane Giovanni Testori) poterono ammirare la mostra sistemata nelle 20 sale al piano nobile del Palazzo: 6 sale dedicate a 44 capolavori di Caravaggio, 11 sale ai maestri caravaggeschi e 3 sale i precedenti di Caravaggio, ai documenti e alle copie. Completava l’offerta un disimpegno d’ingresso con piccolo book shop, e un elegante bar. Bene, adesso, con il libro di Patrizio Aiello alla mano possiamo metterci in coda anche noi.
CARAVAGGIO 1951
Patrizio Aiello
Officina Libraria, MIlano, pagg. 224.
€ 20. Con prefazione di Giovanni Agosti e postfazione di Jacopo Stoppa
Jacobin 1.9.19
Lo psicodramma della Brexit
di Dawn Foster
La regina chiuderà il Parlamento, su richiesta di Boris Johnson, impedendo ai parlamentari di fermare un'uscita dall'Ue non concordata. La sinistra può raccontare una storia più grande della semplice alternativa tra Leave e Remain
È da quando Boris Johnson si è insediato a Downing Street che girano voci sul progetto dei conservatori di adottare la misura che permette di sospendere i lavori del parlamento britannico, chiudendolo di fatto per più di un mese, per evitare che i parlamentari impediscano un’eventuale forzatura di Johnson verso una Brexit non concordata. I rumors hanno preso consistenza quando una banda di varie persone tra cui Jacob Rees-Mogg è andata a trovare la regina in uno dei suoi numerosi castelli, a Balmoral, per chiederle di procedere con lo stop.
Immediatamente dopo l’annuncio, sulla politica britannica si è scatenato il caos. Addirittura un gruppo anti-Brexit chiamato “Best for Britain” ha rilasciato una dichiarazione molto strana che ricordava alla regina d’Inghilterra la storia del regicidio: «Non ha senso che la Regina sostenga questa manovra profondamente antidemocratica, incostituzionale e interessata da parte del governo. Quando le è stato chiesto aiuto avrebbe fatto bene a ricordare che la storia non guarda con benevolenza ai reali che contribuiscono alla sospensione della democrazia». Non c’è dubbio che il Regno Unito abbia perso la testa già dal 2016, subito dopo il referendum, ma fino a ieri non si era ancora arrivati al punto di sentire dei centristi che minacciano di tagliarla alla monarca, la testa.
Perché i conservatori stanno facendo tutto questo? Nei giorni scorsi i partiti dell’opposizione avevano parlato di possibili soluzioni comuni da adottare per sfuggire al rischio sempre più concreto di una Brexit non concordata. E la prospettiva di formare una coalizione anti-Brexit si era fatta credibile dopo che i liberaldemocratici e i cosiddetti hardcore Remainers avevano capito che il loro continuo accusare Jeremy Corbyn di essere un Brexiter non aveva alcuna presa sul pubblico e conveniva cambiare strategia. Adesso, la sospensione del parlamento blocca ogni tentativo dell’opposizione di impedire che la Gran Bretagna si catapulti fuori dall’Europa senza nessun accordo, con tutto l’incubo logistico che ne deriva.
Ai sensi della legge sui lavori parlamentari, chiamata Fixed Term Parliament Act e adottata dal governo di coalizione tra conservatori e liberaldemocratici nel 2011, solo il governo può sciogliere il parlamento per andare a elezioni, ma la sospensione rimane una prerogativa reale. Ora, nonostante la loro pretesa di essere l’unico partito a combattere davvero contro la Brexit (posizione che ogni altro partito di opposizione considererebbe una sciocchezza), i LibDem dovrebbero ammettere di aver avuto un ruolo determinante nel provocare questa situazione. Infatti hanno accettato nel 2010 di far passare questa legge in cambio di un pizzico di potere, per entrare in coalizione con i tories.
