domenica 27 maggio 2018

Il Sole Domenica 27.5.18
Quell’esoterico di Platone
di Mario Vegetti (1937 – 2018)


Mario Vegetti, uno dei più autorevoli conoscitori del pensiero antico e tra i massimi specialisti di Platone, è scomparso l’11 marzo scorso. Stava attendendo a una raccolta di saggi platonici per l’editore Carocci, che ora vede la luce: «Il potere della verità» (pagg. 284, € 24). Il libro contiene pagine edite e inedite; è una sorta di percorso lungo un trentennio tra le questioni sollevate nel mondo contemporaneo dal sommo filosofo greco. Vegetti in questo libro di Carocci sceglie saggi che trattano della «Repubblica» («Come e perché è diventata impolitica?»), dello statuto dell’utopia e della sua funzione nell’ambito del progetto platonico, delle dinamiche della scrittura, di altro. Qui offriamo in anteprima uno stralcio inedito dedicato alle ultime interpretazioni e, in particolare, a quella – nata nella Scuola di Tubinga e sostenuta in Italia da Giovanni Reale - che individuava il messaggio vero del filosofo nel Platone orale ed esoterico.

Esce la raccolta di saggi sul filosofo greco di uno dei più autorevoli conoscitori del pensiero antico, scomparso a marzo. Un percorso di studi lungo un trentennio
Un regime di brezze moderate e costanti sembra dominare negli ultimi anni le acque degli studi platonici. Le rotte sono ben tracciate, la navigazione sicura anche se forse non troppo emozionante (posso chiamare a testimoni in questo senso i Simposi platonici internazionali di Pisa, 2013, e Brasilia, 2016).
Ma le cose non sono sempre andate così. Nell’arco dei circa vent’anni (…), quelle acque sono state agitate da tempeste violente, foriere di naufragi, di arenamenti, di derive senza meta.
La prima tempesta, iniziata negli anni Sessanta e rafforzatasi nei due decenni successivi soprattutto in Germania (Tübingen) e in Italia (Milano, Università Cattolica), è andata sotto il nome di «nuovo paradigma ermeneutico» (oralistico-esoterico). Per essere estremamente concisi, si trattava della miscela esplosiva risultante da una rivisitazione delle critiche platoniche alla capacità della scrittura di esprimere e comunicare «le cose più importanti della filosofia» (Fedro, Lettera VII), e dalla concomitante rivalutazione delle testimonianze di Aristotele circa l’esistenza di cosiddette «dottrine non scritte» dovute a Platone. Il contenuto di queste dottrine consisteva principalmente nella teoria della generazione dei diversi livelli della realtà a opera di due principi, quello di unità e quello di molteplicità. La conseguenza era devastante per le consuete letture di Platone. La sua vera filosofia – una «metafisica dei principi» – non era mai stata scritta, bensì solo trasmessa per via orale ai discepoli dell’Accademia; il solo accesso di cui disponiamo a queste dottrine sono le scarne testimonianze aristoteliche e poche altre. Viceversa, l’immensa ricchezza di discorsi, ricerche, problemi presente nei dialoghi è ridotta, se non proprio allo stato di chiacchiera filosofica, almeno a quello della propedeutica a una filosofia che non può esporre né comunicare le sue più vere dottrine in forma scritta. Detto molto in breve, dunque, il rischio che la tempesta ermeneutica ci ha costretto ad affrontare è stato quello di trovarci con un Platone arricchito di «metafisica», ma amputato dei dialoghi.
Fortunatamente nel corso degli anni Novanta la tempesta andò finalmente placandosi, con il contributo, va detto, di studiosi di entrambe le tendenze: gli oralisti vennero ammettendo che i dialoghi costituivano nonostante tutto una parte integrante e imprescindibile della filosofia di Platone, e i loro avversari si convinsero che in essa anche gli esperimenti esoterici di filosofia dei principi attestati da Aristotele dovevano aver giocato un certo ruolo. Si esauriva così la carica eversiva cui mirava il nuovo paradigma ermeneutico e si tornava alla normalità dei progetti di ricerca.
Quasi si trattasse di un moto opposto, suscitato dallo scampato pericolo, a partire dagli anni Novanta si formò, soprattutto in ambito anglosassone, una grande ondata di studi che andavano nella direzione di una forte rivalutazione dell’efficacia della forma letteraria dialogica ai fini della configurazione della filosofia di Platone. Più che un dottrinario, Platone appariva ora soprattutto uno scrittore filosofico: la costruzione dei singoli dialoghi, il contesto, i personaggi, il gioco delle metafore, delle allusioni ironiche, degli sforzi persuasivi diventavano il centro dell’attenzione ermeneutica, rimodellando gli stessi sviluppi teorici. Tutto ciò aveva senza dubbio effetti positivi, come l’invito a dedicare maggiore attenzione alla dimensione letteraria dei dialoghi – vista come indispensabile anche alla comprensione dei loro contenuti dottrinali –, e i forti dubbi suscitati intorno alla possibilità di concepire Platone come pensatore sistematico, e i dialoghi come veicoli di questo sistema filosofico.
L’ondata dialogica rischiava però (e forse ancora rischia) di far arenare le ricerche platoniche su secche non meno pericolose degli scogli «oralisti» perché meno visibili. Sottolineare il carattere letterario della scrittura dialogica a scapito del tessuto dottrinale ha portato qualcuno a ritenere che in realtà nei dialoghi non sia riconoscibile alcuna formazione teorica, alcuna enunciazione di tesi filosofiche, alcuna pretesa di verità: saremmo insomma di fronte a una grandiosa «conversazione» intellettuale alla maniera di Rorty. Mi preme mettere in luce un corollario importante di questo atteggiamento: la negazione di qualsiasi carattere politico a testi come la Repubblica, in cui tutto il discorrere apparentemente politico avrebbe nient’altro che una funzione metaforica rispetto ai problemi di moralità personale, che costituirebbero il vero centro del dialogo; nessun progetto, dunque, nessuna utopia, nessuna critica sociale, ma, ancora una volta, metafore e dispositivi retorici di persuasione.
Dopo un Platone metafisico ma senza dialoghi, avremmo invece ora un Platone ricco di scrittura dialogica ma privo di filosofia e di progetti di verità.
Poiché la tendenza dialogica, nonostante questi esiti estremi, mantiene a mio avviso acquisizioni metodiche importanti, credo sia il caso di venire in chiaro su qualche suo aspetto che mi pare centrale. Io condivido le tesi dell’autonomia dei singoli dialoghi, e dell’autonomia dei loro personaggi. Occorre però fare subito qualche precisazione. Autonomia dei dialoghi non significa che ognuno di essi sia un’isola senza rapporti con le altre, quasi non fossero opere di uno stesso autore. E autonomia dei personaggi non significa che essi parlino in proprio, come quelli delle opere di storia. I dialoghi mantengono forti interrelazioni teoriche tra loro, talvolta esplicite, più spesso implicite; i personaggi interpretano il copione d’autore – ma questo copione è per lo più costruito attribuendo ai personaggi convinzioni coerenti, scelte di vita consapevoli, argomenti efficaci.
Autonomia dei dialoghi significherà allora che essi non possono in nessun caso venir concepiti come capitoli di un trattato filosofico, i cui risultati si depositano nel testo in modo cumulativo; di conseguenza, in linea di principio nessun dialogo dovrebbe venire interpretato a partire dalle acquisizioni di un altro dialogo, o interpolandovi le conclusioni di questo. Un esempio basterà a chiarire il senso di questa autonomia. La Repubblica e il Simposio non fanno alcun cenno alla reminiscenza come via di accesso alla conoscenza delle idee; essa è invece centrale negli argomenti del Fedone e del Menone. Ora, sostenere su questa base che la reminiscenza deve essere implicitamente ammessa anche nei primi due dialoghi, visto che è argomentata nei secondi, sembra del tutto inaccettabile. La divergenza platonica andrà semmai interpretata, ma non brutalmente annullata attribuendo una supremazia immotivata di un dialogo su un altro, o supponendo una inesistente cumulatività dottrinale.
Dal canto suo, autonomia dei personaggi significa valutare attentamente le ragioni che Platone attribuisce loro, in qualche caso forse ispirate dalle loro posizioni storiche, in altri puro frutto della creatività filosofica dell’autore. Un esempio sarà sufficiente anche a questo proposito. Gli interpreti che si affrettano a esultare per la confutazione di Trasimaco condotta nel libro I della Repubblica (peraltro fallita), ben difficilmente riusciranno a comprendere la profondità e la forza della tesi del sofista, che indica nel potere la fonte primaria della legittimazione e quindi della stessa giustizia; tesi che certamente non appartiene al Trasimaco storico ma che Platone ha creduto di attribuirgli – facendone così un personaggio che gioca un ruolo cruciale in tutto lo sviluppo teorico del dialogo.
Quando si tratta di Platone, però, nessun criterio di metodo può essere considerato definitivo ed esclusivo.

Il Sole Domenica 27.5.18
Nello spazio
L’avventura dell’universo
Per millenni i filosofi, gli astronomi e gli scienziati hanno concepito l’universo come una sorta di palcoscenico, un’arena fissa, immutabile, nella quale i pianeti, le stelle e altri corpi celesti erano stati messi in moto.
Albert Einstein ha spazzato via tutto ciò nel 1916 con la teoria della relatività generale
di John D. Barrow

Professore a Cambridge

Per millenni i filosofi, gli astronomi e gli scienziati hanno concepito l’universo come una sorta di palcoscenico, un’arena fissa, immutabile, nella quale i pianeti, le stelle e altri corpi celesti erano stati messi in moto.
Albert Einstein ha spazzato via tutto ciò nel 1916 con la teoria della relatività generale: mostrò che lo spazio e il tempo dovevano essere considerati entità dinamiche con una struttura, un tasso di cambiamento e un flusso plasmati dai contenuti materiali dell’universo. Invece di un palcoscenico fisso, lo spazio è semmai un trampolino, foggiato dal movimento della materia e dell’energia su di esso.
La cosmologia prima di Einstein mi fa venir in mente un ramo della storia dell’arte. Potevamo dipingere qualunque immagine dell’universo ci piacesse: poteva essere un cubo o una gigantesca piramide cosmica o una successione di tartarughe sistemate l’una sopra l’altra, e nessuno era in -10
grado di dimostrare il contrario. Ma Einstein ha anche trasformato la cosmologia in una scienza, fornendo un insieme di equazioni matematiche le cui soluzioni (e ce n’è un numero infinito) descrivono tutte quante interi universi possibili. Queste descrizioni matematiche fanno previsioni che gli astronomi vanno poi a controllare con telescopi e satelliti.
Per nostra fortuna, particolari soluzioni delle equazioni di Einstein ci danno un’ottima approssimazione del nostro universo, mostrano un comportamento molto semplice e ci consentono di fare previsioni verificabili sulla natura del cosmo. Per fortuna, il nostro universo sembra aver evitato alcune delle complessità permesse dalle equazioni.
Poco a poco abbiamo imparato molte cose su come l’universo è evoluto da un passato semplice alla complessità delle galassie, delle stelle e dei pianeti che vediamo oggi. Strada facendo, abbiamo anche trovato connessioni inaspettate tra le proprietà dell’universo e le condizioni necessarie perché la vita ci esista e continui ad esistere.
La zona abitabile
Dopo Einstein, il lavoro di Georges Lemaître, Edwin Hubble, Milton Humason e altri ha dimostrato che l’universo è davvero in uno stato di cambiamento generale, si espande in continuazione come un grosso pezzo di pasta lievitata messa al forno.
Se tornassimo indietro nel tempo a pochi milioni di anni dopo il Big Bang, troveremmo un universo migliaia e migliaia di volte più piccolo e più caldo di quello odierno. In quelle condizioni estreme, potevano esistere solo protoni, elettroni, fotoni e altre particelle elementari. Non ci sarebbero strutture: niente galassie, niente stelle, niente pianeti e niente gente come noi.
Dopo un’espansione di centinaia di migliaia di anni, l’universo si raffredda abbastanza perché i protoni catturino elettroni e formino così degli atomi e poi delle molecole semplici. Pochi miliardi di anni ancora, e parte di quella materia accumula altra materia e si condensa (attraverso processi complessi che oggi non capiamo fino in fondo) in stelle, galassie, ammassi di galassie e infine in sistemi planetari, compreso il nostro sistema solare.
Da quel momento, le previsioni a lungo termine si fanno piuttosto cupe. Nei prossimi venti miliardi di anni tutte le stelle, anche il Sole, finiranno per esaurire il proprio combustibile e si estingueranno, trasformando l’universo in un grande cimitero di mondi morti. Esistiamo perciò in un intervallo propizio della storia cosmica, in una zona abitabile del tempo per così dire, dopo la formazione delle stelle, ma prima che si spengano tutte.
Il vantaggio della vecchiaia
Il fatto stesso che esistiamo in questa zona è inestricabilmente legato alle proprietà più fondamentali dell’universo, prima fra tutte la sua età estrema.
Per quanto riguarda gli elementi, l’universo giovane era composto quasi esclusivamente da idrogeno (75%) ed elio (25%), con soltanto minuscole tracce di tutto il resto. Il carbonio, l’ossigeno e gli altri elementi pesanti che formano la vita di oggi non sono comparsi pronti per l’uso all’inizio dell’universo, ma sono stati forgiati nelle fornaci di stelle morenti, dove gli atomi di elio si sono combinati in berillio, il berillio con altro elio per formare carbonio, il carbonio con l’elio per formare ossigeno e così via fino a formare tutti gli elementi più pesanti.
Ci sono voluti miliardi di anni per completare le reazioni che hanno prodotto i materiali da costruzione della biochimica e della complessità. Non dovremmo quindi essere sorpresi di ritrovarci in un universo con la veneranda età di 14 miliardi di anni, universi molto più giovani non avrebbero avuto il tempo di produrre gli ingredienti di base della complessità biochimica.
Né dovrebbe sorprenderci la dimensione enorme dell’universo. La sua immensità ne rispecchia l’immane vecchiaia. In effetti, non potremmo esistere in un universo significativamente più piccolo del nostro. Un universo grande come la Via Lattea, con i suoi miliardi di stelle e di pianeti, forse ci sembra una scena abbastanza ampia perché la vita emerga, ma avrebbe poco più di un mese, appena il tempo per ricevere il conto della carta di credito, figurarsi per evolvere una vita complessa.
Si sente dire spesso che in un universo così vasto, di sicuro non ci sarà vita soltanto sulla Terra. Può anche darsi, ma resta vero che l’universo dovrebbe avere le dimensioni attuali perfino per sostenere la vita in un avamposto solitario. D’altronde il vuoto sconfinato dell’universo non deve neppure suggerirci che è profondamente antitetico alla vita.
(traduzione di Sylvie Coyaud)

Il Sole Domenica 27.5.18
Scienze cognitive
È falso ma sembra quasi vero
di Paolo Legrenzi


Nel recente dibattito sul forte aumento di notizie false, soprattutto in rete, sono stati chiamati in causa due ordini di fattori.
Il primo lo possiamo chiamare «uno vale uno». Si tratta del rifiuto di gerarchie nelle competenze. Tutti possono dire la loro, tutti hanno diritto a essere trattati su un piede di parità. L’aspirazione si colloca nel più generale rifiuto delle disuguaglianze, spesso notate quando calano perché si rivelano modificabili mentre in precedenza erano date per scontate. Di questi ultimi tempi il principio «uno vale uno» è noto soprattutto come slogan politico ma si manifesta in molti altri scenari, per esempio nel rifiuto delle vaccinazioni. I veri esperti arretrano perché avvezzi a confrontarsi con i loro pari e non nei «bar mediatici». Questa ritirata rinforza l’effetto perché chi è incompetente, per accorgersi di essere tale, dovrebbe avere le conoscenze dell’esperto.
Il secondo ordine di fattori, più ovvio, consiste nel fatto che i canali d’informazioni si sono moltiplicati e diversificati in modi impensabili fino a pochi decenni fa. Di conseguenza la ben nota tendenza a cercare e ricordare le notizie consolatorie, quelle che confermano i nostri desideri, può manifestarsi con una virulenza ignota in passato. Gli psicologi parlano di «tendenza alla conferma» e hanno scoperto che è una trappola subdola in cui cascano anche intelletti raffinati.
La storia finisce qui? Le falsità fioriscono solo a causa della tendenza alla conferma che si sposa con il rifiuto della competenza? In realtà ci sono dei casi che sembrano sfuggire a questo schema interpretativo.
Consideriamo l’episodio che ha dato inizio all’era Trump. Quel giorno il National Park Service, ente considerato affidabile, mostrò le foto delle persone presenti alla festa per il neo-presidente. Trump dichiarò che si trattava di «una partecipazione incredibile, quasi un record». Si confrontarono le foto con quelle della festa per Obama e partì una tenzone. In questo caso bastava semplicemente guardare: i partecipanti alla festa di Trump erano metà di quelli di Obama. Inizialmente l’addetto stampa Sean Spicer ribadì che «si era trattato della più grande folla di tutti i tempi». Quando i giornalisti cominciarono a ridacchiare cambiò versione. Disse che il record sarebbe stato «letteralmente vero» se le cose fossero andate in modi diversi (per esempio: se le persone non avessero scelto di guardare la festa sui social, se le condizioni meteorologiche fossero state …, e così via). Quando poi Trump spacciò per vero un attacco di immigranti musulmani mai verificatosi, la Segretaria di Stato Sarah Huckabee Sanders, imparata la lezione, disse: «il video non importa, la minaccia è reale».
Questa strategia divenne sistematica e attirò l’attenzione di Daniel Effron, professore alla London Business School. Egli ha spiegato ai giornalisti: «Ero stato colpito dall’affermazione che la folla avrebbe potuto essere più numerosa. Dal tentativo cioè di avvicinare una falsità a una possibile verità. Una falsità, se trasformata in immaginabili verità, appare meno disonesta».
Effron ha controllato la sua ipotesi chiedendo a 2,783 statunitensi di ogni orientamento politico di leggere delle affermazioni presentate come false (e, in effetti, lo erano). Alcune, come quella sulla grandezza della folla erano contro Trump, altre invece erano contro i suoi avversari, per esempio la diceria falsa che Trump avesse tolto dallo Studio Ovale un busto di Martin Luther King. I partecipanti all’esperimento dovevano giudicare quanto poco etico fosse stato dire il falso. A metà del campione non si diceva nulla, all’altra metà era chiesto di immaginare le circostanze in cui l’affermazione avrebbe potuto essere vera: per esempio la folla per Trump sarebbe stata più numerosa se il tempo fosse stato meno inclemente. Aver immaginato possibili verità rendeva la falsità meno disonesta ma solo agli occhi di quelli che erano già schierati. Dice Effron: «L’immaginazione concede una sorta di lasciapassare morale a un’affermazione falsa che diventa verosimile per chi è già di parte».
Questo meccanismo spiega come mai le falsità, anche se evidentemente e innegabilmente false, possono contribuire ad aumentare la polarizzazione politica. Si tratta di un meccanismo forte che, in forme diverse e lontane, funziona in molti ambiti.
Per anni Amos Tversky, forse il più geniale scienziato cognitivo dell’ultimo mezzo secolo, quando si parlava di Vittorio Girotto, valente ricercatore italiano, diceva: «Ah sì, quello che non sa dove dorme». Era successo a Parigi. Sul momento Girotto non era stato capace di trovare la casa in cui ospitava Tversky. Era letteralmente falso che Girotto non sapesse dove andare a dormire, ma le sue svagatezze e distrazioni erano note a tutti. L’affermazione diventava credibile perché sintetizzava ciò che era facilmente immaginabile. Il «falso ma quasi vero»serve anche a generare ironie.
Katherine Mansfield, grande narratrice di racconti, si serviva spesso di paragoni letteralmente falsi ma, nello stesso tempo, più veri del vero. In una lettera del 19 settembre del 1920 al marito, il critico John Middleton Murry, scriveva: «Oggi, dopo colazione, ci fu un tremendo temporale improvviso, le gocce di pioggia erano grosse come margherite … il sole pareva una larga chiazza d’argento … Ho pensato a te, queste sono le cose che vorrei tu vedessi …».
Katherine Mansfield aveva visto le gocce come se fossero margherite e il sole come una larga chiazza d’argento. Il «come se» descrive quello che lei aveva immaginato e desiderava condividere.
Mi rendo conto che è sacrilego avvicinare i poveri collaboratori di Trump a Amos Tversky o a Katherine Mansfield e chiedo perdono. Era solo per dire che gli scienziati cognitivi misurano e dimostrano, ma non trovano quasi mai qualcosa di assolutamente nuovo.
Daniel Effron, It Could Have Been True: How Counterfactual Thoughts Reduce Condemnation of Falsehoods and Increase Political Polarization, Personality and Social Psychology Bulletin, 2018, vol 44, pagg. 729-745
Katherine Mansfield, The Collected Letters of Katherine Mansfield: Volume IV: 1920-1921 , a cura di Vincent O’Sullivan e Margaret Scott, Clarendon Press, 1996, pagg. 392