Negli ultimi giorni i conservatori hanno attinto pesantemente al manuale della campagna per il Leave orchestrata dal miliardario Aaron Banks e dall’attuale capo del nuovo Brexit Party Richard Tice. I tories stanno chiaramente cercando di trattenere i voti che hanno preso ai rivali del Brexit Party scimmiottando le loro stesse tattiche, e si preparano a ripetere lo show alle prossime, e probabilmente incombenti, elezioni politiche.
Per la sinistra, questo significa anche che le elezioni si giocheranno esclusivamente attorno al tema Brexit, con gli elettori del Leave che verranno istruiti sul “tradimento” della “casta” dei politici di Westminster, indifferenti ai desideri della piccola maggioranza che ha votato per uscire dall’Unione europea. Questa è la grande scommessa dei conservatori. I laburisti, nel frattempo, dovranno accrescere i loro punti di forza: produrre un manifesto che non si soffermi troppo sulla Brexit e sul passato, ma proponga invece la visione di un futuro diverso, di un’economia diversa, di una vita diversa per gli elettori, i loro figli, le loro comunità.
Attualmente le voci più forti continuano a essere quelle degli elettori marginali ossessionati dalla Brexit, che dividono l’intero paese sulla linea dell’opposizione tra il Leave e il Remain e considerano questo psicodramma una guerra culturale. La maggior parte dei britannici, invece, non sono così estremi come vorrebbe la visione della Brexit che hanno mass media e classe politica. Sono, piuttosto, sinceramente preoccupati delle loro vite, dei luoghi che abitano e del futuro del paese. I conservatori condurranno una campagna straordinariamente negativa, incentrata esclusivamente sulla Brexit; i laburisti e la sinistra possono raccontare una storia più grande e catturare elettori da entrambi i lati del guado.
*Dawn Foster, staff writer di Jacobin, è anche editorialista per il Guardian, ha scritto Lean Out. Questo articolo è uscito su Jacobinmag.com. La traduzione è di Riccardo Antoniucci.
https://spogli.blogspot.com/2019/09/il-sole-24-ore-domenica-1.html
sabato 31 agosto 2019
Corriere 20.8.18
Andrea Ganna, il ricercatore del «gene dei gay»: «Ne esiste più d’uno»
Lo studioso, 33 anni di Varese: «Abbiamo dimostrato la presenza di migliaia di varianti, isolandone cinque. Questo esclude ogni ipotesi di manipolazione del Dna»
di Elvira Serra
Non è pericoloso dire che non esiste un «gene gay»? Apre la porta a quanti sostengono che solo l’ambiente condiziona l’orientamento sessuale. Con quel che ne consegue, per esempio, per le tantissime e felici famiglie arcobaleno.
«Ma infatti non è corretto dire che non esiste un gene gay. Semmai, il titolo esatto è: “Non esiste un solo gene gay”. Ci sono moltissime varianti, e noi ne abbiamo isolate cinque, ma sono migliaia! Il contributo genetico, nella definizione dell’omosessualità, è pari a un terzo o un quarto».
Andrea Ganna, 33 anni, originario di Varese, ha coordinato la ricerca monstre appena pubblicata su Science, che ha messo in relazione le varianti del Dna con l’omosessualità. Laurea in Statistica all’università di Milano Bicocca, Phd al Karolinska Institutet di Stoccolma, postdoc al Massachusetts General Hospital e, adesso, group leader nel Laboratorio europeo di Biologia molecolare dell’Istituto di medicina molecolare finlandese, ha al suo attivi già quaranta pubblicazioni e otto premi e menzioni d’onore.
A chi è venuta l’idea di lavorare a questa ricerca?
«A me e ad altri gruppi di colleghi, uno in Inghilterra, uno in Olanda e uno in Australia. Io in quel momento lavoravo nel Broad Institute di Mit e Harvard, negli Stati Uniti: adesso mi sono appena trasferito ad Helsinki. Anziché competere, abbiamo deciso di creare un consorzio internazionale in cui potessimo affrontare insieme questo progetto».
Con un materiale monumentale: i 470 mila Dna della banca dati britannica «Uk Biobank» e della statunitense «23andMe».
«In realtà quei dati sono accessibili a tutti i ricercatori qualificati, facendo una domanda scientifica appropriata, ovunque si trovino nel mondo. Noi abbiamo deciso di sfruttarli per il nostro lavoro».
Non è «deludente» dal punto di vista scientifico il fatto che non esista un «gene gay»?
«Al contrario, è un bene: se ci fosse, qualcuno proverebbe a modificarlo, come dimostra il caso di He Jiankui, il ricercatore cinese che ha annunciato di aver alterato il Dna degli embrioni di sette coppie durante i trattamenti di fertilità. Abbiamo invece dimostrato la presenza di una componente genetica molto complessa: così complessa che esclude qualunque possibilità di modifica».
Che cosa l’ha appassionata di più nel coordinare questa ricerca?
«Oltre a lavorare in gruppo su un materiale così ampio? È stato interessante il fatto che ci siamo preoccupati di come comunicare i risultati nel modo adeguato, prima della pubblicazione. Abbiamo coinvolto gruppi Lgbt dai quali abbiamo ricevuto molti input utili e abbiamo creato un sito dove sono state raccolte tutte le informazioni sulla ricerca (https://geneticsexbehavior.info/)».
Torniamo a lei: si sente un cervello in fuga?
«No».
Pensa di ritornare in Italia?
«Al momento no, conto di stare in Finlandia almeno per qualche anno. Poi si vedrà».
https://spogli.blogspot.com/2019/08/corriere-20.html
Andrea Ganna, il ricercatore del «gene dei gay»: «Ne esiste più d’uno»
Lo studioso, 33 anni di Varese: «Abbiamo dimostrato la presenza di migliaia di varianti, isolandone cinque. Questo esclude ogni ipotesi di manipolazione del Dna»
di Elvira Serra
Non è pericoloso dire che non esiste un «gene gay»? Apre la porta a quanti sostengono che solo l’ambiente condiziona l’orientamento sessuale. Con quel che ne consegue, per esempio, per le tantissime e felici famiglie arcobaleno.
«Ma infatti non è corretto dire che non esiste un gene gay. Semmai, il titolo esatto è: “Non esiste un solo gene gay”. Ci sono moltissime varianti, e noi ne abbiamo isolate cinque, ma sono migliaia! Il contributo genetico, nella definizione dell’omosessualità, è pari a un terzo o un quarto».
Andrea Ganna, 33 anni, originario di Varese, ha coordinato la ricerca monstre appena pubblicata su Science, che ha messo in relazione le varianti del Dna con l’omosessualità. Laurea in Statistica all’università di Milano Bicocca, Phd al Karolinska Institutet di Stoccolma, postdoc al Massachusetts General Hospital e, adesso, group leader nel Laboratorio europeo di Biologia molecolare dell’Istituto di medicina molecolare finlandese, ha al suo attivi già quaranta pubblicazioni e otto premi e menzioni d’onore.
A chi è venuta l’idea di lavorare a questa ricerca?
«A me e ad altri gruppi di colleghi, uno in Inghilterra, uno in Olanda e uno in Australia. Io in quel momento lavoravo nel Broad Institute di Mit e Harvard, negli Stati Uniti: adesso mi sono appena trasferito ad Helsinki. Anziché competere, abbiamo deciso di creare un consorzio internazionale in cui potessimo affrontare insieme questo progetto».
Con un materiale monumentale: i 470 mila Dna della banca dati britannica «Uk Biobank» e della statunitense «23andMe».
«In realtà quei dati sono accessibili a tutti i ricercatori qualificati, facendo una domanda scientifica appropriata, ovunque si trovino nel mondo. Noi abbiamo deciso di sfruttarli per il nostro lavoro».
Non è «deludente» dal punto di vista scientifico il fatto che non esista un «gene gay»?