Il Sole Domenica 27.5.18
Lavoro
Incombenti robot
Il ricorso all’automazione dipenderà dal costo dei robot rispetto ai dipendenti e dai salari nei Paesi sviluppati e in via di sviluppo
di Adair Turner


Nel mondo ricco e sviluppato, il rallentamento demografico -il probabile calo futuro del numero di persone fra i 20 e i 64 anni - di solito viene visto come un problema insormontabile: una quantità di lavoratori troppo esigua per supportare una popolazione in via di invecchiamento. Ma se è vero che le riduzioni potenzialmente più estreme (per esempio in Giappone) potrebbero creare seri grattacapi, in generale la portata del problema è ampiamente esagerata e i benefici che il rallentamento demografico produce sul piano dei costi spesso vengono ignorati.
In un mondo in cui sarà possibile automatizzare quasi tutte le attività lavorative, una «popolazione in età lavorativa» in lieve calo non vorrà dire che ci sarà un numero di lavoratori insufficiente a mantenere i pensionati: implicherà un’espansione un po’ meno veloce di attività a somma zero e a bassa produttività e contribuirà ad attenuare la disuguaglianza crescente [Turner 2014]. Come osservano diversi rapporti recenti, i timori che i «robot» ci porteranno via il lavoro e condurranno a un abbassamento dei salari sono in gran parte assenti, e per validi motivi, nei Paesi dell’Asia orientale dove il problema del rallentamento demografico è più accentuato [cfr. per esempio Cnbc 2018].
Nel complesso possiamo dire che le sfide che dovranno fronteggiare le economie sviluppate sono insignificanti se le si paragona a quelle che si prospettano per alcuni Paesi poveri e in via di sviluppo.
Nei Paesi in via di sviluppo che già hanno raggiunto lo status di nazioni a medio reddito, i problemi sollevati da un’automazione potenzialmente radicale sono in gran parte simili a quelli che devono fronteggiare i Paesi ricchi (riguardano sia le sfide economiche e sociali che devono affrontare Stati come il Brasile, il Messico, la Malaysia e la Cina, sia quelle che devono affrontare gli Stati Uniti e l’Europa occidentale). Ma per i Paesi che sono ancora lontani dal traguardo del medio reddito, la possibilità di un’automazione radicale combinata con una crescita rapida della popolazione potrebbe creare barriere quasi insormontabili agli sforzi per colmare il divario economico con i Paesi ricchi. La scala che altri Paesi hanno usato per uscire dalla povertà rischia di scomparire.
Tra il 1800 e il 1950 si scavò un fossato enorme fra il tenore di vita dei Paesi ricchi, in particolare nell’America settentrionale e nell’Europa occidentale, e quasi tutto il resto dell’umanità. Negli ultimi settant’anni, un numero ristretto di Paesi è riuscito a mettere in atto una rincorsa straordinaria, con una crescita del reddito pro capite molto più veloce di quella dei Paesi all’avanguardia tecnologica, colmando almeno in parte il distacco.
Quasi tutti questi Paesi sono riusciti a operare questa rimonta usando lo stesso modello di sviluppo: la produzione manifatturiera ad alta intensità di manodopera e orientata alle esportazioni ha consentito di assorbire l’eccedenza di manodopera del settore agricolo; l’aumento dei redditi reso possibile dall’industria ha consentito livelli alti di risparmi e investimenti; gli investimenti elevati, in impianti, macchinari e infrastrutture, hanno supportato un aumento della produttività e dei salari reali. È essenzialmente la strada che è stata seguita dal Giappone negli anni 50 e 60, dalla Corea del Sud e da Taiwan a partire dai primi anni 60 e dalla Cina dopo l’apertura economica di inizio anni 80. In ognuno di questi casi, il settore manifatturiero, ad alta intensità di manodopera e inizialmente a bassi salari, producendo beni per l’esportazione ha giocato un ruolo cruciale nel mettere in moto il processo di sviluppo, che poi è andato avanti per conto proprio.
Ma le attività fisiche ripetitive della produzione manifatturiera a salari bassi e alta intensità di manodopera, sono le attività più automatizzabili che ci siano. Inizialmente questa automazione è più facile dove si manipolano oggetti duri, nell’industria automobilistica ed elettronica. Ma a un certo punto il progresso incessante dell’intelligenza artificiale e dei robot renderà possibile la manipolazione da parte delle macchine anche dei materiali morbidi, con «robot cucitori» che permetteranno di automatizzare la fabbricazione di vestiti e calzature. Un recente rapporto dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) suggeriva che il 60-90% dei lavori a bassi salari nell’industria tessile e dell’abbigliamento dei Paesi dell’Asean potrebbe scomparire a causa dell’automazione [Oil 2016]. La «Speedfactory» recentemente inaugurata dalla Adidas in Baviera impiegherà 160 lavoratori per fabbricare 500mila paia di scarpe all’anno; se il resto della produzione del colosso dell’abbigliamento sportivo verrà automatizzato nella stessa maniera, il milione circa di lavoratori impiegati attualmente nella catena logistica della Adidas in tutto il mondo potrebbe ridursi di oltre il 90 per cento.
Naturalmente il fatto che l’automazione alla fine diventerà possibile lascia aperto l’interrogativo sul momento in cui avverrà. E il fatto che l’automazione sia fisicamente possibile non significa che sarà introdotta subito: dipenderà dal costo relativo dei robot rispetto agli impiegati, e dai salari relativi nei Paesi sviluppati e in quelli in via di sviluppo; se i salari dei Paesi in via di sviluppo rimarranno abbastanza bassi, l’automazione potrebbe essere rimandata ben oltre il momento in cui diventerà fisicamente possibile.
Tuttavia, man mano che la fattibilità tecnica progredirà e i costi delle attrezzature per automatizzare le fabbriche caleranno, sarà solo questione di tempo prima che la logica economica favorisca un ritorno di molte attività manifatturiere nei Paesi sviluppati (ma con pochissimi posti di lavoro creati). E la velocità di questo ritorno sarà accelerata dal fatto che automatizzare le fabbriche e dislocarle vicino ai consumatori finali renderà enormemente più veloce la capacità di reazione delle aziende orientate alla moda ai cambiamenti delle preferenze dei clienti.
Esattamente come succede per la quasi totalità dei lavori esistenti nei Paesi sviluppati, anche per quanto riguarda i lavori industriali orientati alle esportazioni nei Paesi in via di sviluppo la domanda non è se saranno eliminati, ma quando.
L’economia indiana offre già segnali evidenti del fatto che l’automazione sta limitando pesantemente la creazione di posti di lavoro. Considerando le tendenze demografiche, l’India dovrà creare tra i 10 e i 12 milioni di posti di lavoro ogni anno per rimanere sui livelli annuali di disoccupazione e sottoccupazione. Ma nonostante la crescita del Pil, che attualmente viaggia sul 6-7 per cento annuo, la creazione di posti di lavoro recentemente è rimasta ben al di sotto di quel livello: al contrario, ci sono segnali che l’occupazione formale in settori di punta come l’industria manifatturiera orientata all’esportazione, l’informatica, la lavorazione di pratiche amministrative e la produzione di farmaci generici potrebbe già essere in calo, perché le aziende indiane stanno cominciando ad applicare tecnologie all’avanguardia per automatizzare le loro attività, nonostante la disponibilità di manodopera a costi estremamente bassi.
Nonostante sia ancora un Paese a basso reddito, l’India esibisce già quindi il fenomeno, tipico dei Paesi sviluppati, in cui il rapido progresso tecnologico di alcuni settori e occupazioni è compensato dalla proliferazione di impieghi malpagati nei servizi, in attività che almeno per il momento sono difficili da automatizzare. Ma considerando che l’India parte già con un’enorme economia sommersa a bassa produttività, e considerando che a differenza dei Paesi sviluppati la sua popolazione e la sua forza lavoro continueranno a espandersi rapidamente per altri trent’anni, le proporzioni e la gravità della divergenza tra regioni dell’India e gruppi di reddito molto probabilmente faranno apparire trascurabili le crescenti disuguaglianze dei Paesi sviluppati.
Eppure, nonostante questi problemi, l’India potrebbe riuscire comunque a crescere abbastanza da ritrovarsi, alla fine del XXI secolo, a fare i conti solo con le sfide con cui dovranno misurarsi per quell’epoca i Paesi sviluppati. Anche se riuscisse a garantire occupazione solo al 10% della sua forza lavoro, possiede già aziende importanti, competitive a livello mondiale, e l’aumento della produzione e dei redditi potrà sostenere un’economia dei consumi in crescita anche se l’occupazione rimanesse al palo. Inoltre, se il calo dei tassi di fecondità proseguirà, la popolazione e la forza lavoro raggiungeranno l’apice intorno al 2050 e il lento declino che seguirà contribuirà a ridurre i problemi legati alla creazione di posti di lavoro.
– Traduzione di Fabio Galimberti
Adair Turner terrà l’Inet lecture sul «Capitalismo nell’età dei robot» a Trento il 2 giugno alle 10 a Palazzo Geremia.. Introdurrà Giuseppe Laterza

Il Sole Domenica 27.5.18
Richard Pipes (1923 - 2018)
Anticomunista militante
Scampò alla Shoah in Polonia e si trasferì negli Usa, diventando storico della Russia. Resta discutibile la sua idea di totalitarismo
di Emilio Gentile


Richard Pipes sarebbe stato una vittima della Shoah, se nell’ottobre 1939 non fosse fuggito con la famiglia ebrea dalla Polonia, fatta a pezzi e ingoiata da Hitler e Stalin. Passando attraverso l’Italia, nel 1940 i Pipes si trapiantarono negli Stati Uniti, dove Richard si laureò, durante la Seconda guerra mondiale si arruolò nel U.S. Corp, e infine diventò storico della Russia e professore ad Harvard. Anticomunista militante durante la Guerra fredda, fu consigliere del presidente Reagan per l’Europa orientale e la Russia. Spicca fra le sue opere la trilogia La Russia sotto l’antico regime (1974), La rivoluzione russa (1990), La Russia sotto il regime bolscevico (1993). Le tre opere sono unite da una interpretazione fondamentale: la sostanziale continuità fra il regime zarista e il regime comunista. Per Pipes, la conquista bolscevica del potere non era stata una rivoluzione proletaria di massa, ma un colpo di Stato compiuto da Lenin, il capo di un partito che aveva 200mila iscritti su una popolazione di 184 milioni, fin dall’inizio deciso a instaurare un regime terroristico a partito unico per scatenare una guerra civile mondiale, abbattere il capitalismo, realizzare il comunismo. Il regime di Lenin, secondo Pipes, «trovava i suoi immediati antecedenti nel regno più reazionario della Russia imperiale, quello di Alessandro III, sotto cui Lenin era cresciuto». Vi erano, fra i due regimi, «inequivocabili affinità», identificate da Pipes con il concetto di «patrimonialismo»: l’autocrazia, il monopolio delle risorse economiche e produttive, la polizia segreta, la sottomissione della popolazione a una burocrazia privilegiata e spietata. Dopo la morte di Lenin, il regime fu consolidato da Stalin, che eliminò i suoi antagonisti e concentrò il potere nella sua persona. Pipes definisce Stalin un «vero leninista» perché «aveva la stessa ideologia e lo stesso modo di agire di Lenin», con un’unica differenza: Lenin non uccideva gli altri comunisti mentre Stalin li fece massacrare in quantità. Lo stalinismo aveva le sue origini nel leninismo e ne era la continuazione.
L’interpretazione di Pipes fu sdegnosamente respinta dai sovietologi revisionisti, marxisti o simpatizzanti per l’esperienza sovietica, i quali obiettarono che il regime bolscevico non aveva continuità con lo zarismo; la guerra civile, il terrorismo, il partito unico non furono scelte di Lenin; lo stalinismo non fu la prosecuzione inevitabile del leninismo, ma la sua deformazione. Pipes fu pertanto accusato di essere accecato dall’anticomunismo, che lo trasformava, da storico quale pretendeva di essere, in un pubblico accusatore della storia sovietica, rappresentata come successione di despoti criminali. Un severo critico scrisse che Pipes, «malgrado le evidenti qualità di erudizione, intelligenza e talento», era «ottenebrato da un’ideologia gretta e sgradevole ». Ancora più sdegnate furono le reazioni dei sovietologi revisionisti all’uso che Pipes faceva del concetto di «totalitarismo» per definire leninismo e stalinismo, accomunandoli a fascismo e nazismo, fino a sostenere che Lenin era stato l’inventore del totalitarismo, diventando modello per Mussolini e Hitler. I sovietologi revisionisti negavano al concetto di totalitarismo qualsiasi utilità analitica, perché lo consideravano un’arma della propaganda anticomunista, escogitata durante la Guerra fredda per denigrare l’esperienza comunista russa paragonandola al nazismo. Ci fu persino chi sollecitò la messa al bando del termine «totalitarismo» dalla storiografia e dalle scienze sociali.
L’ atteggiamento dei sovietologi comunisti o simpatizzanti per il comunismo anticipava l’analogo atteggiamento manifestato, in tempi più recenti, da sedicenti democratici e liberali, i quali non disdegnano di usare il concetto di totalitarismo per accomunare nazismo e comunismo ma, a differenza dello storico americano, protestano vivamente per la definizione del fascismo come totalitarismo, ignorando o tralasciando il fatto storico, che tale definizione, come lo stesso termine «totalitarismo», fu coniata negli anni Venti da liberali e democratici antifascisti, come Giovanni Amendola e Luigi Sturzo. Notavamo undici anni fa, qui sul Domenicale, che vi sono scrittori di storia i quali, solo a sentire parlare di totalitarismo, e in modo particolare di totalitarismo fascista, reagiscono come chi, secondo una credenza popolare, è morso dalla tarantola, cioè si lasciano andare a comportamenti esagitati, e non esitano a ricorrere a metodi tipicamente totalitari per denigrare chi definisce il fascismo totalitario, nel significato storico del concetto. Ai «tarantolati dal totalitarismo» che denigrarono la sua opera, Pipes reagì con un intero capitolo nell’ultimo volume della trilogia intitolato «Comunismo, fascismo e nazionalsocialismo». Lo storico sosteneva, con insistenza, che i «tre regimi totalitari... erano accomunati da fattori assai più importanti di quelli che li distinguevano»; «l’affinità più significativa fra i tre movimenti totalitari riguardava l’ambito della psicologia»; le loro differenze «erano il risultato di adeguamenti tattici della stessa filosofia di governo alle condizioni di governo, e non filosofie diverse». Pipes concludeva affermando che «i regimi totalitari nelle varianti di destra o di sinistra non erano accomunati soltanto da una filosofia e una prassi politica simili, ma da una concezione condivisa dei loro fondatori: la loro forza motrice era l’odio e la loro espressione era la violenza».
Tutta l’argomentazione di Pipes, per identificare comunismo, fascismo e nazismo, si fondava su una tesi perentoria: «Mussolini e Hitler imitarono il modello comunista». Per dimostrare tale tesi, tuttavia, lo storico si avvaleva di analogie spesso basate su fatti storici errati o fraintesi, come quando asseriva che «la frattura di Mussolini con il socialismo non fu ideologica ma personale»; che nel 1920-21 «Mussolini sarebbe stato ben lieto di accogliere sotto la propria ala i comunisti italiani»; che «negli anni Venti, quando si diffusero i concetti di “totalitarismo” e “fascismo”, gli studiosi occidentali sapevano pochissimo dei bolscevichi e della dittatura monopartitica che avevano inventato». In realtà, la rottura di Mussolini con il socialismo fu ideologica, per nulla personale; nel 1921 Mussolini definiva Gramsci e i comunisti «quattro deformi intellettualoidi»; la dittatura monopartitica dei bolscevichi era nota agli studiosi occidentali, che per primi misero a confronto il fascismo e il bolscevismo, come fecero, per citarne alcuni, Camille Aymard (Bolshevisme ou Fascisme?..., Paris 1925); Luigi Sturzo nel libro Italia e fascismo, pubblicato in inglese nel 1926 e tradotto in tedesco, francese, spagnolo; Francesco Saverio Nitti nel libro Bolscevismo fascismo e democrazia, pubblicato a New York nel 1927.
Pipes era un storico di valore. Ma anche uno storico di valore, quando si avventura nella comparazione fra i regimi totalitari, può talvolta smarrire il senso storico.

Il Sole Domenica 27.5.18
Guido Crainz, Il Sessantotto sequestrato
Dall’Est la voce del dissenso
di Francesco M. Cataluccio


Gli avvenimenti del Sessantotto, dei quali quest’anno si celebra l’anniversario con lo stanco passo dei reduci e poca inventiva interpretativa, videro l’Europa, ancora una volta spaccata in due. Ma, come nota giustamente lo storico Guido Crainz: «Nella storia d’Europa dei decenni successivi, il ’68 non ci appare tanto rilevante per quel che avvenne a Parigi oppure a Torino, a Berlino, a Milano o a Trento, quanto per i traumi e i rivolgimenti che segnarono quell’area dell’Europa “sequestrata” dall’impero sovietico».
In comune, in tutta Europa e anche negli Stati Uniti, i fatti di quell’anno ebbero una ventata di salutare libertà e di antiautoritarismo che incise soprattutto nel senso della vita e dei rapporti tra i sessi, nel modo di comportarsi e di stare assieme, nella musica, nel cinema e nel teatro, nell’arte. Protagonisti furono ovunque i giovani: «Si aveva l’impressione che l’Europa fosse piena di giovani», ha scritto lo storico Tony Judt. Soltanto che, come nota nel suo amaro saggio la storica sociale Anna Bravo, «non c’è pane senza libertà, diceva uno slogan degli studenti di Varsavia, mentre i loro coetanei francesi erano abituati a pensare piuttosto il contrario, Non c’è libertà senza pane». Le cose non stavano in realtà in modo così polarizzato: in Occidente le proteste studentesche si affiancarono subito a quelle operaie e nella parte orientale dell’Europa, sotto il dominio sovietico, il pane, che era pure un problema per ampie fasce di popolazione, divenne secondario rispetto alla repressione verso ogni istanza di rinnovamento.
In Polonia, come racconta il giornalista Wlodek Goldkorn, che allora era un giovanissimo studente a Varsavia, le manifestazioni degli studenti, appoggiate da molti intellettuali, furono usate dal partito comunista come pretesto per un regolamento interno e un’indegna campagna antisemita che espulse dal Paese i migliori filosofi e sociologi (Kolakowski, Baczko, Bauman, Smolar e infine Pomian). Gli operai allora non si mossero, ma quando lo fecero, nel 1970, provocarono, seppur al costo di vite umane nelle manifestazioni a Danzica e Stettino, la caduta del segretario Gomulka.
Questi fatti, come ciò che accadde in Cecoslovacchia, ebbero un’eco distorta in Jugoslavia, Paese che rispetto agli altri dell’Est godeva di una maggiore libertà. Anche qui i protagonisti furono i giovani. Come ricorda nel suo ricco e acuto saggio la psicoanalista e saggista Nicole Janigro, nell’anno 1967-1968, con i suoi 211mila studenti, la Jugoslavia era il terzo Paese al mondo (dopo Stati Uniti e Urss) per numero di studenti universitari rispetto alla popolazione. Studenti impoveriti che guardavano al «vero socialismo» come a una risposta concreta ai loro bisogni e ai loro sogni ma, allo stesso tempo, delegittimavano il sistema creato da Tito e ponevano alcune premesse per il tragico risveglio nazionalistico che insanguinerà e disgregherà il Paese negli anni Novanta.
La vicenda cecoslovacca, raccontata dallo storico dell’Università Europea di Firenze, Pavel Kolá?, fu assai diversa: là il ’68 fu l’epilogo drammatico di un processo di destalinizzazione, che coinvolse una parte del partito comunista al potere, iniziato nei primi anni Sessanta: «Fu un laboratorio dagli esiti incerti la cui repressione fu un colpo mortale al socialismo in generale». Ma proprio a Praga, in quegli anni, si liberò un’energia creativa (nella letteratura, nel cinema, nel teatro) caratterizzata da un’ironia corrosiva che meglio che altrove ha rappresentato lo spirito positivo del Sessantotto.
I saggi del libro sono affiancati da un ricco e interessante apparato di documenti e testimonianze (si raccomandano in particolare i testi di Bauman, di Pelikan e Popov). Il curatore Crainz si prende l’incarico, nella parte iniziale del libro, di mostrare in modo impietosamente documentato la cecità e la malafede di gran parte della Sinistra occidentale, e in particolare del Partito comunista italiano, verso quello che accadde in quell’anno nell’Est Europa. Come già era accaduto con i fatti ungheresi e polacchi del 1956, i dirigenti comunisti italiani (nonostante la voce critica di alcuni di essi e parecchi tra gli intellettuali di sinistra) si schierarono con l’Unione Sovietica e i partiti comunisti al potere. L’invasione della Cecoslovacchia e la repressione che ne seguì (per non parlare della campagna antisemita in Polonia) sarebbero stati l’occasione buona di un ripensamento critico e di una salutare rottura di una dipendenza che non aveva più ragione di esistere e che arriverà tardivamente, e con molte esitazioni, soltanto nel 1982 (dopo il colpo di Stato in Polonia) e più nettamente nel 1989 quando crollarono tutti i muri. Il Partito comunista italiano, usando nei confronti degli affari internazionali “due pesi e due misure”, non volle e non riuscì a far tesoro delle esperienze di dissenso che presero campo all’Est, e che guardavano al comunismo occidentale come a un possibile alleato.
Furono alcuni intellettuali (nel caso della Cecoslovacchia si dovrebbero ricordare almeno Angelo Maria Ripellino, Gianlorenzo Pacini e Guido Neri che raccontarono con passione la verità su ciò che accadeva laggiù), e alcuni esponenti della nuova sinistra (come il gruppo che darà vita al «Manifesto» o a «Lotta Continua»), che compresero quanto i moti di contestazione, e le nascenti spinte di dissenso all’Est, fossero parte di uno stesso, necessario, movimento di giustizia e rinnovamento delle istituzioni.
Guido Crainz, Il Sessantotto sequestrato. Cecoslovaccchia, Polonia, Jugoslavia e dintorni ,
con saggi di: Pavel Kolá?,
Wlodek Goldkorn, Nicole Janigro,
Anna Bravo, Donzelli, Roma,
pagg. 200, € 19,50
Francesco M. Cataluccio

il manifesto 27.5.18
L’assalto antisistema alla Costituzione
Lega-M5S. La saldatura delle due formazioni accompagna l’offensiva a punti nodali della Carta: regime fiscale progressivo, rappresentanza politica, profilo della linea di comando interna ai non-partiti, sordità rispetto allo Stato di diritto e ai diritti individuali, garantismo penale, ostilità ai soggetti del pluralismo
di Michele Prospero


Dal Moderno Principe si precipita al postmoderno principiante. Con un debole verso padre Pio, campione delle libere terapie stamina e, soprattutto, con buone entrature nelle società pubbliche e private, Conte si presenta come l’avvocato del popolo. Con i miscugli di un giacobinismo devoto, la fabbrica del marketing propone l’anonimo presidente per disegnare la sintesi dei due populismi antisistema. Grazie allo scettro seduttivo del potere, i vincitori sperano di lucrare il tradizionale trasformismo dei ceti dirigenti di un paese invertebrato già in fila per salire sul carro del governo del cambiamento.  Il contratto giallo-verde segna la conclusione della crisi repubblicana in una direzione conservatrice, con il leader più forte che esibisce il giubbotto di casa Pound e il non-partito azienda che affida la sua volontà di afferrare immediate spoglie al premier esecutore privo di potenza. Il populismo è nient’altro che una manifestazione speculare al trasformismo e quindi un grido di protesta ingannevole che aiuta il mantenimento delle antiche gerarchie del potere. Un premier senza storia rientra alla perfezione nel catalogo di costruttori di storie da vendere a un elettorato così mal ridotto che ormai consuma solo chiacchiere.  Quando, in una stessa compagine di governo, si intrecciano residui di radicalismi di sinistra e eredità di una antipolitica conservatrice, slanci per i diritti negati e i rancori della destra, il secessionismo del nord e il disagio meridionale, i nuovi linguaggi digitali giovanili e gli incubi senili di tipo securitario, la cantante di Clandestino e quella di finché la barca va, il segretario nazionale della Fiom e i padroncini, qualcosa di profondo si è consumato. La seconda lunga crisi dei vent’anni trova un suo equilibrio nel solco di altre fasi critiche della storia italiana.  La prima crisi lunga fu quella d’inizio ‘900, anch’essa contrassegnata dal giovanilismo, dall’antipolitica spacciata dalle riviste più influenti, dalla mentalità antipartito e conclusa con il capo carismatico. La lunga crisi della seconda repubblica segue lo stesso canovaccio ma approda a una democrazia minima con l’alleanza tra la rete e la ruspa, l’immateriale cyber spazio e il materiale territorio un tempo solo padano. Il marketing di nuova generazione che ha vinto rappresentando il rancore dal basso inventa un governo acefalo, con un premier senza qualità che con il suo nullismo servizievole spezza la forma di governo parlamentare.  La saldatura delle due formazioni antisistema accompagna l’assalto a punti nodali della costituzione: regime fiscale progressivo, rappresentanza politica, profilo della linea di comando interna ai non-partiti, sordità rispetto allo Stato di diritto e ai diritti individuali, garantismo penale, ostilità ai soggetti del pluralismo per completare la disintermediazione, aggressione verso i doveri di solidarietà sociale, sfida ai vincoli di bilancio e alla coesione territoriale. La sinistra sociale ha ceduto di schianto (30 iscritti al sindacato su 100 hanno votato Grillo), perché non esiste una sinistra sociale senza una cultura politica. La confusione è così grande, nella mitica società civile e tra i suoi chierici, che persino i presidenti di associazioni nate a difesa della costituzione hanno votato per un non-partito che propugna il ritrovato illiberale del mandato imperativo.  Agitando la bandiera dell’antipolitica, i miti dell’iperdemocrazia e i simboli della sicurezza, gli appetiti neopadronali delle reti aziendali della Lega e della Casaleggio hanno conquistato lo Stato e sognano la “pace fiscale” per consolidare il consenso più facile. Con il contratto di governo giunge a conclusione a un processo degenerativo di marca illiberale e dai connotati antisociali. Il governo sta gettando le fondamenta di una diversa forma della politica dell’inganno, con un nuovo sistema di potere la cui solidità e durata sono imprevedibili.  Per una coalizione post-politica, la capacità di contenere le contraddizioni (la Lega degli scandali e il movimento giustizialista che mobilita al grido di onestà) è nell’immediato un punto di forza, non di debolezza. La contraddizione è, almeno per un certo tempo, il lievito di formazioni che proclamano di trascendere destra e sinistra. Tutto pare capovolto e quindi ospitare il contrario paga. Gli operai di Taranto hanno votato per chi chiedeva la chiusura della loro fabbrica. I pensionati hanno scelto la ruspa del leader liberista (all’interno, e protezionista contro le merci cinesi) che con lo Stato minimo abolirà ogni tutela e bene pubblico. Il sud ha votato in maniera plebiscitaria per un non-partito a direzione microaziendale, interessato a occupare l’amministrazione per riscuotere tutto e subito, che cede il mandato ricevuto dai disperati senza lavoro alla sovranità del vento del nord che reclama meno Stato (sociale e più Stato penale).  Le ragioni occulte che hanno spinto all’alleanza forze che in apparenza sono agli antipodi diventano più trasparenti se si penetra nella convergenza di interessi che concorda una occupazione celere dei rami dello Stato per siglare varianti di condoni (in un paese che vanta un’evasione pari al 13 per cento del Pil), per garantire il paradiso ai redditi da capitale, per spremere vantaggi competitivi dal controllo dell’amministrazione. È grande il rischio della stabilizzazione di una democrazia illiberale, che con una logica populista rinvigorisce il disegno ostile alla rappresentanza.  L’articolo 67, contro cui il M5S si scaglia, è una autentica disposizione fondativa. Oltre che indicare la genesi storica dell’ordinamento nella vicenda dell’antifascismo, racchiude una valenza di sistema in quanto non può essere scalfito il principio della indipendenza del mandato senza distruggere l’impianto valoriale che sorregge il disegno della costituzione repubblicana. Il partito azienda, il comitato d’affari della piccola borghesia toscana, la rete imprenditoriale diffusa del nord est produttivo, la micro-azienda informatica, sono già i depositari delle chiavi della costituzione materiale dei partiti. Il M5S vorrebbe perfezionare la privatizzazione della rappresentanza politica.  E però il quadro non è granitico e immobilista. Con la magia dello storytelling, i microproprietari del M5S vorrebbero trasformare un presidente ignoto in un depositario del consenso dell’elettore pigro alla ricerca di difensori disponibili al gratuito patrocinio. Solo l’iniziativa politica può ridestare un’opinione pubblica stordita dalla narcotizzazione delle favole inventate ad arte dal giacobinismo dei ricchi che sfruttano il sentimento della rabbia.  Dall’opposizione è necessario riaprire uno spazio di mobilitazione ideale per un polo alternativo di resistenza democratica e di classe.

La Stampa 27.5.18
Marine Le Pen
“Sono in contatto con Salvini ma nei 5 Stelle ci sono ambiguità”
di Leonardo Martinelli


Gli occhi fissi sul telefonino, Marine Le Pen è nel suo ufficio di deputata all’Assemblea nazionale. Sta parlando con Matteo Salvini in questi giorni? Alza lo sguardo e ammette: «Ci scambiamo degli sms, ma non ne rivelerò il contenuto: sono conversazioni private». Accetta, invece, di parlare a ruota libera delle sue aspettative nei confronti di un governo Lega Nord-5 Stelle e dei dubbi che, malgrado tutto, mantiene nei confronti di questi «strani» grillini.
Signora Le Pen, ha visto che confusione in Italia?
«No, è molto positivo. Anzi, vorrei congratularmi con gli italiani per il voto che hanno espresso: si sono ritrovati nel senso della storia. Negano, come altri popoli, uno dopo l’altro, il diritto dell’Ue a regolamentare tutti gli aspetti della loro vita. Quest’Europa è diventata un carcere».
Sì, ma può funzionare un governo Lega Nord-5 Stelle?
«È un’alleanza che la dice lunga sulla ricomposizione della vita politica dei Paesi europei. Io l’avevo teorizzato da tempo: è finito il divario fra destra e sinistra».
In che senso?
«Oggi la battaglia è tra mondialisti e nazionalisti. Da una parte, chi ritiene che non ci debbano essere più frontiere e vuole che il destino dei popoli finisca nelle mani delle multinazionali: insomma, chi pensa che il denaro sia re. Per gli altri, invece, la democrazia può vivere solo nel contesto di una nazione, con le protezioni che ne derivano. In Francia Macron ha capito bene che c’era questo divario ed è entrato nel solco del Front National, ma al di là della barricata».
Cosa si aspetta da un governo come quello che si sta profilando in Italia?
«Beh, innanzitutto voglio vedere cosa riuscirà a fare. E soprattutto fino a dove l’Unione europea arriverà a contrariare la volontà dei popoli. Ci sarà un braccio di ferro, lo vediamo già in questi giorni. Finora l’Ue ha risposto alle sue carenze e ai suoi fallimenti in un solo modo, con una fuga in avanti. A Bruxelles pensano che, se l’Unione europea non funziona, è perché non ce n’è abbastanza. Ma più ce n’è e più è una catastrofe sociale, economica, ambientale e migratoria. Dall’Italia mi aspetto che partecipi a quella battuta d’arresto che i popoli vogliono dare a questa Unione europea carceraria».
A Roma nel «contratto di Governo» all’inizio c’era anche l’uscita dall’Euro. Poi è scomparsa. Hanno fatto bene Salvini e Luigi Di Maio a rinunciarvi?
«È un problema che conosco bene. Io stessa ho ceduto sul calendario per centrare quest’obiettivo, anche se non rinuncio alla volontà di acquisire di nuovo nel futuro per la Francia la sovranità monetaria. Ma penso che la propaganda sviluppata intorno all’euro abbia fatto paura ai popoli. Come diceva François Mitterrand, bisogna dare tempo al tempo: ebbene, anche quello agli europei di avere coscienza che non c’è alternativa alla sovranità monetaria. Per ora, Salvini e Di Maio hanno fatto bene a rinunciare nell’immediato a quell’esigenza. Anche perché adesso l’emergenza assoluta è l’immigrazione».
Vogliono mettere fuori 500 mila immigrati.
«È fattibile, se si tiene conto della politica di dissuasione. Quando i migranti si rendono conto che un Paese la fa finita con il lassismo, una grossa parte di loro non viene più e in tanti ripartono».
Lei potrebbe riprodurre in Francia un’alleanza come quella fra grillini e Lega Nord?
«Il paragone è difficile, perché abbiamo un sistema elettorale e istituzionale diverso. Ma anche noi vogliamo allearci con persone di provenienza diversa che si ritrovino a difendere la nazione. Qui, però, non abbiamo un movimento simile ai 5 Stelle. Anche se, poi, lì dentro c’è tutto e il contrario di tutto. A Bruxelles ho ascoltato da parte dei loro eurodeputati discorsi molto pro-immigrazione. Non mi sembra esista un’omogeneità ideologica all’interno dei 5 Stelle. Quando si esprimono in Italia, sono più opposti agli immigrati. Non si capisce bene».
Cosa pensa di Salvini?
«L’ho conosciuto quando la Lega faceva il 4%. Ho incontrato un uomo estremamente solido, serio, costruito politicamente, coraggioso. E con un vero senso della politica».
Un po’ gelosa di lui? Salvini dovrebbe andare al potere, lei non ci è riuscita.
«Non sono mai invidiosa delle cose belle che accadono ai miei amici. La lotta che portiamo avanti non è individuale. Hanno accusato i nostri movimenti patriottici di essere centrati sui rispettivi Paesi. E invece siamo i più collettivi, crediamo in un’Europa delle nazioni e della cooperazione».

Il Fatto 27.5.18
“Salvimaio non mi piace, però il veto a Savona è inaccettabile”
Marco Revelli - “Il 4 marzo è stato un grido: l’Europa non può andare avanti così. E il capo dello Stato non puoi imporre la sua preferenza”
intervista di Tommaso Rodano


“Trovo grottesco che tutta la questione del governo si riduca a un sì o un no a Paolo Savona. Gli viene attribuita la ‘colpa’ di essere euroscettico, i media mainstream scrivono che è inviso alla Germania per una frase del suo ultimo libro. Perché critica l’approccio tedesco alla questione europea. Non mi pare una critica assurda”. Il professor Marco Revelli ha scritto, insegnato e indagato la “destra” e la “sinistra” nel corso di tutta la sua vita professionale. Ora sostiene che siano evaporate: con il voto del 4 marzo – ha scritto sul Manifesto – il mondo nel quale quelle categorie politiche si sono formate “è andato in pezzi”. Un terremoto: “Se non si vede questo e ci si concentra esclusivamente sulla figura di Savona, significa che il nostro dibattito pubblico è in condizioni devastanti. È come guardare il dito e non guardare la luna”.
Eppure su Savona è in atto uno scontro istituzionale. Non crede sia una delle prerogative di Mattarella, quella di rifiutarsi di nominare il ministro?
Noi restiamo una Repubblica parlamentare. Ovviamente è il presidente della Repubblica a nominare i ministri, ma non significa che sia lui a deciderli, o imporli. L’ultima parola spetta al Parlamento e alla sua maggioranza. Può piacere o no: a me questa maggioranza non piace. Ma al di là delle procedure e delle prerogative del Capo dello Stato, la sostanza è che l’ultima parola spetta agli eletti del popolo.
La fedeltà alle regole dell’Unione europea non è forse una questione di rilevanza costituzionale?
Ci sarebbero eccome delle preoccupazioni di natura costituzionale su diversi altri punti del contratto di governo. Riguardano temi cruciali come le politiche securitarie o quelle di contrasto dei migranti, che minacciano diritti fondamentali dell’uomo. Oppure le politiche sull’uso delle armi che guardano al modello americano; l’abbassamento del rigore in materia di legittima difesa. Ci sono proposte pesantissime nel programma gialloverde, ma su queste non ho sentito nemmeno una voce alzarsi da parte degli opinion leader di centrosinistra. Non mi pare abbiano capito il significato del 4 marzo.
Ovvero?
È stato un voto disomogeneo ma che ha un comune denominatore da nord a sud, nell’elettorato della Lega e in quello dei 5Stelle: la dichiarazione che così non si può andare avanti, la richiesta di una netta discontinuità nel modello di governance europeo. Non significa uscire dall’Euro o rompere tutti i trattati, ma mettere in discussione quelle regole che hanno necrotizzato la nostra società, hanno prodotto un senso di asfissia. Il 4 marzo è stata una richiesta perentoria di aprire le finestre per dare ossigeno. Il “populismo” è stato il principale prodotto della governance europea.
Un uomo di sinistra come lei si augura il via libera a un governo Salvini-Di Maio?
Il discorso è più complesso. Se si mette il tappo a questa domanda di cambiamento, in nome del rispetto non delle regole europee ma degli equilibri di potere europei, si prepara un nuovo uragano. Se sciaguratamente questo governo saltasse non ci sarebbe da fare festa, perché l’alternativa non sarebbe un esecutivo più democratico: se si tornasse al voto uscirebbe una maggioranza ancora più di destra, dominata da Salvini, con Meloni e Berlusconi.
Tra la maggioranza gialloverde e le forze che si oppongono, lei dove si colloca?
Non c’è un’opposizione a questo ossimoro che va al governo. Lo definisco un ossimoro perché è segnato da una composizione schizofrenica, al di là dell’omogeneità dell’urlo di cambiamento. Abbiamo politiche securitarie esplicitamente di destra ma pure un’attenzione inedita alla questione sociale. Stiamo attenti: questo programma forse è scritto in modo un po’ superficiale, ma il messaggio che dà è uno sguardo sulla sofferenza sociale che i governi precedenti non hanno mai mostrato. Non sto facendo un elogio, credo sia una tragedia: perché la società che era stata l’anima delle politiche democratiche di sinistra è trasmigrata in quel bacino.
La sinistra non esiste più.
Lo dico dal ‘96. La sinistra se n’è andata dalla società. È stato un esodo suicida. Se non ci si rende conto di questo, se l’unica preoccupazione è Savona, è come lo sciocco che guarda il dito e non vede la luna.
Ma se Savona dovesse saltare non sarebbe in fondo una sconfitta di Salvini?
Salvini ha tutto da guadagnare da un eventuale fallimento della trattativa. È l’unico con un piano B, in tutti i sensi.