«Al contrario, è un bene: se ci fosse, qualcuno proverebbe a modificarlo, come dimostra il caso di He Jiankui, il ricercatore cinese che ha annunciato di aver alterato il Dna degli embrioni di sette coppie durante i trattamenti di fertilità. Abbiamo invece dimostrato la presenza di una componente genetica molto complessa: così complessa che esclude qualunque possibilità di modifica».
Che cosa l’ha appassionata di più nel coordinare questa ricerca?
«Oltre a lavorare in gruppo su un materiale così ampio? È stato interessante il fatto che ci siamo preoccupati di come comunicare i risultati nel modo adeguato, prima della pubblicazione. Abbiamo coinvolto gruppi Lgbt dai quali abbiamo ricevuto molti input utili e abbiamo creato un sito dove sono state raccolte tutte le informazioni sulla ricerca (https://geneticsexbehavior.info/)».
Torniamo a lei: si sente un cervello in fuga?
«No».
Pensa di ritornare in Italia?
«Al momento no, conto di stare in Finlandia almeno per qualche anno. Poi si vedrà».
https://spogli.blogspot.com/2019/08/corriere-20.html
giovedì 29 agosto 2019
il manifesto 29.8-19
Da Londra un oltraggio alla Costituzione senza precedenti
La «prorogation». Con questa forzatura Johnson punta a imbavagliare i Commons per evitare problemi alla Brexit strategy. L’obiettivo è ridurre i giorni a disposizione dei contrari al no deal per approvare una legge che potrebbe imporre uno stop. Un disegno populista, antiparlamentare e reazionario
di Massimo Villone
Boris Johnson ha inviato ai membri della House of Commons una lettera, in data 28 agosto, in cui li informa di avere chiesto alla regina la prorogation del parlamento britannico. Tecnicamente, è la sospensione dei lavori al termine di una sessione. La Bbc riferisce che dal castello di Balmoral Elisabetta ha già disposto la sospensione «in un giorno non antecedente a lunedì 9 settembre 2019 e non successivo a giovedì 12 settembre 2019 fino a lunedì 14 ottobre 2019». In questa ultima data un discorso della regina illustrerà l’agenda governativa per la nuova sessione.
La prorogation è nella Costituzione non scritta della Gran Bretagna. Nasce come potere del sovrano, che poteva decidere quando e per quanto tempo il parlamento sarebbe stato in sessione. In sintesi, con la prorogation era il sovrano che decideva l’agenda, e l’assemblea non aveva voce in proposito. Con l’evoluzione in senso parlamentare, il potere è rimasto formalmente nelle mani del sovrano, che però lo esercita su proposta del primo ministro. Sulla prorogation la House of Commons non vota, diversamente da altro tipo di sospensione (recess). Elisabetta avrebbe – in via di astratto principio – potuto rifiutare la richiesta di Johnson, ma non lo ha fatto.
Fin qui tutto sembra nelle regole. E allora perché si levano voci che definiscono la prorogation un constitutional outrage? La ragione è che mentre la prorogation è in genere ordinario strumento di sospensione tecnica dei lavori, senza particolari impatti politici, nella specie è volta a imbavagliare i Commons, per evitare problemi alla Brexit strategy di Johnson. L’obiettivo è ridurre i giorni a disposizione dei contrari al no deal per approvare una legge che potrebbe imporre uno stop. Essendo la data del 31 ottobre per la Brexit già stabilita, a Johnson basta non fare per raggiungere l’obiettivo di una Brexit no deal. Mentre una legge potrebbe certamente bloccarlo, ad esempio imponendogli la richiesta di una ulteriore proroga, o specifiche condizioni.
Nella sua lettera ovviamente Johnson nulla dice di questo, suggerendo al contrario che ci sarà il tempo per approvare una proposta governativa di legge nel caso si dovesse attuare un nuovo deal nel frattempo raggiunto con l’Europa.
Sottolinea che l’unità è indispensabile per puntare a un nuovo accordo. Offre come specchietto delle allodole la promessa di un ambizioso programma di sostegno al servizio sanitario, di lotta al crimine violento, di investimenti su infrastrutture e ricerca scientifica, di tagli al costo della vita.