Il Fatto 27.5.18
L’ultima profezia del vecchio D’Alema


Prosegue la nobile tradizione delle profezie di Massimo D’Alema. Siamo a Roma, assemblea nazionale di Liberi e Uguali: dopo il 3,3% alle elezioni, la sinistra anti Pd prova a rimettere insieme i pezzi (ovvero: si prepara a riaccordarsi col Pd) D’Alema, circondato dalle telecamere, è a colloquio con Pietro Grasso, già leader designato della sfortunata avventura elettorale. E gli espone la sua lettura sui fatti dell’attualità politica: “Se torniamo a elezioni per il veto a Savona, quelli prendono l’80%”. Dove “quelli” sono ovviamente i leghisti di Salvini. Sono facili e un po’ scontate le ironie sulla sindrome da Cassandra che affligge l’ex deputato di Gallipoli: tra le ultime profezie ce ne sono una politica (“Possiamo prendere il 10%”, LeU non ci è andata molto vicina) e una calcistica (“Con Di Francesco la Roma lotterà per la salvezza”, invece è arrivata in semifinale di Champions League). La vera cattiveria è un’altra: Baffino e Grasso che discutono amabilmente di politica ai margini dell’assemblea di un partito mai nato, rimanda un po’ alle immagini dei pensionati che osservano i cantieri, o gli anziani di paese che borbottano di destra e sinistra al bar, tra una briscola e un bicchiere di vino.

Corriere 27.5.18
La carriera politica e il principio di Peter
di Aldo Grasso


La dirigenza del Pd continua la lunga tradizione autolesionista dei «fratelli coltelli». Con l’intento di recuperare consenso a sinistra, il presidente del Pd, ospite del salotto di Bianca Berlinguer, ha attaccato il ministro uscente dell’Interno Marco Minniti: «Se andiamo in tv a dire che l’immigrazione è un pericolo si fa un assist a Salvini. La lettura sull’immigrazione data dal nostro governo ha sdoganato una lettura di destra del fenomeno».
C’è da chiedersi se certi dirigenti conoscano ciò che succede in Italia, al di fuori dei palazzi di Roma, perché sono anni che al Nord la Lega strappa consensi proprio cavalcando il problema dell’immigrazione, infierendo sull’incapacità di controllare gli sbarchi e sulla retorica dell’accoglienza. Se c’è un ministro che ha ottenuto qualche risultato, è stato proprio Minniti. Come subito ha ricordato a Orfini il sindaco di Pesaro Matteo Ricci: «Da sindaco so che la politica di Minniti ha tenuto insieme rigore e solidarietà. Funziona e doveva iniziare prima. Avremmo tolto spazio ai razzisti».
Grazie a questi dirigenti, quelli che si apprestano a governarci e quelli che saranno all’opposizione, siamo in grado di riformulare il famoso principio di Peter sulle organizzazioni: «In politica, ogni funzionario o portavoce tende a salire di grado fino al proprio livello di incompetenza».

Il Fatto 27.5.18
Chi tifa spread contro Savona dimentica l’interesse nazionale
Jan Zielonka - Il politologo inglese avverte: l’opposizione preventiva al nuovo governo indebolisce l’Italia ai tavoli Ue
di Jan Zielonka


Le ultime elezioni hanno spinto l’Italia in un nuovo universo politico. Gli elettori non hanno soltanto votato per politici differenti, ma anche per politiche diverse. Perché un Paese funzioni in modo efficace, però, certe questioni devono essere espunte dalla polemica politica. I partiti degli schieramenti opposti devono accettare un’idea comune di raison d’état, di ragion di Stato. E questa idea condivisa, al momento, in Italia non c’è.
Comprendo che i liberal non amino la coalizione SalviMaio, ma non capisco perché la dipingono come un branco di svitati pronti a trasformare l’Italia nel Venezuela. I frequenti riferimenti dei critici all’aumento dello spread e ai cali della Borsa di Milano suggeriscono che debbano essere i mercati, invece che gli elettori, a decidere il destino degli italiani. Questa è una sentenza capitale per la democrazia, non importa sotto quale bandiera politica sia pronunciata. È ovvio che i vincitori delle elezioni non possono ignorare i mercati. Ma i mercati hanno un concetto peculiare di interesse pubblicato e tendono a generare enormi disuguaglianze. Quando, nel 2008, la crisi finanziaria è esplosa, i mercati hanno chiesto ai cittadini di sopportarne il peso. La relazione tra democrazia e mercati va ripensata altrimenti la gente si ribellerà. Il concetto di interesse pubblico deve riflettere le scelte elettorali, non un’agenda ideologica (e neoliberista).
La seconda questione fondamentale riguarda l’Ue. In gioco non c’è l’integrazione europea in quanto tale, ma le implicazioni del Fiscal compact che impone il corsetto dell’austerità agli Stati membri. Se questo corsetto deve risultare una gabbia è opinabile: la Germania non è il solo Stato che difende le rigide regole del Fiscal compact.
Matteo Renzi, proprio come Paolo Savona, invoca cambiamenti delle regole contabili in vigore oggi. Ma Savona, a differenza di Renzi, sembra avere un piano B in caso la diplomazia fallisca. Se i critici di Savona pensano che l’attuale gestione della zona euro sia dannosa per gli interessi italiani, dovrebbero evitare di appoggiare ciecamente le posizione di Germania, Olanda, Finlandia e Austria.
Il terzo punto fondamentale riguarda la qualità del futuro esecutivo. Non ho idea se il primo ministro incaricato, Giuseppe Conte, sarà all’altezza della sfida, ma l’esperienza di governo del professor Savona è indiscutibile. In effetti, Savona sembra essere finora il più competente tra i nomi circolati per i vari ministeri. I critici di Savona preferiscono forse che siano Di Maio o Salvini a gestire l’economia del Paese? E si può davvero criticare il governo prima ancora che si sia insediato? Gli sconfitti delle ultime elezioni sembrano auspicare il caos che costringerà gli elettori a rivalutare il loro programma “responsabile”. Ho paura che tra le rovine dell’economia italiana, nessuno potrebbe cantare vittoria e placare i cittadini furiosi.
Gli Stati nazione hanno passato il loro periodo di gloria e sono incapaci di svolgere la maggior parte delle loro funzioni tradizionali. Eppure sono ancora le unità fondamentali della democrazia e controllano le decisioni (e i soldi) all’interno della Ue.
Il Fiscal Compact e il trattato di Schengen distribuiscono costi e benefici in modo non uniforme. Ma soltanto gli Stati capaci di formare in patria coalizioni che riflettono una visione condivisa di interesse nazionale stanno riuscendo a negoziare con successo a livello europeo. Il ruolo delle opposizioni è criticare il governo. Ma entrambi i fronti devono ricordarsi che attraversare alcune linee rosse indebolisce lo Stato. I tedeschi, i portoghesi e gli olandesi sembrano aver capito le regole del gioco. Gli italiani, i britannici e i polacchi sembrano invece sprofondare nei loro battibecchi domestici.

Corriere 27.5.18
A Dublino si volta pagina anche per i (tanti) errori di una Chiesa sempre venerata
di Sergio Romano


Decisivi gli scandali sugli abusi negli istituti per minori soli
I manifesti che hanno tappezzato per qualche settimana i muri delle città e dei borghi della Repubblica irlandese non erano troppo diversi da quelli che hanno coperto nel giugno del 2016 i muri del Regno Unito. Anche il governo di Dublino chiedeva ai suoi elettori, semplicemente, un sì o un no. Il sì avrebbe cancellato un emendamento della Costituzione, adottato nel 1983, che impediva l’interruzione di gravidanza e scolpiva quel diniego nella carta costituzionale. Il no conservava il divieto. Raccontata in questi termini, la vicenda sembrerebbe soltanto una nuova vittoria dell’elettorato femminile in uno dei pochi Paesi europei in cui l’aborto era ancora proibito. La situazione in realtà è più complicata.
Occorre ricordare, in primo luogo, che la Chiesa cattolica ha in Irlanda uno statuto alquanto diverso da quello di cui gode nei Paesi dove la religione cattolica è maggioritaria. Qui la Chiesa non è soltanto un patrimonio di credenze e ricorrenze che scandiscono i tempi della vita quotidiana. È una parte inseparabile della identità nazionale, è il fattore che ha maggiormente aiutato gli irlandesi a distinguersi dal grande Stato della porta accanto. Non è soltanto una fede; è anche una patria. Ma questo retaggio storico è stato in parte offuscato negli scorsi anni. La Chiesa ha perduto una parte importante della sua autorità e credibilità. Molti irlandesi non avrebbero votato sì, probabilmente, se gli abusi in alcuni istituti per bambini abbandonati non avessero lasciato una macchia sul volto della istituzione.
Non è tutto. Nel 1983, i severi guardiani della fede ricorsero all’emendamento costituzionale perché temevano che nel clima sociale di una Europa sempre più «permissiva e femminista» sarebbe stato difficile impedire al Parlamento l’approvazione di una legge ordinaria per la legalizzazione dell’aborto. Forse che qualche anno prima , dopo alcune sentenze, lo stesso Parlamento, non aveva approvato una legge che liberalizzava il commercio degli anticoncezionali?
Ma dopo l’approvazione dell’Ottavo emendamento il Parlamento credette di potere aggiustare la sua linea con una concessione pragmatica. Le donne non potevano abortire, ma potevano documentarsi sui metodi e sui luoghi in cui la maternità poteva essere programmata in «altri modi». Non era comunque possibile ignorare che molte donne irlandesi ricorrevano all’aborto con un breve viaggio, dal mattino alla sera, in un ospedale del Regno Unito. Come l’Irish Times, uno dei migliori giornali del Paese, ha lasciato intendere più volte negli scorsi anni, il Parlamento di Dublino aveva inventato un sistema ibrido e ipocrita. Vietava l’aborto in patria, ma lo permetteva, di fatto, all’estero.
Lungo la strada il problema si è ulteriormente complicato. L’Ottavo emendamento proibiva l’aborto, ma faceva una eccezione nei casi in cui il medico avesse dovuto decidere fra la morte della madre e quello del figlio. La scelta può essere in molti casi terribilmente difficile e l’episodio che suscitò maggiore scandalo fu quello di una ragazza tredicenne a cui non fu permesso di abortire. La ragazza morì e la sua vicenda ha avuto probabilmente una influenza sul esito dell’ultimo voto.
Esiste un’altra ragione per cui la maggioranza degli irlandesi ha votato sì. Il viaggio a Londra o in altre città del Regno Unito era vissuto da molte donne come una umiliazione. Dopo essersi battute con i loro uomini per avere una patria, erano costrette dalla loro Costituzione ad abortire in un ospedale del loro vecchio padrone di casa.

Il Fatto 27.5.18
Mullally: “La Chiesa non condizionerà più le scelte delle donne”
di S.P.


È stata una delle protagoniste della campagna per il ‘Sì’. Una Mullally, scrittrice, editorialista dell’Irish Times e attivista LGBT risponde dalla sede dello spoglio, nel centro di Dublino.
Un’analisi del voto?
Risultato fenomenale. Il messaggio che è arrivato ovunque è che le donne devono avere il diritto di decidere, che è venuto il momento di prendersi cura della loro salute in Irlanda, ponendo fine a decenni di abusi e sofferenze. Evidentemente per il ‘Sì’ c’era un consenso silenzioso che con il voto è potuto emergere. Mi pare che media e politici abbiano sottovalutato la maturità degli elettori.
Come si è arrivati a questo risultato?
È una campagna che dura da 35 anni, ma credo che la svolta sia stata l’alleanza fra generazioni, con energie fresche determinare ad ottenere il cambiamento.
Quali sono le implicazioni più profonde per le donne irlandesi?
Questa campagna ci ha fatto riscoprire il potere della partecipazione dal basso e credo che questo avrà un impatto profondo sulla politica irlandese nel futuro.
Il primo ministro Leo Varadkar si è speso apertamente per l’abrogazione dell’Ottavo emendamento. Quale pensa possa essere l’impatto di questo risultato sul governo?
Mi aspetto che un consenso così ampio spinga i politici verso la strada della secolarizzazione. Gli elettori si ricorderanno chi ha scelto di sostenere le donne anche alle prossime elezioni.
Possiamo dire che l’Irlanda oggi è un paese post-cattolico?
Assolutamente sí. Il controllo della chiesa sulla politica e sulla società irlandesi è il passato. Ora dobbiamo liberare il sistema educativo, gli ospedali e tanti settori ancora condizionati.
Cosa resta di questa profonda mobilitazione?
È un capitale politico e civile che non sarà disperso: ora dobbiamo affrontare i tanti ostacoli alla parità di genere in tutti i settori della società. E c’è un messaggio piú ampio che spero arrivi in tutto il mondo, Italia compresa: protestare funziona e l’unione delle donne fa la differenza.

Il Fatto 2 7.5.18
Irlanda, l’autorevolezza ritrovata con la parola
di Luciana Castellina


Come ogni giorno anche stamattina un drappello di donne – undici, per l’esattezza – è partito in aereo dall’Irlanda per traversare il canale e andare ad abortire nel Regno Unito. Sono le “privilegiate”, quelle che hanno i mezzi per farlo. Le altre, centinaia di altre, continueranno a ricorrere alla pillola abortiva on line, altrettanto illegale e soprattutto pericolosa, perché non esistono controlli sanitari su chi la vende.
La storica vittoria di venerdì 25 al referendum che ha cancellato l’art. 8 della Costituzione del Paese e ha finalmente riconosciuto il diritto delle donne a decidere se diventare o meno madri apre infatti solo la strada al varo di una legge che dovrà esser presentata, discussa, votata.
Ci vorranno ancora mesi. E, comunque, resterà tagliato fuori un altro milione di irlandesi, quelle dell’Irlanda del Nord, come è noto tutt’ora suddite del Regno di sua Maestà Britannica, e però private del diritto riconosciuto alle inglesi. In un pezzo dell’isola sanguinosamente diviso su tutto, su una sola cosa protestanti bigotti e cattolici che nella religione hanno trovato il modo di difendere la loro autonoma identità nazionale, sono in accordo: sulla pelle delle donne.
Non voglio affatto, per carità, sciupare con un altro piagnisteo, la bella vittoria delle donne irlandesi. È stato un fatto storico. Ne chiarisce la portata la frase pronunciata da Katherine Zappone, ministra per l’infanzia, sposata con una donna, Anne Luise Gilligen, da quando il matrimonio fra appartenenti allo stesso genere è stato introdotto in Irlanda. «È la volontà delle donne di raccontare le loro storie – ha detto – che ci ha consentito di cambiare il cuore e la mente dei cittadini».
Questa voglia di uscire da un riserbo millennario per parlare di loro stesse è recente: è emerso da quando, fra incredulità e spesso anche irrisione, le donne hanno deciso di dar vita ai gruppi di autocoscienza per parlarsi direttamente. In molti non hanno capito che si trattava di una prima grande inchiesta su se stesse, attraverso i meandri della propria intimità mai fino in fondo visitata.
È stato il primo passo del nuovo femminismo. Cui oggi se ne è aggiunto un altro decisivo e recentissimo: le donne, quello che hanno scoperto dentro se stesse, hanno cominciato a raccontarlo e per la prima volta – ecco il fatto nuovissimo e dirompente – vengono credute. Quante volte nei Tribunali le denunce di molestia o di violenza non hanno avuto seguito perché le donne non venivano credute? Se milioni di donne, dagli Stati Uniti alla Spagna a ovunque in questi ultimi tempi sono scese in strada, hanno gridato «Me too» è perché, finalmente, la loro parola ha acquistato autorevolezza.
Il voto irlandese, oltre ad aver riconosciuto un diritto sacrosanto, ha sancito clamorosamente un passaggio storico.

Il Fatto 2 7.5.18
Irlanda, cade un altro tabù. Al referendum sull’aborto vince il Sì
Ottavo emendamento. I favorevoli all’abrogazione della legge in Costituzione al 67% Alta l’affluenza, 65%. Se la Storia ha preso un altro corso, il merito è in gran parte dei movimenti femministi
di Vincenzo Maccarrone


DUBLINO Una giornata storica per l’Irlanda. Quando venerdì notte, poco dopo la chiusura dei seggi, esce il primo exit poll, nel quartier generale del comitato per il Sì scoppiano in lacrime per la gioia.
I favorevoli all’abolizione del famigerato ottavo emendamento della Costituzione, che proibisce l’aborto in quasi ogni circostanza, sono dati al 68 per cento. Alla fine della conta dei voti, il Sì raggiunge il 66.4 per cento.
UN RISULTATO ENORME e per certi versi inaspettato. Per settimane i sondaggi hanno dato in vantaggio il Sì, ma con un margine che si è andato riducendo nel corso dell’ultimo mese, mentre una quota significativa di elettori rimaneva indecisa. Ma oggi l’alta partecipazione al referendum 64.13 per cento e la vittoria schiacciante dei sostenitori del diritto all’aborto restituiscono l’immagine di un paese completamente diverso rispetto a quello che 35 anni fa inseriva, con una maggioranza altrettanto numerosa, il divieto esplicito dell’aborto in Costituzione.
Il merito è in gran parte dei movimenti femministi e per i diritti civili che per anni hanno lottato per cambiare una legislazione inumana, che costringe ogni anno migliaia di donne a recarsi all’estero per abortire legalmente, o ad abortire senza assistenza medica in Irlanda, ordinando la pillola su internet e rischiando fino 14 anni di carcere. A partire dalla tragica morte di Savita Halappanavar nel 2012 a causa di una setticemia a seguito di un aborto negato, le manifestazioni per l’introduzione di una nuova legislazione sull’aborto si sono moltiplicate. La pressione dei movimenti ha portato a un progressivo spostamento dell’opinione pubblica sul tema dell’aborto, in un paese in cui il partito di governo Fine Gael, e il principale partito di opposizione Fianna Fáil, sono entrambi di centro-destra. Fiutando il cambiamento nell’opinione pubblica sia il premier Leo Varadkar sia il leader del Fianna Fáil Micheál Martin, che in passato avevano avuto una visione più restrittiva sull’aborto, si sono espressi a favore dell’abrogazione dell’ottavo emendamento e dell’introduzione di una legge che permetta l’aborto senza condizioni fino a 12 settimane dal concepimento.
VISTO ANCHE IL SOSTEGNO al Sì di larga parte dei repubblicani del Sinn Féin, del Labour Party e della coalizione di sinistra People Before Profit-Solidarity, a difendere l’ottavo emendamento in parlamento erano rimasti solo alcuni deputati indipendenti, più i dissidenti all’interno dei partiti maggiori. Eppure, fra i sostenitori del Sì non vi era certezza assoluta della vittoria referendaria. La campagna per il mantenimento dell’ottavo emendamento, portata avanti da una serie di gruppi cattolici conservatori, si è dimostrata fin da subito agguerrita e ben finanziata. L’influenza della Chiesa cattolica, seppur minata da una lunga storia di scandali e abusi, rimane alta, in un paese in cui più del 90 per cento delle scuole primarie sono ancora a gestione clericale. Inoltre, più di un’attivista per il Sì aveva manifestato il timore che in caso di una vittoria risicata vi potessero essere ribaltoni in parlamento, magari introducendo una legge che permettesse l’aborto solo nei casi più estremi come lo stupro o le malformazioni fatali del feto. Tutti timori cancellati da una vittoria del Sì oltre ogni rosea aspettativa.
SE SI GUARDANO più in profondità i dati degli exit poll pubblicati dall’Irish Times, il principale quotidiano irlandese, si capiscono appieno le dimensioni del terremoto politico causato da questo referendum. Come previsto, il Sì prevale a larga maggioranza nelle aree urbane (71 per cento e 77 per cento nella capitale Dublino) e fra i giovani (87 per cento nella fascia 18-24 anni). Ma il referendum sembra ridefinire anche alcune geografie politiche che si credevano consolidate: il Sì prevale anche nelle aree rurali, tradizionalmente più conservatrici, con un solido 60 per cento. E se il supporto al Sì rimane più alto fra le donne (il 70 per cento vota a favore), anche la maggioranza degli uomini ha votato a favore (65 a 35 per il Sì). L’unico bastione conservatrice rimangono gli over 65, dove sei su dieci hanno votato No. È la vecchia guardia che nel 1983 aveva votato per introdurre l’ottavo emendamento. Oggi la storia rema in direzione opposta.
L’IRLANDA COMPIE così un altro passo nel processo di secolarizzazione, dopo il referendum che nel 1995 introdusse il divorzio e quello sui matrimoni fra persone dello stesso sesso del 2015. L’ottavo emendamento rappresentava uno degli ultimi bastioni di un’idea di società in cui lo Stato e la Chiesa esercitavano un forte controllo sui diritti riproduttivi delle donne. Il referendum del 2018 potrebbe segnare definitivamente la fine di questa idea.