Secondo una lettura (Guardian, 28 agosto), il vero intento di Johnson è arrivare al più presto alla Brexit, per chiamare poi a raccolta tutti i brexiters di ogni partito, assumerne la leadership, e andare a nuove elezioni. Per un verso, si segnala una debolezza di Johnson, che sa di non avere il controllo dei Commons negli attuali equilibri. Ed è anche una strategia pericolosa, perché non basterebbe una vittoria risicata a garantirgli in futuro condizioni di effettiva governabilità.
Nella lettura del Guardian, Johnson punta a elezioni people vs parliament. Un disegno populista, antiparlamentare e reazionario, in cui la mordacchia all’assemblea elettiva è un piccolo prezzo da pagare. Ma proprio questo è il constitutional outrage che non trova precedenti nella storia recente, e contro il quale già si moltiplicano le iniziative in tutto il paese. L’ex primo ministro Major, conservatore, ha annunziato che tenterà la via giudiziaria, peraltro impervia. La battaglia sarà politica, e si conferma che la casa della democrazia è di norma nelle assemblee elettive prima che nei palazzi di governo. Ne sappiamo qualcosa anche noi.
Fa sorridere che la Gran Bretagna, un tempo sinonimo di stabilità e governabilità in virtù di una legge elettorale ipermaggioritaria, mostri tratti simili all’Italia dei famigerati governicchi. Se ci sono faglie e divisioni nella politica e nella società non c’è legge elettorale che tenga, ed è meglio favorire il confronto democratico in assemblee il più possibile rappresentative. Lo stesso suggerimento viene da paesi analogamente celebrati in passato, come la Spagna o la Francia. Vuoi vedere che in Italia aveva ed ha ragione chi tifa per un proporzionale senza se e senza ma? Studiate, riformatori, studiate.
https://spogli.blogspot.com/2019/08/il-manifesto-29.html
Da Londra un oltraggio alla Costituzione senza precedenti
La «prorogation». Con questa forzatura Johnson punta a imbavagliare i Commons per evitare problemi alla Brexit strategy. L’obiettivo è ridurre i giorni a disposizione dei contrari al no deal per approvare una legge che potrebbe imporre uno stop. Un disegno populista, antiparlamentare e reazionario
di Massimo Villone
Boris Johnson ha inviato ai membri della House of Commons una lettera, in data 28 agosto, in cui li informa di avere chiesto alla regina la prorogation del parlamento britannico. Tecnicamente, è la sospensione dei lavori al termine di una sessione. La Bbc riferisce che dal castello di Balmoral Elisabetta ha già disposto la sospensione «in un giorno non antecedente a lunedì 9 settembre 2019 e non successivo a giovedì 12 settembre 2019 fino a lunedì 14 ottobre 2019». In questa ultima data un discorso della regina illustrerà l’agenda governativa per la nuova sessione.
La prorogation è nella Costituzione non scritta della Gran Bretagna. Nasce come potere del sovrano, che poteva decidere quando e per quanto tempo il parlamento sarebbe stato in sessione. In sintesi, con la prorogation era il sovrano che decideva l’agenda, e l’assemblea non aveva voce in proposito. Con l’evoluzione in senso parlamentare, il potere è rimasto formalmente nelle mani del sovrano, che però lo esercita su proposta del primo ministro. Sulla prorogation la House of Commons non vota, diversamente da altro tipo di sospensione (recess). Elisabetta avrebbe – in via di astratto principio – potuto rifiutare la richiesta di Johnson, ma non lo ha fatto.
Fin qui tutto sembra nelle regole. E allora perché si levano voci che definiscono la prorogation un constitutional outrage? La ragione è che mentre la prorogation è in genere ordinario strumento di sospensione tecnica dei lavori, senza particolari impatti politici, nella specie è volta a imbavagliare i Commons, per evitare problemi alla Brexit strategy di Johnson. L’obiettivo è ridurre i giorni a disposizione dei contrari al no deal per approvare una legge che potrebbe imporre uno stop. Essendo la data del 31 ottobre per la Brexit già stabilita, a Johnson basta non fare per raggiungere l’obiettivo di una Brexit no deal. Mentre una legge potrebbe certamente bloccarlo, ad esempio imponendogli la richiesta di una ulteriore proroga, o specifiche condizioni.
Nella sua lettera ovviamente Johnson nulla dice di questo, suggerendo al contrario che ci sarà il tempo per approvare una proposta governativa di legge nel caso si dovesse attuare un nuovo deal nel frattempo raggiunto con l’Europa.
Sottolinea che l’unità è indispensabile per puntare a un nuovo accordo. Offre come specchietto delle allodole la promessa di un ambizioso programma di sostegno al servizio sanitario, di lotta al crimine violento, di investimenti su infrastrutture e ricerca scientifica, di tagli al costo della vita.
Secondo una lettura (Guardian, 28 agosto), il vero intento di Johnson è arrivare al più presto alla Brexit, per chiamare poi a raccolta tutti i brexiters di ogni partito, assumerne la leadership, e andare a nuove elezioni. Per un verso, si segnala una debolezza di Johnson, che sa di non avere il controllo dei Commons negli attuali equilibri. Ed è anche una strategia pericolosa, perché non basterebbe una vittoria risicata a garantirgli in futuro condizioni di effettiva governabilità.
Nella lettura del Guardian, Johnson punta a elezioni people vs parliament. Un disegno populista, antiparlamentare e reazionario, in cui la mordacchia all’assemblea elettiva è un piccolo prezzo da pagare. Ma proprio questo è il constitutional outrage che non trova precedenti nella storia recente, e contro il quale già si moltiplicano le iniziative in tutto il paese. L’ex primo ministro Major, conservatore, ha annunziato che tenterà la via giudiziaria, peraltro impervia. La battaglia sarà politica, e si conferma che la casa della democrazia è di norma nelle assemblee elettive prima che nei palazzi di governo. Ne sappiamo qualcosa anche noi.
Fa sorridere che la Gran Bretagna, un tempo sinonimo di stabilità e governabilità in virtù di una legge elettorale ipermaggioritaria, mostri tratti simili all’Italia dei famigerati governicchi. Se ci sono faglie e divisioni nella politica e nella società non c’è legge elettorale che tenga, ed è meglio favorire il confronto democratico in assemblee il più possibile rappresentative. Lo stesso suggerimento viene da paesi analogamente celebrati in passato, come la Spagna o la Francia. Vuoi vedere che in Italia aveva ed ha ragione chi tifa per un proporzionale senza se e senza ma? Studiate, riformatori, studiate.
https://spogli.blogspot.com/2019/08/il-manifesto-29.html
martedì 20 agosto 2019
il manifesto 20.8.19
La risposta cinese alle proteste: Shenzhen sarà la nuova Hong Kong
La Nuova Era di Xi Jinping . Il Pcc ufficializza la città come hub tecnologico e finanziario e «modello della Nuova Era»
di Simone Pieranni
Sulle proteste di Hong Kong il partito comunista cinese ad ora si è espresso attraverso il proprio ufficio politico presente nell’ex colonia.
Le manifestazioni in corso ormai da undici settimane sono state criticate in quanto violente ed eterodirette dagli Stati uniti; ai manifestanti è stato ricordato che attualmente è in vigore il cosiddetto status «un paese due sistemi» e che se le violenze di piazza proseguiranno il governo cinese le considererà alla stregua di atti di terrorismo. Si tratta di una posizione quasi dovuta, cui corrisponde per ora la decisione di Xi Jinping di aspettare prima di compiere qualsiasi mossa pratica e vedere che succede.