Il Fatto 2 7.5.18
La Chiesa irlandese è screditata e a Roma sono in lutto
Vaticano. Duro intervento di monsignor Paglia, profilo più basso, invece, da parte dei vescovi locali
di Luca Kocci


«Non c’è nessuna vittoria da cantare e tanto meno da gioire, tutto ciò che in qualche modo facilita il lavoro sporco della morte non ci rende particolarmente lieti».  È dura la reazione del Vaticano al risultato del referendum che legalizza l’aborto in Irlanda. Viene affidata a monsignor Paglia, presidente della Pontificia accademia per la vita, che rilascia una dichiarazione a Vatican News, il portale di informazione della Santa sede.  L’esito del voto irlandese «ci deve spingere ancora di più non solo a difendere la vita, ma a promuoverla e accompagnarla, creando le condizioni perché non si avverino, non avvengano decisioni drammatiche, perché è sempre un dramma quando si decide di interrompere una vita», prosegue Paglia, secondo cui «c’è nell’aria un atteggiamento di individualismo che oscura e spinge a dimenticare i diritti di tutti, compreso quello di chi deve nascere». Invece «è indispensabile affermare i diritti di ciascuno, soprattutto dei più deboli, assieme al dovere di accompagnare, di sostenere, senza abbandonare mai nessuno. È una cultura che va promossa contro un iper-individualismo che porta a considerare solo il benessere individuale».  La Santa sede è intervenuta anche con monsignor Jurkovic, osservatore vaticano presso l’Onu alla 71.ma assemblea dell’Organizzazione mondiale della sanità in corso a Ginevra e dedicata all’esame della strategia globale per la salute di donne, bambini e adolescenti. Nessun riferimento al referendum irlandese, ma le parole di Jurkovic sono state chiare: «La Santa Sede si oppone fermamente a qualsiasi sforzo delle Nazioni Unite o delle sue agenzie specializzate teso a promuovere legislazioni nazionali che permettano di uccidere la vita del nascituro», ha detto il rappresentante vaticano all’Onu, ribadendo che «la Santa Sede non considera l’aborto» una misura «per la salute riproduttiva» e anzi ritiene «contraddittorio l’aborto sicuro: è un mezzo per “proteggere” i diritti umani di donne e bambini quando di fatto esso nega al nascituro il diritto più fondamentale, quello alla vita».  L’intervento di Jurkovic è riportato dall’Osservatore Romano di oggi, all’interno di una scarna notizia che dà conto del risultato del referendum irlandese, e quindi può essere considerata la posizione ufficiale di Oltretevere.  Profilo più basso, invece, da parte dei vescovi irlandesi, dopo che a marzo la stessa Conferenza episcopale aveva dichiarato di ritenere inopportuno il sostegno al referendum. Ovviamente hanno fatto campagna elettorale per il No fino al giorno prima del referendum, quando monsignor Martin, arcivescovo di Armagh e primate di Irlanda, ha invitato i fedeli a «scegliere la vita» (unica eccezione il vescovo di Limerick, monsignor Kearon, che ha annunciato di votare per abrogare l’ottavo emendamento della Costituzione, sebbene approvi l’aborto solo in casi gravi come stupro, incesto o pericolo di morte per la donna). Ma senza i toni da crociata del passato, utilizzati invece dalle organizzazioni pro-life.  Del resto in Irlanda la Chiesa cattolica appare piuttosto screditata per i numerosi scandali di pedofilia ed è reduce da due sconfitte nell’ultimo ventennio: i referendum che hanno approvato il divorzio nel 1995 (di stretta misura) e il matrimonio omosessuale nel 2015 (62% di sì). E ora l’aborto, con una percentuale di favorevoli ancora più alta. Segno che la secolarizzazione avanza a grandi passi anche nella (ex) cattolicissima Irlanda, dove ad agosto è atteso papa Francesco per l’incontro mondiale delle famiglie.

Il Fatto 2 7.5.18
Belfast resta nel Medioevo, schiacciata dalla Brexit
Gran Bretagna. L'Ulster si ritrova fra i due storici campi di tensione divergenti, quello di Londra impelagata nella palude dell'uscita dall'Ue e di Dublino che sempre di più, anche attraverso gli ultimi due storici referendum, vuole sentirsi parte di un consesso europeo non solo legale ed economico, ma civile
di Leonardo Clausi


LONDRA L’importanza del risultato referendario irlandese ha implicazioni notevoli per la Gran Bretagna, per anni meta dell’outsourcing forzato dell’aborto che la legislazione irlandese espressa nell’ottavo emendamento imponeva alle proprie cittadine. Quasi tutti i giornali e i principali mezzi di informazione ne hanno riportato con malcelata soddisfazione l’abrogazione, anche se la maggior parte dei commenti si è mantenuta su una sottile linea di imparzialità per tema di influenzare l’opinione pubblica di un Paese nella cui storia, recente e meno recente, il Regno Unito ha giocato un ruolo, fuor di metafora, a dir poco invadente. Nelle pagine dei principali quotidiani, a commenti che salutavano la prevista vittoria come il tardivo eppur sacrosanto allineamento a posizioni più civili del resto d’Europa erano equanimemente abbinati interventi che sostenevano la causa del No.
Le implicazioni dirette per la Gran Bretagna riguardano soprattutto l’Irlanda del Nord: che ora resta da sola a difendere la grettezza di una dimensione biopolitica imposta alla donna ferma al peggior oscurantismo degli anni Cinquanta. In un tweet, la ministra per lo Sviluppo internazionale Penny Mordaunt ha espresso una forte posizione di plauso per gli exit poll trionfali, sottolineando come «la storica, grande giornata dell’Irlanda» fosse «una di speranza per l’Irlanda del Nord». Gli ha fatto eco per i laburisti Owen Smith, (candidato dello sventurato coup moderato ai danni di Corbyn) che nella sua vece di ex shadow secretary per l’Irlanda del Nord ha salutato come meravigliose le notizie del vantaggio del Sì, «Un messaggio per l’Irlanda del Nord» le ha definite. Per poi aggiungere «Abbiamo bisogno di un cambiamento in tutta l’isola d’Irlanda».
Dunque ancora una volta la frazione settentrionale dell’Irlanda, altrimenti nota come Ulster, si ritrova schiacciata fra i due storici campi di tensione divergenti, quello della Gran Bretagna impelagata nella palude Brexit e di un Irlanda repubblicana che sempre di più, anche attraverso gli ultimi due storici referendum (compreso quello del 2015 sui matrimoni omosex), vuole sentirsi parte di un consesso europeo non solo legale ed economico, ma civile.
In questo senso il pronunciamento liberale irlandese sull’aborto diventa un ulteriore elemento di polarizzazione dell’opinione nel Nord, su cui incombono due rischi opposti, quello di introduzione di confini materiali con tanto di dazi tra sé e l’Irlanda (temuto da tutti come fallimento degli accordi di pace con l’Ira) come quello di una riunificazione tour court con l’Irlanda.
Un Paese, soprattutto, dove l’Abortion act britannico del ’67 non è mai stato esteso e dove le donne vengono incriminate per essersi/aver procurato pillole abortive. E dove da oggi, la riduzione in scala di un volo in Gran Bretagna per terminare una gravidanza in un viaggio in auto in Irlanda non è che la caricatura beffarda di una conquista.
Del resto qui la questione non è di repubblicanesimo contro orangismo nazionalisticamente intesi ma, come in fondo la Brexit stessa, una faglia interpartitica perfettamente trasversale. Come ha anche ampiamente dimostrato la cautela socialmente conservatrice del Sinn Féin su questo referendum.

La Stampa 27.5.18
A Parigi il popolo che sfida Macron:
“Forte nel mondo qui è un disastro”
di Leonardo Martinelli


Assa Traoré ha 33 anni, pelle nera e una criniera di capelli crespi. Edouard Louis ne ha 25, uno spilungone biondo dagli occhi azzurri. Ieri si stringevano uno all’altro in cima al corteo anti-Macron, che è scivolato via tra la Gare de l’Est, una delle principali stazioni ferroviarie di Parigi, e la Bastiglia. Un po’ improbabili, lei con quegli occhi arrabbiati, lui un sorriso intimidito: simboli per un giorno di una Francia arrabbiata. Li seguivano carri allegorici, quarantenni comunisti su pattini a rotelle. Ma anche tanta, tanta gente comune, senza nessuna bandiera da sventolare
Assa Traoré è assistente sociale nella sua banlieue. La stessa dove due anni fa il fratello Adama, fermato per strada dalla polizia, morì nel giro di pochi minuti per asfissia. «E io non ho ancora capito perché», dice in mezzo al frastuono. Ha formato un comitato contro la violenza delle forze dell’ordine, che è diventato un riferimento in periferia. «Siamo venuti, perché non vogliamo che gli altri parlino per noi». Nei giorni scorsi Emmanuel Macron l’ha delusa, rinunciando a varare un piano per le banlieue «e senza mai parlare con noi che lì ci lavoriamo».
Accanto, Edouard annuisce. Figlio di una famiglia del sottoproletariato della Picardia profonda, ammesso alla Normale di Parigi, è diventato uno degli scrittori francesi più tradotti nel mondo «e fin dalla morte di Adama, sono stato accanto ad Assa. Faccio parte del comitato, è un modo per affrontare problemi reali».
Si respira una strana atmosfera nella Francia macroniana. Il Presidente s’impone con abilità a livello internazionale e in patria realizza in maniera efficace una raffica di riforme economiche. Ma dietro non tutti i francesi seguono.
Ieri, rientrato da Mosca, dove ha incontrato Vladimir Putin, si è rintanato all’Eliseo. La sera prima, parlando della manifestazione, aveva detto che «tutto questo non mi fermerà». Il corteo è stato organizzato da oltre sessanta fra partiti, sindacati e associazioni (per la prima volta la France insoumise di Jean-Luc Mélenchon assieme alla Cgt, equivalente della Cgil). Proprio secondo questo sindacato avrebbero sfilato 250 mila persone in tutto il Paese e 80 mila a Parigi. Ma per Occurrence, organismo indipendente dei media, sono stati 31.700 nella capitale. Non una «marea popolare» come quella invocata da Mélenchon, che da vecchio gauchiste punta alla «convergenza delle lotte» in salsa post-sessantottina. Per François Ruffin, volto emergente della France insoumise, «per vincere la rassegnazione, dobbiamo pensare a una convergenza delle cause per cui lottare. E ognuno ne ha qualcuna». Dagli studenti che protestano contro il nuovo sistema di selezione all’accesso alle università fino ai ferrovieri che da più di due mesi scioperano contro una riorganizzazione dolorosa della loro azienda e ai pensionati, che si ritrovano con un aumento delle tasse (mentre ai più abbienti è stata tolta la patrimoniale).
Gli scontri e la festa
Ieri, nel corteo 35 militanti radicali, i passamontagna sulla testa, sono stati fermati dalle forze dell’ordine. E un poliziotto è stato ferito negli scontri. Ma in generale l’atmosfera è rimasta festosa. C’era anche Jacques, pensionato della Ratp, la società dei trasporti pubblici di Parigi. «Non avevo mai fatto una manifestazione – ammette -, ma quest’anno contro Macron ho cominciato. Lui, quando era ministro dell’Economia, con la moglie Brigitte invitava i potenti del Paese, per preparare la sua campagna elettorale: pagavamo noi contribuenti quelle cene. Poi ha aumentato le nostre tasse e ridotto quelle dei più ricchi: paghiamo ancora noi. Ecco, ora va in giro per il mondo a fare belle figure per la Francia. Ma a me non importa nulla».

Repubblica 27.5.18
Rivoluzione francese
La scuola nella patria dei Lumi
Gli eredi di Sartre non la prendono con filosofia
Parigi vuole limitare la disciplina al liceo e i pensatori più illustri si ribellano
di Anais Ginori


Dalla nostra corrispondente
PARIGI «È sufficiente osservare per conoscere?». «Tutto quello che ho il diritto di fare è giusto?». Sono alcuni dei quesiti sui quali hanno dovuto dissertare l’anno scorso i giovani francesi che passavano la maturità. La filosofia è considerata la “prova regina” del baccalauréat ed è spesso una delle più temute proprio perché richiede di ripetere nozioni imparate a memoria ma di dimostrare spirito critico e capacità di ragionamento. Creato nel 1808 da Napoleon, l’insegnamento obbligatorio della filosofia discende dai Lumi. L’idea è sempre stata quella di educare “cittadini illuminati”, che non sappiano solo recitare la storia del pensiero filosofico, distinguendo Platone da Aristotele, come accade per esempio nei licei italiani, ma siano capaci di filosofare.
Una consuetudine che sembra in pericolo, almeno a giudicare da polemiche e petizioni che circolano negli ultimi giorni dopo che il governo ha presentato la riforma per rivoluzionare l’ultimo ciclo della scuola secondaria.
“Signor Ministro, salviamo l’insegnamento della filosofia”. È questo il senso dell’appello pubblicato qualche giorno fa sul Figaro e firmato da un collettivo di oltre cento professori. Tra le novità proposte dal governo, c’è l’abolizione degli attuali tre indirizzi di liceo (scientifico, economico, letterario) per creare un programma comune in cui gli alunni potranno aggiungere opzioni per costruire l’orientamento. Lo studio della filosofia rimane ma non sarà più completamente obbligatorio com’era invece finora. È prevista, a seconda delle opzioni. Gli insegnanti contestano l’idea che sia una “specializzazione” e non una materia “universale” necessaria all’istruzione di tutti gli alunni. Il timore è molto concreto: rendendo lo studio facoltativo, molti giovani potrebbero preferire abbandonare una materia considerata ostica. Il timore vale ancora di più nelle scuole di quartieri popolari. L’accesso a questa disciplina rischia così concentrasi su una cerchia ristretta, riservata a pochi eletti e non più popolare com’è da oltre due secoli. Sarebbe insomma la fine della famosa “eccezione francese” di cui molti insegnanti vanno fieri.
L’altro punto denunciato dai nemici della riforma è la diminuzione del monte di ore di studio della materia anche per coloro che la scelgono come opzione. Nell’ultimo anno di liceo, c’era una volta la “classe de philosophie”, dove erano previste fino a 10 ore di insegnamento settimanali, poi è diventata la terminale littéraire, con otto ore.
Adesso si parla di un insegnamento dimezzato in termini di tempo dentro al nuovo indirizzo pluridisciplinare creato dal governo e chiamato “umanità, letteratura, filosofia”.
“Così si tradisce lo spirito dei Lumi” è scritto in una petizione. I difensori della filosofia chiedono di ristabilire il monte ore che esisteva fino ad adesso e mantenere l’obbligatorietà della materia per tutti gli alunni.
L’emozione provocata dalla minaccia che pesa sulla materia non deve stupire: non esiste forse Paese dove la filosofia sia più amata, vezzeggiata, con philosophes invitati ovunque a ragionare, commentare, polemizzare. Il governo nega qualsiasi ridimensionamento della materia e anzi il ministro Blanquer ha ricordato che la “prova regina” è stata confermata nell’esame di fine ciclo con quelle domande aperte su cui bisogna rispondere con una dissertazione seguendo tesi, antitesi e sintesi. La riforma entrerà in vigore nel 2021, è possibile ci sia qualche ripensamento di fronte alla rivolta dei filosofi e al loro tanto battagliare con solidi argomenti.
Sarebbe strano che Emmanuel Macron non fosse sensibile alla nobile causa: il Presidente ha studiato filosofia all’università di Nanterre, facendo una tesi su Hegel, ed ha collaborato a lungo con l’intellettuale Paul Ricoeur.

Repubblica 27.5.18
Il nuovo femminismo in America Latina
Atenei occupati e proteste contro “el machismo”
La rivolta in Cile e Argentina
di Daniele Mastrogiacomo


Rio de Janeiro Un giorno in Cile, quello dopo in Argentina. C’è un vasto movimento di donne, marcatamente femminista più che femminile, che scuote in queste settimane i due paesi. La regione australe dell’America Latina sembra aver preso la guida di una forte protesta su temi che rievocano quelli del movimento che caratterizzò gli Anni 70 in Europa. Il machismo è ancora molto radicato nel costume e nella mentalità. Fa parte della vita quotidiana, nei rapporti tra uomo e donna, traspare sui media e si ascolta spesso nei dibattiti alla radio.
In Cile, il movimento femminista è nato in modo spontaneo nelle università. Oltre una trentina di atenei è occupata da due settimane, con cortei sempre più folti che si snodano a Santiago e in molte altre città del Paese. La principale richiesta sono provvedimenti che garantiscano la parità di genere. La scorsa settimana, al culmine della protesta che aveva portato solo a Santiago 150mila donne e uomini, la maggioranza giovani, un bacino elettorale importante di 2 milioni di persone, il presidente ha compiuto un passo inedito per il Cile. Ha proposto una serie di disegni di legge di riforma costituzionale che garantiscano la parità di genere. Sebastián Piñera ha voluto attribuirsi l’iniziativa ammettendo di aver commesso lui stesso molti errori. «Dobbiamo fissare un prima e un dopo nella forma in cui trattiamo le nostre donne » , ha detto. Il presidente ha accolto uno dei punti centrali della protesta femminista: inserire nelle scuole una nuova educazione non sessista. Con libri di testo e materie specifiche e la possibilità di denunciare atteggiamenti e aggressioni discriminatori.
In Argentina, Paese dove da dieci anni è legale l’unione tra due sessi, resta in vigore il divieto di aborto. Adesso il tema è in pieno dibattito alla Camera. Lo ha imposto Mauricio Macri, scosso da un movimento femminista che anche qui invade le piazze. Le resistenze della Chiesa e della destra argentina sono state incrinate dall’ennesimo caso di violenza nei confronti di una bimba di 10 anno stuprata dal suo patrigno e rimasta incinta. La legge apre all’aborto solo in caso di violenza e di rischio della madre. Non pone limiti al tempo di gestazione. Ma nella provincia dove è avvenuto il turpe caso vige ancora il decreto che fissa a 12 settimane il periodo in cui è autorizzato un intervento. Il governatore, il peronista Juan Manuel Urtubey, ha deciso di derogare il provvedimento che lui stesso aveva firmato cinque anni fa.

Repubblica 27.5.18
Durante il Ramadan
La Tunisia laica “Libertà di scelta per chi non digiuna”
di Giampaolo Cadalanu


Negli anni Sessanta in Tunisia solo un padre della patria come Habib Bourghiba poteva presentarsi in tv e bere un bicchiere di succo d’arancia nelle ore del digiuno, in pieno Ramadan. Il presidente voleva stimolare la visione di un Paese più laico e produttivo. Ma oggi sono in tanti a scendere in piazza contro le norme che impongono la chiusura di ristoranti e caffè durante il giorno. Al centro della contestazione c’è la circolare Mzali del 1981 che non ha valore di legge ma viene comunque imposta dalle autorità.
La Lega per i diritti umani, l’Associazione delle donne democratiche, l’Associazione dei liberi pensatori e il comitato #Fater (cioè: niente digiuno) hanno lanciato la campagna con un appello a manifestare sui social network con lo slogan #MouchBessif, ovvero: non per forza. Gli attivisti usano i social network per scambiarsi l’indirizzo dei locali che continuano ad aprire i battenti e hanno indetto per oggi una manifestazione di piazza, che il governo ha vietato. Il ministro dell’Interno Lofti Brahem dice che «le minoranze devono rispettare la maggioranza». Il suo commento è stato visto come una violazione della libertà di coscienza prevista nella Costituzione e il partito socialdemocratico ha ricordato al ministro che il suo compito è garantire la sicurezza dei cittadini, non mettersi a guardia della religione. I movimenti laici hanno comunque confermato l’appuntamento davanti al ministero per il Turismo, per denunciare la chiusura dei locali, gli arresti di chi mangia o fuma in pubblico (cinque nel giugno 2017) e i maltrattamenti riservati a chi decide di non digiunare.
Ma è soprattutto in rete che si svolge la battaglia, fra sarcasmo e prese in giro. L’ironia è arrivata al culmine quando il ministro dell’Interno ha goffamente suggerito che la chiusura garantisce i locali di ristorazione da attacchi di fondamentalisti.
Scrive su Twitter la studiosa Rania Said: «Non vogliamo certo che la maggioranza islamica abbia i suoi sentimenti feriti per la vista di una bottiglia d’acqua».

Repubblica 27.5.18
Brasile nel caos
Sciopero camionisti. Accuse a Temer che schiera l’esercito
di Daniele Mastrogiacomo


RIO DE JANEIRO, BRASILE L’accordo tra governo e camionisti non ha retto. Il 60 per cento dei due milioni di autotrasportatori partecipa ancora al blocco che sta mettendo in ginocchio il Brasile. Le merci non arrivano a destinazione e le scorte, dopo sei giorni di paralisi della circolazione, si sono esaurite.
Manca di tutto: cibo, benzina, gas, acqua, prodotti elettronici e prodotti di base anche la farina per fare il pane. Molti aeroporti sono stati costretti a sospendere i voli per mancanza di carburante. Il presidente Michel Temer ha riunito un gabinetto di emergenza con 8 ministri. La tregua ha resistito solo poche ore. Il capo dello Stato è preoccupato soprattutto per gli ospedali dove scarseggiano medicine, strumenti e materiale sanitario.
La difficile situazione lo ha spinto a chiedere l’intervento dell’esercito. I soldati rimuoveranno i blocchi (ne hanno liberati 132 ma ne restano in piedi ancora 387).
Per chi continua lo sciopero scatterà una multa di 100 mila reais, circa 32 mila euro al giorno. Lo sciopero, organizzato dall’Associazione brasiliana dei camionisti, è riuscito ha raccogliere la simpatia di un movimento trasversale che raccoglie destra, sinistra, centro, la potente classe degli agrari, dirigenti di industrie e della grande distribuzione. Tutti lamentano il raddoppio del prezzo del carburante in un anno che pesa con il 46 per cento sui costi di trasporto.

Repubblica 27.5.18
Messico, rapite e uccise da una banda di uomini armati sei donne
Le vittime lavoravano in un'azienda alimentare nello stato di Tamaulipas
In dodici anni sono state assassinate nel paese in conflitti legati alla droga 200mila persone

qui

Corriere 27.5.18
Riletture
Tutti noi sul monte con Abramo
La storia del padre a cui Dio chiede di uccidere il figlio per poi fermarne la mano. Nella versione di Carlo Sgorlon
Il racconto biblico del mancato sacrificio di Isacco ci interroga sul cammino della civiltà
di Claudio Magris


Due storie, diceva Borges, sono state e saranno sempre raccontate: quella di un uomo innalzato e inchiodato ad una croce e quella di un uomo che dopo dieci anni di guerra e la distruzione di una città ne passa tanti in mare, affrontando prodigi, mostri, tempeste ed incanti per tornare a casa. Ce ne sono anche altre, che rinascono sempre, a porre ogni volta in modo nuovo, e denso di sempre nuovi significati, le domande essenziali della vita. Un sapiente che promette l’anima al diavolo se questi gli farà vivere l’attimo supremo della felicità e della conoscenza; un seduttore mai appagato e spietato che cerca l’infinito nell’amore e nel sesso; una peccatrice redenta da Dio in persona per aver molto amato e tante altre.
Una delle più grandi di queste storie piene di significato è la storia biblica del sacrificio di Isacco, terribile partita a tre fra Dio, Abramo cui Dio ordina di salire sul monte e di sacrificare il figlio Isacco, e quest’ultimo. L’assoluto e disumano comando ha offerto per secoli materia di discussione, polemica e rinarrazione. Le pagine più grandi, tuttora brucianti, sono quelle di Kierkegaard, secondo le quali l’episodio biblico è la parabola di un insolubile, tragico e colpevole conflitto fra fede e morale. Dio ordina ad Abramo di compiere un’azione moralmente orribile, che violerebbe le stesse leggi date da Lui. Abramo, dal punto di vista della morale, dovrebbe dire di no, ma dal punto di vista della fede dovrebbe dire di sì, perché Dio è l’Assoluto, incomprensibile per i criteri umani di giudizio e non soggetto ad alcun decalogo morale. Abramo infatti si accinge ad obbedirgli, salendo insieme al figlio sul monte dove dovrebbe aver luogo il sacrificio, ed è Dio stesso, che ha messo alla prova la sua fede, a fermarlo e a salvare Isacco.
Tanti possono essere i significati di questa tremenda storia di fondazione totale della fede. Per caso, spinto da un acuto e ampio saggio di Carmelo Aliberti — poeta e critico cui si devono molti saggi sulla letteratura italiana e in particolare, ma non soltanto, su quella meridionale — ho letto il libro forse più bello di Carlo Sgorlon, vigoroso narratore epico di cui pure non condividevo la risentita e ideologica polemica contro la letteratura contemporanea, i Racconti della terra di Canaan.
In uno di questi, a chiedere imperiosamente il sacrificio di Isacco non è Dio, bensì un richiamo atavico che sorge dal profondo, venendo accolto come fosse la voce di Dio. Una voce che ordina di ripristinare l’antico sacrificio del primogenito praticato da molti popoli in età arcaica, un comandamento inconscio di regredire a costumi tribali del passato, con un senso di colpa per aver trasgredito l’antico modo di essere e di esorcizzare la paura delle tenebre. È un idolo che gli impone il sacrificio di sangue, ma un’altra voce nel cuore di Abramo lo libera, la voce di qualcosa cui Abramo dà il nome di Dio, quel Dio che, come sta scritto, ha detto «Non vi farete idoli», neanche quando essi possano assumere l’aspetto di una legge divina, fondando così una radicale premessa di libertà, forse il più grande dono che l’ebraismo ha dato al mondo.
La salita di Abramo su quel monte è una pietra miliare nel faticoso cammino della nostra specie dalla barbarie all’umanità. Un cammino, peraltro, tante volte — anche in epoche di vantata civiltà, umanità e progresso — interrotto e capovolto in un feroce ritorno alla febbre di barbarie e di sangue.
C’è una crescente contraddizione. Il progresso tecnologico comporta certo pure aspetti inquietanti, anche per la sua velocità e i suoi usi talora inumani, che inducono gli individui a sentirsi talora sopravvissuti in un mondo incomprensibile. Quel progresso offre pure grandi possibilità di migliorare la qualità della vita, ad esempio possibilità tecniche sino a ieri ignote di salvare vite umane. Inoltre si è riconosciuta dignità e parità di diritti a categorie umane prima ignorate, disprezzate ed oppresse senza che se ne avesse nemmeno consapevolezza. Si sono riconosciuti diritti civili a persone, culture, comunità, minoranze sinora — e ancor oggi — barbaramente calpestate. Ma è anche cresciuta la moltitudine di chi si trova nell’impossibilità di soddisfare i bisogni elementari dell’esistenza e vive, quando non muore, come un animale randagio e sfinito. Inoltre aumentano sempre più, nel mondo, i massacri su larga scala, innumerevoli Isacco sacrificati e scannati senza che nessuno fermi o voglia veramente fermare il loro sterminio.
Il cammino della civiltà è arduo e contraddittorio, procede e regredisce. Forse, si potrebbe dire, è un cammino che ricomincia con ogni generazione, con ogni uomo, senz’alcuna sicurezza che prevalga — oggi come ieri, come domani — l’umanità. Stiamo salendo sul monte, come quei due il cui destino, durante la salita, è ancora incerto e non sappiamo, per quel che ci riguarda, come andrà a finire.

Corriere La Lettura 27.5.18
I diritti non sono facoltativi
Prima donna a far parte della Corte internazionale di giustizia (Cig) dell’Aia, e anche prima presidente di questo importante organismo delle Nazioni Unite
«Gli Stati invocano le regole solo quando fa loro comodo. Servono provedure più inclusive»
di Marcello Flores


Prima donna a far parte della Corte internazionale di giustizia (Cig) dell’Aia, e anche prima presidente di questo importante organismo delle Nazioni Unite tra il 2006 e il 2009, la giurista britannica Rosalyn Higgins partecipa all’incontro su missioni di pace e diritti umani che si tiene martedì 29 maggio a Milano, organizzato dall’Ispi e dalla Fondazione Balzan. Un’occasione importante per confrontarsi con lei sui temi della giustizia internazionale.
Che cosa pensa della presenza femminile sempre più importante nelle magistrature in tutto il mondo?
«Non ritengo che uomini e donne “vedano le cose diversamente” e penso che vi siano giuristi eccellenti e mediocri in entrambi i sessi. Non credo che il benvenuto incremento delle donne in magistratura possa “provare” qualcosa. Credo, piuttosto, che vi sia una correzione di quello che è stato finora un irrazionale squilibrio di genere tra maschi e femmine. Le persone migliori dovrebbero essere proposte per la Cig dai loro Paesi e messi in lista per la scelta dell’Assemblea generale e del Consiglio di sicurezza dell’Onu. In anni recenti il segretario generale e gli organi delle Nazioni Unite hanno attivamente cercato donne competenti per ruoli superiori. Ma io sono contro quote e liste di genere per le nomine dei giudici internazionali».
La Cig si occupa di controversie tra gli Stati. Quali sono stati i casi più importanti che ricorda nel periodo in cui è stata presidente della Corte?
«I casi dei Balcani furono i più importanti della mia presidenza, specialmente il giudizio di merito portato dalla Bosnia contro la Serbia e il Montenegro (2007) accusandoli di genocidio. Furono anche casi molto difficili. Nel giudizio stabilimmo che la Convenzione sul genocidio non è solo una questione di legge penale, ma impone diritti e obblighi agli Stati, permettendo che si intenti un’azione interstatale. Avemmo l’opportunità di rispondere a molti quesiti giuridici a proposito della Convenzione sul genocidio, con la convinzione e la speranza che il problema non sarebbe tornato presto davanti alla Corte, quindi la cosa migliore era prendere il maggior numero possibile di decisioni».
Alla fine la Corte decise che la Serbia e il Montenegro non erano direttamente responsabili per la strage di Srebrenica del 1995, commessa da forze paramilitari serbo-bosniache ai danni della popolazione musulmana, ma erano colpevoli di non aver fatto nulla per impedire il genocidio. E i contenziosi di natura territoriale?
«Nigeria contro Camerun fu un caso in cui l’intera penisola Bakassi e virtualmente ogni metro di frontiera era messo in discussione. Vi erano state azioni militari tra i due Stati, ma dopo qualche difficoltà iniziale il giudizio della Corte fu accettato e reso operativo e le parti spiegarono all’Assemblea generale l’importanza del verdetto».
Nell’importante libro «Problems and Process» (Oxford University Press, 1995) lei ha cercato di superare una visione ideologica del diritto internazionale introducendo il concetto di «attori» che fanno parte di un sistema normativo volto ad assicurare i valori fondamentali. Qual è oggi il problema più difficile che il diritto internazionale ha di fronte?
«Non vedo il diritto internazionale come un settore che abbia di fronte particolari problemi. Come avviene per altri aspetti del diritto, quello internazionale ha a che fare con cambiamenti nelle realtà sottostanti; vi sono questioni completamente nuove che possono richiedere trattati o altre norme; periodi nei quali uno o più attori avanzano particolari lamentele su problemi specifici. Gli attori possono invocare il diritto internazionale quando fa loro comodo (come ha fatto il presidente americano Donald Trump a proposito dei test nucleari della Corea del Nord) o ignorarlo in situazioni diverse (sempre Trump con il ritiro dall’accordo tra Usa, Europa e Iran)».
Lei critica la visione del diritto internazionale come insieme di regole, spesso ignorate per la mancanza di sanzioni effettive. A suo avviso, invece, è un processo continuo di decisioni autorevoli. Chi ostacola questo processo? Alcuni Stati? Una cultura giuridica? Le divergenze d’interessi?
«Più inclusivo è il processo di decisioni autorevoli e meglio funziona. Visto che tali decisioni sono prese da tribunali internazionali, in particolari dalla Cig, è deplorevole che l’accettazione della sua giurisdizione si basi essenzialmente sul consenso. Certo, questo fatto spiacevole è in qualche modo temperato dalla cosiddetta clausola opzionale (una sorta di «previo consenso» al contenzioso); da clausole nei trattati che accettano che le dispute siano risolte dalla Cig; e da un riferimento congiunto delle parti in una controversia della Cig. Il Consiglio di sicurezza dovrebbe fare di più per incoraggiare il riferimento in casi particolari alla Cig e gli Stati dovrebbero costantemente ricordare la disponibilità di autorevoli processi decisionali».
Lei si è occupata dell’autodeterminazione, ricordando la percezione errata che spesso si ha di questo problema: di fronte alle spinte secessioniste di oggi, che cosa suggerisce?
«I recenti esempi di tensioni autonome e indipendentiste sono impressionanti per la quasi totale assenza di riferimenti al diritto internazionale per quanto si può applicare in questo ambito. Naturalmente, la parte che rivendica l’indipendenza invoca rapidamente la nozione di autodeterminazione, e in genere nient’altro; e, sorprendentemente, la parte che resiste a queste affermazioni non fa nulla per precisare i parametri del concetto di autodeterminazione nel diritto internazionale e quando può essere invocato. I recenti avvenimenti in Catalogna, ad esempio, contrastano con le precedenti questioni ampiamente comparabili che si sono manifestate in Quebec. Anche laddove ci sono importanti considerazioni politiche in gioco, è spiacevole che, quando viene invocato un concetto giuridico, le parti non siano tenute a una corretta comprensione del concetto in questione. Allo stesso tempo, non vorrei che si pensasse che il diritto internazionale possa necessariamente trovare una via d’uscita a questioni politiche di difficile soluzione. Non credo che la questione catalana sarà risolta attraverso gli strumenti del diritto internazionale, ma solo attraverso una qualche forma di accordo politico».
Oggi il mondo sembra conoscere un crescente multipolarismo, senza che vi sia una chiara direzione egemone come avveniva in passato. C’è il rischio di una forte instabilità o le relazioni internazionali troveranno comunque un proprio equilibrio?
«Con l’egemonia bipolare degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica, durante la Guerra Fredda, c’era una certa stabilità, ma si registravano anche vari esempi di non conformità alle norme del diritto internazionale. Nell’immediato periodo post-sovietico, il potere dominante dell’Occidente, e specialmente degli Stati Uniti, era egemonico, ma molti pensavano che durante quel periodo le potenze egemoniche a volte agissero senza riguardo per il diritto internazionale, poiché non erano chiamate a renderne conto. Oggi vediamo che gli Stati Uniti e l’Europa sono in contrasto su alcune questioni: un fenomeno nuovo. Le forme del multilateralismo sono sempre destinate a cambiare nel tempo».