MA IL PARTITO COMUNISTA ha gli strumenti per mandare messaggi molto netti anche al di fuori della questione specifica delle proteste e soprattutto al di là dell’eventuale intervento dell’esercito che ad ora è parsa più una minaccia che una reale intenzione: domenica, il giorno della manifestazione pacifica che secondo gli organizzatori sarebbe stata partecipata da 1,7 milioni di persone, Pechino ha svelato il piano di sviluppo per Shenzhen, città confinante con Hong Kong, destinata, in pratica, a diventare non solo la «città modello della nuova era di Xi Jinping», ma anche l’hub tecno-finanziario preferenziale per la Cina.
Significa che Pechino manda un messaggio molto chiaro: ora come ora Hong Kong non è più fondamentale come prima e nel futuro potrebbe esserlo ancora meno.
Non è detto che questo lasci presagire un disimpegno nei confronti dell’ex colonia ma significa che Pechino valuterà la propria reazione anche in base all’importanza strategica che la città avrà nei propri progetti futuri; Hong Kong rimane infatti uno dei «quattro pilastri» del mega progetto della Greater Bay Area (una sorta di polo tecnologico e finanziario di caratura mondiale) insieme a Shenzhen, Macao e Canton, ma non sarà più la «numero uno».
Le note del partito comunista con le quali Shenzhen diventa l’esperimento «pionieristico del socialismo con caratteristiche cinese» ha avuto indubbiamente un tempismo micidiale anche se in realtà il progetto è in fase di studio, come capita a tutti i progetti cinesi, da molto tempo, così come da tempo Shenzhen è vista come la vera alternativa a Hong Kong, tanto più a questa recente caotica Hong Kong falcidiata, dal punto di vista cinese, da ormai tre mesi di proteste.
Il percorso che dovrà portare Shenzhen a diventare un città hi-tech e finanziaria «modello» per tutto il mondo nel 2050 (ricordiamo inoltre che la Cina ha in cantiere 500 smart city), vede due tappe intermedie da realizzarsi entro il 2025 e il 2030. Sui media cinesi si è sottolineata non poco l’importanza storica della città.
SUL MAGAZINE IN MANDARINO Ifeng un editoriale di un funzionario cinese ha sottolineato il peso «storico» della metropoli: Shenzhen solo 40 anni fa era un villaggio con un’unica strada e circa 70 mila abitanti. Oggi è una megalopoli con oltre 12 milioni di abitanti.
Il fatto è che proprio Shenzhen venne scelta da Deng Xiaoping all’inizio dell’epoca delle riforme per diventare una zona economica speciale. Fino a un po’ di anni fa – infatti – si diceva che per vedere la vera Cina bisognava andare a Shenzhen, una delle «capitali» della «fabbrica del mondo». Oggi potrebbe dirsi la stessa cosa ma per andare a vedere la nuova capitale «tecno-finanziaria» della Cina.
A SHENZHEN infatti sono nate le più importanti aziende tecnologiche cinesi, dalla Huawei alla Tencent, produttrice di WeChat. Secondo quanto riportato dal magazine cinese National Business Daily, Shenzhen è un punto di osservazione particolare anche per i funzionari cinesi: «Le statistiche riportano che almeno 300 quadri di partito si sono recati nella città negli ultimi cinque anni: i risultati hanno mostrato che Shenzhen è stata la città più visitata e studiata, per un totale di 55 delegazioni di partito e governo».
Un altro aspetto che sarà interessante verificare è quello relativo ai poteri «autonomi» della città: stando ai documenti anche l’amministrazione della metropoli potrà seguire un suo sviluppo autonomo.
https://spogli.blogspot.com/2019/08/il-manifesto-20.html
La risposta cinese alle proteste: Shenzhen sarà la nuova Hong Kong
La Nuova Era di Xi Jinping . Il Pcc ufficializza la città come hub tecnologico e finanziario e «modello della Nuova Era»
di Simone Pieranni
Sulle proteste di Hong Kong il partito comunista cinese ad ora si è espresso attraverso il proprio ufficio politico presente nell’ex colonia.