Corriere La Lettura
I migranti non sono i nostri redentori
di Antonio Carioti


Nell’era dell’economia digitale il capitalismo nel quale abbiamo vissuto fin qui è arrivato al capolinea? Probabilmente sì, ma la direzione nella quale si andrà d’ora in poi non è affatto scontata. Il modello economico oggi dominante nel mondo, basato sul mercatismo, funziona sempre peggio: alimenta nuovi squilibri e disuguaglianze estreme.
Sale, così, la pressione per un maggior ruolo dello Stato regolatore, ma c’è anche chi è giunto a conclusioni diverse: il capitalismo classico non funziona più, non perché è basato sulla logica di mercato, ma perché fraintende il suo funzionamento nell’era della rivoluzione digitale. Per spiegare che cosa sta avvenendo si ripercorre la storia a ritroso: due secoli fa Adam Smith notò che il modo più facile di guadagnare, per un’impresa, non era quello di innovare e ridurre i costi, ma, piuttosto, quello di fare accordi anticompetitivi con le altre aziende in modo da avere più potere sul mercato per alzare i prezzi o abbassare i salari.
Oggi queste pratiche sono illegali, ma le imprese digitali hanno trovato, con le tecnologie innovative, altri modi per ottenere profitti monopolistici. Tecniche creative che gli organismi antitrust responsabili del corretto funzionamento dei mercati non riescono a intercettare. Più ancora delle ricette provocatorie contenute in Radical Markets, il loro nuovo saggio appena pubblicato negli Stati Uniti da Princeton University Press, è questo modo di ragionare degli autori — il giurista Eric Posner, docente della Law School della University of Chicago, e Glen Weyl, un filosofo passato all’economia ora ricercatore in Microsoft — a lasciare il segno: la diagnosi dalla quale partono per formulare la loro proposta di trasformazione del capitalismo.
Le denunce del cattivo funzionamento dei meccanismi che regolano i mercati sono sempre state copiose fin da quando questo sistema ha cominciato a prendere forma, oltre due secoli fa. Critiche, in genere provenienti da sinistra, che puntano su interventi politici, su un ruolo maggiore dello Stato come regolatore o attore economico: sarebbe questo l’antidoto alla formazione di eccessive concentrazioni di ricchezza. Un dibattito alimentato anche di recente da grandi economisti progressisti come il premio Nobel Joe Stiglitz e Robert Reich, ministro del Lavoro nella Casa Bianca di Bill Clinton, con saggi come La grande frattura. La disuguaglianza e i modi per sconfiggerla (Einaudi), Invertire la rotta. Diseguaglianza e crescita economica (Laterza) e Come salvare il capitalismo (Fazi). Mentre il politologo Robert Kuttner, fondatore di «The American Prospect», la rivista ideologica dei progressisti, ha appena pubblicato in America Can Democracy Survive Global Capitalism? (Norton).
Radical Markets, il saggio di Posner e Weyl, è assai diverso perché, pur formulando proposte di difficile attuazione come una radicale trasformazione del modo di concepire, tassare e scambiare la proprietà di beni di ogni tipo, cerca risposte alla crisi del capitalismo non nell’interventismo statale, ma negli stessi meccanismi del mercato. E Posner e Weyl non sono di certo i soli ad andare in questa direzione: la percezione che i malfunzionamenti del capitalismo siano ormai arrivati a un punto di non ritorno, che richiede interventi importanti, si è ormai diffusa, oltre che nell’accademia, anche tra le grandi società di consulenza aziendale.
È il caso della Deloitte, che prevede la trasformazione delle industrie odierne in imprese sociali che in futuro verranno giudicate non solo sulla base dei loro risultati finanziari, ma anche per l’impatto che avranno sulla società. O quello del Boston Consulting Group: in uno studio pubblicato a febbraio l’Henderson Institute, il think tank del gruppo, sostiene che tutte le imprese dovranno fare uno sforzo per umanizzarsi: abbandonare una mentalità meccanicistica nell’uso della tecnologia e degli strumenti della globalizzazione per massimizzare i profitti, prendendo invece atto che oggi è prioritario, anche per chi gestisce un business, recuperare coesione sociale.
Non c’è, infatti, solo il malessere espresso dai cittadini nelle urne: indagini come quella condotta di recente dal Manpower Group indicano che ormai solo il 33 per cento dei dipendenti americani si sente legato al proprio lavoro, mentre il 40 per cento dei millennials (i ventenni e trentenni divenuti adulti nel nuovo millennio) dichiara di considerare la massimizzazione del guadagno meno importante, per la loro carriera, della qualità del team nel quale lavorano e del contributo che riescono a dare al progresso della società.
La convinzione che sia arrivato il momento di «revisionare» il capitalismo ha raggiunto anche la bibbia dei mercati, «The Economist», che, dopo aver pubblicato un editoriale (Fixing the flaws in today’s capitalism) nel quale denuncia gli squilibri socialmente insostenibili prodotti in Occidente da una globalizzazione che, pure, è stata di grande aiuto per molti Paesi poveri, ha aperto il forum Open Markets nel quale raccoglie contributi di idee sul futuro del capitalismo da discutere in un evento, il Global Future Festival, fissato per metà settembre.
A caccia di nuove ricette si è messo anche il «Financial Times» con Martin Wolf, il più celebre dei suoi commentatori liberali, che di recente ha giudicato esemplare un saggio sulla necessità di distinguere e trattare in modo diverso le imprese che creano ricchezze rispetto a quelle che si limitano solo ad estrarla da giacimenti ai quali hanno un accesso privilegiato: un libro pubblicato in Gran Bretagna da Mariana Mazzucato, un’economista italiana che insegna allo University College of London. Una discussione che ha avuto qualche precursore, come un altro «italiano d’esportazione», Giacomo Corneo, docente della Freie Universität di Berlino, che l’anno scorso ha pubblicato negli Stati Uniti Is Capitalism Obsolete? (Harvard University Press). Anche questo saggio ipotizza un’evoluzione del capitalismo basata su una graduale trasformazione dei diritti di proprietà.
Ma è solo oggi che la discussione acquista spessore e non solo per il moltiplicarsi, sulle due rive dell’Atlantico, delle crisi politiche con un’origine nel disagio sociale: in un’era sempre più dominata dai dati, gli studiosi si stanno rendendo conto che questa nuova realtà cambia l’equazione economica alla base dell’attuale funzionamento dei mercati. L’analisi più nitida è, forse, quella contenuta in Reinventing Capitalism in the Age of Big Data (Basic Books) pubblicato a febbraio da Viktor Mayer-Schönberger, un docente austriaco che ha insegnato Internet Governance prima alla Kennedy School of Government di Harvard e ora a Oxford, e da Thomas Ramge, giornalista dell’«Economist». Semplificando, la loro analisi giunge a tre conclusioni che minano altrettanti caposaldi del sistema attuale: ruolo dei prezzi, solidità del sistema industriale e capacità del tessuto imprenditoriale di rinnovarsi con la nascita di nuove iniziative. Per secoli i prezzi sono stati il meccanismo perfetto di regolazione dei mercati, ma oggi lo sviluppo di piattaforme zeppe di dati offre, in alcuni settori, uno strumento migliore per indirizzare le scelte di consumatori sensibili, oltre che alla cifra da sborsare, ad altri fattori: gusti personali, qualità del prodotto, sua durata prevedibile, tempi di consegna.
Quanto alle industrie, molte di loro sono nate perché era conveniente centralizzare in un solo luogo le varie fasi della produzione. Ma nell’era di internet le cose cambiano radicalmente: può essere di nuovo valido un modello di decentramento produttivo. Qui per i grandi gruppi attuali il rischio, oltre a quelli legati alle prospettive di smembramento, è che del processo approfittino i giganti di big tech (da Google ad Alibaba, passando per Samsung, Apple e Facebook) che hanno posizioni dominanti nei nodi principali della rete. Un dominio che minaccia anche il rinnovamento del sistema imprenditoriale, perché le start up con idee brillanti faticano a emergere in un ambiente nel quale i dati sono concentrati in poche mani. A ben vedere sta già avvenendo con le start up più promettenti fagocitate da Google o Facebook (che ha acquisito anche WhatsApp e Instagram). Per molti la soluzione va trovata in un ruolo più attivo dello Stato, che negli ultimi anni non ha esercitato (o ha di molto ridotto) il suo ruolo di regolatore. È la tesi della Mazzucato, una progressista (collabora col leader laburista britannico Jeremy Corbyn) secondo la quale l’intervento dei governi in economia viene ingiustamente sottovalutato, visto che le principali infrastrutture del nostro tempo — da internet al Gps — sono state create dalla mano pubblica.
Chi diffida dello statalismo guarda, invece, con più interesse alle idee che animano Radical Markets. Idee, appunto, radicali e spesso mozzafiato. Sul piano politico una riforma del sistema elettorale che dia a ognuno, anziché un voto in ogni consultazione, un pacchetto di voti da spendere a sua discrezione, concentrandoli sulle istanze che considera più pressanti (con la possibilità di votare non solo a favore, ma anche contro un candidato). Sul piano economico soprattutto il passaggio dal prelievo sul reddito prodotto a una tassazione della ricchezza. Base imponibile estesa a tutto il patrimonio personale, ma lasciando ogni cittadino libero di fissare il valore di ciò che possiede. Con una clausola per evitare stime troppo basse: l’obbligo di vendere il bene se arriva un’offerta superiore alla valutazione che viene data.
Inaccettabile sulla base della nostra concezione della proprietà: la democrazia proprietaria sostituita da una sorta di collettivismo radicale basato su un sistema di aste continue nella quale, di fatto, tutto ciò che abbiamo non è nostro. Lo abbiamo in affitto e la wealth tax è il canone che paghiamo. Impensabile per la maggioranza di noi, ma forse non per molti giovani cresciuti nell’era dell’economia immateriale che hanno un rapporto con la proprietà diverso dal nostro. Proposte che trovano già sostenitori entusiasti tra i protagonisti della nuova economia della blockchain come il fondatore di Ethereum, Vitalik Buterin, per il quale le idee di Radical Markets portano verso una società che ha meno bisogno di autorità centrali concentrate e che «col sistema delle aste elimina il monopolio delle risorse, fonte delle diseguaglianze, insito nella proprietà».

Corriere La Lettura 27.5.18
Paolo Mieli
Una tragicommedia chiamata comunismo


C’è pure il Quartetto Cetra nella Storia del comunismo in 50 ritratti di Paolo Mieli. Cosa c’entrano i Cetra? C’entrano, c’entrano (vedi la voce Angela Davis). E c’è pure Claudio Baglioni, ma senza maglietta fina (vedi alla voce Gagarin). E Gorbaciov valletto di Fazio a Sanremo! Tutto c’entra nelle spire dell’incubo che voleva essere un sogno e che Mieli, di buonumore, racconta a volte in toni da commedia sofisticata (come la battuta, da copione di Woody Allen, che la mamma di Breznev pronuncia passando in rassegna la collezione di automobili straniere de luxe del despota sovietico: «È tutto molto bello, figlio mio, ma se i bolscevichi tornassero?)». Una commedia degli equivoci è, invece, la vita di Louis Aragon, poeta e militante, nato da un amore di contrabbando e spacciato per «figlio adottivo della nonna materna, dunque fratello di sua madre». Nel 1932 scrive una poesia a favore dei compagni sovietici che «gli costa l’incriminazione per istigazione all’omicidio». Il poeta Breton, con cui aveva fondato il surrealismo, corre in sua difesa, ma Aragon rifiuta l’aiuto del collega, che era stato critico verso il Partito. Chiosa imperturbabile Mieli: «Si consuma così, in modo non poco surreale, la rottura in seno al gruppo surrealista». In piena Guerra fredda, l’indomabile Aragon scioglie un cantico per la Gpu, la polizia politica di Stalin. Un principe dell’ortodossia? In realtà tanto ortodosso, almeno a giudicare dai canoni di Partito, non era: «Alla morte della moglie, nel 1970, rivelerà l’ultimo grande non detto della sua tormentata esistenza: la sua omosessualità». Ognuno dei brevi ritratti del libro (super anche nella confezione e nelle illustrazioni di Ivan Canu) costituisce un dramma completo (non è un caso che l’origine dell’opera sia uno spettacolo teatrale). Mieli recita da fine dicitore senza annacquare mai la verità. Il comunismo lo puoi rappresentare come una commedia degli equivoci solo se sai che è una tragedia degli orrori. Chiediamo il bis.

Corriere 27.5.18 
Incidenti sul lavoro
Le morti bianche su dell’11,5% Ma che succede?
di Dario Di Vico


Nei primi tre mesi del 2018 si sono avute 212 morti bianche — diventate 270 da marzo in poi — con un incremento-super del 11,5% sul corrispondente periodo del 2017. Ci si chiede se, paradossalmente, sia stata la vigorosa ripresa dell’attività produttiva la causa a monte di questa spirale di sangue operaio?
La lunga scia di incidenti mortali avvenuti nelle fabbriche nelle ultime settimane sta generando una riflessione che per una volta non dovrebbe fermarsi alle dichiarazioni di cordoglio o alle prese di posizione di prammatica. Ci si interroga se esiste una correlazione tra i processi di riorganizzazione dovuti alla Grande Crisi e la ripresa delle morti bianche. O ancora se, paradossalmente, sia stata la vigorosa ripresa dell’attività produttiva la causa a monte di questa spirale di sangue operaio.
Prima di tentare una risposta converrà però partire dai numeri che, come vedremo, non spiegano tutto ma qualcosa dicono. Le statistiche fino a poco tempo fa mostravano un trend discendente e avvaloravano che il fenomeno fosse stato imbrigliato per la somma di un lavoro di 10 anni che ha visto coinvolte quantomeno le aziende più strutturate e dell’immissione di tecnologia.
Il fact checking
Secondo un recente fact checking dell’Agi nel 2014 gli incidenti mortali sono stati 1.175, nel 2015 sono saliti a quota 1.294 per poi calare nel 2016 a 1.130. Se prendiamo in esame un ventennio i numeri non si spostano di molto: tra il 1996 e il 2016 le morti bianche hanno conosciuto un picco nel 2001 arrivando a 1.528 e un minimo di 1.032 nel 2009. E grosso modo un quarto avviene in itinere ovvero durante un trasferimento stradale da casa al lavoro o dal lavoro al cliente.
Se poi confrontiamo i dati di oggi con gli anni 60 — quando erano 4 mila l’anno le vittime del lavoro — vediamo una riduzione dei tre quarti. Proporzioni simili le troviamo tra il totale degli infortuni, mortali e non, degli ultimi anni e quelli della stagione del Miracolo Economico. Oggi siamo scesi dai 745 mila del 2012 ai 635 mila del 2017, negli anni 60 si superava il milione. La media di oggi di circa 1.500 infortuni non mortali ogni 100 mila lavoratori è sotto la media Ue e di molto inferiore alla Germania.
Le notizie confortanti finiscono però qui. Nei primi tre mesi del 2018 si sono avuti 212 morti bianche — diventate 270 da marzo in poi — con un incremento-super del 11,5% sul corrispondente periodo del 2017. E allora torniamo alla domanda: è il ciclo economico virtuoso la causa a monte? L’ingegner Fabio Mazzenga, direttore della Slim Aluminium e esperto di sicurezza industriale, invita a ragionare su un elemento che chiama «comportamento» ovvero come gli uomini reagiscono agli investimenti sulla sicurezza e la formazione.
Il comportamento è una variabile che non si può controllare dall’alto ma che può essere influenzata da scelte accorte. È più facile però che questo tipo di pedagogia della sicurezza non riesca a coinvolgere l’intero universo delle Pmi (Piccole e medie imprese) e qui si può aprire una falla. «Dove i comportamenti sono meno codificati è più facile l’improvvisazione o la deroga agli standard previsti e spesso le vittime sono le persone più generose che con il loro slancio cercano di supplire a carenze organizzative o a eventi imprevisti» spiega Mazzenga.
Lo «stress produttivo»
Il sindacato propone una lettura in parte diversa. Sarebbe quella parte dell’industria italiana che ha investito di meno, ha rinnovato gli impianti con il contagocce a causare uno «stress produttivo» che si scarica sugli uomini sotto forma di incidenti. Il crollo di una gru, la caduta di una passerella, tutti eventi non riconducibili a carenze normative o di tipo culturale. Ma è davvero così? Per capirlo bisognerà operare una piccola rivoluzione: uscire dalla cultura delle medie statistiche e realizzare ciò che finora non è stato fatto, un esame qualitativo degli incidenti avvenuti con l’obiettivo di cercare le costanti. È singolare che questo metodo non sia stato adottato ma è l’amara verità.
Passiamo a un altro tema controverso, quello degli appalti. La grande riorganizzazione avvenuta negli anni della crisi ha allungato l’industria, il vecchio outsorcing di singole lavorazioni ha lasciato il posto a filiere produttive articolate.
Il processo è virtuoso ma sino a che punto le case madri riescono a controllare qualità e sicurezza? Secondo Gianni Alioti della Fim-Cisl in svariate situazioni «i committenti hanno perso la capacità di coordinare una molteplicità di operatori e non sempre l’appalto porta con sé maggiori competenze». Anzi succede il contrario: entrano in fabbrica cooperative e piccole imprese che sono di fatto pura intermediazione di manodopera, che arriva anche al quinto grado di subappalto. «Ci sono persone che vanno ad operare in contesti che non conoscono e spesso a pagarne le conseguenze sono, come è successo, i figli del piccolo imprenditore».
In queste situazioni manca quella che l’ex ministro Maurizio Sacconi chiama «la piena informazione» sugli ambiti in cui si va ad operare. Caso ricorrente: le cisterne e le morti a grappolo con i soccorritori che uno dopo l’altro si immolano per tentare di salvare i compagni. Commenta Mazzenga: «Quando si fanno le gare i servizi interni delle grandi aziende curano tutti i dettagli, formali e sostanziali ma il baco è sempre in agguato. Non lo si può prevedere».
Proprio nei giorni scorsi è sorta una polemica tra Adriano Sofri e la Fincantieri in scia a una puntata di Report . Nel grande cantiere di Monfalcone nei giorni scorsi è morto un operaio di 19 anni travolto da un blocco di cemento e l’episodio ha acceso le discussioni attorno alla capacità delle grandi aziende di monitorare l’andirivieni di ditte e di operai che lavorano come fornitori. Il gruppo guidato da Giuseppe Bono ha replicato duramente sostenendo di «vigilare sul puntuale adempimento dei propri fornitori attraverso un personale dedicato esclusivamente a queste attività», verifiche che accompagnano tutto il ciclo della commessa dalla selezione delle ditte alla corretta esecuzione degli ordini.
Il nodo della formazione
Che l’elemento-chiave da focalizzare siano i comportamenti oppure i modelli organizzativi si arriva comunque al nodo della formazione delle persone. Sacconi denuncia come nelle aziende italiane sia «di tipo puramente formalistico, la prevenzione è stato burocratizzata, si osserva la forma e si elude la sostanza». I pezzi di carta fanno la felicità dei consulenti mentre manca un approccio di tipo sostanziale. «I medici visitano ogni anno 10 milioni di lavoratori, un patrimonio di informazioni che potrebbe consentire un ampio lavoro di prevenzione e invece non succede» aggiunge Sacconi.
E il cahier de doleances dell’ex ministro non finisce qui. Dieci anni fa con l’adozione del Testo unico sulla sicurezza sarebbe dovuto nascere il sistema della prevenzione per monitorare l’andamento degli infortuni e concepire delle azioni mirate, invece «non è ancora operativo perché nel frattempo l’Autorità della privacy si è messa di traverso». Concorda il sindacalista Alioti: «Si scrivono trattati sulla sicurezza, documenti enciclopedici ma non si parla con le persone».

La Stampa 27.5.18
... e l’Italia uscì a riveder le stelle
Nella Divina Commedia le indicazioni per la Costituzione nata dalla Resistenza
di Giovanni Maria Flick


Per aprire la mia riflessione sulla Costituzione, nel ricordo e nella celebrazione di Dante, ho preso in prestito dalla Divina Commedia una delle espressioni che più mi hanno affascinato e mi sono rimaste impresse nelle letture liceali di essa. Non saprei trovarne altra più adatta - per ricordare il percorso del nostro Paese dalla guerra perduta a quella civile, alla Resistenza e alla Liberazione, alla Repubblica e alla Costituzione - della descrizione del passaggio anche fisico del poeta dall’emisfero boreale a quello australe.
Lasciare la voragine dell’Inferno pietrificato dall’odio, dalla disperazione, dalla solitudine nella folla, dal frastuono caotico, dal gelo luciferino, dalle tenebre, per giungere alla serenità e alla luce nell’ascesa alla montagna del Purgatorio, ai suoi cieli azzurri preludio alla luminosità del Paradiso, all’erba e ai fiori, al «chiaro mondo» e a «le cose belle», alla solidarietà e all’amicizia, alla pena come strumento per la beatitudine e non come costrizione. Tale è - a differenza delle tradizioni dell’epoca, secondo cui il Purgatorio è un Inferno a termine - l’immagine del Purgatorio che ci propone Dante: una comunità in un paesaggio terrestre ma governato da leggi non terrestri; una realtà che è espressa dal poeta in modo più musicale, meno figurativo dell’Inferno e richiama i ritmi naturali dell’esistenza, il ciclo delle stagioni.
La sequenza dalla dichiarazione stolta della guerra nel 1940 (per sedere con qualche migliaio di morti al tavolo della pace) alla disfatta nel 1943; alla lotta fratricida oltre che contro il nazista invasore; alla Resistenza nel 1943 e alla Liberazione nel 1945; alla scelta repubblicana e alla scrittura della Costituzione con il referendum del 1946; alla ricostruzione delle pietre e dei valori del nostro Paese (dopo lo smarrimento della «diritta via» nella «selva oscura» del Ventennio fascista, culminato nel 1938 con la imitazione servile delle leggi razziali naziste). Forse non sono esattamente la stessa cosa dell’Inferno e del Purgatorio danteschi; ma certo vi si avvicinano molto.
Perciò è giusto rendere omaggio a Dante per questo contributo - profetico e preciso, quanto di necessità inconsapevole - alla ricostruzione di quel particolare periodo del nostro passato e alla riflessione odierna sulla Costituzione italiana, a settant’anni dalla sua nascita e a poca distanza dalla sua riconferma nel 2016, con il No a larga maggioranza in occasione dell’ultima proposta di referendum per una sua riforma radicale.
Beninteso, le indicazioni «costituzionali» che possono trarsi dalla lettura della Divina Commedia sono anche altre, sia di carattere generale sia specifico.
Basta pensare, ad esempio, alla definizione primitiva ma attuale dei beni comuni: «com’esser puote ch’un bene, distribuito in più posseditor, faccia più ricchi di sé, che se da pochi è posseduto?». Se il significato di bene comune è stato colto così bene da Dante nel 1300, «com’esser puote» che incontri difficoltà di comprensione nel 2018 di fronte a una serie sempre più estesa (e sempre più minacciata nella sua esistenza) di beni comuni (destinati cioè alla fruizione da parte di tutti e non solo da parte del loro proprietario pubblico e privato o di chi paga un biglietto?).
Basta pensare alle perle di saggezza - che in realtà racchiudono e sintetizzano interi commentari sull’arte di legiferare, da troppo tempo dimenticata - proposte del poeta: «le leggi son ma chi pon mano ad esse?» (Purgatorio, canto XVI, 97); o ancora, a proposito della dichiarazione di Giustiniano imperatore «per voler del primo amore ch’i sento, d’entro le leggi trassi il troppo e il vano» (Paradiso, canto VI, 12), che dovrebbe costituire l’ambizione e l’impegno di qualsiasi aspirante legislatore sia costituente sia ordinario.
Basta pensare infine alla differenza, sottolineata da Dante, tra la giustizia umana distributiva e quella divina: alla «lagrimetta» di Buonconte da Montefeltro (Purgatorio, canto V, 91-129) grazie alla quale l’angelo di Dio priva il diavolo della sua preda, da lui attesa per i trascorsi di vita del morente, che vengono superati e annullati dal pentimento finale di quest’ultimo.
La molteplicità degli aspetti posti in evidenza da Dante, nel descrivere il suo percorso poetico e umano, non consente ulteriori richiami in questa sede, oltre ai pochi accennati dianzi. Questi ultimi, ma in realtà tutto il resto, suggeriscono un filo rosso e una guida nella lettura della nostra Costituzione, di fronte alla vicenda di un grandissimo personaggio, che propone all’attenzione del giurista e del politico nella Divina Commedia un poema non solo autobiografico (il suo conservatorismo, la sua dignità e la sua rigidità, la sua posizione di protagonista e di vittima in quello scontro tra Guelfi e Ghibellini e tra Bianchi e Neri, che ripropone in miniatura temi tuttora presenti nella quotidianità e lotta politica del nostro paese). È soprattutto un poema civile ed etico.
È un poema di denunzia e di protesta contro l’ingiustizia, la corruzione, la degenerazione del potere che non conosce e rifiuta qualsiasi limite, le deviazioni della finanza e del mercato, l’avidità del guadagno, l’orgoglio e l’ostentazione della ricchezza conquistata, l’ipocrisia; quest’ultima considerata da Dante il peccato più grave, l’espressione della malvagità sotto apparenza di bontà, il parlare in modo reticente.
È emblematica in questo senso l’enciclopedia delle passioni umane descritte attraverso l’elencazione e l’esemplificazione dei sette vizi capitali, nel Purgatorio: la superbia, l’invidia, l’ira, l’accidia, l’avarizia, la gola, la lussuria. V’è ben più di quanto basta per agevolare, seguendo questo filo rosso e questa guida, una riflessione e un bilancio sulla nostra Costituzione nei suoi primi settant’anni di vita.

Il Fatto 27.5.18
“La mia Gerda Taro è viva e significa ancora libertà”
Helena Janeczek - In lizza per Campiello e Strega con la storia della fotografa: “Sono stralunata e felice”
intervista di Alessia Grossi


Candidata contemporaneamente al Premio Strega (nella dozzina) e al Campiello (nella cinquina) con il suo terzo romanzo La ragazza con la Leica, Helena Janeczek confessa di sentirsi “stralunata” e felice, e di non avere preferenze tra i due riconoscimenti: “Sono entrambi importantissimi”. Stupore a parte, il suo libro sulla fotografa Gerda Taro si è trovato nel pieno del filone sulle grandi donne della storia. “Non era mia intenzione, ma se l’hanno letto così, sono contenta”.
Ha visto la foto ritrovata di Gerda Taro morente?
Sì. Anche se non era così inedita. Forse l’erede del dottore l’ha tirata fuori ora perché tutto il mondo si è accorto dell’esistenza della donna. La foto conferma le testimonianze sulla sua agonia. Il suo essere composta, anche grazie all’infermiera che le ha somministrato dosi massicce di morfina.
Cosa sarebbe cambiato nel suo romanzo se l’avesse avuta a disposizione?
Non l’avrei usata. Ho scelto di non parlare esplicitamente della morte di Gerda Taro. Il romanzo inizia dal suo funerale, dalle parole di chi la ricorda viva. E loro quella foto non l’avevano vista.
Dal libro emergono le contraddizioni del non interventismo in Spagna e la tragedia che ne consegue, negli scatti della ragazza con la Leica.
Fu la prova generale della Seconda guerra mondiale. La prima volta in cui vennero impiegati dei bombardamenti sui civili. Il non interventismo fu estremamente doloroso per tutta la sinistra europea, ma non solo. Fu uno spartiacque che preparò lo scenario successivo. Contro l’immobilismo delle democrazie liberali europee si “arruolarono” volontari anche non di sinistra, come Ernest Hemingway, in difesa della libertà.
Come si sente da candidata al Campiello e allo Strega?
È una sorpresa incredibile. In questo libro l’editore ha creduto molto. Ma ciò che sta generando è totalmente imprevisto. Siamo alla seconda ristampa, cosa non affatto scontata di questi tempi.
Come si spiega questo successo?
C’è molta curiosità verso personaggi che ispirano forza, fiducia ed energia. Figure in cui rispecchiarsi. Il resto per me è imperscrutabile. Ogni libro ha il suo incontro con i lettori. E questo ha avuto i suoi, anche uomini.
Pensa sia anche una “rivincita” di Taro conosciuta solo in quanto compagna di Robert Capa?
In realtà non l’abbiamo mai conosciuta, era sparita dai radar. Ora c’è una voglia da parte del pubblico di lettrici di riscoprire storie di donne significative. Per me lei non è tanto una figura simbolica. Ho cercato di raccontarla in modo che i lettori potessero appropriarsene come credono. Ma se per le lettrici è d’ispirazione, va bene.
Lei dà tre punti di vista: due maschili e uno femminile.
In realtà non mi concentro sulla fotografa, ma sulla ragazza in cerca di libertà che incontra un mezzo perfetto per la propria emancipazione e per impegnarsi nelle cause in crede.
Uno dei giurati del Campiello si è detto sconcertato dal basso livello stilistico dei libri e dell’uso dell’italiano. Che ne pensa?
Non mi sembra così. Io che posso scegliere e non sono costretta a leggere tutti i libri, non riscontro questa mancanza di consapevolezza della lingua. Ma si pubblicano molte cose ed è possibile che sia così. A me è capitato di fare un’esperienza bellissima. Al Salone del libro di Torino sono stata “adottata” per un giorno dall’Università. Gli studenti poco più che ventenni hanno pubblicato sul sito quattro pezzi sull’incontro. Scritti benissimo. Quindi possiamo accettare il fatto che una persona – magari di una certa età – non ritrovi più la società letteraria di una volta. Ma si può avere speranza in ragazze e ragazzi che si appassionano alla scrittura e alla lettura.
Il suo scrittore contemporaneo preferito?
L’ultimo libro che ho letto, anche se in ritardo e che ho amato è Lincoln nel Bardo di George Saunders.
Tra i suoi colleghi candidati allo Strega e al Campiello c’è qualcuno che le piace?
Me ne piace più di uno, ma preferisco non fare nomi, per non offendere nessuno.

Repubblica 27.5.18
Corrado Stajano
L’infanzia da balilla, gli inizi con Vittorini, il caso Ambrosoli.
E oggi su chi indagare nell’Italia che cambia? “Cambiamento è parola vuota: piace al popolo diventato sovrano con un clic”
colloquio con Antonio Gnoli


L’esercizio della memoria percorre strade talvolta insolite. È fatto di piccoli dettagli, richiami esterni a volte disposti in buon ordine. Ad esempio, è interessante guardare le scrivanie delle persone. Gli oggetti e le carte che vi si dispongono sono un po’ come la vecchia mappa del marinaio che orienta la prua della nave. A seconda dell’ordine (o al contrario della confusione), indica una certa disposizione mentale di chi vi lavora. La scrivania di Corrado Stajano sembra rispondere a precisi criteri di catalogazione. Risalta la lunga fila di matite che in un angolo, quasi ai bordi della superficie del tavolo, delinea una geometria compatta. Sono tutte di colore azzurro, di eguale lunghezza, fornite di una punta che al tatto, con una leggera pressione, farebbe pensare a uno spillo, a un’arma del pensiero, o piuttosto a uno strumento la cui anima di graffite consente di ripensare cancellando ciò che si è scritto. Un oggetto comune, ma insolito nelle mani di uno scrittore. E quando gli chiedo della disposizione, e dell’uso che ne fa (o che potrebbe farne) mi guarda come se la risposta dovesse essere già compresa nella domanda: «È semplice, quando posso scrivo a matita, non so perché, forse come tu dici è per cancellare dove c’è un errore o un ripensamento. O forse per una inclinazione bambinesca. Non è un caso che collezioni anche calamai e quaderni. Quaderni di tutti i colori. Tiziano Terzani, tornando dall’India, mi portava in regalo quei quaderni che solo lì sanno fare. Ora però, a proposito di manie, ti vorrei far vedere una cosa che ho di là » . È una grande tovaglia di lino, appesa a una parete del salotto. A prima vista sembrerebbe un’opera concettuale degli anni Sessanta, in realtà è un minuziosissimo lavoro che Maria Borgese (nonna di Giovanna che è la moglie di Corrado ed eccellente fotografa) aveva ricamato con tutte le firme degli ospiti famosi che tra il 1914 e il 1947 hanno visitato Palazzo Crivelli. Quell’anno del dopoguerra Maria muore. Ma fa in tempo a completare questa bizzarra tela su cui è scritta la testimonianza di un secolo.
Perché ti è sembrato interessante farmela vedere?
« Perché a proposito di mappe e di memoria, quel reperto di stoffa di un metro e settantacinque centimetri quadrati dà l’idea di un mondo totalmente scomparso. Una società letteraria straordinariamente fertile che si dava appuntamento nella casa di Giuseppe Antonio Borgese, provenendo da tutta Europa. Firmarono quella tovaglia personaggi come Stravinskij, Tagore, Anna Kuliscioff, Croce, Antonio Banfi, Stefan Zweig, Palazzeschi e Buzzati. Perfino Ettore Petrolini. E ripenso alla sorte tragica di alcuni di loro che per un attimo o a più riprese varcarono Palazzo Crivelli: Giovanni Gentile ed Eugenio Colorni. Quest’ultimo ucciso dagli sgherri fascisti della banda Koch e l’altro dai partigiani comunisti ».
Storie diverse ma accomunate da un medesimo destino.
« Direi destini diversi raccontati come se fossero parte di una tessitura più grande. È quello che mi ha sempre affascinato degli incontri che ho avuto nella mia lunga vita di cronista e scrittore. Ovverosia, che le storie anche quelle più misteriose, complicate, assurde si sciolgono e si ricompongono in un disegno che chiamerei le verità dell’uomo».
 Come ti avvicini ad esse?
«Con curiosità, come fosse un gioco. Mi è sempre piaciuto osservare la fisionomia delle persone, senza alcuna velleità lombrosiana. Guardare i tratti di un volto, i gesti delle mani, la camminata, e la voce di una persona. È il primo passo verso una storia o, meglio, un destino che magari non conoscerò mai, ma che mi aiuta a dispormi con attenzione verso l’altro».
Ti sei definito un ladro di anime.
«Fin da bambino pensavo che “rubare” potesse essere non necessariamente un atto disdicevole. Almeno nel senso del prendere qualcosa che l’altro forse neppure sospetta di avere».
Dove sei nato?
«A Cremona, ma ho trascorso l’infanzia a Como. Mio padre era di Noto. Finita la guerra fu mandato col grado di capitano a Cremona dove conobbe mia madre. In quella città spadroneggiava Farinacci. E fu nel 1922, alla vigilia della marcia su Roma, che i fascisti assaltarono l’edificio della prefettura. Fedele alla monarchia e allo Stato, mio padre ebbe il compito di proteggere la sede prefettizia. Ci furono dei morti dalla parte degli squadristi. Il ras Farinacci invocò il martirio fascista. Fu in quel momento, nella confusione e collusione dei poteri governativi, che il fascismo trionfò. Era il 1922, la marcia su Roma fu la ciliegina».
E tuo padre?
«Ne patì tutte le conseguenze. La sua ubbidienza agli ordini ricevuti divenne colpa grave per il nuovo regime. Fu vessato, umiliato ed emarginato. Eppure, continuò ad essere fedele a quei principi che aveva sottoscritto con un giuramento. Ma di quella notte, della dinamica dei fatti accaduti, non volle mai parlare. Solo anni dopo, nell’imminenza della seconda guerra mondiale, venne coinvolto con compiti militari importanti. Fu mandato in Russia. Pagò il disastro con un principio di congelamento degli arti inferiori. Lo andammo a trovare con la mamma all’ospedale di Imola. Fu allora che vidi i primi morti della mia vita».
Lo dici come se quelle immagini ti avessero segnato in maniera indelebile.
«È così, ma non perché la morte sia la rappresentazione finale di una vita, ma per quella fragilità esistenziale che è in grado di riflettere. È un modo per metterti al posto di chi non c’è più».
Hai spesso lavorato su personaggi la cui morte è diventata emblema di una storia civile.
« È stata una parte consistente della mia professione di cronista e soprattutto di scrittore. Ho sempre amato personaggi solitari, che attraverso il loro ideale avvistavano una società diversa: più giusta e corretta. Niente di travolgente».
Sono nati così i tuoi libri “ Il sovversivo” e “ Un eroe borghese”?
«Beh, hanno avuto questa impronta. Anche se poi sono storie molto diverse. Una chiaramente ottocentesca, quella dell’anarchico Serantini, orfano e tribolato che morirà assassinato sul Lungarno di Pisa; l’altra, molto più dentro il nostro Dna, riguarda l’avvocato Giorgio Ambrosoli, ucciso sul mandato di Michele Sindona. Sono morti violente, diverse per conio, ma tutte provenienti da quel fondo oscuro e melmoso che è l’Italia dei misteri».
Come hai lavorato a queste vicende?
«C’è molta cronaca e ricostruzione attenta mediante indagine. Ma la cosa che più emoziona è fissare ogni volta un posto ideale da cui far dipanare la storia. Per Serantini avevo registrato a memoria il luogo in cui venne ucciso, contando perfino il numero delle pietre; quanto ad Ambrosoli, mi stupì enormemente il confronto tra il suo studio e quello di Michele Sindona. Come se i due spazi riflettessero le due diverse dimensioni umane: in uno si respirasse aria pulita e nell’altro le peggiori tossine».
Usi spesso uno stile distaccato, impersonale. Succinto.
« Spero non troppo sbrigativo. Cesare Garboli, a proposito di
Un eroe borghese,
parlò di montaggio cinematografico e di combinazione scientifica. Il che oltre a farmi piacere mi ha fatto capire quanto il mio lavoro fosse libero dal peso ideologico».
Vuoi dire che la politica è l’ultimo dei tuoi problemi?
«Vorrei che il partito preso non entrasse mai nei miei libri. Mi riconosco in quel che faccio solo smaterializzandomi».
Cosa intendi?
« Provare in qualche modo ad essere invisibile, che è diverso dall’essere inconsistente».
Sei un testimone silenzioso?
«Devi far parlare le cose con il loro ritmo e la loro storia. Non è detto che tu capisca tutto e subito. Però sei lì, in attesa che qualcosa accada. Mi resta ancora impressa una data: il 1939. Dunque avevo nove anni».
Che cosa accadde?
« Il maestro ci annunciò che il giorno dopo avremmo dovuto presentarci con la divisa di giovani balilla. Ci radunarono nel cortile della scuola. Ci consegnarono due piccole bandierine. Una era il tricolore, l’altra aveva una svastica. Non sapevamo niente del loro significato. Il maestro in orbace ci disse che saremmo usciti in fila per due e che avremmo dovuto a un suo segno agitarle. Si trattava delle celebrazioni del “patto d’acciaio”, un’alleanza che avrebbe condotto il Paese alla guerra. Stemmo fermi per tre ore. Cominciò a piovere. Noi lì, intirizziti su quella piazza di Como. All’improvviso spuntò la macchina su cui viaggiavano Ciano e von Ribbentrop. Non sapevo, da testimone silenzioso, che quell’attimo avrebbe condensato tutta la storia successiva».
Cosa vuoi concludere?
« Forse non c’è una conclusione. C’è il tempo che passa e trasforma, è con questo che la memoria fa i conti. Sono tornato in quel luogo. E mi colpiva vedere che dove c’era un fornaio oggi esiste tutt’altro. Tu dirai: e allora? Ma pensa a un bambino, ai suoi occhi, alla sua larvata consapevolezza e comprenderai quanto perfino un dettaglio trascurabile avesse per lui ormai adulto, un’importanza fondamentale».
È di questo che si è nutrita la tua scrittura?
« Qualcuno mi ha definito “ scrittore civile”, onestamente mi pare una definizione pigra. Se civile significa avere ben presente la differenza tra bene e male allora, partendo dal grande Dostoevskij, sono tanti gli scrittori che possono fregiarsi di questo aggettivo. Quanto al mio stile, distinguerei tra i primi libri – dal Sovversivo ad Africo, all’Eroe borghese, in cui la scrittura è un insieme di racconto, saggio, inchiesta, da quelli che sono venuti dopo, a cominciare da Patrie smarrite ».
Cosa cambia?
«Prevale l’aspetto narrativo: sono come il vasaio – di cui parla Walter Benjamin in Angelus novus – con la sua tazza, non so inventare nulla. Non potrei descrivere un tavolo se non l’avessi davanti. D’altra parte, scrivere un romanzo significa esasperare l’incommensurabile nella rappresentazione della vita umana. In questo ho avuto amici e maestri che mi hanno guidato».
Chi?
« Dovrei farti un lungo elenco: da Vittorini che conobbi negli anni Sessanta e col quale collaborai per breve tempo alla collana “I Gettoni” a Volponi, Garboli, Nuto Revelli, Vincenzo Consolo, fino a Ermanno Rea e Claudio Magris».
Cosa li teneva insieme?
«Un certo stupore per la vita unito al disincanto».
Preferisci la meraviglia o il distacco?
«Invidio le persone che hanno il dono di lasciarsi sorprendere. Quando ero in Sicilia andavo a Capo d’Orlando a trovare Lucio Piccolo. Vedevo quest’uomo farsi avanti con la tenerezza degli stralunati. I suoi capelli a caschetto mi facevano pensare ai Beatles. Mi commuoveva la sua fede nella poesia. Ricordo la villa dove viveva e la stanza con i ritratti antichi degli antenati e lì, in quell’atmosfera di semicecità, declamava le sue poesie. C’era qualcosa di magico nell’uomo e in quello che aveva realizzato. Perfino il cimitero dei cani creato accanto al giardino, mi apparve più che una stravaganza l’esito di un grande amore per la vita. Mi fa tristezza sapere che quella villa, quel mondo di ieri, sia completamente in rovina».
Molte cose oggi sono decadute o in rovina.
« Sono macerie diverse le nostre, dettate dall’incuria morale, dall’egoismo senza pari e da un’assenza di prospettiva. Ho avuto la fortuna di incontrare maestri che avevano fatto della loro nevrosi una maniera di leggere il mondo circostante. Penso a Gadda che andai a trovare nella sua casa romana, a Tobino di cui ricordo la grande intelligenza e le grandi sbronze, a Dionisotti quando mi riceveva a Londra, con la sua amabile erudizione, oppure a Giulio Einaudi con cui ebbi lunghi rapporti, anche di collaborazione. E allora si fa avanti l’idea che quel mondo con quei protagonisti non ci sarà più. Mi consola sapere che sono le stagioni della vita».
Tu quale fase stai vivendo?
«In questo momento non ho l’assillo di un progetto. Credendo nei dettagli, aspetto che qualcuno di essi si faccia avanti. Vorrei occuparmi degli anni Cinquanta, un decennio di cui ricordo alcune cose. Ma è come se il mio Io, del ragazzo di allora, fosse inadeguato a comprendere tutto il cambiamento allora in atto».
La parola cambiamento sta tornando di moda.
« Ci sono parole che pesano più di altre, che vogliono essere taumaturgiche, ma in realtà sono soltanto vuote. “ Cambiamento” è una di esse. Oggi piace al pubblico, che è diventato popolo sovrano grazie a un clic. Sono troppo vecchio e smaliziato per non vedere nell’ideologia del cambiamento quello che il principe di Salina vedeva nel proprio tempo. Vecchiaia e scetticismo sono un buon antidoto alle facili illusioni».

Repubblica 27.5.18
Lerner, i vecchi emigrati italiani e “Il razzismo degli smemorati”


Dal Belgio alla Svizzera fino a Colonia. È il viaggio affrontato da Gad Lerner per la sesta e ultima puntata del reportage-inchiesta La difesa della razza, in onda su Rai3 alle 20.30, intitolata Il razzismo degli smemorati e dedicata al tema della discriminazione contro gli emigrati italiani a ottant’anni dalla promulgazione delle Leggi Razziali in Italia.
Il viaggio parte da Marcinelle, in Belgio, dove sorgeva la miniera del Bois de Cazier. Nel 1956 nelle sue gallerie hanno perso la vita 262 minatori, 132 italiani. A fare da guida Urbano Ciacci, uno dei sopravvissuti alla strage: insieme ad altri minatori scampati al disastro si è battuto contro la realizzazione di un parcheggio e di un centro commerciale sul luogo della tragedia.
L’inchiesta prosegue a Zurigo, dove Catia Porri, 67 anni, racconta la sua storia di “bambina fantasma” di lavoratori italiani stagionali cui era proibito portare con sé i figli. Per tre anni Catia ha vissuto chiusa in una una mansarda, senza finestre, senza scuola, per paura di essere denunciata.
E poi Tommaso Pedicini, oggi caporedattore di Radio Colonia, nata nel 1961 come voce degli emigrati italiani, racconta come venivano trattati i nostri connazionali negli anni 60 e 70.