Le manifestazioni in corso ormai da undici settimane sono state criticate in quanto violente ed eterodirette dagli Stati uniti; ai manifestanti è stato ricordato che attualmente è in vigore il cosiddetto status «un paese due sistemi» e che se le violenze di piazza proseguiranno il governo cinese le considererà alla stregua di atti di terrorismo. Si tratta di una posizione quasi dovuta, cui corrisponde per ora la decisione di Xi Jinping di aspettare prima di compiere qualsiasi mossa pratica e vedere che succede.
MA IL PARTITO COMUNISTA ha gli strumenti per mandare messaggi molto netti anche al di fuori della questione specifica delle proteste e soprattutto al di là dell’eventuale intervento dell’esercito che ad ora è parsa più una minaccia che una reale intenzione: domenica, il giorno della manifestazione pacifica che secondo gli organizzatori sarebbe stata partecipata da 1,7 milioni di persone, Pechino ha svelato il piano di sviluppo per Shenzhen, città confinante con Hong Kong, destinata, in pratica, a diventare non solo la «città modello della nuova era di Xi Jinping», ma anche l’hub tecno-finanziario preferenziale per la Cina.
Significa che Pechino manda un messaggio molto chiaro: ora come ora Hong Kong non è più fondamentale come prima e nel futuro potrebbe esserlo ancora meno.
Non è detto che questo lasci presagire un disimpegno nei confronti dell’ex colonia ma significa che Pechino valuterà la propria reazione anche in base all’importanza strategica che la città avrà nei propri progetti futuri; Hong Kong rimane infatti uno dei «quattro pilastri» del mega progetto della Greater Bay Area (una sorta di polo tecnologico e finanziario di caratura mondiale) insieme a Shenzhen, Macao e Canton, ma non sarà più la «numero uno».
Le note del partito comunista con le quali Shenzhen diventa l’esperimento «pionieristico del socialismo con caratteristiche cinese» ha avuto indubbiamente un tempismo micidiale anche se in realtà il progetto è in fase di studio, come capita a tutti i progetti cinesi, da molto tempo, così come da tempo Shenzhen è vista come la vera alternativa a Hong Kong, tanto più a questa recente caotica Hong Kong falcidiata, dal punto di vista cinese, da ormai tre mesi di proteste.
Il percorso che dovrà portare Shenzhen a diventare un città hi-tech e finanziaria «modello» per tutto il mondo nel 2050 (ricordiamo inoltre che la Cina ha in cantiere 500 smart city), vede due tappe intermedie da realizzarsi entro il 2025 e il 2030. Sui media cinesi si è sottolineata non poco l’importanza storica della città.
SUL MAGAZINE IN MANDARINO Ifeng un editoriale di un funzionario cinese ha sottolineato il peso «storico» della metropoli: Shenzhen solo 40 anni fa era un villaggio con un’unica strada e circa 70 mila abitanti. Oggi è una megalopoli con oltre 12 milioni di abitanti.
Il fatto è che proprio Shenzhen venne scelta da Deng Xiaoping all’inizio dell’epoca delle riforme per diventare una zona economica speciale. Fino a un po’ di anni fa – infatti – si diceva che per vedere la vera Cina bisognava andare a Shenzhen, una delle «capitali» della «fabbrica del mondo». Oggi potrebbe dirsi la stessa cosa ma per andare a vedere la nuova capitale «tecno-finanziaria» della Cina.
A SHENZHEN infatti sono nate le più importanti aziende tecnologiche cinesi, dalla Huawei alla Tencent, produttrice di WeChat. Secondo quanto riportato dal magazine cinese National Business Daily, Shenzhen è un punto di osservazione particolare anche per i funzionari cinesi: «Le statistiche riportano che almeno 300 quadri di partito si sono recati nella città negli ultimi cinque anni: i risultati hanno mostrato che Shenzhen è stata la città più visitata e studiata, per un totale di 55 delegazioni di partito e governo».
Un altro aspetto che sarà interessante verificare è quello relativo ai poteri «autonomi» della città: stando ai documenti anche l’amministrazione della metropoli potrà seguire un suo sviluppo autonomo.
https://spogli.blogspot.com/2019/08/il-manifesto-20.html